Indice, ott. 2014, p.38 - Ultima Rumba all`Avana

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Indice, ott. 2014, p.38 - Ultima Rumba all`Avana
Schede
- Letterature
N. 10
Maggie O’Farrell, ISTRUZIONI PER UN’ONDATA DI CALDO, ed. orig. 2013, trad. dall’inglese
di Valeria Bastia, pp. 309, € 18,50, Guanda,
Milano 2014
Una spaventosa ondata di caldo avvolge
l’Inghilterra, ghermendola in una morsa
incandescente che rende difficoltoso addirittura il respiro. Nell’opprimente calura
estiva si muovono, a fatica, i membri della
famiglia Riordan: madre, padre e tre figli,
due sorelle e un fratello, che sfidano l’afa
scontrandosi più o meno con successo con
i drammi delle rispettive quotidianità. I Riordan non sono una famiglia unita: Monica
e Aoife paiono divise da una ferita insanabile che ha lacerato da tempo il loro affetto
fraterno, e Michael Francis, il maggiore, è
imbrigliato in un matrimonio incerto che
lo rende nervoso e introverso. La penna di O’Farrell è generosa nel dipingere i
suoi personaggi e ne tratteggia i ritratti con
grande attenzione, fornendo al pubblico
molteplici spunti interpretativi e altrettante
chiavi di lettura per comprenderli. E così
li si apprende insoddisfatti, scontenti della
propria vita ma troppo orgogliosi per ammetterlo, incastrati in situazioni delle più disparate ma tutte allo stesso modo deludenti.
Una notizia improvvisa, inusuale come
quell’ondata di caldo, li costringe però
a ritrovarsi insieme: il padre, il timido e
prevedibile Robert Riordan, si dilegua
senza lasciare tracce. La sua scomparsa
è l’evento dinamico che impone la riunione familiare, pretesto di cui si serve
l’autrice per intrappolare i suoi personaggi sotto lo stesso tetto e obbligarli
alla resa dei conti. Tra le mura di casa
Riordan conflagrano segreti familiari
sepolti da tempo, esplodono vecchi
rancori e si risolvono traumi passati,
in un dramma corale che presta attenzione a ognuna delle parti in causa con
grande neutralità, non schierandosi a
favore di alcuna posizione. Di Robert
però, sorprendentemente, si parla
poco: non è la sua assenza a incalzare
la narrazione, la sua scomparsa è piuttosto lieve leitmotiv di una vicenda che
si svolge tutta tra mura domestiche e
che orbita insistentemente attorno ai
presenti. Anche nella memoria dei
figli la sua immagine ne esce offuscata, adombrata dalla presenza di quella di
Greta, l’ingombrante figura materna che
impone la sua fisicità sulla vita e sui ricordi
dei tre fratelli. Istruzioni per un’ondata di
caldo è dunque la storia di una scomparsa,
ma è un ritratto di famiglia nell’Inghilterra
degli anni settanta; è una fotografia scattata
con mano solida e ferma e sviluppata con
penna sicura, che imbastisce una narrazione scorrevole, forse un po’ troppo piana ma
comunque di gradevole lettura.
LAURA SAVARINO
Virginia Woolf, TRA UN ATTO E L’ALTRO, ed.
orig. 1941, trad. dall’inglese di Francesca
Wagner e Franco Cordelli, pp. 199, € 14,50,
Guanda, Milano 2014
Una nuova edizione, curata da Guanda,
restituisce l’ultima perla di Virginia Woolf, Tra un atto e l’altro: bandolo postumo
di un filo narrativo ed esistenziale ormai
spezzato, il romanzo uscì postumo, ma fu
lasciato dall’autrice, insieme a due lettere
per i familiari, come una sorta di estremo
testamento. Alla periferia di Londra, nella
tenuta di Pointz Hall, una giornata di giugno del 1939 vede consumarsi l’annuale tragicommedia per l’allestimento della recita e
raccolta fondi per la parrocchia; nella frenesia generale lampeggiano i crucci personali
degli Oliver, proprietari della residenza. Nel
salotto di casa, fra gli scontri del vecchio capostipite Bartholemew Oliver con la sorella
Lucy (detta “la suonata”) e l’entente cordiale del figlio Gilles Oliver con la moglie Isa,
piombano due inaspettati visitatori, la selvaggia signora Manresa e il suo misterioso e
femmineo accompagnatore William Dodge;
fuori dalla finestra la rassicurante vitalità di
alberi e fiori è una debole consolazione di
fronte all’incrociarsi in cielo di rondini e
aerei militari, fragoroso promemoria della
storia all’orizzonte. E proprio in giardino
Miss La Torbe, ex attrice, è l’eccentrica
regista della tradizionale rappresentazione
teatrale: una grandiosa epopea “a pannelli”
della storia inglese, attorno a cui si raduna
una variopinta folla di spettatori, chiamati
a ricomporre la propria identità individuale e collettiva, dai primi passi della gloriosa Britannia fino a un più grigio presente.
Incastro letterario e metaletterario, la tela si
compone del mescolarsi di registri e punti
di vista, in un continuo sconfinamento fra
romanzo e copione; la vita filtra nella rappresentazione, che si tratti degli zampilli
di realtà nel tempo “fra un atto e l’altro”
della recita, o dell’improrogabile presa di
coscienza imposta nel gran finale della stessa, in cui uno specchio rivolto agli spettatori riflette i visi usuali eppure straniati degli
astanti, in un tutt’uno indistinto di realtà
e illusione. Il tempo della vita interrompe
quello della finzione. Ma non è meno vero
il contrario se, a rappresentazione conclusa,
al calare di una notte che porta in sé un’eco
cavernosa e primordiale su Pointz Hall e i
suoi abitanti, “si levò il sipario. Parlarono”.
MIRIAM BEGLIUOMINI
Fernando Velázquez Medina, ULTIMA RUMBA ALL’AVANA, ed. orig. 1998, trad. dallo spagnolo di Marino Magliani, pp. 212, € 15, Il
Canneto, Genova 2014
“Svegliatevi gente ingenua / questa terra
è malata / e non aspettatevi domani / quel
che non vi ha dato ieri. / Non c’è niente
da fare!”: al vaglio di Ultima rumba all’Avana, il romanzo d’esordio di Fernando
Velázquez Medina, passano impietosamente tutte le illusioni, i fallimenti e le contraddizioni del regime castrista. Scrittore
e critico cinematografico cubano, con un
passato di soldato e di dissidente, Velázquez
Medina vive da tempo in esilio a New York,
per aver firmato e diffuso un documento
antigovernativo insieme ad altri intellettuali
del proprio paese. “Ampolloso, borgesiano,
irrealistico, fantastico”, come egli stesso lo
definisce, questo suo primo romanzo si presenta come un infaticabile tour de force tra
giochi linguistici e rimandi intertestuali, opportunamente tradotti e segnalati al lettore
nella versione italiana, curata da Marino
Magliani per Il Canneto. La voce narrante
è quella di una jinetera, una prostituta che
si serve disinvoltamente del suo corpo per i
propri loschi affari. Ne esce una rappresentazione della società cubana, e in particolare
della sua capitale, irrimediabilmente cruda
e volgare, disperatamente ossessionata da
sesso e denaro, molto lontana dalle visioni
edulcorate proposte dalla propaganda ufficiale, di cui sono smascherate, una a una,
le menzogne, dalla bruta repressione del
dissenso politico, all’emigrazione imposta
dai programmi governativi, alla follia di
interventi militari come quello in Angola.
Il romanzo porta così il lettore in un lungo
viaggio al termine della notte, tra i meandri
di un sottobosco urbano violento, misero e
irredento, che si muove sulla base di principi ferini, puramente materiali: “La vita è
breve, la vita è un sogno e tutto svanisce,
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la realtà è nascere e morire, bisogna godere
finché si può, tutto è eterno soffrire e niente
più”. Velázquez Medina difende in questo
modo le ragioni dell’individuo contro le
imposizioni di regime: “Non aspettiamoci
di ricevere la verità da qualcuno: la verità
dobbiamo fabbricarcela noi”.
LUIGI MARFÈ
Bernard Malamud, L’UOMO DI KIEV, ed.
orig. 1966, trad. dall’inglese di Ida Ombroni,
pp. 405, € 14,50, Minimux Fax, Roma 2014
Leggere oggi Bernard Malamud appare
più attuale che mai. Talmente attuale che
grazie alla ristampa di Minimum Fax di
uno dei suoi capolavori indiscussi, L’uomo
di Kiev, con la prefazione di Alessandro
Piperno, non abbiamo più scuse per non
farlo. Pubblicato per la prima volta nel
1966 e premiato con il Premio Pulitzer e il
National Book Award, il romanzo rappresenta l’apice della sua produzione letteraria.
Nato nel 1914 a Brooklyn da una famiglia di
ebrei russi immigrati in America, Malamud
è certamente uno dei più brillanti scrittori
ebreo-americani. Come egli stesso ammette, la ragione per cui la scelta ricade
sempre su personaggi ebrei è: “Perché
li conosco. Ma soprattutto, ne parlo
perché gli ebrei sono l’incarnazione
perfetta del melodramma”. Frutto di
una riflessione matura e di una rielaborazione intima e dolorosa, L’uomo
di Kiev vuole essere una rappresentazione profonda della sofferenza ebraica: una sofferenza fisica, materiale e
spirituale nei confronti della storia e
dell’esistenza, condizione di vita che
secondo lo scrittore accompagna e intride ineluttabilmente lo stare al mondo di un ebreo. Prendendo spunto da
un caso giudiziario realmente accaduto nella Russia zarista, la vicenda narra
del tuttofare Yakov Bok che, in seguito
all’abbandono della moglie e insofferente per la sua miserevole vita, decide
di lasciare la sicurezza del suo shtetl e
tentare la fortuna nel mondo dei gentili. A Kiev le circostanze lo porteranno
a diventare il perfetto capro espiatorio
dell’uccisione di un bambino: come a dimostrare l’impossibilità di fuga da un destino che sembra lasciarlo senza scampo, il
protagonista si troverà solo e impotente ad
affrontare l’ingiustizia, l’accusa di omicidio,
la detenzione e le torture, il processo. Con
incessabili domande sulla propria esistenza
e sulla propria (abbandonata) religione, il
tuttofare ci costringe a immergerci nelle sue
intime riflessioni, magistralmente aiutato
da una prosa brutale e commovente, amara come il tè quando non si dispone dello
zucchero: “Era amaro, e lui dava la colpa
all’esistenza”.
CLARA RIZZITELLI
Irvine Welsh, LA VITA SESSUALE DELLE GEMELLE SIAMESI, ed. orig. 2014, trad. dall’inglese di Massimo Bocchiola, pp. 432, € 18,50,
Guanda, Milano 2014
Scozzese di nascita e americano di recente adozione, Irvine Welsh torna con
un nuovo romanzo e con tutta la sua irriverenza. Questa volta, però, made in Usa.
L’autore di Trainspotting capofila della
chemical generation, amato dal pubblico
letterario e cinematografico per la spregiudicatezza e il crudo realismo, riconferma
un’innata maestria nel rappresentare i vizi
e le contraddizioni della società contemporanea. Nella sua ultima opera ambientata a
Miami Beach, La vita sessuale delle gemelle
siamesi, le protagoniste di Welsh sono per
la prima volta due donne. Non le gemelle
siamesi dell’Arkansas richiamate dal titolo,
che rappresentano un filo rosso di sfondo
alla narrazione, ma due giovani donne il cui
legame assume un carattere complementare
e simbiotico: Lucy è una personal trainer
dal fisico scolpito e l’ossessione per le diete,
e Lena, un’artista depressa e obesa in stallo
creativo. Conosciutesi sul luogo di un incidente, quando Lucy disarma un potenziale
assassino e diventa un’eroina mediatica proprio grazie alle riprese del cellulare di Lena,
tra le due ragazze si instaura un rapporto
morboso di odio, amore e dipendenza che
le conduce a scambiarsi i ruoli (di potere
e di massa adiposa) e scendere negli abissi della propria psiche per poterne risalire
consapevoli. Al di là della trama, a volte
eccessivamente (e forse volutamente) fantasiosa per poter essere credibile, Welsh è
in grado di trasmetterci il brutale e spaventoso spaccato di un’America in totale crisi
di identità: senza valori nelle grandi città in
cui apparenza e successo diventano un’etica
di esistenza, senza futuro nelle campagne
immobili e perbeniste dentro le cui case si
consumano silenziose tristezze quotidiane.
Riesce a farlo, per di più, con una schiettezza e un’inventiva linguistiche tali da far
ridere di gusto, intrattenere il lettore con
una vicenda tragica nei contenuti ma estremamente comica nella forma. Di modo che
violenza, manipolazione, sesso e depravazione possano irrompere sulla scena con
una naturalezza disarmante.
(C. R.)
Jeanette Winterson, IL CANCELLO DEL CREPUSCOLO, ed. orig. 2012, trad. dall’inglese di
Chiara Spallino Rocca, pp. 156, € 17, Mondadori, Milano 2014
Quando si nomina Jeanette Winterson
si può essere certi che in qualche modo si
solleverà un polverone. Personaggio affascinante e controverso, è considerata a ragione
una delle più importanti scrittrici inglesi
della sua generazione. Nata a Manchester
nel 1959, viene adottata da una coppia di
religione pentecostale; della difficile adolescenza scrive nell’opera autobiografica Perché essere felice quando puoi essere normale?, dove racconta della fuga da casa appena
sedicenne dopo la confessione di aver intrapreso una relazione omosessuale. Esordisce
con il primo romanzo a ventisei anni, Non
ci sono solo le arance (con il quale ottiene
il prestigioso First Novel Award), mentre a
renderla famosa al pubblico italiano è Scritto sul corpo, libro che la consacra tra le più
interessanti e seguite figure del panorama
letterario internazionale. Sempre alla ricerca di innovazione in quanto a stile e contenuti, per la sua ultima opera Winterson si
cimenta con il primo romanzo storico della
sua produzione. Il cancello del crepuscolo
è una storia di invenzione e supposizione
che prende vita dalle fonti reali del primo
processo per stregoneria documentato nei
dettagli, il più famoso di quelli avvenuti in
Inghilterra. Ambientato nel Lancashire di
inizio Seicento, dove le cosiddette eresie e
il cattolicesimo trovano temporaneo riparo
dalle persecuzioni del re protestante Giacomo I, la vicenda ha il suo centro in Alice
Nutter, una gentildonna bella e misteriosa
la cui ricchezza attira reverenza e invidie:
coinvolta suo malgrado come tredicesima
persona in un raduno segreto dal sapore di
Sabbat, le indagini cui verrà in seguito sottoposta riveleranno il suo passato e le origini
della sua fortuna, portandola infine a essere
processata per stregoneria. In un contesto
storico e religioso in cui ogni parvenza di
devianza dai dettami è suscettibile di instillare dubbi e accuse, la protagonista diventa
l’incarnazione stessa di ideali quali giustizia
sociale e amore, in un intreccio magico che
la spinge a imbattersi in personaggi come
Shakespeare e a intessere una relazione con
una donna che ha ceduto l’anima al diavolo.
Non si può negare che la forza dell’opera
risieda nello stile diretto, esplicito e intrigante della narrazione, in grado di impedire
al lettore di riprendere fiato prima di essere giunto alla fine. I personaggi stessi sono
creature da scoprire, “mondi compressi in
forma umana”: complessi e pieni di sfaccettature, tormentati o spaventati, insicuri nelle loro apparenti sicurezze e in totale balia
delle rispettive pulsioni.
(C. R.)