Domenico Vaccaro e Angela Mecca

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Domenico Vaccaro e Angela Mecca
I COMPORTAMENTI PROBLEMATICI NEI DISABILI GRAVI E
COINVOLGIMENTO DELLA FAMIGLIA
Domenico Vaccaro e Angela Mecca
La Fondazione “Percorso Verde”, che si pone come obiettivo prioritario quello di “promuovere
una migliore qualità della vita” e “di rispondere ai bisogni di educazione e di riabilitazione delle
persone non vedenti, in particolare con disabilità aggiunte e pluriminorate psicosensoriali”, trova il
suo punto di forza nel lavorare in maniera tale da aprire uno spazio di confronto tra gli educatori, i
genitori e le altre figure di riferimento presenti sul territorio. La scopo di tale modalità di lavoro è
quello di permettere a tutti l’acquisizione di un linguaggio comune, condizione indispensabile per
favorire la condivisione di una progettualità che, mirata allo sviluppo di sinergie, di risorse e di
azioni, ha come obiettivo primario il “ben-essere” dei ragazzi non vedenti pluriminorati in famiglia,
a scuola, al centro di riabilitazione e in tutti i contesti ove si trovino a vivere. Già nel momento della
valutazione psicoeducativa tesa alla stesura del programma educativo individualizzato, si
coinvolgono le figure di riferimento che diventano tutte co-responsabili dell’intervento, apportando
preziosi contributi in base alla propria professionalità. Successivamente, con la realizzazione di
incontri di verifica periodica sull’andamento dell’intervento educativo programmato, si crea
l’occasione per mettere in comune le proprie competenze e per convogliare gli sforzi in un’unica
direzione. Un lavoro centrale, ovviamente spetta alla famiglia i cui legami e le cui relazioni interne
vanno ad influire sulla formazione dei più piccoli, ancora di più quando essi per una serie di
difficoltà, hanno meno occasioni di confrontarsi in modo attivo con l’esterno. Poiché, dunque, la
formazione ricevuta in famiglia può incrementare o svilire le potenzialità individuali, è impossibile
approntare qualsiasi strategia di intervento, sebbene adeguata, trascurando e non rendendo partecipe
l’ambito domestico. Il supporto dei genitori non è solo importante per rinforzare il lavoro degli
operatori, ma in genere, è indispensabile per la buona riuscita di qualsiasi intervento (Pati, 2001).
Di seguito si descrive un intervento programmato nell’area del comportamento per un bambino
non vedente pluriminorato con un disturbo relazionale di tipo autistico, che senza il coinvolgimento
della famiglia, rischia di non raggiungere l’obiettivo programmato.
Comportamento problematico
Comportamento problematico: definizione
Con il termine di “comportamento problematico” si indica quel comportamento autolesionista o
aggressivo che, a causa della sua intensità, frequenza o durata, interferisce negativamente nella vita
del bambino, sia nelle sue capacità di apprendimento di nuove abilità, sia nello svolgimento di
1
compiti già noti, sia nelle sue relazione con gli altri (Vaccaro, Coppa, 1998, p. 69-70; Vaccaro,
Mecca, 2000, p. 28). Grazie agli studi fatti a tal proposito negli ultimi decenni, si è venuta
sviluppando l’ipotesi comunicativa 1 dei comportamenti disadattivi, che hanno spostato l’attenzione
dal lavoro prettamente rivolto alla loro eliminazione, alla comprensione del loro significato. Solo
un simile approccio permette di realizzare un intervento teso ad insegnare un comportamento
adeguato che porti il ragazzo a sperimentare il successo nella propria richiesta così come lo era nella
forma problematica. Ogni comportamento si verifica in un contesto sociale formato da molte
persone che interagiscono a vari livelli con chi lo emette. Ogni bambino che ricorre a tale modalità
di comunicazione, infatti, ha fatto esperienza del fatto che attivando quello specifico
comportamento riesce ad ottenere quello che vuole da chi gli sta intorno.
Comportamento problematico: metodi di intervento
I metodi di intervento ai quali si può ricorrere possono essere: l’estinzione 2 , solitamente abbinato
al rinforzamento differenziale 3 , il blocco fisico 4 , il time out 5 e il costo della risposta, collegabile
spesso al contratto educativo a sua volta sostenuto dall’economia simbolica 6 . A queste metodologie
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Secondo tale ipotesi, ogni comportamento problematico è un modo di comunicare utilizzato dalle persone che,
mancando di qualsiasi forma di linguaggio verbale o gestuale e pittografico funzionale, lo attivano per influenzare le
persone e gli ambienti circostanti (Carr, et al., 1998, pp. 9-12; Ianes, Celi, 1999, pp. 261-263).
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Tale metodo comporta l’ignorare cioè il fingere che il comportamento non si stia verificando (Ianes, Celi, 1999, pp.
273-276; Foxx, 1995, pp. 137-142).
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Consiste nell’incentivare tutti i comportamenti positivi del bambino. Le diverse modalità di attivazione di tale
intervento sono: rinforzamento differenziale dei comportamenti alternativi, di quelli adeguati, di quelli incompatibili e
di quelli comunicativi (Ianes, Celi, 1999, pp. 276-278; Foxx, 1995, pp. 121-128; Vaccaro, Coppa, 1998, pp. 180-183).
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Consiste nel bloccare fisicamente la persona in modo da impedirle l’emissione del comportamento problematico
(Ianes, Celi, 1999, pp. 282-283; Foxx, 1995, pp. 143-148; Vaccaro, Coppa, 1998, pp. 78-80).
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Comporta l’allontanare il ragazzo da una situazione per lui altamente rinforzante (Ianes, Celi, 1999, pp. 283-286;
Vaccaro, Coppa, 1998, pp. 78-80).
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Il costo della risposta comporta all’alunno che si è comportato male l’emissione di un altro comportamento riparatore.
Questa procedura può essere collegabile a quella del contratto educativo che prevede un accordo tra l’educatore e
l’allievo. Quando tale modalità di intervento viene applicata con ragazzi che presentano una deficit cognitivo notevole,
è importante integrarla con la cosiddetta economia simbolica in cui gli accordi vengono ulteriormente concretizzati
attraverso l’uso di rinforzatori simbolici o token (gettone) (Vaccaro, Mecca, 2000, p. 31).
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di intervento si può aggiungere anche l’ipercorrezione7 . Chi lavora con le persone disabili sa bene
che per ogni ragazzo sarà difficilmente valido il singolo metodo di intervento: solitamente esso
dovrà essere integrato da elementi presi dai vari metodi di intervento.
È importante sottolineare che un intervento in tal senso non significa solo applicazione di
procedure specifiche per cambiare il comportamento del bambino, ma un processo complesso che
implica il cambiamento comportamentale di quanti gli vivono intorno: più che qualcosa che si fa
“a” una persona in difficoltà, è qualcosa che si fa “con” essa. Meta finale di tutto il lavoro è il
cambiamento dei sistemi di relazione con un miglioramento nella qualità della vita della persona
disabile e di quanti rientrano nel proprio “contesto sociale”.
Un Intervento sul comportamento problematico e coinvolgimento della famiglia
Presentazione del caso
Luca 8 ha quasi dieci anni e presenta la diagnosi di “sindrome di Norrie” unita ad un disturbo
relazionale di tipo autistico. Il bambino è non vedente, cammina autonomamente e non comunica
verbalmente. Le richieste sono formulate attraverso la comunicazione comportamentale, per lo più
schiaffi e morsi a se stesso quando vuole ottenere o evitare qualcosa. Da alcuni mesi a questi
atteggiamenti contro se stesso si uniscono anche quelli rivolti contro l’insegnante e la mamma. La
loro intensità e frequenza sono costanti sia nelle situazioni di riposo che di lavoro. Ciò che più ha
allarmato gli operatori, ed in modo particolare la mamma, erano gli schiaffi che Luca continuava a
darsi con tanta forza da crearsi ematomi sul viso, ai quali si erano uniti anche dei colpi con la testa
sugli spigoli presenti nell’ambiente in cui si trovava. La mamma è apparsa stanca e spaventata in
quanto, sebbene, negli anni precedenti il bambino avesse attivato in alcuni momenti comportamenti
disadattivi, questi si erano limitati ad alcuni morsi a se stesso e poi, con un intervento basato
sull’estinzione, si erano andati riducendo fino a scomparire quasi del tutto. In un sopralluogo fatto a
scuola da un operatore della Fondazione, su richiesta della famiglia e del dirigente scolastico, si è
potuto vedere il bambino su un tappeto, con le gote gonfie a seguito degli innumerevoli schiaffi
nonché le testate date sugli spigoli. Luca si dondolava e gridava mordendosi nonostante avesse a
disposizione tutto ciò che gli era gradito (musica, pallone, materassino…).
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Consiste nel costringere l’alunno ad esagerare la correzione del suo comportamento problematico dopo che lo ha
emesso (Ianes, Celi, 1999, pp. 287-288; Vaccaro, Coppa, 1998, pp. 77-78; Vaccaro, Mecca, 2000, pp. 31-32).
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Il nome è ovviamente di fantasia [NdR]
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Situazione familiare
La famiglia di Luca è umile e con un livello culturale medio-basso. All’interno della coppia
genitoriale si è potuto notare subito una incongruenza educativa derivante da una diversa
consapevolezza delle reali condizioni del bambino: la mamma è consapevole del fatto che il proprio
figlio ha molte difficoltà, il papà, invece, ritiene che Luca sia solo cieco e che quindi, presto
“parlerà e si comporterà come tutti gli altri bimbi”. D’altra parte, poiché il papà sta spesso fuori
casa per lavoro, è soprattutto la mamma che, avendo un rapporto più continuato nel tempo con il
figlio, sente la stanchezza derivata dal riuscire a gestirlo nei momenti di crisi. Il poco tempo che il
papà passa con il figlio è finalizzato ad accontentarlo in tutto: lo imbocca, lo porta in braccio, di
fronte ai suoi rifiuti a lavarsi i denti e a fare la pipì nel wc, lo asseconda, gli fa ascoltare sempre la
musica, anche quando il bambino non ha fatto nulla per meritarsela. Di fronte ai comportamenti
problematici del bambino il papà si avvicinava a lui accarezzandolo e dicendogli che “non doveva
comportarsi così”. Agli operatori che gli hanno fatto notare l’opportunità di un intervento diverso,
ha sempre detto che secondo lui, crescendo il bambino avrebbe capito da sé che non si doveva fare
così. La mamma, invece, sebbene molto attenta e disponibile alle indicazioni educative suggeritele,
dinanzi a questi comportamenti mostrava chiaramente di non riuscire a gestirli emotivamente e di
volta in volta di ricorrere a strategie diverse. Lei stessa ha più volte affermato di non riuscire a
rimanere impassibile di fronte ai continui schiaffi del figlio e spesso, anche dinanzi agli operatori, in
risposta ai comportamenti del figlio, gli ha dato un altro schiaffo, gli ha tirato i capelli, lo ha
sgridato dicendogli di smettere. La mamma riferisce che spesso alcuni professionisti dell’area
medica che conoscono bene il bambino avevano consigliato, previa visita specialistica, l’utilizzo di
farmaci per “tranquillizzarlo” nei periodi in cui emetteva un maggior numero di comportamenti
problematici. In realtà questo tipo di intervento farmacologico non si è mai potuto avviare per la
contrarietà allo stesso da parte del papà, né tanto meno, a causa della reticenza del genitore, è stato
possibile effettuare una visita presso un neuropsichiatra – da molti professionisti consigliata - per
valutare la situazione oggettiva di Luca.
La valutazione
Vista la situazione è apparso necessario proporre alla famiglia per Luca un trattamento educativo
di tre settimane durante le quali, dal lunedì al venerdì il bambino è venuto per due sessioni di lavoro
al giorno, una di mattina ed una di pomeriggio, presso il nostro centro. Ogni sessione di lavoro è
durata circa due ore. Per il resto del giorno, Luca è rimasto solo con la mamma nella camera della
pensione presso cui hanno trovato ospitalità. L’insegnante, invece, sebbene si fosse manifestata
molto disponibile, è stata poco presente durante il trattamento.
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L’ipotesi di partenza era che alla base dell’intervento ci fossero delle situazioni ambientali che
avessero consolidato i comportamenti disadattivi e, in seguito, mantenuti in vita. È ovvio, infatti,
che il rinforzo, anche inconsapevole da parte di chi vive con la persona che emette comportamenti
difficili, li consolida e li mantiene in vita nel tempo; detta ipotesi, però, non era sostenuta da dati
oggettivi. Altro elemento importante, principio che permette un intervento sul comportamento, è la
valenza comunicativa data allo stesso.
Il comportamento che particolarmente preoccupava tutti, in quanto pericoloso prima di tutto per
Luca stesso, era quello autolesivo. Sin dall’inizio, però, si sono manifestati altri comportamenti,
classificabili come “disadattivi”. Infatti oltre al “dare schiaffi e mordere se stesso”, Luca presentava
altri comportamenti quali il “graffiare e mordere l’altro”, lo “spingere il banco lontano da sé”, il
“buttare gli operanti a terra” e il “dare calci sotto il tavolo di lavoro”. Si è partiti dal fare una
osservazione di frequenza degli stessi per valutare quale fosse il comportamento più presente e per
monitorare l’intervento.
L’intervento
Vista la gravità di alcuni dei comportamenti, anzicchè partire da una prima fase dedicata soltanto
alla loro osservazione, è stato avviato subito anche l’intervento. Come valore di base sono stati presi
i comportamenti registrati, fin dall’inizio, valutando in itinere le modalità di intervento adatte alla
situazione di Luca. Sono state registrate in apposite griglie le frequenze dei suddetti comportamenti.
Nel frattempo è stata fatta anche un’analisi funzionale dei singoli episodi da dove non è stato
possibile verificare quale fosse l’origine di tali eventi individuando cause specifiche scatenanti o
elementi che li mantenessero in vita.
In un trattamento in cui si intende in modo prioritario lavorare sul comportamento è necessario
proporre al bambino attività che questi già conosce, attività che non siano né troppo facili per le sue
capacità, né troppo difficili e che favoriscano la crescita della motivazione al compito. Inoltre, per
invogliare il bambino, ogni volta, dopo aver svolto una serie di tre attività, Luca trovava sul tavolo
da lavoro, in un cestino, una pallina, segnalìno utilizzato per indicargli la situazione “giocare”. A
questo punto il bambino veniva fatto alzare e portato vicino al tappeto sul quale poteva sedersi e
rilassarsi. Ovviamente, per quanto detto in premessa, non si può lavorare sul comportamento
disadattivo senza intervenire, contemporaneamente nell’area della comunicazione (Ianes, Celi,
1999, pp. 279-282; Carr et al., 1998, pp. 28-36 e pp. 147-172). A Luca, ogni volta, sono state
comunicate le situazioni che andava a vivere, con un oggetto evocativo associato ad un gesto
specifico. Il bambino già conosceva ed utilizzava appropriatamente il gesto “basta” (passare il
palmo di una mano sul dorso dell’altra e viceversa). Altri gesti, invece, quali il “mangiare” (palmo
della mano sulla bocca), il “bere” (pugno sulla bocca), “pipì” (mano al pube), “lavorare” (pugni
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battuti verticalmente tra di loro) e il “giocare” (indice di una mano nel palmo dell’altra), essendo
stati comunicati più di rado, sono poco noti a Luca. Per favorire questa sua conoscenza si è ritenuto
utile aggiungere, contemporaneamente al gesto, l’oggetto evocativo corrispondente. Così, il
cucchiaio corrisponde al “mangiare”, il bicchiere al “bere”, il tavolino al “lavorare”, il rotolino di
carta igienica alla “pipì” e una pallina al “giocare”. Ogni volta che il bambino deve vivere una delle
suddette situazioni, l’adulto gli presenta in un cestino l’oggetto corrispondente, glielo fa esplorare,
lo nomina e gli fa fare il gesto relativo. Subito dopo gli fa riporre l’oggetto nel cesto e gli fa fare
quanto anticipato.
Trattamento comportamentale
Avendo l’esigenza di dover utilizzare una modalità di intervento che potesse essere, poi,
facilmente adottabile dalle singole figure di riferimento che, sul territorio, avrebbero dovuto
interagire con il bambino, si è ricorso all’estinzione: l’operatore ha dovuto ignorare, cioè fingere
che il comportamento non si stesse verificando. Questo è stato fatto quando Luca dirigeva verso se
stesso la propria aggressività, quando ha cercato di aggredire l’adulto e quando il bambino spingeva
bruscamente il tavolo da lavoro lontano da sé. Ovviamente, poichè l’intervento basato
sull’estinzione ha pochissime possibilità di raggiungere un successo, se non vengono rinforzati i
comportamenti adeguati, sono state individuate una serie di situazioni ed oggetti rinforzanti per
Luca. Per rispondere al comportamento di buttare gli operanti a terra, si è ricorso all’ipercorrezione
che è consistita nel costringere il bambino ad esagerare la correzione: rispetto al numero degli
operanti buttati a terra, Luca ne ha dovuti raccogliere ogni volta il doppio.
Risultati
Facendo una media dell’emissione dei comportamenti problematici, si è potuta registrare una
graduale riduzione degli stessi nel corso dei 15 giorni di intervento; riduzione particolarmente
evidente nel corso della terza settimana di lavoro con Luca, sebbene ancora con una frequenza
abbastanza elevata. Ciò comunque dimostra che le modalità di intervento scelte erano quelle giuste.
L’impossibilità per la famiglia a rimanere più a lungo lontana da casa non ci ha permesso di
procedere ancora con l’intervento. Un lavoro nell’area del comportamento, infatti, per raggiungere
obiettivi positivi, richiede un maggior tempo a disposizione. Un maggior numero di sessioni di
lavoro, inoltre sarebbero state indispensabili, visto che i comportamenti adottati da Luca erano
ormai ben consolidati, in quanto da diversi mesi andavano emettendosi senza alcun intervento
efficace da parte di quanti gli vivevano accanto.
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Conclusione
In un intervento volto al controllo del comportamento, più di qualsiasi altro teso al potenziare le
abilità di un bambino disabile in aree diverse, necessita, a nostro avviso, di una costanza e di una
coerenza notevoli tra tutte le figure che interagiscono con lui. Infatti, pur non essendoci modelli
psicologici e neuropsicologici che offrono una chiara interpretazione di tali fenomeni, pensiamo che
un intervento coerente all’interno del contesto familiare ed extrafamiliare possa aiutare il ragazzo
disabile ad attivare comportamenti maggiormente adattivi. Questi, avendo un solo modello di
riferimento a cui fanno capo tutte le figure, individuerà più facilmente comportamenti “socialmente
accettabili” e comprenderà meglio che a taluni comportamenti sia essi adattivi che disadattivi
seguono certe conseguenze. Qui sarà importante il ruolo degli adulti che dovranno, insegnando
nuove modalità di comunicazione, fornire al ragazzo un nuovo strumento per fare richieste
funzionali a quanti gli vivono intorno. Ovviamente, poiché la maggior parte della giornata il
bambino la passa a casa, con i genitori e, nello specifico, per lo più con la mamma, essi per primi
dovranno trasmettere con il proprio comportamento un messaggio chiaro: “attivando questi
atteggiamenti disadattivi non ottieni niente di quanto vuoi”. Una condivisione da parte dei genitori
delle modalità di intervento è importante anche per rendere più disponibili e più sereni gli operatori
nell’adottarle. Poiché purtroppo però non è sempre facile coinvolgere le famiglie che spesso si
trovano ancora in una fase di profonda sofferenza che li paralizza nell’azione, possono essere utili
momenti di formazione. Un’esperienza di parent training, ad esempio, potrebbe aiutare i genitori a
trovare un equilibrio tra di loro nella lettura della concreta situazione del figlio e a far riscoprire,
all’interno della coppia, le risorse presenti utili a realizzare un’azione educativa coerente ed
efficace. Il lavoro sinergico, frutto della cooperazione tra tutti i sistemi che si trovano ad interagire
tra loro, sembra essere, in questo caso, l’unica carta vincente!
Riferimenti bibliografici
Carr, E. G. et al. (1998). Il problema di comportamento è un messaggio. Trento: Erickson.
Foxx, R. M. (1995). Tecniche base del metodo comportamentale. Trento: Erickson.
Ianes, D., Celi, F. (1999) Il piano educativo individualizzato. Trento: Erickson.
Pati, L. (2001). Il disabile tra famiglia e comunità. La famiglia, 207, 38-50.
Vaccaro, D., Coppa, M. M. (1998). La persona non vedente pluriminorata. Milano: Guerini.
Vaccaro, D., Mecca, A. (2000). Valutazione e metodi di intervento sui comportamenti
problematici. Tiflologia per l’Integrazione, 10 (2).
Domenico Vaccaro, pedagogista, direttore della Fondazione "Percorso Verde";
Angela Mecca, operatore educativo della Fondazione "Percorso Verde".
(Tiflologia per l’integrazione n. 2/2004)
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