005-012 Editoriale n. 45

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Ce la farà o si spaccherà? La crisi è un test per la tenuta dell’Unione Europea. L’economia dell’Europa continentale si basa in teoria su un modello più equilibrato di quello americano. Ma l’Unione incompiuta, l’Europa a metà, rischia invece di disgregarsi. Sono gli argomenti di questo numero, che introduciamo con un editoriale atipico:
una conversazione con Gianni De Michelis, già ministro degli Esteri.
ASPENIA. L’interrogativo a cui cerca di rispondere questo numero di Aspenia è secco: se è vero che la crisi economica globale è un test di fondo anche per l’Europa, l’UE
ce la farà o finirà per disgregarsi? Oggi è un’Unione per così dire a metà: abbiamo l’euro ma non abbiamo gli strumenti politici per farne davvero un punto di forza. La crisi
lo ha dimostrato abbastanza chiaramente; anche se c’è chi osserva, per esempio Lorenzo Bini Smaghi in questo numero, che la moneta unica ha funzionato da scudo per le
economie europee. E non c’è dubbio che l’Europa è comunque in una situazione macroeconomica più equilibrata di quella americana. Per una ragione molto semplice: il
modello di sviluppo dell’Europa continentale non si è fondato sul consumo a credito.
D’altra parte, esistono molto motivi per essere preoccupati: non solo la forza negativa
dei numeri, con la recessione dell’economia reale (che ha colpito la Germania, più che
la Francia); ma anche le tensioni del mercato interno e le prospettive della disoccupazione. La gravità della crisi ha già portato un paese come la Polonia a rinviare l’ingresso nell’euro. L’Europa non rischia solo di fallire ai margini, fra quella parte dei
nuovi membri – la Lituania, per fare solo un esempio – particolarmente colpiti dalla
recessione economica. Rischia di fallire al centro: il completamento del mercato unico,
il punto storico di forza della costruzione europea, appare più lontano di prima. Mentre la solidarietà interna vacilla. Ed è per questa ragione che Mario Monti propone un
nuovo patto strategico interno, fondato su una sorta di scambio fra coordinamento fiscale (prospettiva che piacerebbe forse alla Germania o alla Francia ma non certo alla Gran Bretagna) e completamento del mercato interno (che Londra vorrebbe ma che
Berlino o Parigi cominciano a temere).
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GIANNI DE MICHELIS. Sono d’accordo che l’Europa si trova oggi di fronte a un
bivio: o farà uno scatto in avanti, in direzione dell’integrazione politica, o rischia di
tornare indietro, anche per quel che riguarda l’integrazione economica. L’euro è certamente uno scudo; ma non basta senza politiche fiscali comuni, senza la possibilità di
stampare moneta, senza la capacità politica, insomma, di utilizzare davvero la leva
monetaria. E quindi anche l’euro è a rischio, così come l’insieme dell’Unione Europea.
La ragione è molto semplice: la costruzione europea ha sempre rispecchiato l’ordine
mondiale. La comunità delle origini era figlia della guerra fredda. Maastricht è stato
figlio, nel modo in cui poi spiegherò, del crollo del Muro di Berlino. Oggi siamo di
fronte a un nuovo cambiamento di paradigma: il tentativo americano di guidare il sistema globale in modo unipolare è fallito; la crisi economica dimostra la necessità di
costruire le regole di un ordine multipolare. Se l’Europa vuole avere un posto al tavolo, se vuole fare parte degli attori del nuovo ordine, deve riuscire a organizzarsi in modo diverso dal passato. Altrimenti resterà ai margini e poi si disgregherà.
ASPENIA. Uno sguardo rapido alle tappe del passato ci può aiutare a capire meglio
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i nessi fra i processi in Europa e i processi nel mondo. Lei ha detto spesso che la Comunità europea delle origini aveva tratti carolingi; poi, dopo la riunificazione tedesca, abbiamo avuto di fronte un’Europa baltica, spostata – come asse di gravità – verso nord
e verso est. Mentre all’Italia converrebbe un’Europa più integrata e più bilanciata anche a sud, verso il Mediterraneo. È per questa ragione, del resto, che l’Italia è sempre
stata a favore di una vera apertura alla Turchia. A differenza di Merkel e Sarkozy, che
hanno detto e ripetuto “no” a un ingresso di Ankara nell’UE. Di recente, il presidente
francese ha sostenuto che la Turchia potrebbe fare parte, insieme alla Russia, di uno
spazio economico comune. Questa posizione del vecchio cuore europeo crea fra l’altro
problemi nei rapporti con l’America di Obama: la visione geopolitica dell’UE, promossa
da Washington, include anche la Turchia. È giusto obiettare che i confini finali dell’UE
devono essere decisi da noi, non a Washington. Ma la nostra impressione è che la Turchia sia davvero troppo nevralgica, e da molti punti di vista, per essere lasciata in un
limbo politico. È comunque un processo che va visto nell’arco dei prossimi 10-15 anni.
DE MICHELIS. Guardiamo, prima che al futuro, alla storia. Dalla CECA delle origini fino al crollo del Muro di Berlino, l’Europa aveva in effetti un asse di gravità simile a quello del vecchio impero carolingio. Naturalmente, la divisione dell’Europa rifletteva il contesto della guerra fredda: l’integrazione economica dell’Europa occiden-
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tale era figlia del Piano Marshall e non sarebbe mai potuta avvenire senza la garanzia di sicurezza degli Stati Uniti. Le condizioni si modificano drasticamente nel 1989:
con il crollo del Muro di Berlino, muore la vecchia Europa carolingia e nasce, almeno
potenzialmente, una Europa “paneuropea”. In questo senso, il Trattato di Maastricht,
che dà vita alla moneta unica, è il culmine dell’evoluzione precedente ma è soprattutto l’avvio di una fase nuova. Non dimentichiamoci che il Trattato di Maastricht, firmato poi nel 1992, aveva alle spalle uno scambio preciso con la Germania di Kohl, mediato da Mitterrand ma in parte anche dall’Italia; Andreotti era allora primo ministro.
Lo ricordo molto bene perché ero ministro degli Esteri: noi demmo alla Germania la riunificazione tedesca, i tedeschi dettero all’Europa il marco. Cioè l’euro. E la Signora
Thatcher dovette cedere; cosa che ne provocò, del resto, anche la sconfitta in patria.
La riunificazione tedesca era nei fatti la prima tappa dell’allargamento. Alla leadership europea di allora, era abbastanza chiaro che tutto ciò avrebbe retto solo se alla
cessione di sovranità in campo monetario e all’allargamento si fossero combinati passi precisi verso l’integrazione politica. Ma poi le cose sono andate in modo diverso: da
Amsterdam a Nizza, fino ai no sul Trattato di Lisbona, l’integrazione politica non è proceduta. E l’allargamento senza il famoso approfondimento ha prodotto un’Europa senz’anima. Oggi siamo quindi al bivio di cui parlavamo prima: o l’Unione Europea approverà il Trattato di Lisbona, che peraltro è solo un progresso parziale, o prevarrà un
ripiegamento nazionale. Il che significa, molto semplicemente, che l’Europa diventerà
irrilevante. Proprio quando, paradossalmente, il suo principale know-how – cooperare
sulla base di regole condivise – sarebbe utile al mondo nel suo insieme.
ASPENIA. Torniamo un momento alla svolta di Maastricht. Dovremmo chiarire in
che senso segnò il culmine del processo d’integrazione precedente ma anche un cambio
di rotta adatto ai tempi nuovi e cioè alla fine della guerra fredda. È importante ricordarlo oggi: sono passati vent’anni, che sembrano tre secoli, dal crollo del Muro di Berlino. E la sensazione è che non abbiamo saputo gestire quella che appariva allora come una grande vittoria, una vittoria definitiva, del sistema liberale e delle democrazie
occidentali. La crisi di oggi è nata nel cuore del sistema che ha vinto; in questo senso,
sembra anche segnare l’inizio di un declino relativo degli Stati Uniti. E con gli Stati
Uniti, un declino dell’Europa. Che ha in più ragioni demografiche precise per temerlo.
DE MICHELIS. Maastricht chiuse un’epoca e ne aprì un’altra perché Mitterrand,
Kohl e in parte anche noi, che avevamo la presidenza europea nella fase cruciale del
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negoziato (la seconda metà del 1990), riuscimmo a correggere il trattato in corso d’opera. Tenendo conto, appunto, che il Muro era intanto crollato. Le correzioni furono tre.
Prima correzione: l’allargamento della Comunità alla Germania orientale, a un tredicesimo membro che si fuse immediatamente nella Germania allargata. Seconda correzione: la decisione di uscire dalla logica – che oggi definiremmo “mercatista” – dell’integrazione solo economica per combinarvi l’integrazione politica. L’euro era in effetti un progetto politico, non puramente monetario. Mentre gli Stati nazionali cedevano uno dei simboli essenziali della loro sovranità, cominciavano anche a superarla o a
relativizzarla, mettendola in comune. Ricordo che con Mitterrand iniziammo a discutere, alla fine del 1990, i lineamenti di una possibile struttura confederale, che avrebbe dovuto combinarsi alla moneta unica, ossia all’unica istituzione federale di cui si è
dotata l’Europa con l’euro e la Banca centrale europea. E derivò da questo la terza correzione: eravamo consapevoli che il progetto europeo avrebbe retto solo come parte di
un ordine internazionale post bipolare. L’unificazione monetaria era, per noi, il primo
passo di un accordo monetario più vasto. Avevamo introdotto una specie di “bancor”
europeo. Guardavamo a un accordo più generale, che avrebbe dovuto risolvere il problema legato alla centralità del dollaro: l’esistenza di una moneta nazionale e guidata da logiche nazionali, il dollaro appunto, che serve anche da moneta di riserva internazionale. Quell’accordo non si è mai materializzato, lo sappiamo: e oggi siamo precisamente di fronte a questo stesso problema, reso solo più drammatico dall’ascesa di
un attore come la Cina, il grande creditore degli Stati Uniti, e dalla prima recessione
globale da mezzo secolo a questa parte.
Da questo punto di vista, i vent’anni successivi al crollo del Muro di Berlino, sono stati anni persi. Anni segnati dall’illusione che la globalizzazione potesse di per sé produrre un nuovo ordine. E che gli Stati Uniti, con il dollaro, fossero in grado di esserne i garanti. In realtà, la globalizzazione “senza regole” ha unificato le sorti dei mercati. Ma non ha creato un nuovo tipo di ordine. Mentre gli Stati Uniti hanno visto infrangersi le illusioni unipolari post 1989: il mondo di oggi, fatto di nuove economie e
di 6,8 miliardi di persone, è troppo pesante per le spalle di un unico attore, anche se si
tratta dell’attore centrale, dell’unica superpotenza rimasta, e di un gigante militare.
Per una ragione molto semplice. Prima esisteva un centro – l’Europa, poi l’Occidente
– ed esisteva una periferia; oggi, larga parte di quella che un tempo era la periferia del
sistema, fa ormai parte del centro. Sono concetti essenziali e semplici da capire: rileggere Polanyi, Braudel o Wallerstein aiuta. Ma capire non significa che esista anche la
volontà politica di prendere le decisioni conseguenti.
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ASPENIA. Ammettiamo che la volontà politica esista. Di che tipo di Europa avremmo bisogno per rispondere bene alla crisi e contribuire a scrivere le nuove regole? Tremonti parla di un’Europa ormai guidata da una logica intergovernativa. Non c’è dubbio che la gestione della crisi economica abbia rafforzato il peso del Consiglio europeo
e dimostrato, invece, la debolezza della Commissione. Nel suo ultimo libro (“La veduta corta”), Tommaso Padoa Schioppa scrive che lo svantaggio principale dell’Europa
è di essere un soggetto di politica economica, o di politica tout court, solo incompiuto
e in parte inesistente. E aggiunge: “all’Unione Europea mancano sia gli strumenti ordinari sia quelli di emergenza, perché entrambi sono nelle mani degli Stati membri”.
Insomma: Tremonti sembra pensare che la logica intergovernativa funzioni; Padoa
Schioppa scrive che non basta.
DE MICHELIS. Reagire bene alla crisi significa che dobbiamo evitare una lunga
stagnazione e stimolare la ripresa: non possiamo permetterci di cadere nella famosa lettera L (la caduta verticale seguita da anni di stagnazione) e abbiamo bisogno di una
svolta a U (toccato il punto più basso dobbiamo risalire rapidamente). Ma perché questo sia possibile, le condizioni sono due. In Europa, dobbiamo darci gli strumenti collettivi di stimolo che oggi non abbiamo, fra cui metterei gli eurobonds. Strumenti di
emergenza, appunto; che potrebbero diventare ordinari. Ma non li abbiamo precisamente per la ragione sottolineata da Padoa Schioppa. Nel mondo, dobbiamo finalmente costruire quell’accordo monetario di cui parlavo prima, il che significa il superamento graduale del dollaro come moneta di riserva. La leadership cinese ha cominciato a porre il problema in modo abbastanza esplicito: lo ricorda in questo numero Giuliano Amato e io sono convinto, come lui e come Paolo Savona, dell’importanza del tema. Perché il rischio, in assenza di un accordo monetario, è che si esca dalla crisi con
una fase di forte inflazione. Per la Cina, inflazione significa crisi politica. È la storia
a dimostrarlo. E la leadership cinese, che è lungimirante, ne è più che consapevole.
Ma per tornare all’Europa di cui avremmo bisogno, si tratta di un’Europa che riesca a
governare la moneta. Continuano invece a pesare una serie di vincoli negativi, che potremo superare solo con un maggiore coordinamento politico. Se l’Europa non ha fatto grandi stimoli fiscali non è solo perché abbiamo quegli stabilizzatori automatici che
gli Stati Uniti non hanno. Questa è la spiegazione di comodo. La realtà è che la Germania teme di pagare i costi anche per gli altri; l’Italia ha i problemi noti di debito
pubblico (ma non ha debito privato, ricordiamolo); la Gran Bretagna preferisce indebitarsi fino al collo piuttosto che contemplare quello che prima o poi dovrà fare co-
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munque, entrare nell’euro (o nel dollaro, se prevarrà l’allergia a Bruxelles). Insomma,
abbiamo bisogno non solo della moneta ma – lo ripeto ancora una volta – di una politica fiscale e monetaria comune. Perché altrimenti continueremo a competere con le
mani legate dietro la schiena. E l’euro finirà per disgregarsi. Questo è il tema.
ASPENIA. Integrazione politica. Certo. Ma come? Immaginiamo di essere in un mondo ideale: l’Europa dovrebbe diventare federale? O l’ipotesi federale – almeno il federalismo delle origini – fa parte dei progetti ormai scavalcati dalla storia? È abbastanza curioso, ma nel dibattito sull’Unione Europea si continua a oscillar fra lo scetticismo
più nero e una sorta di “hubris”. Quello che abbiamo oggi è un mix sempre mobile fra
cooperazione intergovernativa e metodo comunitario. Con elementi di sovranazionalità,
la moneta appunto. È un mix che può reggere? L’UE può restare a metà? Per citare di
nuovo Tommaso Padoa Schioppa, la sua tesi è che l’Unione Europea sarà compiuta non
quando avrà nuove o maggiori competenze ma quando avrà i mezzi per esercitare davvero le competenze che i trattati già le attribuiscono. Il suo argomento è che il potere dell’UE deve essere limitato ma forte. Limitato non significa debole.
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DE MICHELIS. Lo scenario, io credo, non è uno scenario federale, o almeno non lo
è per i prossimi decenni. Una federazione classica non è adeguata alla dimensione paneuropea che ha ormai assunto l’Europa; e non funzionerebbe in politica estera. Se
guardiamo bene agli equilibri che si stanno disegnando, lo ricordavate prima, è il peso del Consiglio europeo a rafforzarsi (i governi) assieme al peso del Parlamento (la
legittimità democratica). La Commissione sta tornando a essere ciò che era alle origini: una sorta di segretariato tecnico. E una parte del distacco fra i cittadini e l’Europa nasce anche da qui: nessuno ha voglia di farsi dettare la vita dalla burocrazia di
Bruxelles. Un assetto costruito sul rafforzamento parallelo del Consiglio europeo e del
Parlamento europeo ha maggiore senso e maggiore legittimità. Peccato che nessuno
riesca a farlo capire ai cittadini. Se il Trattato di Lisbona fosse stato spiegato così, invece di parlare a vuoto di una costituzione poco credibile, sarebbe forse già in vigore.
E la gente andrebbe a votare alle elezioni europee, se avesse chiaro che il Parlamento
non è un luogo di vacanza ma un luogo decisionale vero. Uno dei due assi portanti,
assieme alla cooperazione fra governi nazionali, della democrazia europea.
Se il contesto è questo, io vedo solo due possibilità. La prima è un aumento rapido e
pragmatico di cooperazione intergovernativa. È quello che voleva fare Nicolas Sarkozy
quando si è candidato a presiedere l’eurogruppo. Ma abbiamo visto quante resistenze
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esistano, anche da parte tedesca. È comunque una logica che – se regolata – sarebbe
compatibile con il Trattato di Lisbona, che non a caso prevede un presidente del Consiglio europeo. La seconda possibilità è la creazione di una Confederazione. Anche una
ipotesi confederale ha però bisogno di una leadership interna, e quindi di un accordo
fra i paesi principali. All’Italia conviene evidentemente che il gruppo di testa dell’Unione confederale non sia ristretto ai Tre Grandi (Francia, Germania, Gran Bretagna)
ma sia allargato anche a se stessa, alla Polonia e alla Spagna. Sarebbe una configurazione più rappresentativa e più bilanciata dal punto di vista geopolitico.
Insieme al governo della moneta, l’UE integrata dovrebbe basarsi su un secondo progetto: la difesa comune. Si dice spesso che non può esserci una difesa comune senza una
politica estera comune. In realtà, è vero l’opposto: la difesa europea determinerà anche
la politica estera. E la difesa comune è un progetto realistico: anche i tre grandi sanno benissimo che, senza mettere insieme le capacità nazionali, non conteranno più
niente nel mondo. Il rientro della Francia nel comando militare integrato della NATO
rende le cose più facili. Perché supera la vecchia divisione fra una difesa europea di
stampo gaullista e una difesa europea compatibile con la NATO. Una NATO che tenderà
a diventare globale, assumendo compiti crescenti di gestione delle crisi a migliaia di
chilometri dal vecchio continente. E che dovrà, prima o poi, includere anche la Russia.
ASPENIA. La Russia nella NATO o anche nell’Europa? Lei parla spesso di un asse euroasiatico, e tutta la vicenda Opel ha dimostrato quanto pesino i rapporti economici fra
Germania e Russia, oltre a indicare i rischi di frammentazione del mercato unico. Noi
continuiamo a pensare che la priorità dell’Europa sia invece di rafforzare l’asse transatlantico. Non è solo una questione di valori comuni, che pure contano. I dati dimostrano – lo ricorda l’articolo di Joseph Quinlan in questo numero – che l’importanza
dell’integrazione economica, fra le due sponde dell’Atlantico, è ancora molto superiore sia ai rapporti UE-Russia che ai legami fra il grande debitore, gli Stati Uniti, e il
grande creditore, la Cina. Insomma: può darsi che gli Stati Uniti abbiano in testa un
G2, noi dobbiamo avere in testa un G3, che tenga in gioco l’Europa.
DE MICHELIS. L’Europa deve ridefinire i suoi rapporti con il resto del mondo. Nell’ordine bipolare, la collocazione europea era chiarissima: una solida partnership con
gli Stati Uniti non era soltanto decisiva per la sicurezza, era anche una condizione costitutiva del processo di integrazione europea.
Dopo il 1989, il gioco si è fatto più incerto e più aperto: non è un caso se, di fronte alla
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guerra in Iraq, l’Europa si sia spaccata a metà. Anch’io sono convinto che l’asse transatlantico resti essenziale. Ma accanto a questo l’Europa deve costruire un asse euroasiatico. Per varie ragioni: perché dobbiamo tenere ancorata la Russia, che è al tempo stesso un paese troppo piccolo per giocare in proprio e troppo grande per entrare nell’UE; perché non possiamo lasciare che il rapporto con la Cina o con l’India sia gestito esclusivamente da Washington, non funzionerebbe; perché dobbiamo occuparci dell’arco di instabilità ai nostri confini sudorientali; e per motivi di sicurezza energetica.
Giocare la nostra partita sull’asse euroasiatico è il modo migliore per garantirci che gli
Stati Uniti continuino a interessarsi anche all’Europa, che non la considerino ormai
un attore secondario.
Infine, ma certo non in ultimo: lungo l’asse euroasiatico si gioca il rapporto con il mondo islamico. E da questo punto di vista, è nostro interesse che la Turchia faccia parte
dell’Europa, sono d’accordo con voi: che faccia parte dell’Unione o più probabilmente
della confederazione che dovremo costruire.
In sostanza, ai vertici di un possibile “ordine” del futuro non va visto un G2 e non basta un G20. Dobbiamo guardare a una sorta di triangolo, fatto di tre lati con un peso
dominante: l’asse transatlantico, quello transpacifico, e quello euroasiatico. È la ricetta contro l’uscita dell’Europa dalla storia.
Abbiamo delle carte solide da giocare. È evidente che l’euro esercita una crescente attrazione per l’area del rublo (la maggior parte delle riserve finanziarie russe sono ormai in euro) e che ha già un peso importante nell’area mediterranea, dove si sta peraltro decidendo la creazione di qualcosa di simile a una unione monetaria araba.
E ritorno così al punto da cui siamo partiti. Ci sono vari dossier su cui immaginare
una nuova gestione multilaterale del mondo di oggi, fatto ormai di più poli: dal clima al commercio. Ma il dossier decisivo, e quello su cui l’Europa ha una maggiore forza comparativa, è il dossier monetario.
Alla fine ci arriveremo comunque a una moneta di riferimento costruita sul “paniere”
composto dal dollaro, dal renmimbi, dallo yen e dall’euro. Molto meglio arrivarci prima, costringendo gli Stati Uniti a porsi il problema. Obama ha un compito difficile:
deve convincere gli americani a spendere meno e deve dire la verità sul dollaro. Ma ha
le qualità di leadership per riuscire. Molto meglio arrivarci prima perché si tratta dell’unica via di uscita stabile da una crisi che è esplosa come crisi finanziaria ma che in
effetti è anche la crisi terminale del vecchio ordine globale. E da crisi del genere si esce
solo in due modi: con delle guerre, come sempre in passato; o con accordi cooperativi
globali, insomma con una sorta di “dopoguerra” senza la guerra.