iii domenica dopo l`epifania

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iii domenica dopo l`epifania
Letture domenicali
Commento Biblico a cura di Gianantonio Borgonovo
III DOMENICA DOPO L’EPIFANIA
La manifestazione del «mistero nascosto da secoli e da generazioni, ma ora manifestato ai suoi santi» (Col 1,26) e celebrato nell’Epifania si dispiega nelle domeniche che
seguono tale solennità: in esse sono presentati per così dire i “misteri della luce”, come
li ha voluti chiamare san Giovanni Paolo II con la sua lettera apostolica Rosarium Virginis
Mariæ (16 ottobre 2002), aggiungendoli nella contemplazione del rosario mariano ai
misteri classici della gioia, del dolore e della gloria.
Questa domenica cade quasi a conclusione dell’ottavario di preghiera per l’unità dei
cristiani e quindi la parola di Dio proclamata riecheggia in una “congiuntura”
particolare, di cui bisognerà tener conto, almeno nell’atto-di-lettura orientato alla vita.
LETTURA: Nm 13,1-2. 17-27
Il libro dei Numeri è una riflessione teologica sul bemidbār, come dice meglio l’incipit
che dà il titolo al libro in ebraico, ovvero il cammino (la hălākâ) di Israele nel deserto.
Da un punto di osservazione generale, la sezione del cammino bemidbār «nel deserto» del
Quarto libro della Tôrâ è da considerarsi in simmetria al cammino nel deserto narrato
in Es 16-18. Bisogna valorizzare questa simmetria che racchiude la sezione sinaitica della
Tôrâ, come appare chiaro dalla struttura:
A. prologo: nascita di Mosè (Es 1,1-2,25) e rivelazione a Mosè (Es 3,1-7,7)
B. l’uscita dall’Egitto (Es 7,8-15,21)
(narrazione con alcune leggi: pasqua e primogeniti)
C. il cammino nel deserto fino al Sinai (Es 15,22-18,27)
(manna e quaglie - istituzione dei giudici)
PRESSO IL SINAI
D. l’alleanza del Sinai (Es 19,1-24,11)
(decalogo e «codice dell’alleanza»)
E. Leggi sul santuario (Es 24,12-31,18)
(sempre al Sinai)
Peccato - castigo - perdono - nuova alleanza (Es 32-34)
(«decalogo cultuale»)
E'. Costruzione del santuario (Es 35-40)
(sempre al Sinai)
D'. Leggi (Lev 1,1 - Num10,10)
[sui sacrifici (Lev 1-7), sacerdoti (8-10), purità (11-16),
«codice di santità» (17-26); varie (Lev 27; Nm 1-10)]
C'. il cammino nel deserto fino a Moab e primi approcci alla terra (Nm 10,11-22,4)
(manna e quaglie - istituzione dei profeti)
➱ Balaam e Balaq (Nm 22-24)
B'. preparazione per l’entrata nella terra (Nm 25-36)
(con alcune leggi: sacrifici, sacerdoti, feste, leviti)
1
Deuteronomio (Deut 1-30)
A'. epilogo: morte di Mosè (Deut 31-34)
Approfondendo la sezione di Nm 10,11 – 22,4, si scorge anche qui una precisa disposizione retorica, che mette in evidenza gli interessi di coloro che hanno composto questa
parte, niente affatto secondaria per i temi del sacerdozio del post-esilio:
A - Il cammino dal Sinai a Paran (10,11-12,16)
B - Missione degli esploratori e incredulità d’Israele (cc. 13-14)
C - Altre norme cultuali (c. 15)
D - La rivolta di Core, Datan e Abiram (16,1-17,26)
D' - Il sacerdozio aronnita (17,27-18,32)
C' - Rituale ordalico e di purificazione (c. 19)
B' - Incredulità di Mosè e Aronne (c. 20)
A' - Alle soglie della terra (21,1 – 22,1)
Già da questa prima osservazione dell’insieme della struttura letteraria, si deduce che
la sottolineatura principale della pericope di Nm 13-14 è l’incredulità di Israele davanti
all’abbondanza dei frutti donati da JHWH nella terra promessa, in esatta simmetria con
l’incredulità di Mosè e Aronne davanti alla Roccia che dà acqua ai figli di Israele. L’incredulità di Israele spiega come mai il cammino nel deserto si sia prolungato per altri 39
anni (per la precisione 38 anni e 10 mesi), pur essendo ormai sulla soglia della terra e
tutti i figli di Israele siano morti prima di approdare alla terra, eccetto Giosuè e Kaleb.
L’incredulità di Mosè e di Aronne spiega come mai entrambi siano dovuti morire nel
deserto, senza poter entrare nella terra della promessa.
Il passo liturgico scelto – tralasciando pure i vv. 3-16 per ragioni di brevità – si ferma
purtroppo al momento in cui gli esploratori mostrano i frutti esuberanti prodotti dalla
«terra ove scorre latte e miele». Ma il senso del racconto sta nell’incomprensione di coloro che non sanno vedere il segno e hanno paura di misurarsi davanti all’opportunità
offerta dal grande dono di Dio.
1
JHWH parlò a Mosè:
— Manda degli uomini a esplorare la terra di Canaan che io sto per dare
ai figli d’Israele; manderete uno per ogni tribù avita e ognuno sia principe in esse.
3
Mosè li mandò dal deserto di Paran, secondo il comando di JHWH; tutti quegli
uomini erano i capi dei figli di Israele. 4 Questi erano i loro nomi:
per la tribù di Reʾûbēn, Šammûaʿ ben-Zakkûr;
5
per la tribù di Šimʿôn, Šāpāṭ ben-Ḥôrî;
6
per la tribù di Jehûdâ, Kālēb ben-Jepunneh;
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per la tribù di ʾIśśākār, Jigʾāl ben-Jôsēp;
8
per la tribù di ʾEprājim, Hôšēaʿ bin-Nûn;
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per la tribù di Binjāmīn, Palṭî ben-Rāpûʾ;
10
per la tribù di Zebûlūn, Gaddīʾēl ben-Sôdî;
11
per la tribù di Jôsēp, cioè per la tribù di Menaššeh, Gaddî ben-Sûsî;
12
per la tribù di Dān, ʿAmmîʾēl ben-Gemallî;
13
per la tribù di ʾAšēr, Setûr ben-Mîkāʾēl;
2
2
14
per la tribù di Naptālî, Naḥbî ben-Wopsî;
per la tribù di Gād, Geʾûʾēl ben-Mākî.
16
Questi sono i nomi di coloro che Mosè mandò a esplorare la terra. Mosè diede
a Hôšēaʿ bin-Nûn il nome di Giosuè.
17
Mosè li mandò a esplorare la terra di Canaan e disse loro:
— Salite nel Nèghev; poi salirete sulla regione montuosa 18 e guarderete
che terra sia, quale popolazione vi abiti, se forte o debole, se scarsa o
numerosa; 19 come sia la terra abitata da essa, se buona o cattiva, e come
siano le città in cui risiede, se accampamenti o luoghi fortificati; 20 come
sia la terra, se grassa o magra, se vi siano alberi o no. Fatevi coraggio e
prendete dei frutti di quella terra.
Si era nei giorni agli inizi della vendemmia.
21
Essi salirono ad esplorare la terra dal deserto di Ṣin fino a Reḥob,
all’entrata di Ḥamat. 22 Salirono nel Nèghev e arrivarono a Ḥevròn: là
vivevano Aḥimàn, Šešài e Talmài, discendenti di Anak. Ḥevròn era stata
edificata sette anni prima dell’egiziana Ṣoʿan. 23 Giunsero fino a Nàḥal
Ešcòl e là recisero un tralcio con un grappolo d’uva, e lo portarono via
in due con una stanga, insieme a delle melagrane e dei fichi. 24 A quel
luogo diedero il nome di Nàḥal Ešcòl a motivo del grappolo che i figli
d’Israele vi avevano tagliato.
25
Tornarono dall’esplorazione di quella terra dopo quaranta giorni
26
e andarono a raggiungere Mosè e Aronne e tutta la comunità dei figli
d’Israele verso il deserto di Paràn, a Qadèš. Riferirono la cosa a loro e a
tutta la comunità, mostrarono loro i frutti della terra 27 e raccontarono:
— Siamo andati nella terra dove tu ci avevi mandato: davvero vi scorrono
latte e miele! Questi sono i suoi frutti.
15
La sezione narra della reazione dei figli di Israele davanti al racconto dei primi esploratori, inviati da Mosè a perlustrare il paese, la «terra ove scorrono latte e miele». Il parere
è molto positivo, emblematicamente rappresentato da quel grappolo di uva portato su
una stanga da due degli esploratori, che tra l’altro è diventato anche il logo del ministero
del turismo dell’Israele contemporaneo. Ma è abitato da gente forte e agguerrita. Davanti a questo ostacolo, la reazione del popolo è rinunciataria: è troppo difficile conquistare quella terra. Solo Giosuè e Caleb mostrano tutto il loro coraggio e la loro volontà
di impegnarsi ad entrare e a prendere possesso della terra che JHWH vuole donare ai figli
di Israele.
Per coloro che hanno scritto il libro dei Numeri è proprio la paura del popolo a frenare
le potenzialità immense del dono di Dio. Ma tale paura diventa la ragione di un girovagare senza fine – quasi quarant’anni! – per andare incontro alla morte. Infatti solo Giosuè
e Caleb potranno varcare la soglia della ʾereṣ, di quella terra che JHWH ha donato ad
Abramo e alla sua discendenza.
La seconda grande idea teologica che l’autore dei Numeri ha voluto consegnare ai
suoi ascoltatori è una riconoscenza infinita davanti all’amore del Creatore. Il dono di
JHWH riguarda la terra offerta ai figli di Israele: è quindi giusto che tutto il popolo abbia
a desiderare quel dono che Dio sta preparando per il suo popolo e abbia a scoprirne
3
tutte le bellezze (cf la terza parte del libro dei Numeri, dopo il racconto di Balaam e
Balaq).
In questa cornice va collocata la mancanza di fede degli esploratori, eccettuati Giosuè
e Caleb. Essi non riescono a vedere il senso del dono della terra, che è «benedizione»
ovvero occasione di condivisione del dono di Dio, perché la ʾereṣ è di JHWH, ma il fatto
che Egli la doni a tutti indistintamente diventa un’occasione per scoprire non solo Colui
che la dona, ma anche la possibilità di solidale mezzo di sussistenza. Non bisogna temere
le difficoltà che si frappongono nelle circostanze della vita, ma occorre saperle affrontare
con la consapevolezza che il dono di Dio pone sul nostro cammino occasioni impreviste
per poter superare le difficoltà più insormontabili.
La bontà del dono di JHWH e l’incredulità di accoglierlo si confrontano in ogni momento della vita, non solo nella storia di Israele, ma anche in ogni frangente della nostra
esistenza. La fede non è un ottimismo superficiale e sprovveduto. Il fallimento consiste
soprattutto nell’incapacità di vedere le difficoltà nella loro vera prospettiva. Quando Caleb dice: «Dobbiamo salire e conquistare questa terra, perché certo vi riusciremo» (Nm
13,30), non afferma che le difficoltà non esistono, ma che JHWH dà a Israele la forza
sufficiente per vincerle. La fede è proprio guardare la realtà del presente e le circostanze
della vita a partire dalla prospettiva di Dio.
SALMO: Sal 104(105),1-3. 8-11. 43-45
Il Salmo 104 (105) è una contemplazione della storia di Israele, confessata nella fede,
uno dei cosiddetti “salmi storici”, il cui esempio migliore è il Sal 78.
Il salmista passa in rassegna i grandi eventi che hanno dato forma all’identità di Israele
lungo i secoli della sua storia. L’originalità della composizione non sta negli eventi allusi,
per la decifrazione precisa dei quali è necessario rifarsi alla Tôrâ e ai Profeti, bensì alle
“pennellate” con cui essi sono presentati.
I versetti scelti portano soprattutto alla lode del «Dio del patto»: JHWH è colui che
ricorda sempre la promessa/giuramento fatta ai padri e che non viene mai meno nel suo
adempimento. Sulla fedeltà di Dio possiamo costruire la stabilità della nostra vita, non
sulla presunzione di essere noi i garanti di Dio o i suoi avvocati!
℟ Il Signore ricorda sempre la sua parola santa.
1
2
3
8
9
Rendete grazie ad JHWH, invocate il suo nome,
fate conoscere tra i popoli le sue opere.
A lui cantate, a lui inneggiate,
meditate tutte le sue meraviglie.
Gloriatevi del suo santo nome:
gioisca il cuore dei cercatori di JHWH. ℟
Egli ricorda sempre la sua promessa,
un patto fissato per mille generazioni,
che Egli stabilì con Abramo,
il suo giuramento per Isacco …
℟
4
10
11
43
44
45
… la fissò a Giacobbe come decreto,
a Israele come alleanza eterna,
dicendo: «A te darò la terra di Canaan,
la parte della vostra eredità».
℟
Fece uscire il suo popolo con gioia,
con esultanza i suoi eletti.
Diede loro le terre delle genti
ereditarono la fatica dei popoli,
perché osservassero i suoi decreti
e custodissero le sue leggi.
℟
EPISTOLA: 2 Cor 9,7-14
2 Cor 9 prolunga il discorso di Paolo sulla colletta a favore della comunità di Gerusalemme iniziato in 2 Cor 8 e sarebbe difficile aprire la discussione se si tratta di una
lettera a sé stante, inviata alle comunità dell’Acaia e poi redazionalmente unita all’antologia di 2 Cor, o se invece è parte di un unico ampio ragionamento che coerentemente
si sviluppa nella dispositio argomentativa unitaria lungo tutta la lettera. L’onere della
prova deve essere in ogni caso di dimostrare il carattere antologico di 2 Cor. Non è qui
la sede per entrare in tale discussione.
Qualsiasi posizione si assuma a riguardo dell’unità di 2 Cor, non si può negare che la
colletta per Gerusalemme (vv. 1-5) in questa pagina sia al centro dell’argomentazione di
Paolo, il quale con forte impegno cerca di motivarla teologicamente (vv. 6-14), riconoscendo che la percezione spirituale al centro della riflessione è la colletta fondata ἐπὶ τῇ
ἀνεκδιηγήτῳ αὐτοῦ δωρεᾷ «sul suo ineffabile dono» (v. 15).
6
Questo vi dico: chi semina scarsamente, scarsamente raccoglierà, ma chi semina abbondantemente, abbondantemente
raccoglierà.
7
Ciascuno [dia] come s’è deciso nel suo cuore, non
con tristezza o per forza, perché Dio ama un donatore ilare
(Pro 22,8 LXX). 8 Del resto, Dio può far abbondare ogni
dono in voi, cosicché, avendo sempre il necessario in
tutto, possiate abbondare in ogni opera buona. 9 Sta
scritto infatti: Ha distribuito, ha dato ai poveri, la sua elemosina rimane in eterno (Sal 112[111],9).
10
Ora, colui che fornisce il seme al seminatore e il pane
per il nutrimento, vi fornirà e moltiplicherà la vostra semente e aumenterà i frutti della vostra elemosina. 11 Così
sarete arricchiti per ogni liberalità, la quale produce per
mezzo nostro “eucaristia” a Dio; 12 poiché la diaconia di
questa liturgia non solo supplisce le necessità dei santi,
ma si dimostra feconda per molte “eucaristie” a Dio.
13
Glorificando Dio della bella prova di questo servizio per
l’obbedienza della vostra professione verso il vangelo di
5
Cristo e per la generosità della vostra comunione con loro
e con tutti, 14 essi – pregando per voi – vi manifestano singolare affetto per la straordinaria grazia di Dio [che sta]
su di voi.
15
Sia ringraziato Dio per il suo ineffabile dono!
L’argomentazione non è una semplice ripetizione di quanto è già stato sviluppato in
2 Cor 8: vi appaiono approfondimenti nuovi e inediti. Basti, per questa introduzione,
mettere in evidenza alcune valenze particolari del vocabolario utilizzato dall’Apostolo
per esprimere il senso della condivisione della colletta per la chiesa-madre di Gerusalemme: la εὐλογίαν «benedizione» (v. 5), la δικαιοσύνη «elemosina» in questo caso e non
genericamente «giustizia» (vv. 9. 10), la διακονία τῆς λειτουργίας ταύτης «diaconia di
questa liturgia» (v. 12) e infine la κοινωνία «comunione» (v. 13).
a) εὐλογίαν «benedizione» (v. 5): il fondamentale valore della benedizione è il riconoscimento del dono di Dio e l’assunzione responsabile di solidarietà che il riconoscimento
dell’origine divina del dono conferisce al dono stesso. La benedizione è l’atto creativo di
Dio. Quando però l’umanità benedice Dio, non solo lo riconosce come creatore e fonte
del dono ricevuto, ma proclama il bene ricevuto nella sua valenza di responsabilità perché tutti sono chiamati a condividere il dono di Dio. Emblematica è la benedizione accordata ad Abramo: in lui la benedizione di Dio si fa partecipazione a tutte le famiglie
della terra (Gn 12,1-3). Definire la colletta per la chiesa di Gerusalemme una benedizione
significa scorgere in questa condivisione il segno dell’adempimento della promessa fatta
ad Abramo, che abbraccia indistintamente circoncisi e incirconcisi, perché tutti allo
stesso modo sono figli della fede di Abramo: i pagani che sono giunti a credere alla
maniera di Gesù, alla pari dei portatori della benedizione divina, rendono la chiesa un
segno inequivocabile della riconciliazione di ebrei e pagani nell’obbedienza all’unico
vangelo di Gesù Cristo. La colletta diventa così il simbolo eloquente della riconciliazione
ecumenica di tutti i popoli in Cristo;
b) δικαιοσύνη «elemosina» in questo caso, alla maniera della ṣedāqâ rabbinica, e non genericamente «giustizia» (vv. 9. 10). Il passo del Sal 111 prima e la ripresa midrašica poi
sottolineano che Paolo scorge in questa ṣedāqâ l’elemosina necessaria per rispondere alla
benedizione del Padre. Ma il richiamo alla «giustizia», che per Paolo è l’atto fondamentale dell’intervento di Dio in Cristo Gesù, diventa anche il caposaldo del modo di vivere
la nuova alleanza. La colletta è dunque il segno tangibile nella vita concreta dei Corinzi
della risposta alla grazia divina, ovvero al perdono della nuova alleanza.
Il dono di Dio, che è la sua «giustizia» in quanto radicale perdono, rivela così la fecondità
di opere spirituali che operano in quanto è attiva in noi la forza dello Spirito.
c) διακονία τῆς λειτουργίας ταύτης «diaconia di questa liturgia» (v. 12): la colletta diventa
un servizio liturgico. Non si tratta solo di un dovere etico o di un gesto positivo. Essa è
la «diaconia» per una nuova «liturgia», non più fatta di rituali da consumarsi all’interno
del tempio, ma composta di un rito che coinvolge la totalità della vita, perché tutta la
vita possa esprimere le potenzialità dell’amore di Dio. Aderendo a questa colletta, le
comunità dell’Acaia compiono un vero e proprio atto di culto. Non solo, ma la colletta
è destinata a far risuonare dal cuore e dalla bocca dei destinatari giudei un canto di
6
ringraziamento, una vera e propria «eucaristia» (vv. 11 e 12): si badi bene che l’atto di
ringraziamento dei giudei di Gerusalemme non è rivolto ai fratelli dell’Acaia, ma a Dio
stesso. Dio ama e permette a tutti – giudei e greci – di riconoscere tale amore e in questa
responsabilità permette di rispondere con gesti d’amore (come la colletta). D’altra parte,
l’umanità che risponde a Dio permette a tutti coloro che implorano il suo amore di
riconoscere e di vivere la benedizione. Per questa ragione, è importante concludere il
ragionamento con l’invocazione di ringraziamento del v. 15, che dice anche quale sia la
fonte del dono stesso: «Sia ringraziato Dio per il suo ineffabile dono!» (non presente nella
pericope liturgica).
d) κοινωνία «comunione» (v. 13): da questa nuova liturgia nasce il forte legame della
«comunione» tra la chiesa giudaica di Gerusalemme e le chiese pagane al di fuori della
Terra di Israele. I credenti di Gerusalemme glorificheranno Dio «per la generosità della
vostra comunione con loro e con tutti» (v. 14). Il «vero Israele» abbraccia in questa comunione sia coloro che sono stati chiamati dalla loro radice giudaica, sia coloro che sono
stati convocati direttamente per aver risposto all’appello del vangelo di Gesù Cristo.
Nella colletta si esprime e si edifica il solido edificio di un nuovo modo di essere il «popolo della risposta», partecipe della promessa di Abramo e della sua realizzazione mediante il dono dello Spirito.
VANGELO: Mt 15,32-38
29
Allontanatosi di là, Gesù giunse presso il mare di Galilea.
Salito poi sul monte, stava seduto là.
30
Attorno a lui si radunò molta folla, recando con sé zoppi,
storpi, ciechi, sordi e molti altri malati; li deposero ai suoi piedi,
ed egli li guarì; 31 e così la folla era piena di stupore nel vedere
muti parlare, storpi guarire,a zoppi camminare e ciechi vedere.
E lodarono il Dio d’Israele.
32
Poi Gesù chiamò a sé i suoi discepoli e disse:
— Ho compassione per la folla. Ormai da tre giorni stanno
con me e non hanno da mangiare. Non voglio rimandarli
digiuni, perché non vengano meno lungo il cammino.
33
E i discepoli gli dissero:
— Da dove avremo in zona desertica tanti pani da sfamare
così tanta folla?
34
Gesù domandò loro:
— «Quanti pani avete?
Dissero:
— Sette, e pochi pesciolini.
35
Dopo aver ordinato alla folla di sedersi per terra,
36
prese i sette pani e i pesci, e fatta la benedizione, li spezzò
a
Alcuni manoscritti (‫ א‬lat syrs,c bo) omettono κυλλοὺς ὑγιεῖς «storpi guarire» forse perché considerato
pleonastico rispetto a quanto segue o forse perché non vi è altra guarigione di storpi nei vangeli. Probabilmente l’aggiunta è voluta per avere anche qui quattro categorie di malati guariti, come nel v. 30.
7
e li distribuiva b ai discepoli e i discepoli alla folla; 37 e tutti
mangiarono e furono sazi e portarono via quanto era avanzato in sette sporte piene. 38 Quelli che avevano mangiato
erano quattromila uomini, senza contare donne e bambini.c
39
Congedata la folla, Gesù salì sulla barca e andò nella regione di Magadàn.
Il sommario dei vv. 29-31 è parte integrante della scena successiva, la seconda moltiplicazione; esso rimpiazza la guarigione del sordomuto che si trova nel testo parallelo di
Mc 7,31-37. Il risultato dà una struttura molto simile a Mt 14,13-21 (la prima moltiplicazione): un’introduzione con guarigioni (vv. 20-31); il dialogo con i discepoli (vv. 3234) e la condivisione dei pani e dei pesci (vv. 35-38). La pericope è infine inquadrata da
due notazioni geografiche (vv. 29 e 39).
Normalmente ci si interroga circa il senso del doppio segno della condivisione dei
pani, in Marco prima e poi in Matteo, il quale dipende chiaramente dalla trama marciana. Pochi commentatori però hanno sottolineato l’aspetto più interessante almeno in
Matteo, e cioè il fatto che il racconto della seconda moltiplicazione, almeno nei vv. 3638 e nella traversata finale (v. 39), sia quasi identico alla prima (Mt 14,19b-21), che pure
termina con una traversata del lago (Mt 14,22-23):
15,36-38: 36 ἔλαβεν τοὺς ἑπτὰ ἄρτους καὶ
τοὺς ἰχθύας καὶ εὐχαριστήσας ἔκλασεν καὶ
ἐδίδου τοῖς μαθηταῖς, οἱ δὲ μαθηταὶ τοῖς
ὄχλοις.
καὶ ἔφαγον πάντες καὶ ἐχορτάσθησαν.
καὶ τὸ περισσεῦον τῶν κλασμάτων ἦραν
ἑπτὰ σπυρίδας πλήρεις.
38 οἱ δὲ ἐσθίοντες ἦσαν τετρακισχίλιοι
ἄνδρες χωρὶς γυναικῶν καὶ παιδίων
37
15,39: καὶ ἀπολύσας τοὺς ὄχλους ἐνέβη εἰς
τὸ πλοῖον καὶ ἦλθεν εἰς τὰ ὅρια Μαγαδάν.
14,19b-21: 19b λαβὼν τοὺς πέντε ἄρτους καὶ
τοὺς δύο ἰχθύας, ἀναβλέψας εἰς τὸν
οὐρανὸν εὐλόγησεν καὶ κλάσας ἔδωκεν τοῖς
μαθηταῖς τοὺς ἄρτους, οἱ δὲ μαθηταὶ τοῖς
ὄχλοις.
20 καὶ ἔφαγον πάντες καὶ ἐχορτάσθησαν,
καὶ ἦραν τὸ περισσεῦον τῶν κλασμάτων
δώδεκα κοφίνους πλήρεις.
21 οἱ δὲ ἐσθίοντες ἦσαν ἄνδρες ὡσεὶ
πεντακισχίλιοι χωρὶς γυναικῶν καὶ
παιδίων
14,22-23: Καὶ εὐθέως ἠνάγκασεν ὁ Ἰησοῦς
τοὺς μαθητὰς ἐμβῆναι εἰς τὸ πλοῖον, καὶ
προάγειν αὐτὸν εἰς τὸ πέραν, ἕως οὗ
ἀπολύσῃ τοὺς ὄχλους. 23 Καὶ ἀπολύσας
τοὺς ὄχλους, ἀνέβη εἰς τὸ ὄρος κατ᾽ ἰδίαν
προσεύξασθαι· ὀψίας δὲ γενομένης, μόνος
ἦν ἐκεῖ.
Dunque, la domanda interpretativa più importante non riguarda tanto il perché sia stato
duplicato il racconto della condivisione dei pani, ma perché Matteo abbia voluto riprendere il doppio racconto già introdotto da Marco, riportando nel secondo racconto parole
quasi identiche al primo. Il senso di questa similitudine è che la medesima memoria di
gruppo, che aveva registrato quanto accadde durante la vita di Gesù, esigeva un duplice
racconto nel momento in cui Matteo scrive per la propria comunità. Tale esigenza è la
Molti manoscritti (C L W f1 TR) hanno l’aoristo ἔδωκεν «distribuì», invece dell’imperfetto ἐδίδου «distribuiva» (cf Mt 14:19).
c
Alcuni importanti manoscritti (‫ א‬D lat syc sa bo) invertono l’ordine, leggendo παιδίων καὶ γυναικῶν
«bambini e donne». Lectio difficilior, ma non sufficientemente attestata.
b
8
spiegazione dei valori numerici dei due passi, soprattutto quelli riguardanti «le sporte» o
«le ceste» piene dei pezzi avanzati di cui parleremo tra poco.
Un’osservazione a riguardo del titolo di questo segno. Propriamente non dovremmo
parlare di moltiplicazione dei pani, perché non si tratta di pani soltanto – l’oggetto in
questione è dato da «sette pani e pochi pesciolini (ὀλίγα ἰχθύδια)» – e non si parla tanto
di «moltiplicazione», ma di «benedizione»: e quindi di distribuzione e di condivisione.
Non è un piccolo particolare, ma il senso stesso del segno.
v. 29: Gesù si è allontanato ἐκεῖθεν «da là», ovvero dalla costa sirofenicia, per attraversare
la zona montuosa dell’Alta Galilea e giungere al lago di Genezaret. Mc 7,31 specifica
che il punto di arrivo di questo cammino è la regione della Decapoli; Matteo invece lo
lascia indeterminato e non specifica se la folla sia composta da ebrei o non ebrei. In
realtà, il fatto che la lode sia rivolta al «Dio di Israele» è un indizio chiaro che siamo di
fronte a una folla proveniente dal giudaismo.
L’introduzione ricorda da vicino l’incipit del “Discorso della montagna” (Mt 5,1):
quanto verrà detto è un’attuazione e una continuazione di quel manifesto. Commentatori come T.L. Donaldson e W.D. Davies - D.C. Allison jr. hanno pensato che la sequenza delle azioni (convocazione della folla, guarigioni e banchetto messianico) sia da
interpretare alla luce del valore escatologico del monte Sion. Ma U. Luz non lo considera un fattore importante o decisivo per l’interpretazione.
vv. 30-31: Come sempre, la folla chiede a Gesù la guarigione fisica. In nessun altro passo
né di Matteo né degli altri evangelisti appaiono i κυλλούς «gli storpi» (cf però Mt 12,1014: l’uomo dalla mano inaridita potrebbe rientrare in questa categoria). Le altre categorie invece compaiono in Mt 11,5; il muto (Mt 9,32-33) e il cieco (MT 9,27-31; 20,2934) hanno dei racconti di guarigione a loro esplicitamente dedicati. Si noti che il “sommario di guarigioni”, con il generico «ed egli li guarì», compare frequentemente in Matteo (4,24; 8,16; 12,15; 14,14; 19,2; 21,14).
Vedendo queste guarigioni, la folla loda il Dio di Israele (questo tipo di lode è ricordato in questi termini in Lx 1,68 e Atti 13,17; cf però Is 35,5-6, in cui sono ricordati tre
tipi di malati qui ricordati, e Is 29,18-19). È importante questa lode innalzata al Dio di
Israele, in quanto proprio la berākâ indirizzata ad JHWH metterà in luce il senso della
condivisione dei pani e dei pesci.
vv. 32-34: La seconda condivisione del pane che ora viene narrata parte dalla tenerezza
compassionevole di Gesù (σπλαγχνίζομαι ἐπὶ τὸν ὄχλον) nei riguardi di questa folla che
l’ha seguito per tre giorni. Non è solo una questione che alcuni di loro vengano da lontano (cf Mc 8,3b); forse è anche per cancellare ogni possibile interpretazione che parte
di quella folla provenisse da un ambiente pagano, come invece è il caso del vangelo
secondo Marco, che ambienta il segno nel territorio greco della Decapoli.
Il dialogo con i discepoli continua mostrando chiaramente il diverso piano di interpretazione di quanto sta avvenendo. Matteo però non vuole sottolineare l’ottusità dei
discepoli che non capiscono; è un retaggio della tradizione marciana ad essere ripreso
nel racconto matteano, benché non manchi la notazione sull’ottusità della comprensione
dei discepoli e sulla loro poca fede (cf anche Mt 16,9-10).
vv. 35-38: Si è già sottolineata la somiglianza del presente passo con il racconto della
prima condivisione del pane (Mt 14,19-23). Il senso di questa somiglianza sta nel senso
stesso della condivisione del pane, che sgorga dalla benedizione, dall’eucaristia di Gesù
9
e dalla distribuzione di quel pane affidata ai discepoli. Il riferimento al banchetto eucaristico è molto di più di un’allusione. È vero che non vi è il vino accanto al pane, ma il
pesce. Ed è anche vero che non vi è perfetta ripetizione delle parole dell’istituzione.
Tuttavia questo segno deve far ricordare anche l’Ultima Cena e lo spezzare del pane
delle prime comunità di discepoli per comprendere più a fondo il senso di quella Cena
ripetuta in memoria del Crocifisso Risorto.
La sequenza di quattro verbi richiama da vicino il passo dell’Ultima Cena di Mt
26,26: ἔλαβεν «prese» [i sette pani e i pesci], εὐχαριστήσας «fatta la benedizione», ἔκλασεν
«[li] spezzò» e ἐδίδου «[li] distribuiva».
La conclusione del v. 38 richiama la prima condivisione: tutti mangiarono a sazietà.
Le uniche varianti riguardano il numero di coloro che vennero sfamati – quattromila vs.
i cinquemila di Mt 14,21 – e il numero dei pezzi avanzati con il nome usato per le «ceste»:
ἑπτὰ σπυρίδας πλήρεις «sette sporte piene» (cf anche Mt 16,10 e Mc 8,8) vs. δώδεκα
κοφίνους πλήρεις «dodici ceste piene» (cf Mt 14,20; 16,9 e Mc 8,19; anche la tradizione
giovannea usa lo stesso numero e lo stesso termine per indicare le ceste, Gv 6,13).
L’insistenza del numero «sette» – sette pani e sette sporte – non può non collegarsi ai
«sette» di At 6, ministero della parte ellenista della comunità che si affianca ai «dodici»,
ministero della parte ebraica, sempre in relazione alla condivisione del pane, come prolungamento della frazione del pane celebrata insieme. L’eucaristia genera comunione e
solidarietà.
v. 39: Lo spostamento in barca, in questo frangente verso la regione di Magadàn, è pure
in parallelo alla prima condivisione. La vita di Gesù non è il godimento del riposo nella
terra, ma la fatica di un cammino che non ha ancora raggiunto la mèta. Non si sa nulla
a riguardo di questo luogo, come del resto del luogo ricordato da Marco in questa occasione, Dalmanuta. A parte la correzione di molti manoscritti della tradizione occidentale in Magdala, anche Gs 15,37 sembra poter insinuare che Magadan sia una forma
popolare di Magdala, ovvero di Migdal-Dan.
PER LA NOSTRA VITA
1.
«La benedizione, proclamando la positività del mondo e la sorgente del bene che
lo sottende, rivela nello stesso tempo la legge fondamentale del reale, la legge della circolazione dei beni, della condivisione, della solidarietà. Al di fuori di questa legge – cioè
al di fuori del circuito delle soggettività buone, libere e amanti – le cose e i beni del
mondo si pervertono in oggetti di competizione e di accaparramento, mentre dentro di
essa fioriscono come frutti edenici per la gioia di tutti. Proclamando: “Benedetto tu…
Signore”, l’orante non solo dice che il mondo è buono perché ci sono i beni donati dal
Bene, ma enuncia la condizione essenziale con cui farlo restare tale: la condivisione. Con
questa preghiera egli si insedia nel cuore del reale, lì dove le cose vengono generate dal
Bene Bene-volenza e affidate alla sua responsabilità, chiamata alla stessa bene-volenza.
Entro il tessuto delle soggettività benevolenti, trasparenza della benevolenza divina, i
beni della terra, oltre che oggetti di consumo e di fruizione, si doppiano di ulteriore
significato che è il loro spessore di dono. Affermare la benedizione è vivere nella gratuità
e per la gratuità, “transustanziando” le cose in gesti di amore».4
C. DI SANTE, Parola e Terra. Per una teologia dell’ebraismo, Presentazione di A. BALLETTO (Dabar. Saggi
Teologici 39), Marietti 1820, Genova 1990, p. 46.
4
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2.
La progressiva familiarità con le pagine evangeliche è una scoperta di freschezza,
innanzitutto, che diventa un “giogo leggero” di responsabilità nei legami e nelle relazioni, come solo il Vangelo può regalare. Un azzardo carico di novità, nel quale inoltrarci, separando la polvere culturale dalla forza dell’annuncio, l’ovvietà delle letture
ideologiche dalla parola-gesto originaria e dalla percezione di una pienezza che ci sovrasta.
Non sarà scandaloso pensarci “folla” davanti ad ogni annuncio evangelico; «lo seguiva
molta folla recando con sé zoppi, storpi, ciechi, sordi e molti altri malati; li deposero ai suoi piedi,
ed egli li guarì. E la folla era piena di stupore nel vedere i muti che parlavano, gli storpi raddrizzati, gli zoppi che camminavano e i ciechi che vedevano». Questa folla segue Gesù da tre
giorni e non ha nulla da mangiare. Attiriamo la compassione di Gesù. Il suo sguardo
conosce la nostra fatica, la nostra fame e il rischio di perderci. I discepoli dicono che il
luogo è deserto, inospitale, che manca il pane per tanti. Buon senso, ragionevolezza e
obiezioni.
In quella distesa la folla viene abbracciata e sfamata dalla compassione di Gesù. Un
segno, per far intravedere cosa può essere il banchetto del Regno. Una folla che non ha
fatto domande, non ha nominato la propria necessità. Gli va dietro da tre giorni. L’insufficienza ci connota, e l’attesa è confusa. Il vangelo non dice una parola sulle reazioni
della folla a questo segno di compassione. Gesù la congeda, si separa e se ne va.
O dirci “discepoli”, trascinati da Gesù stesso nel compito immane di mettere in gioco
tutto quanto abbiamo e partecipare all’atto vitale di “nutrire” la folla, con Lui. Il buon
senso delle evidenze: «Dove potremo noi trovare in un deserto tanti pani da sfamare una folla
così grande». I discepoli erano stati inviati in missione (Mt 10), ma è la prima volta che li
vediamo direttamente implicati, invitati a mettere a disposizione il loro “poco” – sette
pani e pochi pesciolini –. La compassione e la forza di Gesù si manifesta non in rituale
complesso e astratto, ma nel dono di un pasto improvvisato per moltissime persone, in
un grande spazio aperto. Qui i discepoli distribuiscono alla folla il Pane benedetto e
spezzato.
3.
«La divina tenerezza è sobria e discreta. Non disserta su se stessa. Non prende le idee per
azioni. Non si perde in sublimità. Si trasmette da corpo a corpo, attraverso lo sguardo, la
mano, la semplice presenza, l’ascolto benevolo e gioioso. S’allieta del prossimo, senza esigere
nulla da esso. Scambia senza cercare profitto. Dona senza aspettare alcun riscontro. E’
l’umanità ingenua e semplice. Può fare a meno di tutto, persino delle parole. Permette
all’uomo di sopportare se stesso nell’attraversata talora terribile della vita».5
Mai noi possiamo dirci “pane-nutrimento”. Noi siamo fame e desiderio, necessità e
dolore. Lui, “pane necessario” e nutrimento, non confuso con la nostra indigenza; dono
e compassione.
Ci lascia sempre al confine tra i segni della compassione e la nostra fame di segni.
Per interrogarci: quale pane sfama la nostra vita? Il nostro pane si fa pietra, il pane
della compassione per la vita è sempre carne e sangue.
Quale pane sfama la nostra vita… Messi alla prova, sovrastati dalla compassione, in
se stessa senza misura e ordine, senza calcolo e previsione rimaniamo discepoli esperti e
M. BELLET, Il corpo alla prova o della divina tenerezza, Traduzione dal francese di E. D’AGOSTINI (Quaderni di Ricerca 52), Servitium Editrice, Gorle BG 1996, 2000 2, p. 37.
5
11
previdenti nel dire “non basta” per tutti. Quel luogo deserto diviene “giardino” dopo il
passaggio del “nutrimento”.
4.
Il segno della condivisione dei pani ci insegna il bilancio dell’eccedenza della
compassione. Sappiamo amministrare, calcolare, misurare; fare bilanci di giornata, di
famiglia, di azienda, di comunità, concentrandoci su insuccessi e riuscite, guadagni e
perdite, convenienze. Intonarci all’eccedenza di Dio, e ai segni di compassione di Gesù
che lo rivela nella nostra umanità, stravolge le evidenze e lascia intendere il grido di
finitudine e indigenza, di nudità che prorompe insieme a quella folla che lo segue da tre
giorni e che può “venire meno lungo la strada”.
«Credo che sia soprattutto la paura di sprecarsi a sottrarre alle persone le loro forze migliori. Se, dopo un laborioso processo che è andato avanti giorno per giorno, riusciamo ad
aprirci un varco fino alle sorgenti originarie che abbiamo dentro di noi, e che io chiamerò
Dio, e se poi facciamo in modo che questo varco rimanga sempre libero, lavorando su noi
stessi, allora ci rinnoveremo in continuazione e non avremo più da preoccuparci di dar
fondo alle nostre forze».6
5.
Pane, noi…
Pane mondato nella lotta contro l’autosufficienza e la nostra sola necessità: sfida di
benevolenza;
Pane essenziale, “desertico” contro l’onnipotenza del tutto, o l’indifferenza verso l’altro;
Pane ospitale, contro la chiusura e la cecità, per imparare a dire “noi”, non “io”…
Pane – nutrimento generoso e compassionevole, in un tempo avaro e cupo;
Pane quotidiano e gioioso, semplice e leggero, senza paura di “cosa sarà domani”;
Noi, pane…
Di nuovo invocare: “dacci il nostro pane quotidiano”, per divenire pane Suo, sbriciolato nella vita, nei legami, lasciandoci intralciare il cammino da chi, oggi, attende e non
sa fare domande…
La compassione ritorna e dà segni di vita, di nuovo, dove si creano spazi e nuove
forme di vicinanza e di relazione con l’altro, senza garanzie e sicurezze.
Si nasconde Dio nelle “briciole”, e si offre come nutrimento. Sulla sconsolata evidenza dei discepoli che vogliono riportare a ragionevolezza Gesù di fronte alla folla, egli
sfida i suoi, oggi, a fidarsi “del poco che hanno” per insinuarsi con la sua sovrabbondanza.
6.
La “compassione” risplende dove torna la pietà, l’ascolto, la condivisione. Il discepolo che ama è pane nell’indigenza dei giorni, ed è nutrimento nell’assenza di amore.
Per l’Eucarestia nel tempo, nei volti e nella vita di calvario di molti.
Moltiplicati i pani, cibo per la fame di tutti, sovrabbondanza: energia da spartire e
scambiare, per far circolare il nutrimento e liberare la “possibilità di vivere”. È l’esperienza magnifica, “leggera e gioiosa”, che non ci mette al riparo da offesa e incredulità,
ma sa portarci fuori dall’ossessione di noi stessi. Ci strappa da espressioni culturali e
E. HILLESUM, Diario 1941-1943, a cura di J.G. GAARLANDT, Traduzione di C. PASSANTI (Gli Adelphi
93), Adelphi, Milano 1996, 2005 10, p. 220.
6
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sentimentali per darci una “forma di vita liturgica”, che ci dà le forze per decisioni esistenziali autentiche, libere, leggere, non oppressive per la vita degli altri. Quel pane per
tutti è un invito a riaprire le porte dei legami riconoscenti e compassionevoli.
I pani sovrabbondanti continuano a nutrire i nostri legami, la nostra crescita in umanità.
Un terreno tutto da esplorare.
I legami non rubano nulla, si offrono, come un dono. Chi crea legami si trasforma e
trasforma; vince le pigrizie dell’anima, si oppone alle strategie della conquista del sé a
scapito degli altri.
L’esperienza dei legami, in una parola, trasforma chi li vive. È offerta di de-localizzazione umana, da se stessi, di apertura costante, del lasciarci “attraversare la strada”, interrompere la continuità del nostro, spesso apparente, ben-vivere. È una dilatazione
delle regioni dell’anima, spesso somiglianti a deserti, in tempo d’egoismo e di sordità.
È un esporsi alla ferita che l’incontro, ogni incontro vero porta con sé, in quanto tale,
dialogo infinito di umanità che tendono all’autenticità, e non vivono la vita dell’altro
come una minaccia alla propria riuscita.
È l’andare-oltre, e in questo senso il contrario dell’avarizia, che tutto pervade, benché
tutto si possa avere. L’avarizia obbliga a custodire presso di sé gli oggetti, gli eventi, le
persone; i legami veri sono dono, sono gusto, e gioia e leggerezza, festa dell’incontro.
Corrente carsica, che attraversa i nostri giorni, le nostre esistenze, che ci tiene nella
trama di un’umanità non appesantita e voltata sulla negatività, sulla contabilità dell’inadeguatezza, ma orientata e illuminata.
Nei legami non c’è teatralità, inutile, e non c’è paura di incrinare la libertà dell’altro,
perché due libertà tramano per la vita! In essi possiamo essere e deboli e forti, e dunque
aperti al ricevere e al donare. I legami curano, non sequestrano, rompono il potere
dell’uno sull’altro, bruciano gli squilibri gerarchici. Hanno occhi per vedere pieghe di
silenzio, e tracciano vie di avvicinamento in una dedizione non frammentata.
Camminano “a fianco”, lungo il sentiero delle ore, dei giorni, e sempre possono trasformarsi nella realtà di un gesto, di una parola, di una presenza. Accettano intrecci,
alleanze, senza smarrirsi nel timore di confondersi e confondere.
Il linguaggio della fede declina come comunione esistenziale questo itinerario, e
spinge oltre in un’accoglienza che prende su di sé il destino di altre persone, in particolare di coloro che sono più offesi e vivono solitudini più accese.
I legami scheggia e ferita che accettiamo di portare, “fianco squarciato” da cui dovrebbe uscire l’acqua della nostra umanità.
Scheggia che ci rende umani davvero, che trasforma e ci trasforma, che ci immerge e
a volte ci travolge, nella cura e nella sollecitudine; non di ossessione per la nostra ferita,
ma di condivisione perché quella ferita apre una fonte di comprensione, di attenzione e
di diversa relazione e conoscenza del mistero dell’altro. È così. Non si può dire di più.
Perché qui noi per vivere dobbiamo come “morire” a noi stessi. E tale esperienza è dolorosa e istruttiva al contempo.
I legami dunque si offrono come la risposta di contrasto, la medicina per quella malattia che divide il nostro io da quello degli altri. Una ruggine resa scientifica, che illude
si possa vivere bene come “separati” dalla vita degli altri, in una corsa infinita di autorealizzazione, di bene-essere e bene-fare perché il nostro io si affermi come autonomo,
indipendente, svincolato, libero da...
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Contaminazione e inciampo,
sguardo e non cecità,
suono e non sordità,
dimissione di arroganza e scoperta della “forza e debolezza accolta”
di essere ciò che siamo,
con chi siamo,
nel tempo,
nella geografia di coloro che Dio ci ha posto a fianco,
lavorando a costruirci familiari,
e dunque a offrirci come volto, dialogo, presenza.
Freschezza, verrebbe da dire, ricevuta e restituita,
consolazione di quella più pura.
L’offerta di chi ama è la propria vita.
Certo l’elemosina di Dio non è un’elemosina di cose: ma di se stesso. Vale veramente dare
qualcosa, quando ciò esprime la misericordia che si è. Allora, anche il più piccolo dono è
sempre dono di sé. “Se distribuissi… tutti i miei beni… se non ho la carità, a nulla mi serve”.
Si può riassumere tutto, dicendo che lo stile cristiano è stile di gratuità e di disponibilità.
Sembra l’unico coerente con la prospettiva fondamentale: quella di Dio che si rende disponibile, che si “scomoda”, che si dà via… Non è questo il richiamo di ogni Eucaristia? “Attingi, fratello mio, attingi; e benedici il Signore Gesù”.7
7.
Dividete il pane con l’affamato, ospitate il senzatetto, e fatelo volentieri.
La vostra misericordia sia illuminata dalla gioia. Un dono fatto a malincuore o per
forza perde bellezza. Niente facce arcigne con i poveri, ma gioiosa munificenza. Se
rompete le catene dell’avarizia, se vi scuotete di dosso il giogo della diffidenza, se
smettete di esitare e di mormorare, avrete una magnifica ricompensa: dice infatti Isaia
che «la vostra luce eromperà come l’alba e verrà sollecita la vostra guarigione». […]
Voi che di Cristo siete servi, fratelli e coeredi, ascoltatemi finché non sia troppo tardi:
assistete Cristo, soccorrete Cristo, sfamate Cristo, vestite Cristo, ospitate Cristo, onorate Cristo.
Il Signore dell’universo non vuole sacrifici, bensì misericordia, non migliaia di agnelli
sgozzati, bensì amore. Presentiamogli il nostro amore sulle mani dei poveri, soccorrendo
i poveri. Il giorno in cui lasceremo questo mondo, essi ci accoglieranno nelle tende
eterne e là vedremo faccia a faccia Cristo stesso.
(GREGORIO DI NAZIANZO, PG 35, 858-910)
8. Certo, il vocabolo ekklēsía ha bisogno di essere disossidato per poter effettivamente riscoprire la sua originaria bellezza, scelta dalla comunità cristiana quando sentì
il bisogno di autodefinirsi nel quadro dell’unico Israele. Con ekklēsía si esprime molto
di più di quanto noi vorremmo dire quando affermiamo che la chiesa è «popolo di Dio»,
affermazione che – da un punto di vista biblico, a dire il vero – è una tautologia. Non
v’è bisogno di tale tautologia, in quanto l’affermazione di ekklēsía nella tradizione
dell’unico popolo di Dio esprime l’ecclesiologia che vogliamo esprimere.
G. MOIOLI, Temi cristiani maggiori, a cura di D. CASTENETTO (Contemplatio 5), Glossa, Milano 1992,
p. 176.
7
14
Il vocabolo ekklēsía è tanto ricco che persino la lingua latina non ha saputo o non ha
voluto tradurlo. Ci sono stati, è vero, dei tentativi di traduzione. Tertulliano, ad esempio, ha tentato di usare il latino curia, Agostino ha tentato di introdurre la specificazione
di civitas Dei, ma alla fine è prevalsa la trasposizione del vocabolo greco, latinizzato in
ecclesia, da cui derivano poi le varie forme delle lingue neolatine.
Questo termine deriva probabilmente dall’uso delle comunità giudeo-cristiane di lingua greca, le quali leggevano l’AT in greco. I LXX infatti traducono con ekklēsía
l’ebraico qāhāl: è quasi una costante, visto che l’equivalenza occorre per ben 100 volte
circa. Alcune comunità cristiane delle origini si autodefinivano anche synagōgê: i giudeocristiani della Transgiordania indicavano con synagōgê sia la comunità sia i suoi edifici.
Con la crisi del II secolo, i due termini assumono un orientamento ideologico: i giudeocristiani, ormai emarginati dalla grande chiesa, si autodefiniscono come synagōgê, mentre i cristiani non ebrei ekklēsía. Sino a quel momento, però, le due designazioni erano
utilizzate in modo indifferente.
La ricchezza del retroterra biblico di ekklēsía si scopre andando ad analizzare i passi
in cui nel Primo Testamento il popolo di Israele si confessa qehal JHWH: è la comunità
che si riconosce convocata dal Signore (verbo qhl) per essere il segno vivo dell’alleanza,
e non solo in ambito cultuale. Anche negli scritti propri della comunità di Qumrān,
come nel Manuale di Disciplina, è particolarmente amato il vocabolo della qāhāl insieme
a quello di ʿēdâ, per indicare la coscienza di essere l’autentico «resto di Israele». Siamo
nel medesimo contesto del I secolo, e anche a Qumrān emerge quella coscienza antagonista e dialettica rispetto al giudaismo ufficiale che si ritrova negli scritti paolini.
Vorrei portare ora la vostra attenzione su due testi particolarmente ricchi e adatti a
ridare ad ekklēsía la sua valenza originaria di comunità formata da coloro che accolgono
la messianicità di Gesù, vivendo nella coscienza di appartenere all’unico Israele.
Il primo testo è Ef 2,11-22, un passo che permette di cogliere il corretto orizzonte
storico-salvifico in cui si pone la realtà della chiesa. Si noti che sorprendentemente Efesini introduce un linguaggio definito talvolta “protocattolico” (in senso spregiativo), in
quanto le singole chiese sono unificate nel concetto di ekklēsía. Tuttavia, in Efesini ekklēsía non ha il un senso di una chiesa “al di sopra” delle altre chiese, non è una chiesa
«trascendentale», bensì piuttosto l’insieme di coloro che riconoscono la messianicità di
Gesù stando dentro il popolo di Israele, anzi entrando a partecipare della cittadinanza
dell’unico Israele. Dal momento che Gesù Cristo è il capo del corpo e tutt’e due i popoli
– circoncisi e incirconcisi – formano l’unico corpo di Cristo, tutti possono far parte
dell’unico popolo di Israele, perché sono il corpo di Cristo, che è ebreo. Nel corpo si
adempie la promessa fatta ad Abramo, con l’abbattimento di ogni divisione tra Israele e
gli altri popoli. Questa è la grande novità dell’ecclesiologia della lettera agli Efesini. In
Cristo Gesù noi partecipiamo all’unico Israele perché il corpo di Cristo ci unifica, lasciando a Israele la sua identità e, nel medesimo tempo, offrendo una nuova dignità a
tutti gli altri popoli: Israele rimane l’unico Israele che dà identità a Gesù, l’ebreo, discendenza abramitica, partecipe del patto e della promessa; e gli altri popoli assumono
la nuova dignità di “Israele” diventando corpo di Cristo.
Il secondo testo è Ap 21,1-3. Gerusalemme è trasformata da prostituta in sposa, e tale
trasformazione si riferisce al popolo che nasce dalla croce di Cristo: questa Gerusalemme, fondata sui profeti e sugli apostoli, è detta «nuova». Ma si faccia bene attenzione
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a come è espressa tale «novità»: mentre cielo e terra sono qualificati nuovi in modo attributivo, Gerusalemme ha la qualifica di nuova in modo predicativo. Non si parla quindi
di una «nuova Gerusalemme», ma di una Gerusalemme rinnovata dall’intervento di Dio,
che l’adorna come sposa per il suo sposo. In secondo luogo, Gerusalemme è ora la «tenda
di Dio con gli uomini»: la benedizione di Abramo si estende a tutti i popoli e la formula
di alleanza si allarga a tutti i popoli, i quali ora possono partecipare della dignità
dell’unico λαός, che è da sempre e rimane per sempre Israele.
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