A001542 È capitato a tutti. Un giorno telefoniamo a un amico

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A001542 È capitato a tutti. Un giorno telefoniamo a un amico
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FONDAZIONE INSIEME onlus.
Da IO DONNA del 7/2/2009, pag. 123 <<UFFA, I MIEI MI AMANO TROPPO: =
OVERPARENTING>> di Livia Manera, scrittrice giornalista..
Per la lettura completa del pezzo si rinvia al settimanale citato.
È capitato a tutti.
Un giorno telefoniamo a un amico
divorziato per fare due chiacchiere e non riusciamo a dire nulla
di sensato perché il figlio di tre anni continua a interrompere la
conversazione chiedendo attenzione.
Oppure una sera andiamo a cena da una coppia di amici e ci tocca
l’esibizione della loro bambina, che non sembra finire mai, perché
la piccola è determinata a tirare per le lunghe e non andare a
letto, se non rovinando la salute a tutti.
Una volta si chiamava“viziare”, oggi si chiama “overparenting”,
rispetto al viziare del passato –troppi giocattoli e troppo pochi
divieti- ha un forte elemento di ansia in più.
Questo perché, dicono alcuni libri al centro dell’attenzione
negli Stati Uniti in questi giorni, la mamma “overparenting” ha di
regola una carriera professionale e si sente in colpa; oppure,
peggio ancora, ha lasciato il proprio lavoro per occuparsi dei
figli e si applica a questo compio con uno zelo all’altezza del
suo sacrificio.
Di qui l’eccessiva e –come vedremo- nociva attenzione per i
nostri figli.
Sia chiaro: le ansie del supergenitore possono essere serie o
futili, ma sono anche variegate e illimitate.
Per esempio. Al bambino è morto il criceto: resterà traumatizzato
per il resto della vita? Oppure, il bambino è arrivato portando in
mano il criceto morto; avrà preso delle malattie? Oppure ancora, al
diavolo se il piccolo è triste perché gli è morto il criceto:
domani ha gli esami di quinta elementare ed è importante che
prenda ottimi voti, perché possa entrare un giorno in una buona
università.
L’overparenting è un fenomeno che ha il suo picco nella middleupper class americana, ma attenzione a considerarlo una sua
esclusiva.
C’è anche in Italia. Come anche in Giappone e in Cina dove la
riuscita dei bambini nelle scienze è la più alta del mondo, ma il
piacere a studiarle uno dei più bassi, secondo una ricerca citata
da Carl Honorè nel saggio Under pressure: the new movement
inspiring us to slow down, trust our insticts and enjoy our kids
(Sotto pressione: il nuovo movimento che ci dice di rallentare,
fidarci del nostro istinto e goderci i nostri figli. Haper One).
L’accelerazione che stiamo dando alla loro crescita potrebbe
ritorcersi contro di loro e contro di noi, scrive Honorè.
Le lezioni di danza, cinese mandarino, arti circensi e musica,
se portate all’eccesso potrebbero creare dei “boomerang kids”,
come li chiamano gli psicologi dell’età evolutiva: ragazzi che pur
avendo avuto tutto per riuscire nella vita, dopo il college non
sono capaci di gestirla e spesso tornano a casa dei loro genitori.
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Se Honorè è conservatore (meglio tornare ai metodi del passato)
e ottimista (smettiamola di mettere i figli sulla rampa di lancio
e saremo tutti più felici ), Hara Estroff Marano, in A nation of
whimps: the high costs of invasive parenting (Una nazione di
mollaccioni: i costi altissimi di un’educazione massiva,
Broadway), è invece pessimista.
Negli Stati Uniti, sostiene
questa editor di Psycology Today, la pressione accademica comincia
all’asilo.
È infatti già durante la scuola materna che molti
genitori ricorrono alla lezioni di inglese e matematica per i loro
figli, in sostituzione dei giochi pomeridiani mentre è nel corso
delle elementari che vengono spesi la maggior parte dei quattro
miliardi di dollari investiti in “tutoring” dalle famiglie
americane, secondo una ricerca pubblicata dalla Princeton Review.
Oggi l’inferno della “scuola come carriera” comincia quando i
bambini sono ancora in culla, in omaggio all’idea diffusasi negli
anni ’90 che l’intelligenza dei nostri figli dipenda più dagli
stimoli ambientali che dalle caratteristiche genetiche.
Sia chiaro: gli stimoli ambientali contano, dice Marano, ma oggi
si comincia a pensare che sia un errore rinunciare all’autostimolazione, al ruolo formativo della noia.
Ed è certamente un errore spingere l’acceleratore e spendere
fino a quarantamila dollari per farsi aiutare a iscrivere un
ragazzo all’università, come fanno i genitori che si rivolgono a
organizzazioni su modello di IvyWise, dal nome delle università
della Icy League –cioè Harvard, Princeton, Yale, ecc- a cui
promettono di facilitare l’ingresso.
Infine in Men to boys: the making of modern immaturitY (Da
uomini a ragazzi: l’immaturità contemporanea. Columbia), lo
storico della Penne University Gary Cross illumina con le più
reventi statistiche sul fatto che nuova generazione di maschi ci
mette molto più tempo di quella dei loro padri a trovarsi un
lavoro, sposarsi e aver figli –cioè a “crescere”.
E questo perché? In parte per il ruolo svolto dal femminismo in
campo genitoriale.
Un ragazzo oggi sa che una volta divenuto adulto dovrà
condividere il poter in famiglia con la moglie. E pensa che il
gioco non valga la candela.
Ciò su concordano questi libri e che riguarda l’educazione dei
figli le mamme stanno sbagliando, con la complicità dei loro
mariti.
E che se non si torna a sistemi meno ansiogeni e più
tradizionali, alleveremo dei ragazzi sempre più deboli, stressati
e dipendenti dalla famiglia.
Essendo partiti, come spesso accade, con le intenzioni opposte.