L`importanza della memoria nel Canto di Ulisse

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L`importanza della memoria nel Canto di Ulisse
GIORNATA DELLA MEMORIA 2016
PRIMO LEVI E DANTE
La ricorrenza internazionale del 27 gennaio è legata ad una memoria particolarissima: la data
rimanda al 27 gennaio 1945, quando le truppe sovietiche dell’Armata Rossa, nel corso
dell’offensiva in direzione di Berlino, arrivarono presso la cittadina polacca di Oświęcim (in
tedesco Auschwitz), non lontana da Cracovia, scoprendone il campo di sterminio nazista e
liberandone i pochi superstiti.
La Repubblica italiana ha istituito la legge n. 211 / 2000 “al fine di ricordare la Shoah
(sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei,
gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che,
anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio
della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati”.
Questa giornata, poi, va oltre le specifiche implicazioni storiche e la condanna
dell’antisemitismo. Essa ci permette di pronunciare ancora una volta il nostro NO ad ogni
ideologia violenta, xenofoba, discriminatoria; e, soprattutto, di riflettere sul mandato
formativo dell’istruzione, per altro recentemente ribadito a livello legislativo
(“valorizzazione dell’educazione interculturale e alla pace, il rispetto delle differenze e il
dialogo tra culture”, legge 107 / 2015, art. 1 c.7 d).
Molto possono la cultura e l’arte per forgiare e conservare la memoria; gli antichi ne erano
ben consapevoli, se si pensa che la mitologia definisce le Muse, le nove dee preposte
all’arte, “figlie di Zeus e di Mnemòsine”, quest’ultima divinizzazione della memoria.
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“Un popolo senza memoria è un popolo senza futuro”, scriveva un grande autore cileno, Luis
Sepulveda. Parole che suonano alquanto attuali e che proviamo ad ambientare facendo un
viaggio tra epoche diverse, là dove la memoria costituisce un momento di riflessione e di
tregua, nell’inferno della quotidianità.
Andiamo così nel lager di Monowitz, situato a sette chilometri dal campo principale di
Auschwitz, vicino alla Buna, una fabbrica di gomma sintetica, dove sfruttare il lavoro dei
prigionieri finché non fossero divenuti troppo deboli e dunque scientificamente eliminabili, nel
silenzio altrui. Ma ecco che due ragazzi poco più che ventenni – Primo e Jean i loro nomi trovano la salvezza nella memoria di alcuni versi. Mentre Primo con altri detenuti sta pulendo
l’interno di una cisterna, si affaccia Jean, studente anziano, il Pikolo della squadra, cioè colui
che, avendo una serie di incombenze, gode di qualche privilegio: Jean è benvoluto, perché
mantiene rapporti umani con i compagni, aiutandoli come può. Lasciamo la parola a Primo, il
narratore:
“Si vedevano i Carpazi coperti di neve. Respirai l’aria fresca, mi sentivo insolitamente leggiero.
............................................... Il canto di Ulisse. Chissà come e perché mi è venuto in
mente [...]. Chi è Dante. Che cosa è la Commedia. Quale sensazione curiosa di novità si prova,
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se si cerca di spiegare in breve che cosa è la Divina Commedia. Come è distribuito l’Inferno,
cosa è il contrappasso: Virgilio è la Ragione, Beatrice la Teologia.
Jean è attentissimo e comincio lento e accurato:
Lo maggior corno della fiamma antica
cominciò a crollarsi mormorando,
pur come quella cui vento affatica.
Indi, la cima in qua e là menando
come fosse la lingua che parlasse
mise fuori la voce e disse: Quando?
Qui mi fermo e cerco di tradurre. Disastroso povero Dante e povero francese! Tuttavia
l’esperienza pare prometta bene: Jean ammira la bizzarra similitudine della lingua, e mi
suggerisce il termine appropriato per rendere “antica”.
E poi “Quando”? Il nulla. Un buco nella memoria. “Prima che sì Enea lo nominasse”. Altro buco.
Viene a galla qualche frammento non utilizzabile: “...la pietà del vecchio padre, né il debito
amore Che dovea Penelope far lieta......” sarà poi esatto?
................Ma misi me per l’alto mare aperto
[...] L’alto mare aperto; Pikolo ha viaggiato per mare e sa cosa vuol dire, è quando l’orizzonte
si chiude su se stesso, libero diritto e semplice e non c’è ormai che odore di mare: dolci cose
ferocemente lontane.
Siamo arrivati al Kraftwerk, dove lavora il Kommando dei posacavi. Ci deve essere l’ingegner
Levi. Eccolo, si vede solo la testa fuori dalla trincea, mi fa un cenno colla mano, è un uomo in
gamba, non l’ho mai visto giù di morale, non parla mai di mangiare.
“Mare aperto”. “Mare aperto”. So che rima con “diserto”; “.... quella compagnia picciola, dalla
qual non fui diserto”, ma non rammento più se viene pria o dopo. E anche il viaggio, il
temerario viaggio al di là delle Colonne d’Ercole, che tristezza, sono costretto a raccontarlo in
prosa: un sacrilegio. [...] Quante altre cose ci sarebbero da dire, e il sole è già alto,
mezzogiorno è vicino. Ho fretta, una fretta furibonda.
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Ecco, attento Pikolo, apri gli occhi e la mente, ho bisogno che tu capisca:
Considerate la vostra semenza
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguire virtude e canoscenza.
Come se anch’io lo sentissi per la prima volta; come uno squillo di tromba, come la voce di
Dio. Per un momento ho dimenticato chi sono e dove sono.
Pikolo mi pregava di ripetere. Come è buono Pikolo, si è accorto che mi sta facendo del bene:
O forse è qualcosa di più: forse nonostante la traduzione scialba e il commento pedestre e
frettoloso, ha ricevuto il messaggio, ha sentito che lo riguarda, che riguarda tutti gli uomini in
travaglio, e noi in specie; e che riguarda noi due, che osiamo ragionare di queste cose con le
stanghe della zuppa sulle spalle…. [...]
Tre volte il fè girar con tutte l’acque,
alla quarta levar la poppa in suso
e la prora ire in giù, come altrui piacque.........
Trattengo Pikolo, è assolutamente necessario e urgente che ascolti, che comprenda questo
“come altrui piacque” prima che sia troppo tardi, domani lui o io possiamo essere morti, o non
vederci mai più, devo dirgli, spiegargli del Medioevo, del così umano e necessario e pure
inaspettato anacronismo, e latro ancora, qualcosa di gigantesco che io stesso ho visto ora
soltanto, nell’intuizione di un attimo, forse il perché del nostro destino, del nostro essere oggi
qui....” (da Primo Levi, Se questo è un uomo, Torino, De Silva, prima edizione 1947).
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Oltre all’affresco di Ulisse, in tutto il suo complesso il libro di Primo Levi è ricco di spunti
danteschi: il robusto realismo della Comedìa ma anche la sua dimensione metaforica e la sua
tensione morale si prestano straordinariamente per scendere nell’inferno del lager.
Dirà Italo Calvino, nel risvolto dell’edizione Einaudi 1958: “Il Lager appare come un mostruoso
esperimento antropologico, che rivela cosa sia connaturato e cosa sia invece acquisito
nell’animo umano. La voce, la lingua, lo sguardo, l’orecchio di Levi sono insieme quelli dello
scienziato e dell’umanista. La sua sintassi è modellata sui classici latini e italiani, il respiro
epico ha la schiettezza arcaica di Omero, l’energia metaforica proviene da Dante, l’arguzia e
l’inventiva linguistica sono ispirate, paradossalmente, da Folengo e Rabelais: persino nel Lager,
infatti, Levi riesce a venare di savio umorismo la sua prosa. Testimone e artista, Levi offre
questo libro come uno specchio per le vittime, per i carnefici e per i comuni lettori”.
Proprio come il trasporto delle anime attraverso l’Acheronte, così avviene il viaggio verso il
lager, con un soldato del campo quale moderno Caronte all’ingresso di Auschwitz:
diversamente da Caronte, egli affetta un tono grottescamente cortese per farsi consegnare
gli oggetti di valore dei prigionieri.
Come ad Auschwitz, la porta dell’inferno reca una frase lapidaria: da una parte Arbeit macht
frei, il lavoro rende liberi, dall’altra Per me si va nella città dolente, per me si va ne l’etterno
dolore, per me si va tra la perduta gente. E simile al Limbo è l'infermeria, detta Ka-Be, un
mondo escluso dalle categorie del bene e del male. Ma i versi danteschi intervengono a
ritrarre il brutale sovvertimento dei valori morali all'interno del lager: Qui non ha luogo il Santo
Volto! / Qui si nuota altrimenti che nel Serchio!
E in u n certo senso assomiglia a un giudice infernale il dottor Pannwitz, che Levi incontra
per sostenere l'esame di chimica così da essere trasferito in laboratorio. Il Minosse
dantesco assegna ai dannati uno specifico cerchio infernale configurante una punizione,
Pannwitz, nel suo agghiacciante fanatismo scientifico, decide anch’egli delle mansioni e del
destino altrui. Egli siede “formidabilmente”, proprio come Dante aveva scritto nel canto
quinto Stavvi Minòs orribilmente e ringhia (v. 4).
“Per la prima volta ci siamo accorti che la nostra lingua manca di parole per esprimere questa
offesa, la demolizione di un uomo”: così scrisse Primo Levi, per continuare “C’era un sogno che
tornava spesso ad angustiare le notti dei prigionieri dei campi di annientamento: il sogno di
essere tornati a casa e di cercar di raccontare ai famigliari e agli amici le sofferenze passate,
ed accorgersi con un senso di pena desolata ch’essi non capiscono, non riescono a rendersi
conto”.
Allora, forse prima ancora di ricordare, dobbiamo continuare a capire, cercare di capire.
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Testo raccolto da Antonia Piva, foto Auschwitz 2010.
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