28 Maggio 1941 Arrivo di Padre Kolbe al campo di concentramento

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28 Maggio 1941 Arrivo di Padre Kolbe al campo di concentramento
28 Maggio 1941
Arrivo di Padre Kolbe al campo di concentramento di Auschwitz
Il 28 Maggio padre Kolbe, dal carcere di Paviak giunge al campo di concentramento di Auschwitz.
Il campo diventa la nuova Niepokalanòw, dove continua a parlare della Madonna e ad annunciare
con le parole e con la vita che “solo l’amore crea”.
Mercoledì 28 maggio 1941 Massimiliano, insieme ad altri 304 prigionieri, fu fatto salire sul treno che li
avrebbe portati a Oswiecim (Auschwitz). Accalcati in carri bestiame, la maggior parte dei prigionieri
salutarono per l’ultima volta Varsavia. Massimiliano cominciò a cantare, e altri prigionieri si unirono al
canto. Una scena surreale si presentò allo sguardo degli abitanti di Varsavia: un gruppo di prigionieri
emaciati, vestiti di stracci e ammassati in carri bestiame, partiva per Auschwitz cantando.
Il treno arrivò a destinazione quella stessa sera e si poteva sentire il solito Raus! Raus! mentre i
prigionieri venivano tirati giù dai vagoni affollati. I detenuti entrarono nel campo dalla porta principale,
transitando in mezzo a due lunghe file di SS che li fustigavano mentre passavano. Scritta in ferro sopra il
cancello d’ingresso, li accolse la diabolica promessa Arbeit macht frei («Il lavoro rende liberi»).
Avrebbero presto imparato che la descrizione più appropriata per Auschwitz sarebbe stata la frase che il
poeta Dante aveva narrato di aver visto sopra l’entrata dell’Inferno: Lasciate ogni speranza, voi
ch’entrate. Trascorsero la prima notte ad Auschwitz nel fabbricato delle docce. Per la mancanza di
ossigeno molti prigionieri svennero. Il giorno seguente, dopo essere stati spruzzati di disinfettante e rasati
in tutto il corpo con le forbici, ai nuovi prigionieri furono distribuite lacere divise della prigione
macchiate di sangue, pescate da una montagna di abiti. I loro nomi furono annullati. A ogni prigioniero fu
dato un numero. Massimiliano ricevette il numero 16670. Ammassato nel cortile, il gruppo dei prigionieri
ascoltò il discorso di «benvenuto» rivolto dal vice comandante Karl Fritsch a ogni nuovo arrivo di
prigionieri: «Siete arrivati in un campo di concentramento e non in un sanatorio. Il campo ha solo
un’uscita, il forno crematorio. Se non vi sta bene, potete uscire subito passando per il recinto elettrificato.
Gli ebrei possono aspettarsi di sopravvivere due settimane, i preti un mese, tutti gli altri tre mesi».
Tre giorni dopo l’arrivo ad Auschwitz, Fritsch entrò nel blocco dove erano stati messi gli internati. «Preti,
uscite», disse sbraitando. Massimiliano e molti altri compagni sacerdoti uscirono fuori. Rivolgendosi al
kapò Krott, un sorvegliante particolarmente brutale responsabile dell’unità Babice, Fritsch ordinò: «Krott,
insegna a questi miserabili parassiti cosa vuol dire lavorare». «Lasci fare a me, signor comandante»,
rispose Krott. L’unità Babice era incaricata di trasportare grossi tronchi di albero dalla foresta in un
campo. I tronchi erano pesanti. I prigionieri dovevano correre per portarli dalla foresta al campo,
scaricarli e correre di nuovo fino alla foresta. Krott scelse i tronchi più pesanti per Massimiliano, che
dopo un po’ non ce la fece più e collassò per la fatica. Krott si mise a gridare: «Pigro di un prete! Ora ti
insegno io come si lavora». Di colpo lo scaraventò sopra un ceppo e lo frustò senza pietà con il frustino di
cuoio. Non un lamento uscì dalla bocca di Massimiliano che, dopo le frustate, non si mosse più.
Credendolo morto, Krott spinse con i piedi il corpo in un fosso e lo coprì con dei cespugli. Alla fine della
giornata di lavoro, alcuni prigionieri si recarono sul posto e, con loro grande sorpresa, si accorsero che
Massimiliano respirava ancora. Lo trasportarono fino al suo blocco e lo condussero in infermeria.
Notando Massimiliano nella lunga fila, il dottor Rodolfo Diem, un protestante polacco, disse: «Quel
prigioniero ha bisogno di cure immediate». Con le cure del dottor Diem le ferite di Massimiliano
cominciarono a rimarginarsi. Il dottore riuscì anche a far trasferire Massimiliano in un’altra unità. Dopo
che Massimiliano e il dottor Diem ebbero familiarizzato, si incontrarono una domenica pomeriggio sul
sentiero dei tigli di Auschwitz, una striscia di terreno ombreggiata da due filari di tigli. «Padre», chiese il
dottore, «come può continuare a credere nella Provvidenza in un posto come questo? Io sono cresciuto
nella fede protestante e fino al mio arrivo in questo posto la mia fede era salda. Ora l’ho persa padre».
«Forse è tentato da Satana», disse Massimiliano, «il quale sarebbe molto contento di convincerla che la
fede è una follia. È pronto ad addurre le motivazioni più convincenti. Punterà la sua attenzione sulle
brutalità quotidiane e gli atti disumani. I forni crematori saranno per lui l’evidenza concreta che i nostri
sensi dovranno riconoscere, poiché ogni giorno noi carichiamo corpi che devono essere bruciati e
vediamo colonne di fumo uscire dai camini. Tutto questo ci urla in parole che non possiamo non sentire:
Dio è morto! Eppure, nonostante questo contesto di brutalità e di morte, dove il volto di Dio sembra non
apparire neanche per il più piccolo atto di compassione – neanche fra gli internati, dal momento che ci
rubiamo il cibo a vicenda e spogliamo i deboli ancora prima che muoiano per procurarci un indumento in
più – io le dico, dottor Diem, che Dio vive. Siamo noi uomini che siamo morti spiritualmente, perché con
la nostra avidità e lo sfruttamento dei nostri compagni abbiamo distrutto in noi stessi l’immagine di Dio.
Invece di usare i doni del nostro Creatore per aiutarci a vicenda, li trasformiamo in strumenti diabolici di
tortura e morte. No, dottor Diem, Auschwitz non prova affatto che il Creatore è morto; prova solo che la
creatura è depravata».
La domenica pomeriggio Massimiliano incontrava gli internati che desideravano parlare di temi religiosi.
Questi incontri avvenivano di nascosto; si radunavano in mezzo alle baracche, dove erano nascosti alla
vista dei soldati sulle torrette. Duranti quei brevi incontri di domenica pomeriggio, gli internati
sembravano quasi dimenticare la fame, la stanchezza e il dolore. Massimiliano parlava della speranza,
dell’immortalità e della necessità di vincere l’odio che essi provavano per i loro carcerieri. Una delle
ultime meditazioni di Massimiliano rivolta all’assemblea di Auschwitz trattava lo stesso tema che egli
aveva sviluppato il giorno del suo arresto dettandolo a fra' Arnoldo: la relazione tra l’Immacolata e la
Trinità. Senza l’aiuto di note o di appunti, Massimiliano parlò con spontaneità su questo argomento,
trattandosi di un tema nel quale si era immerso a lungo. Massimiliano disse: «Stiamo sperimentando ogni
giorno le insidie del serpente al calcagno della discendenza di Eva. Noi che apparteniamo all’Immacolata,
sappiamo che alla fine il calcagno della discendenza della donna schiaccerà la testa del serpente. Questa
vittoria è assicurata ai credenti attraverso l’Immacolata, figlia di Eva. Anche se tutti i segni sembrano
indicare che il male sta vincendo, noi sappiamo che Dio alla fine sconfiggerà il male e vendicherà la
nostra fede. Pertanto, con gioia salutiamo la nuova Eva, l’Immacolata, che capovolgerà il corso del male,
con un’Ave Maria, certi che ci sosterrà sulla terra e ci sarà accanto nell’ora della nostra morte.
L’Immacolata vuole che ci amiamo l’un l’altro. In questo luogo dove i deboli sono sfruttati dai forti, dove
il pane viene rubato agli affamati e dove i moribondi vengono derubati dei loro ultimi indumenti,
dobbiamo testimoniare con forza l’amore. Non permettiamo ai nostri aguzzini di farci diventare come
loro. Ve l’ho detto molte volte, l’odio non è forza creativa: solo l’amore è forza creativa».
«Tu, numero 16670», gridò un giorno un kapò rivolto a Massimiliano, «aiuta questa mezza cartuccia a
deporre i cadaveri nelle casse». La «mezza cartuccia» era Giuseppe Stemler, il quale inorridì alla vista del
corpo contorto che giaceva davanti a lui. Lo stomaco era stato squarciato e solo l’espressione di
sofferenza rimasta sul volto del cadavere trattenne Stemler dal reagire alla minaccia del kapò: «Metti il
cadavere nella cassa oppure ci finirai tu lì dentro». A questo punto Stemler sentì una voce calma dirgli:
«Fratello, solleviamo il corpo insieme». Stemler ne afferrò le gambe e l’internato che gli aveva parlato, e
che Stemler non aveva ancora identificato, lo prese invece sotto le ascelle. Massimiliano e Stemler
sollevarono il corpo e lo deposero nella cassa. Per non lasciare spazio inutilizzato, nella cassa fu messo un
altro corpo in posizione capovolta. «Portate questi corpi nella stanza dei cadaveri e ammucchiateli sugli
altri», ordinò il kapò. Quando le casse furono svuotate, Stemler sentì il suo aiutante che pregava
sottovoce: «Santa Maria, Madre di Dio, prega per noi peccatori», e mentre uscivano dalla stanza:
«Signore, concedi loro la vita eterna». Allora Stemler capì chi era l’internato 16670. In modo da non
poter essere sentito dal kapò, Stemler disse commosso: «Lei è padre Massimiliano. Padre, mi perdoni
perché io provo odio e vorrei uccidere le SS e tutti i kapò». Massimiliano rispose: «Figliolo, non
permettiamo ai nostri persecutori di farci diventare come loro. L’odio non è forza creativa: solo l’amore è
forza creativa. Qualunque sofferenza ci verrà inflitta, ricordati che possiamo sopportare ogni cosa
nell’Immacolata».
Una domenica pomeriggio alcuni internati si incontrarono di nascosto con Massimiliano per pregare.
«Qui non abbiamo la possibilità di celebrare la Messa», disse Massimiliano, «o di fare la Comunione. Ma
da alcuni giorni ho messo parte la mia razione di pane. Ho benedetto il pane e ora lo do a voi, a
imitazione della Comunione, come corpo del Signore». Nascosti tra le baracche e dietro alcune cataste di
materiale da costruzione, gli internati si inginocchiarono e ricevettero il pane benedetto da Massimiliano.
Massimiliano incoraggiò il suo gregge: «Nonostante le apparenze, il nostro Dio è onnipotente. La
sofferenza ci rende più forti e ci prepara a un servizio più alto. Dobbiamo perseverare, non solo come
cristiani ma anche come patrioti polacchi. I nostri nemici non potranno distruggere la nostra fede o il
nostro patriottismo. Se dobbiamo morire, moriremo senza vergogna e senza paura, sottomettendoci al
giudizio di Dio».
Domenica 15 giugno Massimiliano scrisse la sua ultima lettera. È commovente che proprio l’ultima sua
lettera fosse indirizzata alla madre, la persona che aveva esercitato un grande influsso nello sviluppo della
sua statura spirituale: «Mia amata Mamma, Verso la fine del mese di maggio sono giunto con un
convoglio ferroviario nel campo di Auschwitz (Oswiecim). Da me va tutto bene. Amata Mamma, stai
tranquilla per me e per la mia salute, perché il buon Dio c’è in ogni luogo e con grande amore pensa a
tutti e tutto».
(Tratto dal libro, San Massimiliano Maria Kolbe, di Claude R. Foster, Edizioni dell’Immacolata, pagg.
699 -707)