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Samantha Vitanza
Le arti marziali oggi:
si può parlare di
socializzazione, educazione
e cultura?
Sommario
Introduzione
CAPITOLO 1
ARTI MARZIALI E
SOCIALIZZAZIONE
1.1
1.2
1.3
1.4
1.5
1.6
CAPITOLO 3
LE ORINIGINI E LO
SVILUPPO DELLE ARTI
MARZIALI
La socializzazione: il
processo di
formazione
dell’individuo
Lo sport elemento
catalizzatore nei
processi di
integrazione e
socializzazione
Lo sport come
percorso educativo e
formativo
Il valore educativo
negli sport da
combattimento
Il combattimento?
Sport da bambini
Il ruolo del maestro.
Differenze riferite
all’insegnamento del
karate-do. Allenatore,
istruttore, maestro
1.1
1.2
1.3
1.4
1.5
CAPITOLO 4
KARATE: ASPETTI
EDUCATIVI,
FORMATIVI,PEDAGOGICI E
PRATICA SPORTIVA
1.1
1.2
1.3
CAPITOLO 2
LE ARTI MARZIALI E
L’INFLUENZA DEI MASSMEDIA
1.4
1.5
1.1
1.2
1.3
Le arti marziali:
introduzione
Il suffisso “DO”
Il budo
L’influenza della
filosofia zen
Karate-do: l’arte della
mano vuota
L’ossessione samurai
I cartoni animati
Le serie tv
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Il Dojokun
Gli aspetti pedagogici
nella pratica del
karate
Gli aspetti formativi
ed educativi
nell’allenamento
Il rapporto senpaikohai e il gruppo
Il karate come attività
sportiva
Non parlerò di tecnica, di perfezione della
tecnica, nulla di tutto ciò, con questa tesi
cercherò
di
mettere
in
risalto
il
valore
educativo, formativo e culturale di queste
discipline,
karate,
come
il
in
un
nate
mondo
completamente
differente
dal
ossia
nostro,
da
quello
occidentale,
nei
costumi,
nelle
usanze,
etc… Di come a distanza
di
anni
siano
ancora
vivi i valori etici che
le
hanno
caratterizzate
fin
dal
principio
rendendolo un mezzo prezioso per il sistema
pedagogico orientale.
Attraverso la mia giovane esperienza e con
l’aiuto di alcuni testi di studio proverò a
spiegare
come
lo
il
concetto
sport
stimolatore
ne
anche
di
sia
un
per
socializzazione,
ottimo
la
elemento
formazione
dell’individuo
stesso.
Questo
si
verifica
perché nella società attuale tutto ciò che
viene fatto nel tempo libero assume un ruolo
importante
singolo.
comuni
nei
Scuola,
non
altamente
media
più
e
i
esaminerò
come
in
e
luoghi
di
società
quella
di
che
tuttora
ogni
punti
un
l’influenza
avuto
di
altri
soli
soprattutto
mediatica
hanno
formativi
famiglia
sono
riferimento,
Perciò
processi
i
hanno
oggi.
mass
sullo
sviluppo delle arti marziali e/o viceversa.
Con
l’esposizione
cinematografico
serie
di
e
di
il
cartoni
condizionato
il
mondo
qualche
racconto
di
animati
che
dei
successo
qualche
bambini.
hanno
Così
quella che è la valenza educativa di queste
arti,
l’importanza
dei
giochi
da
combattimento.
Metterò
in
risalto
naturalmente
il
protagonista per eccellenza, il maestro e il
suo difficile ruolo, includendo in un’unica
figura il tecnico e l’educatore.
4
Per
comprendere
affascinante
marziali
al
questo
mondo
misterioso
delle
arti
e
meglio
mi
soffermerò
sul
concetto
del
budo. Il budo giapponese, l’intervento della
filosofia zen di quel mondo, in quel mondo.
Lo vedremo riportato in Occidente. Dedicherò
qualche
riga
a
quello
giapponese
oggi,
alle
antiche
sue
come
che
è
è
la
rimasta
tradizioni
società
radicata
nonostante
l’eccessivo sviluppo tecnologico. Come vive
il concetto di gruppo e com’è
sentito il
rapporto senpai-kohai all’interno di un dojo
ma in ugual modo nella vita sociale.
Accennerò alla filosofia del “DO”, la via e
della
sua
importanza
nella
pratica
del
karate in senso completo. Infine illustrerò
gli aspetti pedagogici riscontrabili nelle
arti
marziali,
in
particolare
nel
karate,
fino a considerale delle attività sportive
vere e proprie.
Samantha Vitanza
5
Capitolo
Prima di addentrarmi in quello che può essere il legame tra
socializzazione e arti marziali e in che misura queste possano
contribuire allo sviluppo del processo di formazione di un
individuo vorrei introdurre il concetto di socializzazione.
La socializzazione indica quel processo di informazioni capaci di
trasmettere alle nuove generazioni il patrimonio culturale
accumulato fino a quel momento grazie a due fattori :
1) che ogni società ha vita più lunga rispetto ai soggetti che ogni
qualvolta la compongono;
2) il patrimonio culturale è composto sia dall’insieme di competenze
sociali di base che da quello di competenze specialistiche che
diversificano la società.
Per questa distinzione si usa parlare di socializzazione primaria e
secondaria
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Quella primaria riguarda i primi anni di vita di un individuo fino a
circa le scuole primarie; quella secondaria invece considera
l’individuo che ha già avuto la sua socializzazione di tipo primario
quindi la fase successiva quella che dall’inizio della scuola si
protrae per tutto l’arco della vita.
Vediamo più in dettaglio di spiegare questa distinzione:
Le fasi della socializzazione primaria
I modi e i risultati della prima fase di socializzazione condizionano
i modi e i risultati delle fasi successive ma non le determinano.
L’esperienza
che
l’individuo
vivrà
in
questa
prima
fase
determinerà il suo rapporto con il resto del mondo. E’ chiaro che
se il risultato sarà appagante egli svilupperà un atteggiamento
7
positivo nei confronti della vita. Stiamo considerando un
individuo-bambino quindi è necessaria un’adeguata stabilità
affettiva, il contatto fisico continuo con i genitori. In questo modo
nel bambino si svilupperanno sicurezza e fiducia in se stesso e nel
mondo che lo circonda. Oltre a reagire ad input esterni lui stesso
è autore insieme ai genitori del rapporto che si forma. I metodi di
educazione dei genitori sono molteplici, la loro efficacia e la loro
attuazione determinerà una buona o una cattiva interiorizzazione
delle regole da parte del bambino. Man mano che cresce il
rapporto si estenderà a fattori più esterni che andranno oltre i
genitori e la famiglia e diventeranno sempre più diversificati da
individuo ad individuo mantenendo sempre stabile la propria
identità.
Le fasi della socializzazione secondaria
Abbiamo visto periodo che si sviluppa dalla scuola in avanti. La
socializzazione secondaria è quell’insieme di prassi messe in moto
dalla società che consentono all’individuo di assumere ed
esercitare ruoli da adulti. E ricoprire così pluralità di ruoli separati
tra loro. E’ un processo continuo. Quali sono gli agenti
determinanti?
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In primo luogo la scuola, prima realtà istituzionale con il quale
l’individuo si confronta al di fuori delle mura domestiche, e ciò
che ne consegue, istruzione, regole, etc.
L’individuo è indotto a socializzare con gli altri facenti parte del
gruppo, in questo caso specifico con la classe.
In secondo luogo il gruppo dei pari, cioè individui che sono sullo
stesso piano ma non hanno alcun legame affettivo o di lavoro.
Ed infine non dimentichiamo i mezzi di comunicazione di massa in
quanto è una realtà che al giorno d’oggi si sovrappone
prepotentemente su ogni tipo di fattore di socializzazione.
Un’ulteriore chiave di lettura per cercare di comprendere quelle
che sono le varie fasi del processo formativo di un individuo è di
analizzare gli aspetti della socializzazione mediata e della
socializzazione immediata. Ci troviamo da una parte con degli
organismi tradizionali ( vedi famiglia, scuola ) che costituiscono la
cosiddetta socializzazione mediata in quanto attraverso regole,
forme di linguaggio, valori, si pongono come MEDIATORI tra
l’individuo giovane e la società.
Dall’altra parte invece i mass media e il gruppo dei pari con
ovviamente valori propri, regole, norme che danno vita a quella
socializzazione detta immediata proprio in quanto essendo
l’individuo in prima persona a viverle non ci sono interferenze o
mediazioni
che
influiscono.
Quindi
da
una
formazione
strettamente tradizionale passando ad una socializzazione fatta di
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input esterni continui recepiti tramite mass media e gruppo dei
pari, l’individuo si creerà un processo formativo che sia il più
possibile adeguato alle sue aspettative personali. Tutto ciò gli
consentirà di scegliere dove partecipare a seconda di tutte le
offerte che l’industria culturale oggi propone:
sport, cinema, tv, stampa, internet, etc..
La diffusione della pratica sportiva in quasi tutto il mondo è indice
evidente dell’importanza che lo sport ha assunto come fattore
sociale ed educativo. Esso è parte integrante della cultura di una
società e si sviluppa in simbiosi con i cambiamenti che questa
subisce nel corso degli eventi.
Lo sport nel tempo è divenuto un evento di massa coinvolgendo
tutte le classi sociali e tutti i gruppi d’età della popolazione. È
uno strumento essenziale di integrazione sociale e di educazione
al rispetto comune per tutti gli individui del mondo. Spesso
purtroppo non è così. Basti vedere ed analizzare quello che
succede durante una partita dove invece di accomunare le
persone con la stessa passione vengono violentemente separate da
un sentimento di conflitto. E questa ai giorni nostri è una triste
realtà che nonostante ripetuti episodi di violenza, multe e
sospensioni di eventi sportivi, non si è ancora riusciti a debellare.
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Lo sport dovrebbe fungere da catalizzatore che unisce i cittadini
del mondo indipendentemente dalla loro età e dalla loro origine
sociale. Dobbiamo pensare che lo sport rappresenta un contributo
incisivo all’educazione e alla formazione dei giovani.
Lo sport raggiunge il suo fine quando insegna, educa a maturare e
in questo caso maturare significa ammettere i propri limiti,
costruire il successo sul sudore della fatica, confrontarsi con gli
altri con spirito critico e senza considerare l’avversario come un
nemico da offendere o umiliare.
Lo sport è educativo. Educa se viene proposto e organizzato con
l’intenzionalità educativa secondo parametri e progetti che
privilegino l’educazione del singolo.
Lo sport è fondamentale per la socializzazione del bambino e
dell’adolescente ma anche dell’adulto che sviluppa così la
capacità di stare con gli altri, di confrontarsi e seguire delle
regole che insegnano al singolo individuo l’adattamento sociale.
Diventa un mezzo per stare bene insieme con gli altri, rispettando
tutti e condividendo le regole del gioco così come accade
normalmente nella vita di tutti i giorni. E’ un ottima palestra per
migliorare il proprio rapporto con gli altri oltre che migliorare il
proprio benessere psico-fisico.
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L’esigenza e la necessità di supporti
educativi giungono da varie parti :
dalla società, dalla famiglia, dalla
scuola.
Sinteticamente
vedremo
come può essere di ausilio lo sport e
quali possono essere i parametri
attraverso i quali può articolare un’azione educativa. Le funzioni
fondamentali che può avere nella formazione della personalità e
del carattere dei bambini e degli adolescenti.
Analizziamo alcuni di questi punti fondamentali :
esprime pulsioni primarie istintivamente finalizzate che in altro
modo si esprimerebbero in modi in disaccordo con le norme sociali
offre un contenitore idoneo sia sul piano personale che relazionale
all’attività psico-motoria
offre i modi di comunicazione ed un contenimento all’aggressività
fisiologica che ha così un modo “socialmente tollerabile” di
esprimersi costruttivamente
offre modi e schemi per esprimere la competitività legata alla
fisiologica affermazione di sé in un rapporto di compartecipazione.
Secondo queste regole l’attività sportiva ben condotta come
formazione in età evolutiva può ottenere alcuni risultati.
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Possiamo così schematizzare le finalità di un’attività sportiva in
età evolutiva :
costruire uno sviluppo armonico del soggetto attraverso l’espressione
delle competenze personali sia fisiche che psichiche
stabilire un’abitudine a finalizzare in modo sano la competitività in
un rapporto di complementarietà con la cooperazione e la
condivisione in un gruppo
aumentare l’autostima come elemento basilare della sicurezza
personale
contenere, finalizzare in un modo razionale costruttivo l’aggressività
sia fisiologica che reattiva
attivare la capacità di capire e rispettare le regole del gioco
Tutto ciò può essere ottenuto attraverso una relazione educativa
che tenda non solo ad allenare sia il corpo che la mente in quella
disciplina specifica, ma anche facilitare una consapevolezza di ciò
che si fa e di ciò che avviene ma anche delle sensazioni corporee
e delle emozioni. Questo elemento della consapevolezza è
fondamentale per la formazione perché è la base essenziale per
sviluppare quel senso critico che è l’espressione più corretta di
una personalità matura ed equilibrata.
Questi sono tutti parametri fondamentali attraverso i quali lo
sport può contribuire al processo educativo dell’individuo.
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Il compito arduo in questo caso tocca al tecnico-educatore. Non è
sempre facile motivare un bambino in vista dell’apprendimento di
una
determinata
capacità
motoria.
Componenti
come
svogliatezza, stanchezza, apatia sono
tutti segnali di una caduta motivazionale
che può essere momentanea oppure
definitiva verso quella specifica attività.
Questo spesso accade perché l’attività sportiva viene scelta
dall’adulto e non dal bambino quindi a volte forzata. Egli si
troverà così ad affrontare una realtà già conosciuta, come ad
esempio la scuola, e obbligata. Gran parte dei genitori spesso
influisce in maniera negativa sulla fiducia in se stessi dei propri
figli e sul loro orientamento all’autorealizzazione attraverso un
eccesso di protezionismo, di presenza, di critica negativa.
Ad ogni modo per utilizzare al meglio o sollecitare la motivazione
del proprio allievo l’educatore sportivo dovrebbe conoscere ed
impiegare un ampio repertorio di metodi e di risorse didattiche,
ad esempio giochi ed esercizi diversi, capaci di stimolare la
curiosità e l’esplorazione, attività ludiche e sportive, incentivi,
conferme a promuovere l’autostima, l’appartenenza al gruppo e
l’identificazione con l’insegnante.
Vediamo
come
il
gioco
interviene
spesso
combinato
con
l’avviamento allo sport. Questo si propone in tutti gli sport così
come nelle arti marziali, l’argomento che più ci interessa e che
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tra breve analizzeremo. Attraverso il gioco il bambino fa
esperienza del proprio corpo e delle sue possibilità di entrare in
rapporto con l’ambiente da un punto di vista motivazionale.
L’elemento gioco presente in alcune pratiche sportive assume le
seguenti caratteristiche :
attività che provoca piacere sensoriale
attività di riconoscimento, di autovalutazione e di confronto
attraverso regole competitive
Man mano che il bambino cresce
aumenta sempre di più
l’importanza che conferisce alle relazioni con i coetanei e ai loro
giudizi, questo sia in campo scolastico che in quello ovviamente
sportivo dove la competizione è un fattore molto sentito.
L’attività sportiva può essere considerata un gioco caratterizzato
da
finalità
organizzato
agonistiche.
secondo
L’agonismo
modelli
è
un
culturali
comportamento
ed
indirizzato
all’autoaffermazione competitiva e all’espressione disciplinata
dell’aggressività. Ad esempio due bambini che gareggiano
spontaneamente per superarsi non fanno altro che anticipare
quell’esperienza agonistica che poi verrà organizzata dallo sport.
Il bambino sviluppa così l’abilità, la stima di sé e soprattutto
impara a riconoscere i propri limiti nel confronto con gli altri. Da
un punto di vista educativo il tecnico deve sfruttare a proprio
vantaggio la situazione, stimolando nell’individuo l’abilità e
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l’autostima esclusivamente per fini agonistici senza sollecitare il
ragazzo con aspettative troppo elevate. La frustrazione, lo
scoraggiamento sono sempre l’alto prezzo che i bambini devono
pagare per allenatori e genitori troppo ambiziosi.
COSTRUIRE LA MENTALITA’ DEL CAMPIONE IN MODO
EDUCATIVO SI PUO’!
Per ottimizzare la prestazione di un atleta e riuscire a far
coincidere la sua prestazione reale con quella potenziale è
necessario tenere a mente alcune utili indicazioni:
stabilire con l’atleta obiettivi in positivo e verificabili
motivare l’atleta
stabilire armonia mente-corpo
scoprire le risorse dell’atleta
migliorare la capacità di immaginazione
fornire una dieta mentale (oltre che fisica) utilizzando un giusto
linguaggio
Da un punto di vista psicologico il campione è colui che:
 sa attivarsi e disattivarsi a seconda delle occasioni (controllo
dell’ansia)
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 vede nei limiti le sue possibilità di vittoria
 riesce a dare il meglio di sé senza avere paura di sé stesso
Anche
negli
sport
di
squadra
è
possibile
lavorare
sull’ottimizzazione della prestazione semplicemente tenendo
bene a mente le 10 regole del team che vince:
 Avere obiettivi chiari ed elevati
 Costruire una struttura guidata dai risultati
 Disporre di membri competenti
 Favorire l’impegno unificato di tutti
 Creare un clima collaborativo
 Fornire standard di eccellenza
 Ricevere supporto esterno e riconoscimento
 Definire una leadership di principio, che si costruisce sul
campo
 Lavorare divertendosi
 Pensare in sincronia
Si è parlato di aggressività e di come lo sport possa aiutare a
contenerla e ad incanalarla in modo sano e corretto.
Entriamo nello specifico di ciò che più ci riguarda.
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Spesso è stata posta sotto forme diverse la medesima domanda :
“Come si può considerare educativi e privi di violenza
tutti gli sport da combattimento?”
Ma cosa vuol dire violenza? Analizziamo semplicemente il termine
per rispondere alla domanda perché spesso e volentieri si
utilizzano vocaboli gratuitamente di cui non si sa neppure il valore
etimologico.
Violenza è :
“delitto commesso da chi con la forza o con la minaccia costringe
qualcuno a fare qualcosa o gli impedisce di fare qualcosa”.
Ora due atleti che si confrontano in un kumite seguendo regole
prestabilite e rispettandole ovviamente entrambi non stanno certo
commettendo
atto
di
violenza
ma
stanno
misurandosi
semplicemente in una competizione sportiva o in una seduta di
allenamento. È certo che tutto ruota intorno a tecniche di pugni e
calci e qualcuno potrebbe asserire che un colpo ricevuto può
danneggiare. È verità fino ad un certo punto in quanto in qualsiasi
sport un atleta il cui fisico è spinto al massimo può subire danni.
Ed è un rischio di cui l’agonista è consapevole. È anche vero
d’altro canto che un atleta preparato oltre ad un’elevata soglia
del dolore è predisposto a ricevere colpi entro sempre i limite del
regolamento, del controllo e del rispetto. Non si sta lottando per
la vita o la morte. Tutto è verosimile. Se consideriamo una partita
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di calcio è molto più pericolo allora un’entrata di un difensore
sugli stinchi di un’attaccante. E ancora più diseducativo vedere un
giocatore che inveisce contro l’arbitro o che sputa in campo
contro un altro giocatore. Dovrebbero rendersi conto dell’esempio
che danno alla gente e non meravigliarsi se poi i tifosi si sfidano in
atti violenti. Nel karate non si prosegue l’obiettivo di provocare
danni
fisici
all’avversario,
anzi
è
proprio
chi
danneggia
l’incolumità dell’avversario che viene penalizzato. Proprio per
questo bisogna abbattere i luoghi comuni e proferire che la
pratica di quest’arte può avere una funzione educativa molto
incisiva nel promuovere un rapporto sano tra i giovai e
l’aggressività. Le nostre palestre possono essere una risposta.
L’uomo ha sempre avuto bisogno di lottare per sopravvivere quindi
questa forma di energia si può dire sia innata in ogni individuo.
Attraverso gli sport da combattimento, se ben insegnati da tecnici
competenti, impariamo a conoscerla e a controllare questa
energia non soffocandola ma incanalandola ed indirizzandola verso
un lavoro atletico sano e costruttivo. Chi è consapevole della
proprio forza può così imparare a controllarla e non abusarne.
Entrando in contatto con la propria aggressività, imparando a
conoscerla. Il principio fondamentale è basata sul controllo,
proprio questo è uno degli aspetti educativi più importanti della
nostra disciplina dove l’orientamento della carica aggressiva
assume importanza terapeutica in quanto tutte le potenzialità
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dell’individuo hanno come traguardo l’autocontrollo e l’equilibrio
psicologico. Chi pratica questo tipo di attività si può dire sfoghi in
palestra questa energia interiore aggressiva restando nel contesto
del rispetto delle regole ed evitando così danni. Il praticante di
cui parliamo spesso è una persona che ha intrapreso una sfida con
se stesso, che ha deciso di superare i propri limiti interiori, le
insicurezze e le paure..e di crescere soprattutto. E così un
quadrato di gara diventa l’immagine della nostra vita. La capacità
di
affrontare
faccia
a
faccia
l’avversario,
di
controllare
l’emozione, di restare in piedi sopportando dolore e fatica, di
accettare la sconfitta reagendo in modo positivo.
Non tutti però sono agonisti o professionisti, alcuni si avvicinano a
queste
discipline
per
diverse
ragioni
:
movimento
fisico,
autodifesa o a volte anche semplice curiosità.
Una conoscenza superficiale della materia porterebbe chiunque a
catalogarli come “roba violenta”e soprattutto non adatte ai
bambini che da questa pratica verrebbero traviati e trasformati in
picchiatori di strada. Niente di tutto questo. I bambini dopo aver
acquisito bene le tecniche vengono messi uno di fronte l’altro per
essere avviati alla pratica del combattimento, ovviamente in un
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ambiente sano e corretto di divertimento e amicizia, soprattutto
nell’ottica del rispetto reciproco.
E proprio in quest’ottica imparano a riconoscere , controllare,
canalizzare l’aggressività e iniziano a sfogare in modo positivo i
propri istinti che come spesso la cronaca quotidiana ci mostra se
repressi sfociano in episodi di bullismo e di violenza.
La pratica delle arti marziali forgia il carattere degli individui,
piccoli o grandi che siano, educando alla disciplina, al sacrificio ed
al rispetto dei gradi sia superiori, che “danno ordini” per
insegnare la via da percorrere in quanto più esperti, sia ai gradi
inferiori poiché soggetti più deboli ed inesperti di cui non bisogna
approfittarsi bensì aiutare nella crescita, nello sviluppo fisico,
tecnico e coordinativo.
Analizzando ciò che è stato scritto sopra emerge quindi come
discipline quali appunto le arti marziali, la scherma e gli sport da
combattimento siano complete ed indicate per ogni esempio di
bambino. Queste discipline permettono di sviluppare alcuni
aspetti molto importanti per la loro formazione dal punto di vista
psicologico oltre che fisico per bambini un po’ impulsivi ed
iperattivi. Per motivi opposti queste attività possono essere di
aiuto per quei bambini la cui timidezza li porta ad evitare e ad
avere timore del contatto fisico con gli altri. Inoltre sono attività
che esigono una forte capacità di concentrazione per cui molto
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importanti per imparare a decidere rapidamente, si sa che ogni
esitazione è fatale per l’incontro. Se praticate secondo queste
aspettative questi sport possono contribuire a sviluppare la stima
di sé e la sicurezza complessiva del piccolo atleta. Praticare
queste discipline è un’attività che si adatta molto bene alle
caratteristiche del bambino, malgrado siano tecnicamente difficili
e fisicamente impegnative. Parlando dalla mia esperienza posso
dire che i piccoli praticanti possono sopportare benissimo
l’impegno fisico traendo anche dei vantaggi, come può essere lo
sviluppo della coordinazione, della mobilità articolare, etc..
Partiamo dalle definizioni delle singole figure.
 Allenatore : chi si occupa dell’allenamento fisico di un gruppo o di
un singolo atleta, abituando mente e corpo mediante esercizi adeguati
all’esecuzione di una specifica applicazione.
 Istruttore : chi istruisce, chi fornisce spiegazioni per la comprensione
di una disciplina o più semplicemente di un movimento, per capirne
l’obiettivo dell’applicazione
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 Maestro : che insegna un’arte, una disciplina, la “via”, nel nostro
caso specifico, tanto da poterla insegnare ad altri ed essere preso
come modello
Da qui è evidente la differenza che esiste tra i vari ruoli, infatti la
destinazione di ogni singola attività, pur essendo diretta ad uno
scopo comune, è articolata in maniera diversa.
L’allenatore si occupa più del lato fisico, mentre quello mentale è
limitato; l’istruttore deve abbinare all’aspetto fisico quello
educativo, spiegando il gesto, la finalità della tecnica. Il maestro
riveste
un
ruolo
spiccatamente
educativo,
spingendosi
profondamente all’interno del lato mentale. La figura del maestro
si incontra molto più raramente proprio perché viene associato ai
termini disciplina ed arte. Rappresenta l’anziano, il saggio,che
trasmette la propria lunghissima esperienza. Il maestro non
insegna, possiamo dire che educa, completando quindi il ciclo di
apprendimento.
Il corpo impara (allenamento), la mente capisce lo scopo dell’allenamento
(istruzione), il corpo e la mente si uniscono, raggiungendo il livello
massimo dell’applicazione (maestria).
In un ‘intervista il Maestro Nishiyama ha detto :
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“...all’inizio della pratica noi tutti usiamo la forza muscolare. Abbiamo
bisogno di utilizzare una grande azione fisica per fare un movimento
poderoso. Continuando però questo bisogno cambia, così che generiamo
una grande forza da piccoli movimenti. Questa è la “via” della natura,
perché invecchiando perdiamo forza muscolare, quindi dobbiamo trovare
un altro modo di generare energia, prima di essere troppo vecchi per
farlo...”
Solitamente il taiso viene svolto o da uno degli istruttori oppure
da una cintura nera più esperta, non si distingue necessariamente
la figura dell’allenatore. Ovvio che quando si passa alla lezione
vera e propria, quindi all’istruzione, in quel caso tocca
all’istruttore che dovrà conoscere i molteplici aspetti della
pratica, miscelando psicologia, anatomia e filosofia.. subentra
anche l’aspetto educativo. Proprio per questo dovrà essere
d’esempio anche al di fuori del dojo, perché nel karate non
s’insegna a comportarsi solo nel dojo ma anche nella vita.
L’istruttore deve indicare il principio del cammino il resto
spetterà al Maestro, a colui che ha già una lunga esperienza ed è
in continua ricerca. Non certo per preparare dei cloni, fatti a sua
immagine e somiglianza. Egli darà degli elementi ma la ricerca
avverrà all’interno di ogni individuo.
Per essere buoni maestri bisogna avere molte doti:
competenza, buona capacità di creare rapporto,
visione,
realismo,
24
congruenza.
Deve
saper
guidare, questa è la visione. Poi deve aiutare gli altri a capire.
Queste sono capacità di comunicazione e di rapporto. Deve essere
in grado di convogliare gli entusiasmi e la motivazione e dare il
buon esempio. Queste sono la capacità organizzativa e la
congruenza.
Il rapporto tra maestro e allievi è una relazione di causa-effetto. Il
suo impegno deve essere quello di esercitare la sua operosità
rispettando i principi e le regole al fine di favoreggiare la funzione
educativa della disciplina salvaguardando l’allievo. Di non
incorrere, come anticipato prima, nel peggiore degli errori di
volere creare dei “cloni” a propria immagine e somiglianza senza
considerare le diversità soprattutto fisiche dei propri allievi. Non
dovrà rivelarsi un despota (concetto di sola autorità) capace solo
di impartire comandi pesanti e noiosi, ma dovrà essere anche
preparato ad organizzare e coordinare attività ed esercizi più
divertenti, procurandosi così un tipo di stima da parte degli allievi
sorta non da impostazioni e timori, ma da ammirazione e
simpatia.
I diritti li acquisisce tacitamente se e in quanto buon maestro, che
equivale a dire sacrificio, volontà e costanza, ovvero qualità
necessarie per il conseguimento di tale obiettivo. Leggendo la
rivista SAMURAI mi sono imbattuta in un articolo scritto da shike
Bertoletti proprio su questo argomento con il quale mi sono
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trovata pienamente d’accordo nonostante la mia ancora giovane
esperienza, su come si fa a riconoscere un vero maestro.
Esistono quattro categorie di maestri :
quelli che sono nulli tecnicamente sul tatami, ma che sono molto
simpatici fuori;
quelli che sono bravi tecnicamente sul tatami, ma che sono nulli
mentalmente ed intellettualmente fuori;
quelli che sono nulli tecnicamente sul tatami e nulli mentalmente ed
intellettualmente fuori;
quelli
che
sono
bravi
tecnicamente,
mentalmente
e
intellettualmente….
Nel primo caso sarebbe meglio evitare di seguire i suoi corsi. Avrà
sempre un certo numero di allievi che lo seguiranno, affiggerà in
bacheca (manovre strategiche) un certo numero di diplomi e si
proclamerà grande qui e là. Entrerà nel mondo intellettuale pur
non essendo uscito da nessuna “vera” scuola, senza nessuno
spirito evolutivo. Nel secondo caso ci si trova ad allenarsi con
tecnici esperti ma senza alcuna pretesa di discussione perché non
hanno nulla da dire. In Giappone è consuetudine trovare maestri
di questo tipo, eccellenti tecnici e praticanti, e sono là per far
sudare gli allievi. E’ una metodologia fisica e molto forte. Nel
terzo caso, uso le parole colorate di shike Bertoletti, bisogna
scappare fin quando c’è tempo! Si dovrà imperativamente evitare
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di avere delle relazioni con questi energumeni, che sono sovente
degli impostori nella pratica del budo, che prendono i loro
desideri per realtà e sono a volte dei megalomani con una
notevole paranoia, con al seguito un certo numero di allievi
creduloni con la stupidità che li rende diversi. Nel quarto ed
ultimo caso ci troviamo invece davanti ad un vero esperto, un
maestro, detentore di una conoscenza concreta, tanto sul piano
tecnico
che
mentale,
intellettuale
e
storico.
Da
questi
indubbiamente si riceverà un’eredità culturale certa, trasmessa
dalla loro anima. Manifestano tanta umiltà e consacrano la loro
vita a perfezionare il loro sapere e a parlarne. Quello che più li
contraddistingue è un certo CARISMA che conferisce loro una forte
personalità. Danno prova di compassione verso gli altri e di
conoscenza, non esibiscono diplomi di grado. Sono passati da
tappe difficili ma nello stesso tempo esaltanti, equivalenti al
livello della conoscenza acquisita.
Come riconoscere allora un vero maestro da uno “falso”?
Comparandolo
con
questi
quattro
modelli?
Bisognerebbe
interessarsi sul suo percorso e sul suo cammino del sapere.
Nell’osservarlo sul tatami : la rapidità d’esecuzione, la precisione
e la bellezza dei gesti abbinati all’efficacia, gli spostamenti, la
potenza durante le applicazioni tecniche, la morbidezza, la
postura diritta e la giusta attitudine del corpo.
27
Nel sentirlo parlare: il suo livello di conoscenza dovrà essere
discretamente ricco, tanto sul piano tecnico, che storico,
filosofico e perché no di aneddoti. Nell’avvicinarlo, sentire la sua
efficacia, che ci rassicuri tramite la maestria dei suoi gesti e delle
sue
parole
altrimenti
sarebbe
responsabilità
inutile
di
un
allenarsi
maestro
sotto
di
la
arti
marziali. Uno dei diritti dell’allievo è
sicuramente la sua tutela; a livello pratico
quello di ricevere una buona preparazione
ed educazione sportiva mediante sicure
attività
formative,culturali,ricreative.
I
doveri fanno parte del reciproco rispetto.
Io sintetizzerei un buon rapporto allievo-maestro / maestroallievo con il detto mu shin no shin (cuore a cuore). Deve risultare
biunivoco sotto il profilo della stimolazione reciproca : un allievo
che lavora bene e apprende con interesse stimola il maestro a
lavorare bene e viceversa.
28
Capitolo
Kill
Bill,
Zatochi,
Matrix,
a
seguire fumetti, cartoni animati,
videogiochi
e
manifestazioni
come Oktagon, Martial Art o gli spettacoli dei monaci Shaolin:
l’industria culturale globale è invasa da combattimenti ed
esibizioni di arti marziali. Tra esotismi e sottoculture si spostano i
confini tra Oriente ed Occidente.
L’uscita nelle sale del film “L’ultimo samurai” si pone alla fine di
un ciclo di uscite che da Kill Bill e Zatoichi sembra ribadire la vera
e propria ossessione marziale che da qualche decennio pervade
l’industria culturale globale. Narra lo scontro tra due realtà
29
militari differenti. Si vede il desiderio dei tradizionalisti di
mantenere tutto ciò in cui credono e così il rituale del personaggio
Mishima che pratica il seppuku di fronte agli eredi di coloro che
nel film sconfiggono lo spirito del vecchio Giappone. In rilievo la
frenetica corsa alla modernità tecnologica e commerciale voluta
dal nuove imperatore e la cultura millenaria di un popolo dedito
alla filosofia e alla guerra ideologica dei samurai. E’ un segnale.
Come se l’Occidente cercasse di eticizzare la figura del
combattente, anche se per farlo è costretto ad attingere lontano,
all’esotico, al fondamentalmente estraneo.
Le arti marziali prima degli anni ’70 non erano assolutamente
pubblicizzate. I primi film ad essere trasmessi furono delle
pellicole sul Judo. Un judo molto spettacolare pieno di evoluzioni
acrobatiche, diverso dalla pratica vera e propria. Era la prima
volta che venivano rappresentate le arti marziali in televisione.
Il cinema cinese invece fece la sua prima apparizione in Italia
appunto negli anni ’70, con un film orientale, il primo del suo
genere, precursore di una miriade di pellicole che sarebbero
seguite nel tempo. Il film in questione era “Cinque dita di
violenza”, titolo sicuramente inquietante per quell’epoca. La
trama era un classico del genere orientale. Parlava di un giovane
allievo, Cinao, che pur di essere accettato in una famosa scuola di
Kung fu, era disposto a fare i lavori più umili, all’interno della
30
stessa e nel frattempo si allenava segretamente per realizzare il
“palmo d’acciaio”, tecnica che permetteva di colpire solo con il
palmo delle mani. Quindi lui provava e riprovava rompendo
tronchi e colpendo mattoni fino a realizzare l’impresa desiderata.
Nel frattempo intrecci vari all’interno e all’esterno della scuola,
con tradimenti, omicidi e ferimenti vari, molto cruenti e
spettacolari, contribuivano a rendere il film ricco di azioni
tecniche allora sconosciute. Il finale era e sarebbe stato sempre lo
stesso con il nostro supereroe che dopo sacrifici e intensi
allenamenti avrebbe sconfitto i rivali.
Il film ebbe un successo straordinario: violento si, ma nuovo nel
suo genere e per circa un decennio si proiettarono film simili,
provenienti prettamente da Hong Kong. Il filone era sempre lo
stesso, film girati in costumi d’epoca, rivalità tra scuole di kung
fu, rigore samurai se si svolgevano in Giappone, e tanti tanti
combattimenti e duelli a colpi di sciabola per la Cina e di katana
per il Giappone. L’essenza era sempre la stessa, un rigoroso e
sofferto allenamento, tecniche segrete tramandate da maestro ad
allievo, specializzazione e virtuosismo, ora dell’artiglio, ora del
palmo, ora del calcio, ora del salto, capelli intrecciati usati come
frusta, chiodi lanciati come coltelli e soprattutto combattimenti
interminabili, con il protagonista che pur colpito decine di volte
continuava a combattere come se niente fosse.
31
Si vedevano spesso anche personaggi che volavano, superando
fiumi, saltando da un albero all’altro come se fossero scimmie, o
spostando enormi massi con la sola forza del pensiero. Insomma
tutto un mondo marziale che a noi occidentali in quegli anni
suscitava, da un lato entusiasmo, e dall’altro senso del ridicolo
per le esagerazioni cinematografiche.
Ma la vera svolta nel filone orientale,
fu l'apparizione di quello che sarebbe
diventato
antonomasia,
poi
il
mi
mito
per
riferisco
naturalmente a Bruce Lee. Il suo
primo film trasmesso in Italia, fu il
secondo film di arti marziali in assoluto, intitolato "Dalla Cina con
furore". Offuscò subito il successo del precedente "Cinque dita di
violenza", ma anche di tutti gli altri film trasmessi negli anni a
venire. Furono molti i giovani folgorati dal modo di combattere di
questo nuovo eroe, che tanto fece per la divulgazione del Kung Fu
su scala planetaria, elaborando poi il Jeet Kune Do.
Bruce Lee girò altri quattro film , "Il furore della Cina colpisce
ancora", "L'urlo di Chen terrorizza anche l'Occidente", "I tre
dell'operazione Drago" e il non ultimato "L'ultimo combattimento
di Chen", sì perché fu proprio in questo film che nacque il mito;
durante la lavorazione il nostro eroe per un edema celebrale (così
32
sembra), perse la vita lasciando un vuoto incolmabile che ancora
oggi dopo oltre trent'anni dalla sua scomparsa, nessuno è più
riuscito a colmare. In quegli anni moltissimi film orientali furono
trasmessi, ormai il filone era trovato, e ogni pellicola buona o
cattiva che fosse, veniva proiettata, ma il successo dei film di
Bruce Lee non fu mai eguagliato, anche se in molti hanno provato
ad imitarlo, anche grandi atleti, ma il suo carisma ed il suo modo
di interpretare le arti marziali, era per quell'epoca decisamente
rivoluzionario, non più combattimenti interminabili dal tramonto
all'alba, non più salta da una montagna all'altra, non più mani
d'acciaio, trecce che frustano, spade che scintillano, ecc...al più,
ebbe l'onore di far conoscere a noi occidentali l'uso di un'arma
allora sconosciuta, il nunchaku, maneggiato magistralmente in
sequenze
spettacolari.
Ormai il mondo occidentale conosceva le arti marziali e questo
aprì la strada al marketing delle palestre che cominciarono a
spuntare dappertutto come funghi, tutti volevano imparare a
combattere come il mitico Bruce Lee. Le palestre si riempirono di
giovani di tutte le classi sociali e di tutte le etnie, determinando
quell’ossessione marziale di cui si parlava che a tutt’oggi sembra
ben lunga dall’essersi esaurita. Anzi l’ossessione è declinata verso
forme più spettacolari e invasive. Il kung fu è ovunque dagli
spettacoli Shaolin ai videogiochi come Mortal Kombat o il famoso
33
Tekken dove personaggi si sfidano per mezzo di ogni tipo di arte
marziale.
Continuando il nostro percorso arriviamo agli anni ‘80, in quel
periodo fece la sua apparizione un altro grande personaggio che
cinematograficamente parlando, rivoluzionò anche il mondo delle
arti marziali cinesi, Jackie Chan .
Il suo primo film arrivato in Italia
fu “Chi tocca il giallo
muore”,
seguito da “La mano che uccide”,
il primo d’ambientazione moderna
e il secondo in costume d’epoca.
Il suo modo di rappresentare l’arte marziale era ed è decisamente
insuperabile, sia per la funambolica fisicità delle sue tecniche, sia
per la sua particolare interpretazione, quasi in chiave comica. Egli
inaugurò quel filone che lo vide protagonista, in più di duecento
film in cui come interprete saltava, colpiva, schivava, ruzzolava e
maneggiava con maestria qualsiasi oggetto rendendolo un’arma
micidiale, il tutto sempre con una forma di umorismo nelle scene
molto diverso dai suoi predecessori, tutti con sguardi truci e tirati
che il copione richiedeva.
I suoi film che all’inizio erano chiaramente di stampo orientale,
sono poi cambiati nel tempo e le ambientazioni che dalla Cina
passavano ora in America, ora in Russia, ora in Europa,
mostravano sempre di più la maestria tecnica di questo grande
34
atleta attore ed una delle sue caratteristiche cinematografiche è
quella di mostrare, alla fine delle riprese, tutti i retroscena
preparatori delle azioni tecniche più spettacolari per far capire a
noi spettatori che aveva bisogno di alcuna controfigura nemmeno
nelle azioni più pericolose, e questo la dice lunga sulla sua
preparazione atletica come artista marziale.
Prima di parlare di un altro grande personaggio di origine
orientale, che fece la sua apparizione da noi in Italia negli anni
‘90, e cioè di Jet Li, è interessante elencare i più importanti
personaggi cinematografici che sull’onda dei film di arti marziali,
hanno creato il loro successo, come atleti praticanti e come attori
di film del genere d’azione. Personaggi non di origine orientale,
ma che hanno comunque contribuito moltissimo alla divulgazione
nel mondo dell’arte marziale in generale.
Citerò i più famosi.
Erano i primi anni ‘80 quando fece la sua apparizione un giovane
atleta belga, sguardo accattivante e fisico scultoreo, il suo nome è
Jean
Claude Van
Damme,
35
atleticamente molto preparato anche per aver praticato la danza,
cosa che lo ha reso particolarmente sciolto di gambe (famose le
sue spaccate). Van Damme ha avuto il merito di far conoscere al
grande pubblico l’arte marziale thailandese, la Muay Thai (fino ad
allora poco rappresentata). Il suo primo film, intitolato “Kick
Boxer l’ultimo guerriero” rappresentò molto bene lo spirito di
sacrificio e la tenacia dei boxers thailandesi, con allenamenti
estenuanti al limite del credibile (come prendere a tibiate una
colonna portante o abbattere un giovane albero a calci, si sa al
cinema tutto è possibile...). Il film e quelli che seguirono, molto
spettacolari e ricchi di combattimenti, contribuirono non solo al
suo successo personale, ma anche all’apertura di nuovi corsi di
quelle che sarebbero diventate da li a poco le cosiddette
discipline da combattimento o da ring; ovviamente ci si riferisce
alla Thai Boxe, alla Kick Boxing, al Full Contact, che, anche se
erano già conosciute da almeno un decennio, sono senz’ altro stati
i film di Van Damme a renderle più attraenti per il pubblico di
appassionati. Ecco allora che dai corsi di Karate e Kung Fu, molti
giovani atleti, affascinati dai calci di Van Damme, iniziarono a
seguire queste nuove discipline, come avvenne per il boom dei
ninja tra gli anni ‘80 e ‘90; i film del giovane Michael Dudikoff,
che interpretava il guerriero americano ninja biondo e atletico,
che conosceva tutti i segreti dell’arte oscura, il Ninjutsu appunto,
guerrieri mascherati esperti nel combattimento corpo a corpo e
36
padroni di ogni genere di arma e mimetismo. I film erano sempre
su quel genere con l'eroe che vinceva continuamente, ma al
pubblico piacevano e quindi anche i corsi di Ninjitsu aumentavano.
Un altro grande personaggio che salì alla ribalta in quegli anni,
esperto anch'egli di arti marziali è Steven Seagal, che contribuì
moltissimo alla diversificazione del combattimento nei film
d'azione essendo egli un esperto di Aikido. Nel suo primo film
intitolato "Nico", egli interpreta le arti marziali in maniera
particolare: se da un lato eravamo abituati a veder rappresentate
le arti marziali prima con interminabili combattimenti, poi con
fisicità tecniche alla Bruce Lee e in seguito con funamboliche
evoluzioni alla Jackie Chan e con spaccate e calci volanti alla Van
Damme, questo nuovo personaggio, rappresentava nello spirito un
perfetto samurai, ma nell'azione un bullo senza paure che con
tecniche
di
lussazione
torsione,
proiezione
classiche
sbaragliava
tutti
gli
e
dell'Aikido,
avversari.
Il
successo dei suoi film fu travolgente,
merito senz' altro del suo aspetto così
carismatico,
ma
indubbiamente
le
sue
tecniche
erano
decisamente risolutive. A differenza di quello che è accaduto per
altre arti marziali, il successo di Steven Seagal,
non ha
contribuito all'incremento dei corsi di Aikido, perché se da un lato
egli rappresenta quest'arte nel suo fine più estremo, l'Aikido
37
praticato in palestra rimane a tutt'oggi un'arte marziale priva di
competizioni e con uno spirito tradizionale che la rende poco
competitiva agli occhi del grande pubblico, ma grande nel suo
intento che è quello di un'armonia tra corpo e spirito, in unione
con l'universo, così come voleva il suo fondatore Sensei Morihei
Ueshiba.
Jet Li è il personaggio
che a tutt'oggi insieme
a
Jackie
rappresenta
marziale cinese
Chan
l'arte
per
eccellenza. Arrivato sui
nostri schermi con una
produzione di successo
americana, la saga "Arma Letale", egli recitò il ruolo del cattivo
che strapazza senza problemi i poveri Mel Gibson e Danny Glover
nel quarto episodio della serie. Il nostro eroe, sul circuito
intenazionale, aveva già interpretato diversi film di ambientazione
orientale, ma in Italia fu con "Arma Letale 4" che suscitò
l’interesse di appassionati di arti marziali. Piccolo di statura,
come quasi tutti gli orientali, egli diventa un gigante nelle
esecuzioni tecniche. Sguardo intenso alla Bruce Lee, fisicità
interpretativa alla Jackie Chan, grinta risolutiva alla Steven
Seagal, insomma uno di quegli interpreti di arti marziali puri, al
38
quale spesso si vorrebbe assomigliare. I suoi ultimi film spesso
ricorrono ad elaborazioni volute dalla computer grafica, per
rendere più spettacolari le azioni tecniche, ma sono comunque
pellicole con un alto contenuto tecnico e che hanno reso questo
personaggio uno dei più attesi interpreti di film sulle arti marziali
tuttora in scena.
Ma fra tutti i personaggi non orientali, non possiamo dimenticare
quello che fu ipoteticamente il capostipite dei futuri artisti
marziali in assoluto, Chuck Norris. Come non ricordare il suo
famoso combattimento con il compianto Bruce Lee, all'interno del
Colosseo di Roma nel film "L'urlo di Chen terrorizza anche
l'Occidente"?
Già campione di Karate in America, fu con quel film che più di
trent'anni fa, cominciò la sua carriera di artista marziale. Da
allora ha interpretato moltissimi film d'azione, impersonando il
super-soldato pronto a tutto della squadra speciale Delta Force;
poi l' eroe solitario pronto a salvare i più deboli, fino al recente
"Walker Texas Ranger", serie in cui interpreta uno "sceriffo tutto
di un pezzo" che combatte i cattivi a colpi di arti marziali sempre
più elaborate nonostante non sia più giovanissimo.
In questo trentennio cinematografico sono molti altri personaggi
sono passati sui nostri schermi, alcuni addirittura veri campioni
che magari hanno fatto solamente qualche apparizione, ma
39
elencarli tutti sarebbe impossibile e fuori argomento in questo
contesto.
Ricordiamo però il giovane figlio del mitico Bruce Lee, aveva tutto
per essere una stella, la fisicità tecnica del padre e lo sguardo
accattivante di stampo occidentale che resero subito Brandon Lee
un personaggio gradevole.
Eccellente interprete di Kung Fu e Jeet Kune Do
(l’arte del padre), recitò in due film sui generis fino
alla sfortunata interpretazione del protagonista del
film che avrebbe dovuto consacrarlo sia come attore
che come artista marziale: parlo del film “Il Corvo”
in cui il nostro eroe in una scena cruciale venne ferito a morte da
un colpo di pistola che chiaramente avrebbe dovuto essere
caricata a salve.
La prematura scomparsa del nostro giovane atleta, così com’era
successo al padre vent’anni prima, fece nascere il dubbio di una
leggendaria maledizione sulla famiglia di Bruce Lee, ma noi tutti
preferiamo credere solo ad una classica fatalità, il loro mito
rimarrà comunque per sempre.
A proposito di spade invece, in questo trentennio cinematografico
l’uso di queste armi è stato ampiamente rappresentato, sia per
quanto riguarda lo stile europeo (con duelli per intenderci alla
D’Artagnan), sia con pellicole di matrice cinese e giapponese dove
l’uso della katana rappresentava un po’ l’essenza del film stesso.
40
Come non ricordare il film "I Sette Samurai" di Akira Kurosawa,
con il grande Toshiro Mifune che fece della katana un’arma
leggendaria e misteriosa agli occhi di noi occidentali. A metà anni
'80 ci fu anche una serie televisiva intitolata "Samurai" che
rappresentò benissimo i duelli giapponesi. Il protagonista Itto
Ogami, era un Samurai (per la precisione un ronin, ovvero un
samurai senza padrone) in continuo peregrinare in compagnia del
figlioletto Daigoro. Ambientato nel Giappone medievale, dove le
lotte tra clan erano all’ordine del giorno e Itto Ogami nel suo
peregrinare, incrocerà spesso le lame contro altri samurai, ma la
sua maestria avrà sempre la meglio. Era una serie molto
interessante che rappresentava bene il Giappone di quell'era.
Cinematograficamente le arti marziali sono ben rappresentate,
ormai non c’ è combattimento che non proponga tecniche marziali
più o meno verosimili e non sempre gli attori scelti sono dei veri
esperti, come nel caso del film “Dragon - La Storia di Bruce Lee”
ispirato alla vita del mitico Bruce Lee, dove come protagonista
scelsero un vero attore che gli somigliasse fisicamente, con la
mimica giusta e buone capacità interpretative. Bastano infatti dei
corsi intensivi con uno o più esperti di arti marziali per realizzare
un film, è stato così anche per "L’ultimo Samurai", dove il famoso
attore interpreta alla perfezione dei combattimenti con la katana
da sembrare un autentico samurai. Inoltre, bisogna ricordare che
ai giorni nostri con le tecnologie computerizzate che hanno
41
permesso ai film d’azione d’essere sempre più spettacolari,
qualsiasi attore può diventare un supereroe od un esperto
marzialista. Prendiamo ad esempio il film The Matrix ,in cui
l'attore protagonista Keanu Reeves proprio con l’aiuto di due
esperti maestri e con la computer grafica, si trasforma in un vero
campione di Kung Fu, offrendo tra l’altro una grossa pubblicità a
questa antica arte marziale. Come inverosimili ma affascinanti,
sono i due ultimi film sul Kung Fu: “La Tigre e il Dragone” e
“Hero”. Girati in costume d’epoca, in una Cina antica più mistica
e magica del solito, gli attori sono eccellenti atleti, tuttavia le
elaborazioni fatte al computer, se da un lato ingigantiscono la
spettacolarità dall’altro confondono il vero Kung Fu e il vero
atletismo che potremmo ammirare.
In quegli stessi anni arrivarono in Italia i
cartoni animati giapponesi che mutarono
radicalmente
l’universo
simbolico
dell’infanzia italiana dando origine ad una
generazione
riferirà
con
Generation”.
42
cui
successivamente
l’epiteto
di
ci
si
“Goldrake
Ripercorrendo,
sia
pure
sinteticamente,
il
dibattito
assai
eterogeneo che si è svolto in Italia negli ultimi due decenni
attorno al fenomeno dei "cartoni animati giapponesi" è necessario
dire subito che dal punto di vista educativo è del tutto
improduttiva una riflessione che si concentri sulla "pericolosità” in
sé dei manga-anime; allo stesso modo in cui risultano del tutto
improduttivi tutti i dibattiti che riguardano, ad esempio, la
pericolosità
o
la
virtuosità
dei
videogiochi,
ovvero
della
televisione, o altro.
È una riflessione improduttiva essenzialmente per due ragioni:
 dal punto di vista dell’analisi, si tratta di un problema mal
posto, poiché prende in considerazione solo uno tra gli
elementi del sistema complessivo, vale a dire il prodotto (o,
in altri casi, lo strumento) e non allarga lo sguardo critico
alla rete di mediazioni che intercorrono anche tra chi di
questo prodotto fruisce e il contesto nel quale tale fruizione
avviene;
 dal punto di vista dei contenuti, si rischia il confronto attorno
a contenuti generici e necessariamente "drogati" (in genere,
previsioni di foschi scenari e di effetti devastanti provocati
dalla fruizione dei cartoni nipponici) che finiscono per
crollare miseramente appena sono sottoposti al minimo
confronto con la realtà.
43
In effetti, è difficile trovare delle prove che la cosiddetta
"Goldrake generation", vale a dire la generazione che vent’anni fa
ha assistito alla comparsa dei cartoons nipponici, con Mazinga e
Goldrake, abbia avuto una riuscita migliore o peggiore delle
precedenti.
Per il loro quotidiano lavoro educativo, i
genitori non hanno bisogno di questo tipo di
dibattito. Al contrario, i genitori hanno
bisogno di uscire dal "paradiso artificiale"
delle risposte assolute e totalizzanti per
potenziarsi, invece, sul terreno del confronto con le specifiche
situazioni concrete, dove si richiedono modalità di pensiero
maggiormente caratterizzate in senso congetturale, più aperte al
confronto con la realtà, all’apporto di altre idee, al dubbio e
all’apertura verso le infinite possibilità future.
I genitori hanno bisogno di arricchire conoscenze e sviluppare
capacità che li aiutino a orientarsi e decidere in un panorama di
risorse educative che, negli ultimi anni del secolo trascorso, si è
venuto a configurarsi secondo tratti nel tutto nuovi rispetto al
passato.
In merito a questo nuovo panorama delle risorse educative, faccio
soltanto due esempi:
44
la risorsa "socialità", fino a 25/30 anni fa, era una risorsa
facilmente accessibile, tale da non richiedere una particolare cura
da parte dei genitori: l’esistenza di famiglie estese e numerose
assieme alla maggiore sicurezza degli ambienti urbani e rurali
offrivano a tutti i bambini ampie possibilità di gioco e di
compagnia; al contrario, oggi la risorsa "socialità" è diventata una
risorsa scarsa, tale da richiede ai genitori investimenti rilevanti di
tempo e spesso anche di denaro per assicurare ai propri figli
opportunità di gioco e di compagnia con altri bambini;
per altro verso, la risorsa "informazione", intesa nei termini della
quantità e della varietà di informazioni disponibili a differenti fini
(didattico, ludico, ecc.), un tempo scarsa e di difficile accesso, è
oggi facilmente disponibile attraverso canali diversi (tv, internet,
libri per età differenziate, cd, dvd e così via). Il problema per i
genitori, in questo caso, è quello di orientarsi nel labirinto delle
diverse opportunità: selezionare, elaborare, filtrare; in altri
termini, lavorare sull’abbondanza, più che sulla scarsità delle
risorse.
Allora, se riflettiamo sul fenomeno dei cartoni animati giapponesi
nell’ottica del nuovo panorama delle risorse educative vediamo
che questi, nel loro insieme, presentano tre elementi che si
collocano sullo sfondo di tale panorama:
45
la pluralità delle proposte e dei generi: il mondo dei manga si
articola non solo per le diverse fasce d’età dei destinatari ma
spazia da prodotti che si rifanno alla fantascienza o al racconto
sportivo o d’avventura, e così via; emerge perciò la necessità di
orientarsi e di cogliere differenze e specificità;
il carattere contraddittorio che caratterizza molti dei personaggi
protagonisti, che presentano tratti ambigui o dissonanti, inducendo
perciò a superare la divisione tranquillizzante tra il buono e il
cattivo e a cogliere la conflittualità insita nella gran parte delle
situazioni reali;
la presenza di contenuti culturali che provengono da culture
"altre", rispetto alle radici culturali europee, e che richiedono
perciò un lavoro maggiormente mediato di "traduzione" e di
comprensione.
In altri termini, la riflessione sulle valenze educative dei manga
finisce per evidenziare uno specifico campo problematico che in
qualche misura riproduce il più ampio scenario di questioni che si
trova oggi di fronte ai genitori. Si tratta di uno scenario che,
proprio per fatto di caratterizzarsi nei termini del complesso
intreccio di relazioni e comunicazioni globali, dell’emersione di
inedite ’zone di confine' tra popoli, culture, appartenenze sociali
e religiose diverse, della scissione tra l’accesso a nuove
opportunità
e
libertà
e
i
46
rischi
dell’isolamento
e
dell’emarginazione, impegna ogni genitore ad assumere un ruolo
di mediatore, "traduttore/traghettatore" verso contesti, identità
culturali e linguaggi diversi.
Allora, se le cose stanno così, al di là del gusto personale per cui
un certo tipo di prodotto può piacere o meno, di fronte
all’esigenza di aprire la nostra cultura agli apporti dell’alterità e
confrontarsi con la complessità del contesto sociale sia molto più
pericoloso, ad esempio, il riemergere di atteggiamenti culturali
xenofobi, se non addirittura razzisti, tali da considerare nemico
ciò che non rientra nei parametri dell’eurocentrismo e da
semplificare i conflitti nella rassicurante contrapposizione della
guerra tra civiltà.
Allo stesso modo, è pericoloso qualsiasi atteggiamento che
conduce a reclamare misure censorie. E’ più preoccupante parlare
di censura: spettacoli inquietanti di film condannati al rogo per
offesa alla morale e di docenti denunciati per aver fatto svolgere
a scuola ricerche sull’educazione sessuale. Credo che la censura
non solo sia un rimedio peggiore del presunto male che vorrebbe
contrastare,
potenzialmente
ma
soprattutto
mortale
per
una
costituisca
cultura
un
e
pericolo
un’educazione
democratica: come certe droghe o certi farmaci, la censura crea
assuefazione, reclama ulteriore censura e finisce per distruggere
le potenzialità democratiche di un organismo sociale.
47
Oltretutto, un atteggiamento educativo orientato a richiedere
interventi censori è correlato ad una visione distorta del potere e,
in particolare, del rapporto tra la percezione del proprio potere di
"fare il genitore" e gli altri poteri educativi; una visione e un
atteggiamento di contrapposizione che punta a utilizzare il
proprio potere per limitare o addirittura annullare il potere e
l’influenza altrui.
Laddove si impongono giochi a maggiore valenza cooperativa è
necessario sviluppare concezioni che mettano in gioco il proprio
potere come
moltiplicatore del potere degli altri soggetti
educativi coinvolti (scuola, educatori, specialisti, ecc.), affinché il
potere accresciuto di questi possa a sua volta accrescere le
possibilità dei genitori stessi.
Non si tratta di una visione ottimistica né moderata; al contrario,
è proprio la caduta dei fantasmi e dei bersagli illusori ad avviare
la possibilità di uno sguardo che si diriga alla radicalità delle
questioni in gioco e delle soluzioni possibili.
In conclusione, non è un fatto preoccupante che esistano i
cosiddetti cartoni giapponesi; sarebbe più controproducente si
presentassero stati di questo genere:

mono-mediale, nel quale di fatto i più giovani finiscono per fruire
prevalentemente di un solo strumento di comunicazione (in genere,
la televisione);
48

mono-tematico, tale cioè da enfatizzare solo una tipologia particolare
di contenuti e di generi;

mono-stilistico, nel senso di privilegiare un solo codice espressivo;

mono-valoriale, riguardo alla proposta dei modelli di bene e di male,
di giusto e di ingiusto;

monopolistico per quanto concerne l’emittenza dell’informazione e
delle proposte culturali ed educative.
Un dibattito e un confronto attorno al fenomeno dei manga e in
particolare alla loro valenza educativa deve essere produttivo:
vale a dire, attorno a rischi e opportunità concrete. Lasciando alle
spalle fanatismi e paure. Dalle paure e dalle drammatizzazioni
esaltate non è mai nato nulla di buono; da sani atteggiamenti e di
presa in carico dei problemi possono emergere idee e progetti
comuni.
Di seguito sono riportati alcuni dei più famosi cartoni animati che
hanno in qualche modo influenzato il mondo dei bambini e non
solo. La tematica si ripete. Il supereroe che mediante poteri
marziali acquisiti da qualche anziano maestro lotta contro il male
per la salvezza dell’umanità.
Judo boy (1969): ragazzo esperto di judo che apprende le tecniche
dal padre che viene ucciso da un misterioso assassino. Così
Sanshiro partirà alla ricerca del colpevole.
49
L’uomo tigre (1982): sconsigliato ai più piccoli per la violenza
delle immagini anche se esiste un forte richiamo ai valori
universali come la solidarietà agli emarginati, l’amicizia e la lealtà
sportiva.
Ken Il guerriero (1983): nasce come fumetto manga giapponese ma
visto l’enorme successo non tarda la sua realizzazione come
cartone, dove il personaggio raggiunge una popolarità mondiale.
Molti che praticano le varie arti marziali ammettono di essere
stati influenzati non poco da questo personaggio che gli ha
trasmesso la passione verso queste discipline.
Dragon ball (1984): cartone animato più famoso
degli ultimi anni che racconta le avventure del
bambino Goku alle prese con rivali di ogni tipo
che sconfigge con i suoi magici colpi marziali.
Tartarughe ninja (1984): serie fumettistica e cinematografica che
ispirata a Daredevil e ai ronin ben presto riscosse una grande
notorietà. Narra di 4 tartarughe e 1 topo che per un potente
agente mutageno assumono sembianze antropomorfe. Il topo che
aveva assistito agli allenamenti di ninjutsu del padrone trasmise
ciò che aveva appreso alle tartarughe e il loro compito fu quello di
mettere giustizia tra i malviventi.
50
Ninja Naruto (2002): ragazzino di 12 anni, cresciuto senza
genitori, tipo allegro combina guai ma con l’obiettivo di diventare
il ninja più forte che ci sia.
51
Capitolo
Il comune denominatore delle arti marziali è sicuramente l’alto
contenuto morale e spirituale. Non vengono caratterizzate solo
dall’aspetto pratico ma dalla filosofia e dal modo di vedere la
vita. Con la pratica di queste discipline si possono modificare i
comportamenti, inibire le paure, affrontare le difficoltà che la
52
quotidianità presenta. La pratica è ispirata e motivata dall’etica
marziale che regola la condotta di colui che pratica inserendolo
nel mondo come un’entità stabile e matura. Quando si parla di
filosofia che circonda le arti marziali parliamo di pensiero ZEN,
del concetto del “qui e ora”. Il profondo legame tra Zen e le arti
marziali risale al periodo feudale giapponese. Influenze filosofiche
e religiose hanno sempre permeato le arti marziali orientali e
occidentali. Il continuo confronto con la morte è sempre stato per
il guerriero esortazione ad una profonda meditazione.
Le arti marziali si sono evolute dapprima come strumento di lotta,
di combattimento, quindi l’antico dilemma, vincere o perdere,
sconfiggere o venire sconfitto, uccidere o venire ucciso. Una
dimensione derivante da un ambiente ostile dov’era necessario
assicurarsi la sopravvivenza. Diventa poi forma di educazione
sociale, dove gesti ed armi erano usati simbolicamente per
esprimere un’idea, evocare una tradizione.
Il karate come le altre arti tradizionali alle quali vediamo associati
i suffissi DO e JITSU vedono nel perfezionamento della gestualità
tecnica e nella ripetizione del gesto un mezzo per scavare
profondamente nella propria anima al fine di trovarne la più pura
essenza. Lo si vede anche nella ritualizzazione di alcuni
movimenti
durante
il
saluto
iniziale
e
finale,
la
cura
dell’abbigliamento, il rispetto, tutti principi che vengono richiesti
all’adepto. Disciplina, volontà e sacrificio. Tre principi essenziali.
53
Si può quindi comprendere perchè le arti marziali vengano
considerate “vie” : la via della flessibilità (judo), la via della
mano vuota (karate-do), la via dell’unione degli spiriti (aikido).
L’apprendimento della tecnica non è mai considerata come fine a
se stessa ma come un percorso verso l’unione di mente e corpo.
Un altro elemento comune è la constatazione che qualunque
studio sulla storia delle arti marziali è basato su pochi fatti. I
Maestri di un tempo non rivelavano il loro sapere, solo a pochi
veniva
concesso
di
dividere
con
loro
tecniche e conoscenze. Vigeva “ l’assoluta
segretezza” e la stessa esistenza della
scuola era spesso tenuta nascosta alle
autorità. Le tecniche di combattimento non
venivano quasi mai trascritte
ma solo
trasmesse a voce a coloro che giuravano di
mantenerne il segreto. Per questo motivo è estremamente
difficile qualunque ricerca in questo campo. La leggenda di cui più
si parla è quella legata alla figura di Bodhidharma, un monaco
indiano giunto al tempio shaolin in Cina. Insegnò ai monaci del
tempio tecniche di respirazione per sviluppare la forza e le
capacità di autodifesa nelle zone montuose in cui vivevano. Da
questi esercizi che chiamarono la lotta del tempio shaolin si pensa
sicuramente possano discendere le tecniche di combattimento
54
cinesi e giapponesi. Il kung-fu per esempio si ritiene derivi da
questa lotta.
E’ sufficiente considerare l’attuale popolarità di alcune discipline
come il kendo, il karate, l’aikido, il kyudo, il jujitsu e via dicendo
per capire quanto siano stati incidenti l’esperienza e il contributo
giapponese nella pratica del combattimento che sono tra i più
antichi e durevoli mai documentati. Proprio perché le antiche arti
marziali si svilupparono direttamente sui luoghi di battaglia e in
modo particolare in Giappone. Al giorno d’oggi è il paese dell’Asia
con più varietà di arti marziali.
Anche da noi in Occidente sono sempre di più le discipline
praticate nonostante ben poco si sapesse prima del 20° sec. e
nonostante la loro diffusione sia stata molto più lenta rispetto
all’Oriente.
Sono stati descritti finora gli aspetti più comuni delle arti
marziali, le loro radici, le loro tradizioni. Vediamone qualcuna in
dettaglio.
Possiamo perciò affermare che l’origine delle arti marziali è
innegabilmente dovuta ad esigenze pratiche di preparazione, di
uomini singoli o eserciti, al combattimento, sia esso armato o
disarmato, con l’obiettivo della vittoria sul nemico senza porsi
problemi di natura etica o morale. Senza negare quindi il valore
umano di alcune personalità che sono esistite negli ambienti
militari del passato, in origine la preparazione marziale aveva lo
55
scopo,
meramente
pratico,
di
aumentare
l’efficienza
nel
combattere. Questo concetto di arte marziale viene chiamato
secondo la terminologia giapponese “bujutsu”.
Come si è potuto notare quando si parla di arti marziali il suffisso
DO è ricorrente. Il concetto trova origine nel buddismo zen
giapponese. Molteplici sono le traduzioni, “via”, la più comune,
poi filosofia, sentiero, principio, dottrina, etc….
“DO” è la via al centro della quale l’uomo ricerca se stesso,
sviluppa le capacità per affermarsi, conoscere e prendere
coscienza.
Il “DO” non è un
principio strettamente giapponese ma un
proposito generale dell’uomo. In tutto l’Universo l’uomo cerca di
capire il nesso tra le cose della vita, causa ed effetto,
impegnandosi nella ricerca del significato. Senza sforzarsi nella
ricerca interiore l’uomo sarà sempre un essere vuoto, senza anima
né spirito, simbolo di egoismo e malvagità.
La “via” si illumina per quelle persone che cercano la sfida in se
stesse come coloro che hanno insegnato la piena realizzazione
dello spirito umano attraverso l’amore (Gesù, Buddha, etc..).
56
Eppure la via indicata non viene accettata dalla massa come
possibilità da esperire ma solamente come forma da imitare.
Quando si ricerca la perfezione ci si può scontrare con due diversi
fattori: il primo riguarda il mondo esteriore, il secondo la ricerca
interiore. Da qui semplicemente scaturisce la differenza tra budo
e attività sportiva delle arti marziali. Esse si dividono quando c’è
di mezzo lo scopo dell’esercizio . La prima facilita le decisioni
importanti, l’altra si concentra sull’aspetto esteriore del gesto e
degli esercizi. E’ il proposito che cambia. Mettendo in pratica il
giusto comportamento ci si rende conto della consapevolezza
dell’incompletezza delle forme e da qui scaturiscono nuove lotte
interiori. Se questa sfida chiaramente assume un aspetto esteriore
allora la maturità è inesistente.
In Asia il budo è una “via”. Racchiude tutte le vie che derivano
dalle arti marziali giapponesi. È composto da
vari sistemi (
karate-do, judo, aikido,….)nella cui rappresentazione grafica è
sempre presente il suffisso “DO”:
Questo significa che la tecnica di combattimento non è lo scopo
per chi la pratica ma un mezzo per raggiungere un più alto ideale.
57
Abbiamo accennato prima al bujutsu, quando si parla di budo
s’intende un concetto fondamentalmente diverso.
Nel periodo in cui nascevano le prime scuole di bujutsu alcuni
maestri ebbero l’intuizione che lo studio di queste discipline
marziali
poteva
costituire un addestramento notevole per
affrontare le difficoltà della vita quotidiana e che poteva
rappresentare un ottimo mezzo educativo per migliorare sia
spiritualmente che fisicamente la persona umana nel suo insieme.
Da questa intuizione nacque il budo.
“BU” indica il principio del fermare, interrompere un’offensiva.
“DO”, come abbiamo già spiegato nel paragrafo precedente, sta
per via, cammino interiore. Cioè una via che percorsa deve
portare al miglioramento del proprio Io, all’accrescimento delle
proprie facoltà, per raggiungere l’armonia con se stessi, con gli
altri e con l’intero Universo.
Questa via nel budo viene percorsa utilizzando il bujutsu come
mezzo per studiare, apprendere, assimilare, trasmettere un
metodo educativo fondato certamente sula pratica delle arti
marziali ma volto a creare condizioni di armonia sia in noi stessi
che al di fuori nei confronti del nostro prossimo e della natura che
ci circonda.
La pratica del budo fa emergere due inclinazioni innate
dell’uomo: da una parte l’impeto ad una crescita individuale che
nasce dalla presa di coscienza, dall’altra l’esortazione insita
58
nell’essenza dell’uomo all’adeguamento e alla sottomissione della
forza della natura. Il seguire la via crea il presupposto interiore
per una disposizione che permette di vivere in armonia con
entrambi gli aspetti.
L’esistenza di questi opposti era già ben nota agli antichi maestri
il cui obiettivo era quello di liberarsi dalla fondamentale paura
della morte attraverso la pratica delle arti marziali. Per questo
trovarono nella filosofia dello zen il tramite per raggiungere lo
scopo. Rivolsero la battaglia contro il proprio io invece che contro
il nemico perché si accorsero ch uccidendo non
si risolveva il
problema esistenziale. Questo è il valore del budo anche oggi.
La pratica del budo può portare l’uomo
all’armonia con se stesso e il mondo. Egli può
imparare,
nell’esercizio
attenzione
alle
adeguate
e
prestando
regolarità
a
riconoscere se stesso e realizzarsi come uomo (dan). Se il
praticante non accetta queste condizioni e cerca solo la
perfezione della forma allora non è ancora pronto per riconoscere
la “Via”.
Inserisco un aneddoto per rendere bene l’idea di questo concetto.
Racconta di un professore universitario che una volta si recò
da un maestro zen giapponese per chiedergli chiarimenti
appunto su questa filosofia misteriosa. Fin dall’inizio il
maestro capì che quel professore non aveva alcun interesse
59
all’apprendimento dello zen: ciò che più gli premeva era dare
sfoggio della sua stessa conoscenza e delle sue profonde
opinioni. Il maestro lo ascoltò e nel frattempo propose di
prendere un tè. Versò il tè al suo ospite e una volta riempita
la tazza continuò a versare. Il professore lo osservava
sbalordito mentre la tazza iniziava a traboccare e il tè si
versava dappertutto. Così alla fine non poté trattenersi e si
rivolse al maestro : “LA TAZZA E’ PIENA, NON CI STA PIU’
NULLA!”.
Il maestro replicò dicendogli che proprio come quella tazza
era già talmente colmo delle sue opinioni e dei suoi concetti
che mai avrebbe potuto assimilare lo zen, appunto se non
svuotava la tazza.
In Asia sono tante le scuole del budo ma tutte hanno lo stesso
scopo: insegnano agli uomini a capire i propri nessi interiori ed a
perfezionarsi attraverso la pratica.
Ogni scuola ha sviluppato la propria tecnica (waza) ed esorta gli
uomini a sviluppare il proprio spirito (shin) e la propria forza vitale
(ki).
Alla fine lo scopo è lo stesso: l’intero essere umano.
60
“…l’Arte Marziale è lo spirito di chi
con una semplice lancia può far fronte,
in nome della dignità, all’arma più potente,
più sofisticata.
Questo è lo spirito dell’Arte Marziale
e, in definitiva, dell’uomo…”
T. Deshimaru
La parola giapponese zen deriva dal cinese ch’an e dal sanscrito
dyana che significa non solo “meditazione” ma anche “tutto,
insieme”. La traduzione occidentale non esprime profondamente
il significato del termine che si limita a tradurre con meditazione.
Non è facile definire il ruolo dello zen nelle arti marziali perché
non ha una sua teoria : è una conoscenza interiore per la quale
non esiste un dogma definito con precisione.
Alla base dello zen vi è la consapevolezza della precarietà di tutte
le cose, il continuo mutare della realtà a cui l’uomo deve
adattarsi. Solo il vivere pienamente ogni istante della vita, nel
61
“qui e ora” porta alla vera libertà interiore. Qualsiasi gesto del
quotidiano che per noi sembra insignificante per il pensiero zen
assume un’importanza estrema perché è vera manifestazione
della vita.
Lo zen ci insegna che attraverso la piena consapevolezza nel
vivere il momento presente si può raggiungere l’illuminazione, il
satori.
Il Buddhismo zen insegna a svuotare la mente, a liberarla da ogni
idea radicata, da ogni influenza esterna.
In questo modo si acquisisce un’elevata capacità ricettiva che
permette di reagire così al minimo stimolo. Quando la mente è
vuota si possono percepire le intenzioni di un avversario e
decidere come agire. Si può acquisire il “sesto senso” in grado di
avvertire il pericolo ed evitarlo.
Se la mente però è turbata da pensieri o preoccupazioni non è
possibile percepire totalmente le intenzioni dell’avversario.
In passato il continuo confronto con la morte è sempre stato per il
guerriero stimolo ad una profonda meditazione che lo ha portato
ad elaborare proprie convinzioni religiose e filosofiche.
Dai concetti esposti e dall’applicabilità dei principi zen alle
esigenze del guerriero appare evidente come proprio la filosofia
zen sarebbe diventata l’ideale fondamento delle arti marziali nel
paese del Sol Levante.
62
Inoltre
quasi
conclusione
fosse
una
dell’etica
naturale
filosofico-
religiosa interiorizzata nel corso degli
anni dedicati alla pratica spesso molto
samurai si ritiravano nei monasteri zen.
Il prestare attenzione alla propria gestualità e alle regole di
comportamento nella pratica ha come obiettivo ultimo il liberare
la mente dalle influenze del mondo esterno e ad addestrarlo ad
essere presente con tutto se stesso ad ogni gesto ed in ogni
momento. E’ famoso il detto “..ken zen ichin yo..”. il pugno e lo
zen sono una cosa sola. Non c’è un secondo per pensare. Quando
si agisce l’intenzione e l’azione devono essere simultanee. Il vuoto
della mente e il duro allenamento del corpo permettono di
raggiungere l’unione di mente e corpo. Tra percezione e reazione
non c’è più nessun blocco; il tempo di reazione è il più breve
possibile e la tecnica diventa perfetta in quanto eseguita in
maniera in conscia, paradossalmente eseguita prima di essere
pensata. Infine l’influenza dello zen sposta il proposito delle arti
marziali dall’eliminazione dell’avversario, all’autodifesa, alla
protezione dei deboli e allo sviluppo spirituale.
63
Un vecchio proverbio giapponese dice:
“..fugu kuwanu hito iwaji..”.
“E’ impossibile descrivere il gusto del pesce a chi non lo ha mai
mangiato”: in ugual modo la vera natura del karate-do non può
essere mai e in nessun caso spiegato a parole.
E’ difficile stabilire esattamente quando il karate fece la sua
prima
apparizione
in
passato. E’ sempre
rimasto a lungo un’arte
segreta limitata ad
una cerchia ristretta della
popolazione
di
Okinawa.
Nella storia del regno ci
sono due periodi in
cui ci fu il veto assoluto
dell’utilizzo
armi
governo.
ordinato
dal
Il primo risale al periodo
dei
unificati, occupati ognuno
a
supremazia
territorio,
Nanzan,
dell’intero
Hokuzan.
Tre
delle
Regni
contendersi
la
Chuzan,
Prevalse il regno di
Chuzan guidato dal sovrano Sho Hashi ( 1372-1439) il quale volle
subito instaurare un governo non militare. Fu così che emanò un
editto con il quale proibì l’uso e il possesso delle armi. Fu così che
nei due secoli successivi l’intero regno godette di una pace
indisturbata. Nel 1609 fu attaccato dall’esercito degli Shimazu.
Principi del feudo di Satsuma che reclamava quelle terre come
parte del suo dominio. All’inizio trovarono una buona difesa e una
64
ferrea resistenza ma l’effetto sorpresa giocò
a favore degli
Shimazu che riuscirono a conquistare Okinawa, l’isola principale
delle Ryukyu. Anche sotto il loro dominio le armi furono bandite
addirittura estese l’editto fino alle classi nobili. Alcuni storici e
studiosi associano la nascita del karate a questo secondo bando
visto che gli abitanti in qualche modo dovevano inventarsi
qualcosa per sopravvivere. Si pensa anche che alcune tecniche già
esistevano e che con questo secondo
proibizione
abbia
perfezionamento
di
stimolato
il
tecniche
già
esistenti.
Le isole Ryukyu erano state anche a
lungo tributarie della Cina per cui
subirono sicuramente l’influenza di alcune loro forme
di
combattimento: il kempo.
Fu così che nacquero i due precursori del karate-do, il to-de e
l’okinawa-te. La prima indubbiamente corrisponde a tecniche di
combattimento appartenenti alla tradizione cinese del kempo e
l’okinawa-te a tecniche di lotta indigene.
Le arti marziali in Cina risalgono a circa 6000 anni fa. Essa
attraversò secoli turbolenti, caratterizzati da guerre e ostilità tra
le varie tribù nomadi. Tutto questo portò all’elaborazione di nuovi
stratagemmi e metodi di combattimento per la costante necessità
di sopraffare il nemico.
65
Ci furono tre uomini che ordinarono questi vari sistemi di
combattimento creando quelle che potrebbero essere le tre scuole
primitive delle arti marziali.
I loro sistemi furono tramandati e perfezionati dal seguire delle
nuove generazioni che le trasformarono nelle tecniche altamente
raffinate che conosciamo oggi. Con la nascita di discipline come lo
Shaolin. Lo Swang wu, il Tai chi, etc….
Notevole in tutto questo fu l’intervento della figura di Bodhidarma
che venuto dall’India si accorse della debolezza sia fisica che
spirituale di coloro che lo ascoltavano. Così introdusse
i suoi
insegnamenti: l’ekikin e il senzui.
Senzui significa “..togliere la polvere dalla mente per scoprire la
vera luce..”. Ekikin significa “disciplinare e irrobustire “ il corpo
perché eki è cambio e kin muscolo.. questa strategia rappresenta
la forza originaria dell’addestramento nelle arti marziali.
Dopo l’invasione dei Satsuma tutti gli abitanti
delle isole occultarono tutte le forme d i
combattimento per fare in modo che non
entrassero a conoscenza. Era un ‘abitudine non
solo volta al karate ma a tutte le arti marziali,
addirittura per custodire gelosamente queste
forme era anche vietato scrivere dei trattati.
66
E’ proprio questo motivo, l’assenza di testimonianze scritte, che
ci impedisce di sapere con precisione da chi fu creato il karate e
come fu trasmesso. Tutto è stato tramandato solo oralmente.
Chi insegnava karate lo faceva solo per interesse personale e chi
lo studiava lo faceva perché gli piaceva. Con questo metodi di
trasmissione niente di più facile che un kata insegnato in
segretezza venisse poi alterato dall’allievo che l’aveva imparato e
così l’avrebbe poi trasmesso e così via via.
Perché il suffisso “DO”?
“DO” si compone dell’ideogramma del piede che simbolizza
l’andare, il camminare. L’ideogramma completo si compone di un
cammino, una via tracciata e quindi per estensione il principio a
cui occorre attenersi, la regola, la dottrina, e per astrazione la
“via”.
Per il Maestro Funakoshi il karate-do è la corretta interpretazione
del karate e il suo giusto impiego. È il cammino per raggiungere
l’illuminazione attraverso la pratica della mano nuda. E’ un
percorso per il perfezionamento
e l’ automiglioramento della
tecnica perché in tal modo si migliora anche se stessi. Il karate-do
mira internamente a migliorare la mente.
La mente e la tecnica devono divenire una cosa sola nel karatedo, il do, è molto più della tecnica. Il karate praticato solo come
sport ha come obiettivo la vittoria nella gara mentre il karate-do
quello di vittoria nella vita.
67
La meditazione è il completamento della nostra pratica, è un
viaggio interiore verso la consapevolezza di noi stessi che consiste
nell’essere estremamente attento al proprio corpo, ad ogni gesto
e movimento.
La meditazione insieme all’allenamento marziale è la giusta
strada da percorrere per praticare il vero karate-do.
68
Capitolo
Ogni arte marziale ha un Dojokun.
Quello del karate proviene da
Okinawa e si avvicina molto ai
principi
del
Comprende
budo
5
giapponese.
regole
la
cui
comprensione interiorizzata sulla base dell’esercitazione vale
quanto l’affinamento della tecnica.
Fanno parte del saho, dell’etichetta, non sono principi che ci
illuminano la via semplicemente leggendoli oppure enunciandoli
ogni qualvolta si inizia una lezione. Non sono paroline magiche da
recitare.
Il Dojokun non vuole insegnare ma guidare l’uomo nel percorso
della sua conoscenza, nello sviluppo globale e spirituale :
69
 il rapporto con se stessi
 il rapporto con il mondo
 le vie della giusta aspirazione
 l’etichetta del comportamento
 la non violenza
Qui di seguito li vedremo in modo più approfondito per capirne
bene il significato in tutta la sua essenza:
RICERCA LA PERFEZIONE DEL TUO CARATTERE
Questo principio si riferisce al rapporto che l’uomo ha con se
stesso. Tutto ciò non implica solo il corporeo ma
al contrario
porta l’uomo ad autocriticarsi in ogni azione che ostacolano il
perfezionamento di se stesso.
Attraverso ciò colui che pratica impara ad affrontare le propria
asperità con lo stesso vigore con cui si dedica all’allenamento
fisico con il quale impara a superare le difficoltà esterne. Può
applicarla in qualsiasi situazione.
Può rendersi conto se è in equilibrio con se stesso oppure se è in
stato confusionale. Rientrano anche in questa regola la tendenza
alla presunzione, all’egoismo, alla sopravvalutazione di se stessi,
70
all’ingiustizia, all’autocommiserazione, ai sentimenti incontrollati
e simili.
L’allenamento
fisico
con
l’avanzare
degli
anni
conosce
necessariamente delle limitazioni, lo spirito invece può continuare
a d essere perfezionato fino alla morte.
DIFENDI LE VIE DELLE VERITA’
Questa regola si riferisce al rapporto che l’uomo ha con il mondo.
Si basa sul fatto che nel cammino verso un obiettivo è necessaria
una relazione armonica tra se stessi e le circostanze in quanto
non si arriverà a nulla con l’egoismo. Ci deve essere un giusto
equilibrio armonico tra interiorità ed esteriorità. Quando si
instaurano delle relazioni l’atteggiamento deve essere equilibrato.
Se si pretende più di quanto si dà, se si promette tanto
mantenendo poco, a quel punto si suscita l’indignazione di colore
che si trovano a dover compensare questo equilibrio. Certo è che
un tale comportamento non consente un vero scambio di valori
con gli altri e quindi nemmeno un rapporto sincero.
CURA IL TUO SPIRITO DI AMBIZIONE
71
Questo principio si riferisce alla realizzazione dell’uomo in
relazione ai suoi obiettivi personali. Qualsiasi scopo esso si pone di
raggiungere necessita di un comportamento maturo per evitare
errori. L’ambizione non sempre è un fatto positivo, lo diventa se
associata ad una condotta interna matura.
La filosofia del budo e non solo insegna che l’ambizione senza
responsabilità smentisce sempre la vita.
ONORA I PRINCIPI DELL’ETICHETTA
Questo precetto ci insegna che vanno rispettate determinate
regole comportamentali se si vuole capire gli altri ed essere
compresi. Certo è che un individuo che si comporta in modo
corretto ispira fiducia negli altri.
Dà luogo ad una comunicazione con gli altri comprensibile e
contribuisce a mantenere l’armonia nelle relazioni interpersonali.
Le persone senza educazione comportamentale perdono di fiducia
ed affidabilità. Le buone maniere provvedono alla convivenza
pacifica tra gli individui e nelle arti marziali trovano la loro
espressione nei principi:
72
…senza cortesia viene meno il valore del karate…
…il karate inizia nel rispetto e finisce nel rispetto…
Lo stesso Maestro Funakoshi definì la cortesia come la base di ogni
educazione e il saluto (rei) come il suo simbolo più importante. Il
rei che accompagna ogni gesto nell’esecuzione della forma pone
l’uomo a superare ogni egocentrismo intero e gli consente infine
di porsi agli altri uomini senza maschere.
I praticanti , che oltraggiano il rei in qualche modo, si dimostrano
persone immodeste, egoiste e non capaci di adattamento. Il modo
con cui il praticante pone il saluto è uno specchio di se stesso.
La pratica delle arti marziali richiede che una persona controlli il
proprio atteggiamento nei confronti degli altri e osservi le vie del
comportamento corretto.
RINUNCIA ALLA VIOLENZA
Questa regola ammonisce alla rinuncia alla violenza fisica ed al
tempo stesso definisce tutte le forme di ricorso alla violenza quali
indegne dell’uomo.
73
A livello avanzato nelle arti marziali se i praticanti ormai in grado
di arrecare danno impiegano le loro conoscenze come mezzo di
potere diventano un pericolo per la società e per gli individui.
Su questo si basa la distinzione tra budo e bujutsu. Lo scopo del
bujutsu mirava ad istruire a tutte le forme di uccisione mentre il
budo all’autocontrollo, alla gestione dei propri istinti:
…il karate non attacca mai per primo…
Questa massima del Maestro Funakoshi spiega che l’uomo ha la
capacità di trovare le vie della non-violenza se affronta le
situazioni avendo vinto il proprio io.
Una persona istruita dovrebbe essere in grado di valutare le
circostanze e di cercare delle soluzioni. Se il risultato è la
violenza non si differenzia poi troppo dall’animale.
Nella storia delle arti marziali come nel resto dell’umanità vi sono
molte testimonianze di grandi sofferenze causate dal ricorso alla
violenza.
L’esercizio del Dojokun è il mezzo più efficace per sfidare i limiti
che sono dentro di sé e metterli in discussione.
74
Come in tutte le discipline così come nel karate è noto che la
coltura delle abilità del corpo necessità di una pedagogia specifica
per quanto riguarda l’insegnamento e di una differenziazione
operativa idonea per quanto riguarda l’allenamento vero e
proprio. Come sappiamo è anche vero che scindere è difficile per
cui si rende indispensabile una scelta oculata di tempi allo
sviluppo armonico, efficace e non traumatico del praticante.
A tal riguardo anche nel karate vige la necessità di stabilire ruoli e
competenze precise per il buon rendimento della scuola.
Per la preparazione di un buon karateka concorrono diversi
fattori. Da una buona conoscenza fisica del proprio corpo ad una
fase preparatoria psicofisica per ottenere in modo organizzativo
una completa e specifica coltura della disciplina prescelta.
Diversi sono gli elementi da considerare in qualunque disciplina
sportiva.
Un fattore basilarmente discriminante è l’età per quanto concerne
il metodo di insegnamento e di
intervento sul soggetto
praticante.
Un problema che si presenta il più delle volte è infatti di cercare
di creare gruppi omogenei, proprio perché i meccanismi naturali
dello sviluppo
organico,
bio-fisiologico e
neuro-psichico
si
presentano differenziati rispetto all’età cronologica nei vari
75
soggetti. E’ evidente anche che la struttura psico-fisica del
bambino, che è in fase di formazione, richiede più attenzioni.
Quindi essendo la pratica del karate un’attività che interessa tutta
l’area corporea ed in toto l’integralità mente-corpo, se ben
impostata, può rivelarsi per il bambino estremamente benefica.
La corretta attività motoria conduce ad un sano ed intonato
sviluppo della gestualità corporea, favorendo nel contempo
l’equilibrio della personalità intera in relazione con il mondo.
Altrimenti la pratica del karate può presentarsi del tutto
controproducente se condotta in modo inadeguato fino a causare
danni spesso irreparabili nel tempo. Ciò comporta grandi
responsabilità da parte degli insegnanti.
Una pratica sana di tale disciplina può mostrarsi come ottima
terapia per la rieducazione del corpo e del carattere.
Un’altra componente è il lavoro di gruppo. La sociologia moderna
tende a promuovere lavori di gruppi misti senza alcuna
discriminazione favorendo la compartecipazione di maschi e
femmine alle varie attività consapevole tuttavia che gli individui
appartenenti
ai
due
diversi
sessi
appaiono
per
natura
diversamente strutturati sotto il profilo fisico. Non s’intende fare
una selezione ma ovvio che questa diversità comporta un
approccio differente e un rapporto diverso con l’attività stessa.
Per quanto riguarda il karate nello specifico ci si pone la domanda
76
di come potere amalgamare femminilità e arte da combattimento
e quindi come plasmare una personalità femminile attraverso una
tale disciplina. E’ opinione di molti studiosi che il karate sia
emozionalmente più difficile per le donne rispetto agli uomini, in
quanto esse avrebbero una percezione riguardante la loro
vulnerabilità e il controllo di sé diverse; a ciò va aggiunta la
motivazione culturale appunto per cui la donna che combatte può
essere ancora in realtà poco concepibile. Oltre a questo si pone il
problema della struttura muscolare
La pratica del karate conduce alla costruzione di una struttura
muscolare idonea per poter raggiungere l’efficacia della tecnica
legate alla forza e alla potenza.
Risulta normale che la struttura femminile trovi maggiore
difficoltà del soggetto maschile nello sviluppo della forza. Quindi
l’obiettivo non sarà quello di trasformare la donna in un guerriero
a discapito della sua eleganza e grazia ma sfruttare queste
componenti affinché la pratica del karate sia intesa anche come
arte.
Quando c’è armonia nel rapporto del praticante con l’ambiente e
con il gruppo la pratica risulta essere più sana e proficua.
Ne karate sorge il problema di differenziazione dei corsi e dei
gruppi oltre che la distinzione tra principianti ed esperti.
Concorrono tanti fattori da considerare:
77
1. Età
2. Anzianità di esperienza (kyu e dan)
3. Obiettivi (agonismo o pratica amatoriale)
4. Orari di attività
C’è da dire che il lavoro in gruppi diversificati è più stimolante sia
per i più esperti che per i meno esperti. Questi ultimi saranno
incoraggiati a recepire nuove informazioni che gli “anziani”
saranno in grado a loro volta di insegnare. Questo si manifesta
soprattutto in occasioni di stage particolari dove spesso buona
parte dell’allenamento viene svolto tutti insieme. Da questo
ognuno, a seconda del proprio livello, porterà a casa nuovi
elementi per il suo bagaglio di conoscenza.
Un altro aspetto pedagogico da tener conto quando insegniamo è
l’aspetto dell’esperienza pregressa, cioè individuare i pre-requisiti
dei singoli per andare a costruire un piano di lavoro che consenta
di
raggiungere
l’obiettivo
senza
danneggiare.
Chiaramente
maggiore attenzione va rivolta a coloro che si avvicinano per la
prima volta ad una determinata attività sportiva, che sia bambino,
ragazzo , adulto, maschio o femmina.
Nel caso della pratica del karate bisogna anche valutare l’aspetto
psico-sociologico dell’attività perché nonostante sia da tempo
diffusa come disciplina mantiene sempre quel pizzico di insolito e
strano capace di generare imbarazzo e diffidenza.
78
Anche analizzare gli obiettivi e le finalità per cui le persone si
avvicinano ad una determinata attività è di fondamentale
importanza.
Può essere semplicemente per puro passatempo, per mantenersi
in forma oppure per ottenere dei risultati nell’ambito della
competizione, motivazione che coinvolge prettamente la fascia
giovanile. Tuttavia nel caso del karate ci sono individui che
iniziano non tanto per la pratica agonistica o per raggiungere
chissà quali scopi ma anche per acquisire più sicurezza, per
vincere delle paure.
Rivolgendoci ai bambini tutto questo si traduce in un momento
ludico oltre che una preziosa educazione e formazione della
personalità che va al di là dello sviluppo puramente fisico e
motorio del soggetto. Spesso è vero che la scelta è fatta dai
genitori per impiegare in modo sano il tempo libero dei figli
interpretando però arbitrariamente i gusti e le inclinazioni dei
figli.
Al fine di una piena realizzazione degli obiettivi componenti
importanti lo diventano lo “spazio” e il “tempo”, avere strutture
dove poter eseguire un sano lavoro di preparazione che non limiti
il progetto di allenamento.
79
Per quanto riguarda il tempo siamo consapevoli tutti della
frenesia della vita sociale in cui viviamo, così chi vuole ottenere
dei risultati deve dedicarvisi a tempo pieno passando al
professionismo. E qui sappiamo che si perdoni i canoni tradizionali
e l’atleta diventa una macchina biologica da strutturare a pieno
regime finché “va forte”. Tutto ciò è diseducativo e antisportivo
poiché compromette quelli che sono i reali obiettivi di una sana
attività fisica.
Dal punto di vista pedagogico bisogna considerare anche le
disponibilità
e
le
predisposizioni
del
praticante.
Sarebbe
controproducente insistere sulle prestazioni di un atleta non
sufficientemente disposto per trasformarlo in un campione a tutti
i costi. Come accennavamo prima un buon tecnico deve analizzare
i pre-requisiti di ogni singolo individuo per poter adattare ad
ognuno un tipo di allenamento.
E’ evidente che se le predisposizioni sono naturali queste si
rivelano importantissime per il raggiungimento di risultati
soddisfacenti. Si dovrà magari andare a stimolare aspetti latenti o
non chiari nei confronti di chi per la prima volta si accosta alla
praticata di una determinata disciplina.
Per ottenere la fiducia e la disponibilità dell’atleta il tecnico
dovrà
far
leva
sulle
motivazioni
e
dimostrare
professionalità, molta accortezza e trasparente realismo.
80
grande
La disciplina del karate rispetto ad altre attività consuete
presenta la problematica di adattare la mentalità occidentale alla
pratica di un’arte antica come quella orientale.
Per poter risolvere questo problema basterebbe intendere,
praticare il karate come disciplina (aspetto educativo-formativo),
come
arte
(
aspetto
estetico-formativo
della
gestualità
nell’equilibrato rapporto corpo-mente), come sport (aspetto
ludico e agonistico-competitivo), come autodifesa ( aspetto
psicologico) e in ultimo come anticamente concepito cioè come
karate-do, vale a dire come via come inteso secondo il budo.
Non che il karate possa miracolosamente superare tutti i limiti
fisici dell’individuo ma certo è che praticato saggiamente possa
ottimizzare prestazioni personali in senso multi direzionale,
promuovendo così delle abilità in grado di svilupparsi e supplendo
con tali abilità alle carenze costituzionali di origine.
In qualsiasi modo lo si voglia intendere , come pura e semplice
arte marziale, sia come mezzo di difesa, sia come attività
sportiva, sia come realizzazione del DO, l’importante è l’aspetto
educativo-formativo. Bisognerà essere capaci di applicare tutti
quei corretti criteri scientifici orientati al miglioramento psicofisico dell’allievo affinché la pratica non risulti lesiva per nessuno
ed in nessun modo.
81
Nel karate anche il rapporto maestro-allievo assume aspetti
particolari permanendo ancora l’influenza della matrice orientale:
dove per maestro non s’intende una figura di un comune
insegnante. Si propone anche in questo contesto l’importanza del
rapporto
maestro-allievo
che
è
il
collante
dell’aspetto
pedagogico. Trasmettere conoscenza non significava parlare di
concetti generali a gruppi di allievi più o meno numerosi bensì
transfondere individuo per individuo la singolarità, la virtù (i shin
den shin). Il maestro lo trasmetteva ad un allievo (sho-deshi)
come se dopo la sua morte il suo spirito avrebbe vissuto nel suo
corpo. Dalla prospettiva orientale tutto ciò conferisce alla figura
del
maestro
un
aspetto
carismatico.
Osservandola
dalla
prospettiva occidentale potrebbe condurre alla fanatizzazione ed
esaltazione eccessiva di un immagine. E’ vero anche che
l’eliminazione di tale carisma svuoterebbe il maestro della sua
autorità e quindi si cadrebbe nella mancanza di rispetto da parte
degli allievi. Questo conduce inevitabilmente alla negazione delle
sue qualità di insegnante e di conseguenza al disconoscimento dei
valori della disciplina da lui trasmessi. Così, l’esperienza ci
insegna, il praticante non è più allievo ma diventa fruitore di un
servizio a pagamento e gli dà il diritto di pensare: “pago quindi
faccio ciò che mi pare”. Un atteggiamento così distaccato
dall’insegnante favorisce la dissoluzione e perde sensibilmente
quella valenza formativa, quella carica umana, indispensabili al
82
raggiungimento di traguardi educativi. In tal caso l’insegnamento
verrebbe ridotto alla pura e semplice “vendita di competenze” o “
richiesta d’istruzione a pagamento”. Si andrebbe ad usufruire
soltanto della freddezza di un tipo di apprendimento esclusiva
mento tecnico. Ma non è quello per cui il maestro percorre la sua
strada, irta di sacrifici e sofferenze, e se obbligato a fare ciò per
circostanza lui sa in cuor suo che non sta trasmettendo nessuna
via e questo è causa di ulteriore sofferenza.
…solo quando diventerà maestro a sua volta l’allievo si renderà
conto della solitudine e della disperazione che caratterizzano la
lotta che il maestro conduce contro l’enorme forza dell’inerzia
umana…
Il compito di insegnare è estremamente delicato: implica
competenze specifiche e non può essere in alcun modo affidato a
chi manca della dovuta preparazione.
Lo stesso Gichin Funakoshi era un uomo colto, professore di
letteratura ed insegnante per scelta di vita. E proprio grazie alle
sue competenze pedagogiche è riuscito a coinvolgere il ministro
giapponese della pubblica istruzione affinché il karate fosse
inserito ufficialmente nelle scuole come materia d’insegnamento.
E così come lui altri personaggi a cui è stato affidato il compito di
83
diffusione del karate nel mondo : Shirai Hiroshi, Tokitsu Kenji,
etc.., tutti degni di vantare un alto grado di istruzione.
Secondo una visione moderna della pedagogia ogni insegnante
deve rivestire tutte le dovute caratteristiche per poter perseguire
validi risultati educativi e formativi.
Questo principio vale in generale nel campo dell’educazione
fisica, nell’ambito del karate quando passa da arte marziale a
disciplina sportiva. Ciò che caratterizza la robustezza interiore
riguarda anche la robustezza fisica.
Si è già ribadito più volte che sia dal punto di vista filosofico
dell’Oriente antico sia dal punto di vista scientifico dell’Occidente
moderno
soma
e
psiche
sono
due
aspetti
inscindibili
e
complementari. Per queste motivazioni oggi da un tecnico che
insegna karate ci si aspetta competenza e professionalità affinché
i suoi risultati si mostrino di alta qualità sotto tutti i diversi
profili.
L’allievo nelle mani di un maestro diviene un soggetto che
assimila. Oggi l’apprendimento non intende solo l’aspetto
cognitivo ma si parla di risultato formativo derivante da
un’esperienza articolata.
In campo fisico non è più concepibile un lavoro di tipo militaresco
che tiene conto solo ed unicamente dell’abilità ripetitiva e
84
meccanica dell’addestramento (drill) ma si preferirà mirare a tutti
quei risultati ottenibili da una pianificazione ragionata di ciò che
oggi viene definito “apprendimento motorio intelligente” (A.M.I.)
Con questi requisiti l’apprendimento diventa più significativo in
quanto coinvolge l’individuo nella sua interezza scaturendo così
una “scoperta personale attiva”.
A volte un certo tipo di allenamento militaresco potrebbe
conservare le sue ragioni d’esistere quando non fosse possibile
andare troppo per il sottile con alcuni soggetti. Bisogna sempre
tener conto degli obiettivi prefissati, dell’utenza che ci troviamo
ad allenare oppure a volte in caso di emergenza dove la situazione
lo richiede una provvisoria forma di autoritarismo.
In ogni caso una scuola di karate-do non deve per nulla
assomigliare ad un campo di addestramento militare. Infatti c’è
un enorme differenza tra l’addestramento acefalo militare del
soldato e la formazione ascetica marziale del guerriero.
Un buon tecnico dovrà fare in modo di scaturire nell’allievo il
desiderio di apprendere con impegno ma dovrà stare attento che
tale fiducia non divenga cieca generando forme di deleterio
fanatismo.
Solitamente un buon maestro non esalta mai la propria
personalità.
Come forse già scritto per altri aspetti l’insegnamento del karate
richiede attenzioni molto particolari quando tale disciplina viene
85
praticata da soggetti appartenenti alle fasce di età più basse, dai
bambini al di sotto dei 10 anni il cui organismo si trova ancora in
stato di crescita.
L’apprendimento
dei
bambini
è
prettamente
imitativo,
chiaramente esso è focalizzato sulla forma della tecnica non certo
sull’efficacia e sulla potenza. Infatti le capacità di forza nel
bambino non sono e assolutamente non devono essere sviluppate
quanto quelle dell’adulto che possiede già una struttura osteomuscolare già confermata. Tutti gli eccessivi allenamenti rivolti
allo sviluppo della forza sono estremamente negativi mentre
positive sono le stimolazioni all’allenamento aerobico per lo
sviluppo della resistenza alattacida. Soprattutto nell’età scolare
l’insegnamento del karate diviene un po’ come l’arte di
presentarlo come gioco, serio ed impegnativo, ma divertente e
gratificante per chi lo pratica, sia esso allievo o maestro.
Oggi il karate non solo sta assumendo le caratteristiche di una
disciplina educativa sempre più adatta anche alla mentalità
occidentale ma si pone ormai come vera e propria materia
all’interno del sistema scolastico come alternativa alla lezione di
educazione fisica.
Un insegnante di karate deve essere anche un buon tecnico della
comunicazione. Deve saper creare interesse e consapevolezza sui
meccanismi che motivano all’azione. Deve improvvisarsi psicologo
in grado di far scattare in ognuno dei suoi allievi la molla che li
86
motivi automaticamente a continuare a praticare karate. Infatti il
miglior successo di un buon tecnico non è tanto quello di creare
un campione ma quello di essere riuscito appunto a rendere
consapevole e autonoma la motivazione a seguire la pratica.
Ci si augura quindi che il karate nel nuovo spirito del do possa
decisamente proporsi come vero strumento educativo-formativo.
Le parole giapponesi senpai e kohai sono costituite dai kanji:
sen che significa prima o davanti
ko
che significa dopo o dietro
hai che significa collega o compagno
Il loro significato letterale sarà quindi:
senpai = anziano, superiore
kohai = giovane, inferiore
la relazione senpai-kohai è quindi legata ai rapporti che
intercorrono tra persone di diverse età, esperienza, posizione
sociale o potere.
Senpai è una persona che procede o guida e implica che coloro
che lo seguono, i kohai, siano i suoi compagni nella stessa attività.
87
“…uno che guida e altri che seguono percorrendo la stessa
strada…”
In Giappone un senpai è un uomo di esperienza che guida un uomo
più giovane appunto chiamato kohai.
Per comprendere meglio il valore del rapporto senpai-kohai è
necessario
approfondire
solo
alcuni
aspetti
della
società
giapponese che ancora ad oggi ha mantenuto vive le tradizioni e i
valori del passato.
Sia l’aspetto geografico che il suo isolamento sono elementi che
hanno influito sullo sviluppo della cultura giapponese. Costretta a
vivere in spazi limitati nonostante una popolazione numerosa si è
evoluta esaltando l’ordine, la gerarchia, l’unità e la legalità. Il
giapponese considera l’autorità necessaria alla sopravvivenza
della
società
e
l’obbedienza
all’autorità
una
forma
di
collaborazione e non di costrizione. Il benessere del gruppo è
molto più importante di quello del singolo.
88
La giusta attitudine del
samurai verso la gente
comune era quella di
interessarsene
proteggerla,
e
come
un
padre fa verso i suoi
figli.
Vediamo
allora
concetti
della
alcuni
cultura
giapponese, la gerarchia,
l’etichetta, la famiglia,
strettamente
rapporto
legati
al
senpai-kohai
per poterci avvicinare il
più possibile alla comprensione.
Il Giappone nonostante la sua modernizzazione rimane comunque
una società gerarchica legata alle sue antiche tradizioni che sono
vive e che condizionano il presente. Tradizione e modernizzazione
non sono in contrasto tra loro ma al contrario coesistono
rafforzandosi l’uno con l’altra.
La studiosa Nakane Chie nel trattato “La società giapponese” ci
spiega che la gerarchia del Giappone moderno ha una struttura
secondo una stratificazione “verticale” in base alle istituzioni
piuttosto che “orizzontale” in base alle classi.
89
L’individuo giapponese non ha uno status individuale ma la sua
identità è determinata esclusivamente dal ruolo che assume in
una particolare istituzione. Il fine ultimo della gerarchia
giapponese è la costituzione del gruppo che può essere di lavoro,
di studio o anche familiare. Questo ci fa intendere che l’individuo
giapponese tende nelle presentazioni a specificare l’azienda, la
scuola o la famiglia quindi il gruppo a cui appartiene prima di ogni
cosa mentre noi occidentali dichiariamo immediatamente il
mestiere o la qualifica.
E’ vero che l’individualità non viene incentivata ma esiste una
sensibilità collettiva che dà l’impressione di avere a che fare con
una sorta di “persona multipla”. La gerarchia non vuole
proclamare la supremazia di un individuo sugli altri ma di stabilire
compiti all’interno del gruppo in cui il valore dominante è
l’armonia, che si manifesta nella gratitudine e lealtà del capo nei
confronti dei suoi subordinati. La relazione senpai-kohai racchiude
questi valori e rappresenta un modello di comportamento
presente ad ogni livello nella società giapponese.
In Occidente le differenze di età e di stato non influenzano i
rapporti tra le persone come avviene in Giappone. I giovani e gli
anziani possono avere un rapporto paritetico ovviamente nei limiti
dell’educazione e del rispetto. In Giappone invece il loro
comportamento è molto influenzato dalla consapevolezza del
livello del grado di ogni persona del gruppo in accordo con l’età e
90
lo stato sociale. Differenza anche che coinvolge anche la forma
linguistica (keigo)che va utilizzata con il più anziano.
“…il rispetto degli anziani è un obbligo sociale che non può essere
trascurato…”
Niente può descrivere meglio questo aspetto della tradizione e
della natura gerarchica della società giapponese che la parola
senpai.
L’atteggiamento verso il proprio senpai è caratterizzato da
formalismo, obbedienza e fiducia. Il rapporto tra kohai e il loro
senpai segue quindi le regole rigide imposte dall’etichetta.
L’intera struttura della nazione è fondata sulla stessa concezione
paternalistica
che
caratterizza
il
modella
della
famiglia
giapponese. La famiglia è il pilastro della società giapponese in
quanto propone i valori culturali, le tradizioni e il pensiero
giapponese.
A differenza del mondo occidentale in cui è dato maggior risalto
all’indipendenza personale, gli ideali della famiglia giapponese
sono continuità ed interdipendenza.
I bambini sono molto amati e viziati mentre i nonni di solito
occupano un posto speciale e godono di grande considerazione.
Quindi l’inizio e la fine della vita sono considerati vicino al mondo
spirituale e quindi degni di un rispetto maggiore. Qui la relazione
senpai-kohai assume profonde analogie con la relazione esistente
91
all’interno della famiglia tra i genitori e i figli o tra il fratello
maggiore e quelli più giovani.
Anche nell’ambito scolastico il rapporto senpai-kohai è molto
evidenziato. I kohai sono addestrati come soldati a servire il loro
senpai. A prima vista sembrerebbe un rapporto ingiusto ma esso è
basato
sulla
fiducia
e
sulla
comprensione,
sentimenti
fondamentali nella cultura giapponese. I kohai rispettano e sono
obbedienti al loro senpai ma questi devono dimostrare riguardo e
gentilezza ai loro kohai.
Il senpai una volta diplomato è introdotto nel mondo del lavoro e
non dimenticherà mai i suoi kohai ma al contrario presenterà le
loro candidature all’interno della compagnia in cui lavora. Questo
ci fa intuire quanto sia spirituale ed emozionale il rapporto tra
kohai e senpai.
Come nella famiglia c’è una gerarchia naturale così anche nel
budo: maestro e allievo, senpai e kohai, gradi avanzati e
principianti, e tutte queste relazioni devono agire in modo
congiunto, per presentare l’ordine e l’armonia del gruppo.
Per un giapponese che pratica in un dojo non è difficile adeguarsi
a queste norme, non deve far altro che ripetere le regole di
comportamento che già applica sotto altra forma nella vita
sociale. Per noi occidentali lo scontro con questa etichetta è
evidente perché mal si coniuga con l’informalità che caratterizza i
nostri rapporti quotidiani.
92
Questa relazione tra senpai-kohai così diffusa e naturale nella
società giapponese è per l’occidentale nonostante pratichi un’arte
marziale di difficile comprensione. Anche se dopo anni di pratica
si entra in questo meccanismo perché la ricerca della via implica
anche il seguire un maestro che ce la indichi e in cui avere
fiducia. Il rispetto verso il senpai non deve essere provocato, il
kohai deve avere desiderio naturale di rispettare il senpai.
Elenco qui alcune regole generali, tratte da fonti autorevoli e
mediate sulla
base della mia esperienza, che dovrebbero essere applicate nel
Dojo, al fine consentire ai tutti i praticanti di percorrere insieme
la Via.
1. Quando un allievo inizia a praticare in Dojo, coloro che già
praticano sono i suoi Senpai. Quelli che verranno dopo di lui
saranno i suoi Kohai.
E così rimarrà indipendentemente dal grado, età o esperienza.
Dal momento che ognuno ha una relazione con quelli sopra o sotto
di lui,
questo sistema fa in modo che le cose si svolgano in modo
ordinato.
93
2. Prima ancora di far entrare il principiante nel Dojo, occorre
spiegargli
come portare il Keikogi, come comportarsi entrando ed uscendo
dal Dojo,
come salutare l’insegnante e i suoi compagni.
Questa è il modo migliore per riuscire ad inserire i nuovi arrivati
nell’ambiente. Una buona accoglienza permetterà loro di sentirsi
meno
spaesati e saranno ben disposti a percepire la natura e il senso
dell’Aikido.
3. Gli anziani devono preoccuparsi di non lasciare un principiante
isolato,
senza compagno, al bordo del tatami.
Anche se la pratica con un compagno di pari livello dà maggiore
soddisfazione, è indispensabile prodigarsi, affinché il principiante
non si senta trascurato e venga preservata l’armonia fra i
praticanti.
4. L’anziano ha il dovere, verso il Sensei e il Dojo, di far crescere
il giovane di livello e di accudirlo come un fratello maggiore fa
verso il minore, senza distinzione di sesso.
94
5. Il giovane ha un certo debito che egli deve ai propri anziani in
virtù della loro buona volontà di trasmettere quello che hanno
imparato.
Il
debito
di
gratitudine,
concetto
radicato
nella
cultura
Giapponese e
quasi incomprensibile per un occidentale, ha in questo contesto la
sua applicazione.
Nell’essere un anziano, nell’aiutare, nello stimolare quando si è
pigri,
nell’agire come un consigliere, allenatore e confidente, il Senpai
si assume
una grande responsabilità. Il Kohai che è stato ben addestrato e
curato dal suo Senpai diventa un Onjin, una persona in obbligo di
riconoscenza, e, come dice un vecchio adagio giapponese:
“…vita e morte sono leggere come una piuma, ma l’obbligo è
pesante come una montagna…”
6. E’ responsabilità degli anziani riversare gli insegnamenti del
Sensei ai
giovani ed aiutarli ogni volta che è possibile.
Spesso l’insegnamento non è così formale come quello del Sensei,
ma deve essere portato come esempio. Proprio come ogni Sensei
ha il suo metodo personale per trasferire il suo stile, ogni allievo
anziano inconsciamente sviluppa un suo metodo per aiutare il
95
Sensei nell’insegnamento e questi metodi diventano come una
sorta di sotto-stili del Dojo.
7. Quando nel proprio Dojo viene in visita il praticante di un altro
Dojo, egli può avere qualcosa da insegnare lui stesso o può avere
qualcosa da
ricevere in funzione di dove si posiziona nel rapporto SenpaiKohai.
Per dovere di ospitalità e per far sentire il visitatore parte del
gruppo,
dovrebbero essere i più anziani del Dojo i primi a praticare con
lui.
8. Se sei un principiante nelle arti marziali ricordalo e ascolta
attentamente i consigli dei tuoi Senpai. La loro esperienza è dura
da conquistare.
9. Se sei un allievo più avanzato, ricorda che l’allenamento è solo
una parte delle tue funzioni nel Dojo. Ci sono dei Kohai, che
hanno bisogno della tua guida ed è compito tuo fornire un buon
esempio.
96
10. Nel Dojo si deve stabilire una bella atmosfera senza che ci sia
bisogno di intervenire.
Per ottenere questo risultato è indispensabile che ciascuno
conosca e metta in pratica le basi del comportamento.
La buona formazione dell’atleta e dunque del
karateka implica certamente un elaborato lavoro
di costruzione psico-fisica al fine di migliorare
quanto più possibile le prestazioni. Vista come
disciplina
sportiva
resta
inteso
che
la
preparazione atletica di base è fondamentale e tale obiettivo va
perseguito utilizzando tutti i mezzi disponibili. Certo senza
trascurare l’azione psicologica visto che è un’attività che
coinvolge molto la mente. Un buon apporto psicologico con
l’allenamento
pone
sicuramente
delle
basi
solide
per
il
raggiungimento di obiettivi ottimali.
Ci si allontana da quello che è il karate come ricerca interiore del
do e si ricerca la massima
espressione
della
forma
della
che
tecnica
e
consentano
risultati soddisfacenti in campo
agonistico.
97
La pratica di qualsiasi disciplina sportiva dovrà risultare almeno
piacevole, stimolante e gratificante sotto ogni punto di vista.
Alternare ed integrare i tipi di allenamento, variando l’obiettivo
finale comporta una miglior risposta reattiva psico-fisica del
soggetto nei confronti della pratica. Bisognerà studiare piani di
allenamento adeguati per evitare traumi fisici o blocchi psicologici
magari per la fretta di formare un campione. Non bisogna mai
cadere nella monotonia dell’allenamento con ripetizioni esausti
vedi allenamenti monotipici e martellanti esercitazioni tecniche.
Pertanto i criteri fondamentali da seguire per lo sviluppo di un
allenamento
produttivo,
efficace,
non
traumatico
e
controproducente, saranno i seguenti:
continuità dell’allenamento, proprio per evitare affaticamenti e
traumi da ripresa nel tentativo di recuperare velocemente
varietà dell’allenamento, per non provocare stanchezza psicologica e
affaticamento fisico per il continuo ripetersi di esercizi e tecniche
sempre uguali
gradualità dell’allenamento, lo sviluppo del carico di allenamento
deve
avvenire
gradualmente
specialmente
all’inizio
della
preparazione
idonea alternanza tra fasi di lavoro e fasi di riposo, far lavorare
alternativamente distretti muscolari differenti facendo in modo che
quando gli uni lavorano gli altri riposano.
accurata registrazione dei dati di allenamento
98
Bisognerebbe sempre tener conto degli sviluppi dell’allenamento e
l’evoluzione dei suoi effetti sul soggetto praticante. Esercizio di
carattere generale, speciale di gara.
Per quanto riguarda il karate essendoci anche il kumite, per
allenarlo si propongono incontri di allenamento che possono
rispecchiare in pieno le stesse modalità di una vera competizione.
Per le competizioni di kata si useranno altre metodologie idonee
tenendo di mira le conoscenze bio-meccaniche.
Ricordiamoci anche che per le fasce più giovani il karate diviene
valido strumento formativo in termini di educazione motoria,
espressione ludica e attività ricreativa.
Vediamone alcuni aspetti positivi che si possono sviluppare:
riconoscimento del corpo attraverso l’espressione verbale e ludica,
tramite giochi
controllo dell’orientamento spazio-temporale e della coordinazione
dinamica generale
esplorazione dello spazio in condizione statica e dinamica
presa di coscienza della simmetria del corpo
esercizi più o meno impegnativi studiati per il controllo
dell’equilibrio
attività di controllo e di conoscenza del proprio respiro
uso consapevole della propria destra e sinistra
giochi prestabiliti di ruolo per interiorizzare le regole
99
rilassamento e concentrazione sul respiro (il mokuso diviene gioco
della mente)
Sono stati presi in considerazione diversi
concetti
di
infatti
di
educazione
molto
valore,
si
socializzazione,
e
cultura.
è
parlato
formazione,
Problematiche
dei
tempi moderni.
Ma si è parlato anche di budo, filosofia
zen, etichetta.
Questo può
arti
far rendere l’idea
marziali,
giustamente
di come le
adattate
ai
tempi, alla civiltà, alla nuova concezione
sportiva,
praticate
nel
modo
corretto,
possano essere una valida guida anche nella
vita
quotidiana
di
tutti
i
giorni.
E
di
come, nonostante l’evoluzione dei tempi, la
tradizione sia rimasta ben radicata.
100
È
il
praticante
stesso
che
deve
recepire
tutto questo dentro di sé e non limitarsi
all’ esteriorità della tecnica.
E’
fondamentale
non
disperdere
l’insegnamento dei maestri quando dicevano
che non vi è limite alla ricerca, non esiste
termine alla comprensione, la meta è solo
dentro di noi, nel più profondo.
Bisogna svuotare la mente non l’anima.
Bibliografia
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Sun-tzu, L’arte della guerra, Bur
Hyams, Lo zen e le arti marziali, Ed.Il punto d’incontro
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