pnl audio - Centro di psicologia applicata

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pnl audio - Centro di psicologia applicata
La PNL
Con questo breve scritto ci ripromettiamo d’illustrare i concetti base della Programmazione
Neuro Linguistica (PNL), intesa quale disciplina che studia come gli uomini organizzano e
strutturano la propria esperienza. Familiarizzeremo con i concetti di mappa e territorio, ricalco e
guida, i sistemi rappresentazionali ed altro ancora, arrivando a rappresentare la PNL come un
modello che permette d’intervenire laddove si considera opportuno cambiare, in parte o in toto, una
mappa per renderla più funzionale alle proprie esigenze, ai propri scopi.
Per fare questo vi dovremo parlare del
1. cervello e del suo funzionamento – ovviamente per sommi capi –
2. linguaggio, inteso come comunicazione
3. dopodiché considereremo i concetti base della PNL, ossia i presupposti e gli strumenti.
Cominciamo innanzi tutto con il definire i termini: programmazione, neuro e linguistica.
Cominciamo dall’ultimo.
1. linguistica sta per linguaggio, cioè ci serviamo del linguaggio per comunicare.
2. Neuro è riferito al neurone, cellula fondamentale del cervello che permette la trasmissione
elettrochimica dell’impulso nervoso.
3. Programmazione significa che è possibile pianificare, organizzare.
Proviamo a considerare il cervello come un elaboratore d’informazioni. Avremo l’input,
l’informazione che entra nel cervello, viene elaborata dallo stesso, e poi esternata, output, nel nostro
caso in un atto comportamentale. Ma qual è la grande, incolmabile differenza tra l’uomo e il
computer? La differenza sta nelle capacità dell’uomo di poter scegliere e cambiare a piacimento il
suo programma, cosa che ovviamente non può fare il computer.
Prima di andare avanti vorremmo ricordare brevemente le ricerche effettuate da Roger
Sperry, premio Nobel nel 1981 per i suoi studi sul funzionamento diversificato dei due emisferi
cerebrali. Tali ricerche hanno permesso di appurare che i due emisferi del nostro cervello hanno
modalità differenti di funzionamento, pur potendo ogni emisfero svolgere i compiti che sono propri
dell’altro. Come dice R. Sperry: “… sembra che esistano due modalità di pensiero, una verbale e
l’altra non verbale, rappresentate rispettivamente dall’emisfero sinistro e da quello destro in
maniera piuttosto autonoma; il nostro sistema educativo, molto spesso, tende a trascurare la forma
non verbale d’intelligenza.
Ma com’è fatto il nostro cervello? Guardandolo dall’alto lo possiamo assimilare ad una
noce, oppure ce lo possiamo raffigurare con i pugni chiusi e ravvicinati delle nostre dita,
guardandolo dalla parte delle dita. Potete osservare una linea, una scissione che taglia a metà il
cervello, dividendolo in due emisferi, sinistro e destro. L’emisfero sinistro controlla e coordina la
parte destra del corpo, viceversa l’emisfero destro. Da ciò, per i mancini, l’emisfero cosiddetto
dominante sarà il destro, il sinistro per i destrimani.
Sotto i due emisferi c’è una parte chiamata corpo calloso che permette lo scambio
d’informazioni tra i due emisferi, una sorta di ponte.
Come spesso accade lungo il cammino della scienza, molte scoperte importanti avvengono
per caso. Così, quando per evitare o quantomeno ridurre le convulsioni in soggetti epilettici si è
pensato di fare una commissurotomia del cervello, ossia una resezione, un taglio nel corpo calloso
che impedisse lo scambio d’impulsi tra i due emisferi, si è notato che, al di là di un comportamento
apparentemente normale, i soggetti avevano delle défaillance allorché – con particolari apparecchi –
si permetteva l’accesso dell’input ad un solo emisfero. Pertanto se si mostrava una forchetta al
soggetto permettendo l’accesso dell’informazione al solo emisfero sinistro, questi sapeva nominarla
ma non sapeva usarla. Viceversa, con l’accesso all’emisfero destro, sapeva usarla ma non riusciva a
nominarla, nonostante gli sforzi prodotti.
Così un afasico è un soggetto che ha subito un danno al centro di Broca, situato nella parte
anteriore dell’emisfero sinistro, e deputato al linguaggio verbale. Chi ha subito un danno a tale
centro perde la capacità di parlare. Ma ricordate? Abbiamo detto che il cervello è plastico, ossia
ogni emisfero ha la capacità di svolgere i compiti dell’altro. Ecco allora recuperare gli afasici
tramite il canto, funzione questa propria dell’emisfero destro.
Sintetizzando, l’emisfero sinistro è sede del linguaggio verbale, dell’analisi e del pensiero
logico, mentre quello destro è privo di linguaggio verbale, sintetizza ciò che osserva, percependo
globalmente. Metaforicamente, se osservassimo un quadro solamente con l’emisfero destro
vedremmo l’insieme, mentre l’emisfero sinistro ci evidenzierebbe i particolari.
Bene, passiamo al linguaggio ed alla comunicazione. Gli elementi che entrano in gioco nella
comunicazione sono:
1)
2)
3)
4)
5)
6)
un emittente (cioè una fonte che invia un messaggio),
un ricevente (è l’ente che riceve il messaggio),
un canale (o un mezzo),
un codice (il significato del messaggio),
la codificazione (traduzione di ciò che si vuole trasmettere, all’atto della trasmissione),
la decodificazione (la traduzione del messaggio da parte di chi riceve).
Si pensi all’alfabeto morse. Abbiamo un emittente che vuole trasmettere un messaggio. Si
serve di un mezzo, l’apparecchio morse. Di un codice, punto e linea. Di una specie di vocabolario
per tradurre le parole in punti e linee. Dall’altro lato avremo un ricevente, anch’esso con un
vocabolario per decodificare il messaggio di punti e linee.
Vediamo adesso i presupposti principali della comunicazione. Essi sono:
1) non si può non comunicare,
2) il significato della comunicazione sta nella risposta che produce, a prescindere dalle intenzioni
dell’emittente,
3) la mappa non è il territorio, come afferma KORZYBKI.
Mentre i livelli sono rappresentati dal linguaggio verbale, paraverbale e non verbale.
Ora, siccome ci serviamo del linguaggio per esplicitare i nostri pensieri, occorre capire come
ciò avvenga. Per fare ciò dobbiamo considerare la teoria della comunicazione ed i suoi presupposti.
Innanzi tutto cos’è la comunicazione? Brevemente, la possiamo intendere come un processo
circolare d’influenzamento reciproco tra due o più soggetti che si scambiano messaggi, contenuti,
informazioni in un certo contesto e, che solo inizialmente si distinguono in emittente e ricevente.
Quindi il significato di una comunicazione è dato dal contenuto del messaggio in un determinato
contesto.
Ricordate il principale presupposto della comunicazione? Che è impossibile non
comunicare? Io sono qui, quindi esibisco un comportamento, cioè entro in relazione con qualcuno,
ossia comunico con qualcuno in un certo contesto. Che parli o stia zitto esibisco un comportamento
e comunico qualcosa. Non è possibile non esibire un comportamento e siccome quando mi
comporto entro in relazione, cioè comunico qualcosa, ne deriva che non posso non comunicare.
Poc’anzi ho asserito che anche quando sto zitto esibisco un comportamento e comunico. Sì,
perché la comunicazione, come abbiamo visto, non è solamente verbale, tutt’altro. I teorici della
comunicazione considerano, infatti, la comunicazione verbale come una minima parte della
comunicazione globale. Essi ritengono che la comunicazione verbale rappresenti solamente il 7%
dell’intera comunicazione. Il restante 93% è dato dalla comunicazione paraverbale (nella misura del
38%) e dalla comunicazione non verbale (ben il 55%). La comunicazione paraverbale è
rappresentata dai toni, dal ritmo, dalla cadenza, dall’inflessione, etc. della voce, mentre quella non
verbale è data dalla gestualità, dalla mimica, dalla prossemica (che è la gestione degli spazi). Questi
sono i livelli, della comunicazione. Se per esempio sono un insegnante di matematica e sto
commentando l’operato di un alunno alla lavagna dicendo: “come sei bravo!”. Il contenuto a livello
verbale è: “come sei bravo”, il significato (paraverbale e non verbale) è che non ha azzeccato
niente! Quindi, il paraverbale e il non verbale commentando sul verbale rappresentano livelli
superiori di comunicazione, per cui il significato “vero” della comunicazione è dato dal livello
superiore, cioè dalla metacomunicazione. Sembra addirittura che agli attori di teatro insegnino una
dozzina di modi per dire “no”.
Per il secondo presupposto, quello che reputa importante la risposta ottenuta anziché
l’intenzione, ricordo un episodio capitatomi con una delle mie giocatrici di pallavolo (nel tempo
libero faccio l’allenatore di volley). Una domenica mattina, mentre mi recavo in palestra per la
partita che avevamo da giocare, incontro Carla e m’accorgo che ha cambiato pettinatura. La nuova
acconciatura le stava proprio bene e gliel’ho detto. Ha ringraziato per i complimenti, dopo di ché ho
proseguito, mentre lei ha aspettato le altre compagne di squadra. In palestra stavamo sistemando la
rete di gioco quando Carla è arrivata con le compagne. Al ché, rivolgendomi ad un giovane
allenatore gli parlo del mio incontro con Carla e dei complimenti per la pettinatura. Come? Mi
risponde l’altro. Ha apprezzato i tuoi complimenti? Prima di te l’ho incontrata io, facendole i
complimenti e mi ha risposto male, come se fosse offesa. Certamente Carla aveva ricevuto due
messaggi differenti con i complimenti o, quantomeno li aveva interpretati diversamente, il ché non
cambia la sostanza.
Sintetizzando: dico qualcosa, ossia comunico. Commento sulla comunicazione, ossia
metacomunico, vado oltre quello che ho detto. Infatti, meta significa oltre. Livello superiore.
Un’altra cosa da considerare nell’ambito della comunicazione è la congruenza. Il classico
caso della persona invitata a dire se si sia divertita ad un party la sera prima, ci chiarirà il concetto.
La persona risponde “sì” (verbale positivo), ma scrollando le spalle (non verbale negativo) e con un
tono di voce che sfiora la depressione (paraverbale negativo).
Ne consegue che nella comunicazione incongruente il massaggio non passa. Ciò che passa è
confusione a livello inconscio.
Della mappa e del territorio, invece, ce ne occuperemo tra poco, quando considereremo la
PNL.
Bene, abbiamo visto come – grosso modo – funziona un cervello e cosa s’intende per
comunicazione. Occupiamoci ora della PNL dicendo subito che un matematico, Richard Bandler,
ed un linguista, John Grinder, si sono proposti di osservare dei modelli vincenti, rivolgendosi per
prima cosa al campo della psicoterapia.
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È nata così la PNL che si è avvalsa, sostanzialmente, dei contributi della:
Cibernetica  che è una scienza che studia la comunicazione tra i sistemi – viventi e non – e
dei relativi meccanismi di autoregolazione tramite feedback.
Teoria dei Sistemi  un sistema è rappresentato da un insieme di elementi che si influenzano
reciprocamente.
Linguistica  studia la struttura delle lingue, tralasciando il loro contenuto; vedremo cosa
significa struttura superficiale, profonda e percezione.
Psicologia (sperimentale e cognitiva).
Matematica (Teoria dei Gruppi e dei Tipi Logici).
Abbiamo già detto di considerare il cervello come un elaboratore:
1) un computer che riceve gli input dai nostri sensi, considerati come delle finestre aperte sulla
realtà;
2) il nostro cervello interpreta la realtà attraverso dei filtri che rappresentano anche dei limiti (filtri
neurologici, si pensi al telescopio ed al microscopio – sociali e culturali, pensate alla concezione
tolemaica dell’universo – individuali, le credenze, che vedremo più avanti;
3) costruisce Mappe e Modelli;
4) i quali producono Azioni e Comportamenti (output).
Mentre il comportamentismo si rifiutava di studiare l’elaboratore, la “scatola nera”, poiché
non poteva essere osservato, la PNL studia proprio l’anima del computer, cioè come questo elabori.
Ma, partiamo dalla storia. Storicamente, la PNL è nata grazie all’osservazione dei due nostri
giovani studiosi, che negli anni ’70 si sono chiesti come mai ci sono degli individui appagati,
gratificati, integrati nella società in cui vivono, mentre altri sono insoddisfatti, scontrosi, depressi,
per niente integrati nella stessa società, tanto da dover ricorrere, a volte, alla psicoterapia, pur
vivendo questi ultimi esperienze pressoché simili a quelle che vivono i primi. E, di conseguenza,
come mai, nell’ambito della psicoterapia ci sono dei professionisti tanto abili da riuscire a risolvere
i problemi dei loro clienti indipendentemente dai problemi, indipendentemente dai clienti, mentre
altri terapeuti pur utilizzando le stesse tecniche, pur avendo lo stesso bagaglio teorico a cui ispirarsi,
non producevano lo stesso risultato di successo che i primi avevano come per magia.
La conclusione cui sono giunti è che ci sono degli individui – terapeuti compresi – che
hanno dei modelli ricchi di opzioni, di possibilità di scelta, mentre altri, semplicemente non ce
l’hanno. Ma come è possibile ciò? Come si costruiscono i modelli e come è possibile trasformare i
propri modelli in modelli di successo? Innanzi tutto cos’è un modello? Un modello è la
rappresentazione di qualcosa. Un plastico del cuore – per chi studia medicina – è un modello del
cuore che permetterà di capire meglio il suo funzionamento, quanto più la sua rappresentazione sarà
fedele.
Ricordate le domande principali? Come mai ci sono individui che hanno modelli più ricchi o
più poveri? Come si costruiscono i modelli? E come è possibile trasformarli in modelli cosiddetti di
successo? Per cercare di risolvere questi quesiti hanno preso a studiare le modalità di
comportamento di quei terapeuti che hanno soprannominato “Maghi della Psicoterapia”. Tra questi
ricordiamo Milton Erickson – ipnoterapeuta, Virginia Satir – Terapeuta della Famiglia e Fritz Perls
– Terapia Gestaltica. Filmando e registrando il loro comportamento in terapia e discutendo con i
terapeuti del loro modo di fare hanno notato come essi utilizzassero uno stesso “linguaggio”, un
modo di procedere nel setting terapeutico, che hanno chiamato metacomunicazione.
Per capire meglio ciò che andremo esponendo occorre fare un passo indietro dicendo che, in
passato già molti pensatori e filosofi avevano espresso più volte il concetto che noi non agiamo
nella realtà, nel senso che ci sarebbe sì una realtà oggettiva, uguale per tutti, ma anche una realtà
soggettiva derivata dal nostro modo di interpretare gli eventi. È proprio questa interpretazione della
realtà che determina il nostro comportamento.
In altre parole lo stesso albero che due persone guardano sarà certamente considerato
diversamente nella mente, nel pensiero di quelle due persone: per la prima potrà essere dell’ottima
legna da ardere, per la seconda un’eccellente riparo dal sole cocente. Così, quando tutti pensavano
che la Terra fosse piatta, quel “visionario” (tra virgolette) di Cristoforo Colombo la pensò come un
globo e … sapete tutti come andò a finire.
Un semplice esperimento che tutti voi potete fare chiarirà meglio questo concetto. Chiedete
a due o più volontari di prendere un foglio di carta, tracciare una linea verticale al centro del foglio,
sulla parte sinistra facciamo scrivere la parola “amore” e nella parte destra del foglio la parola
“lavoro”, poi chiediamo ai volontari di specificare il significato di queste due parole stimolo con
altre 5, 10 singole parole che scriveranno sotto, nella parte corrispondente del foglio, e noterete
come l’interpretazione vari da un individuo all’altro.
Bandler e Grinder hanno quindi cercato di costruire un modello di comportamento umano
che potesse cercare di mostrare come gli uomini arrivino a pensare in modo tanto diverso gli uni
dagli altri. Questo concetto lo hanno mediato dalla linguistica che – come abbiamo detto – studia la
struttura dei linguaggi, indipendentemente dai contenuti.
Spieghiamoci meglio: la struttura di un albero è data dalle radici, dal tronco, dai rami con le
foglie ed i frutti, e ciò indipendentemente dal fatto che l’albero sia una quercia, un ulivo, un abete o
altro; avranno sempre e comunque una struttura fatta di radici, fusto e rami. Allo stesso modo sono
strutturati i vari linguaggi e le varie lingue. La struttura dell’albero calza a pennello come paragone
della linguistica. Infatti, nell’albero possiamo vedere il fusto e i rami, mentre nella linguistica
abbiamo la struttura superficiale. L’albero ci nasconde le radici che nella linguistica sono
rappresentate dalla struttura profonda. La struttura superficiale è ciò che diciamo o scriviamo
allorché vogliamo comunicare qualcosa, quella profonda rappresenta il significato della prima. Ma
non è finita qui, non abbiamo detto tutto, poiché il linguaggio è un processo cosiddetto secondario.
Il processo primario è dato dai nostri sensi con i quali percepiamo la realtà che abbiamo intorno, per
cui la cosiddetta struttura profonda poggia sull’esperienza soggettiva che noi abbiamo della realtà,
come le radici poggiano nel terreno in cui si trova l’albero della nostra analogia.
Riepiloghiamo: alla base c’è l’esperienza percepita, sopra di essa poggia la struttura
profonda, cioè il significato che diamo all’esperienza vissuta, ed ancora più sopra sta quella
superficiale, vale a dire ciò che esplicitiamo.
Abbiamo già fatto la distinzione tra la realtà oggettiva e quella soggettiva, ma come si viene
a formare quest’ultima? Si viene a formare tramite dei processi che Bandler e Grinder hanno
chiamato “universali umani”, universali poiché sono uguali per tutti gli uomini, sotto tutte le
latitudini e longitudini, indipendentemente dalla cultura o altro.
Questi processi saranno definiti singolarmente solo per comprenderli meglio, e li si potrà
notare tanto nei comportamenti quanto nel linguaggio parlato. Abbiamo visto come comportamento
e comunicazione possono essere considerati sinonimi. Adesso torniamo ai nostri meccanismi che
sono poi i processi con i quali ci costruiamo i nostri modi di pensare che i nostri giovani e brillanti
autori hanno chiamato rappresentazioni mentali o mappe.
Abbiamo quindi la generalizzazione, che è il processo mediante il quale un elemento di una
categoria giunge a rappresentare l’intera categoria. Un esempio illustrerà meglio il concetto. Se
qualcuno, toccando una stufa accesa si scotta, non avrà certamente bisogno di toccare tutte le stufe
accese per capire che si scotterà. Allo stesso modo, se imparo ad andare in bicicletta, riuscirò a
portare qualsiasi bicicletta e non solo quella su cui ho imparato.
C’è poi il meccanismo della trasformazione con cui si distorce la percezione di qualcosa.
L’esempio limite è quello di una persona assetata nel deserto che deforma la realtà fino ad avere il
miraggio di un’oasi.
Infine, c’è la cancellazione, in cui si sopprime una parte dell’esperienza; la si ha, cioè,
quando da una struttura superficiale si elimina una parte della struttura profonda. Ad esempio, ad
una festa filtriamo solo le parole del nostro interlocutore, cancellando tutti i rumori e/o le voci che
non c’interessano. E qui faccio un esempio verbale che mi permetta di farvi comprendere come
questi processi di fatto s'intrecciano tra di loro, presentandosi singolarmente solo raramente.
L’esempio lo si ha allorquando da un terapeuta si presenta qualcuno che dice: “Nessuno mi
capisce!”. Qui è stato cancellato chi di fatto – secondo lui – non lo capisce, ma c’è stata anche una
generalizzazione, perché non è pensabile che proprio “nessuno” lo capisca, distorcendo quindi la
realtà.
Fermiamoci un attimo qui, per capire meglio questi concetti. Innanzi tutto diciamo subito
ch’essi, di per sé, non sono buoni o cattivi, giusti o sbagliati. Fanno semplicemente parte
dell’economia del cervello umano. Eh sì, perché il cervello umano quando può lavora in economia.
Provate a domandarvi quale strada fate andando al lavoro, oppure dai vostri genitori/suoceri od
ovunque coltivate un hobby; potendo scegliere la strada, mica fate sempre o quasi sempre la stessa?
Bene, questi meccanismi che sono dei processi ci fanno risparmiare energia e tempo, ma non
sempre. Sì avete capito bene. Non sempre. Quando, ad esempio, confondiamo la mappa con il
territorio.
Ma quand’è che confondiamo la mappa con il territorio? E, cos’è la mappa; cos’è il
territorio? La mappa è il nostro modo di pensare. Il territorio è l’ambiente in cui ci muoviamo ed
agiamo. Un esempio come sempre vale più di mille parole. Se pensiamo che corteggiare una donna
significhi mandarle lettere e fiori o al contrario significhi mostrarsi superiori, stiamo confondendo la
mappa con il territorio. Come? Semplicemente generalizzando che tutte le donne sono uguali e
vanno trattate allo stesso modo, deformando la realtà che vuole che le persone siano uniche, come
dice anche la parola “individuo”. Il fatto di aver avuto successo con una strategia, in un particolare
contesto e con una determinata persona, non significa che avremo sempre lo stesso successo con
altre persone e in altre situazioni. Capite bene come la persona dell’esempio precedente, qualora si
ostinasse ad approcciare tutte le donne che incontra allo stesso modo, andrà inevitabilmente
incontro a cocenti delusioni. Giungendo infine a pensare che le donne non lo capiscono o che lui
non le capisca, che le donne sono tutte le stesse, e così di questo passo.
Riepilogando, la PNL è un modello, che cerca di spiegarci come ci costruiamo le nostre
mappe mentali per agire nel mondo che ci circonda, al fine di permetterci d’impadronirci di modelli
comportamentali di successo o, quantomeno più gratificanti. Sono stati individuati tre processi di
costruzione delle nostre rappresentazioni mentali: la generalizzazione, la cancellazione e la
deformazione. Le prime due possono essere considerate come delle sottocategorie della
deformazione o trasformazione.
Facciamo un altro esempio. Ora, c’è una categoria di persone – gli scienziati – che più di
altri costruisce modelli. Gli scienziati per studiare meglio un determinato fenomeno costruiscono
dei modelli al fine di osservarli più comodamente in laboratorio, ove cambieranno a piacimento le
variabili che entrano in gioco. Vediamo con loro come possiamo apprendere a comportarci in un
certo modo, giungendo infine a confondere la mappa con il territorio. Supponiamo che il nostro
scienziato sia uno psicologo sperimentale interessato alle nevrosi. La nevrosi la possiamo
considerare come una risposta stereotipata ad un dato stimolo. Avremo così, per esempio, il
claustrofobico – colui che ha paura degli spazi stretti – reagire sempre allo stesso modo allorquando
si trova nella stessa situazione, per esempio, svenendo.
Ora, volendo costruire una nevrosi sperimentale lo si può fare tramite il metodo dei riflessi
condizionati di Pavlov.
Mettiamo un cavallo in una stalla, di modo che sia obbligato a poggiare una zampa su una
piastra metallica posta sul pavimento, collegata sotterraneamente a della corrente elettrica. Quando
lo sperimentatore farà passare la corrente il cavallo, che poggia la zampa sulla piastra, non appena
l’avvertirà alzerà la zampa per evitarla, e così ogni volta. A questo punto lo sperimentatore decide
di far precedere il passaggio della corrente dal suono di un campanello. Ben presto il campanello
diventerà un segnale che avverte il cavallo che sta per ricevere la scossa. Il cavallo, che non è
scemo, alzerà la zampa prima di avvertire la scossa perché condizionato oramai dal campanello.
Così facendo si priverà anche dell’opportunità di sapere se la corrente era stata attivata
effettivamente oppure no. Ma ciò al cavallo interessa ben poco. Quello che gli preme è di evitare la
scossa. Bene, il nostro cavallo viene successivamente portato in un prato, vicino ad una stradina
dove i bambini passano festosi in bicicletta suonando, di tanto in tanto, il campanello, finché
qualcuno non si accorge dello “strano” (tra virgolette) comportamento di quel cavallo che alza la
zampa ogni volta che sente suonare. Cos’è successo al cavallo? Ha semplicemente appreso una
modalità di comportamento, congrua alla situazione quando si trovava nella stalla e gli si
inducevano le scosse. Incongrua, diremo nevrotica, nel parco, avendo generalizzato i suoni dei
campanelli che lo portavano ad alzare la zampa ogni volta che venivano prodotti.
Ricordate quando abbiamo detto che la struttura profonda, cioè la mappa, o meglio le mappe
della realtà che ci siamo costruiti, si fondava su ciò che i nostri sensi percepiscono del mondo che ci
circonda? Orbene, i nostri sensi sono stati giustamente definiti le porte della percezione (Aldous
Huxey), poiché ci permettono di entrare in contatto con il mondo esterno. Ma, i nostri sensi vanno
oltre le semplici apparenze, in quanto il nostro cervello, lo ripetiamo, interpreta ciò che percepiamo.
Lo codifica e lo decodifica continuamente. Lo paragona ad esperienze precedenti. Lo adatta, se
necessario, alla sua visione del mondo.
Molti di voi avranno certamente sentito parlare dei fuochi fatui. Sono delle fiammelle a
mezz’aria che appaiono in prossimità di sepolture. Qualche tempo fa si pensava fossero l’entità
disincarnata di qualcuno. Quando un viaggiatore solitario, di notte soprattutto, (poiché al buio si
vedono più facilmente) s’imbatteva in esse e veniva seguito, sì avete capito bene, veniva seguito da
queste fiammelle, non di rado poteva morire d’infarto, per tutto ciò che costruiva mentalmente e
s’immaginava circa quelle fiammelle. Oggi sappiamo che morendo, con il tempo, le nostre ossa si
decompongono formando dei gas piuttosto leggeri che, a contatto con l’aria, s’infiammano. Le
sepolture di una volta avvenivano per lo più nel terreno e, seppure i corpi fossero messi nelle casse,
le stesse non erano come quelle di oggi, ermeticamente chiuse. Da qui la possibilità che tali gas
potessero fuoriuscire e prendere fuoco, ed essendo leggeri, bastava il semplice spostamento d’aria
che una persona provoca camminando per far sì ch’esse seguissero e si fermassero dietro il
malcapitato, dandogli l’impressione che fossero, per così dire, “vive”. La suggestione, ovvero la
credenza mentale, la mappa, faceva il resto.
Bene. Torniamo ai nostri sensi. La PNL, per comodità, li ha raggruppati in 3 classi o sistemi:
vista, udito, cinestesi (che comprende tatto, gusto, olfatto). Il nostro cervello codificando e
decodificando ciò che i nostri sensi catturano, li traduce in pensieri e sensazioni, rielaborando così
quello che abbiamo percepito. Noi, nel rendere gli altri partecipi dei nostri pensieri, attraverso la
mediazione del linguaggio, li descriviamo con parole che evocano immagini, suoni e sensazioni.
Cioè l’uomo si costruisce delle rappresentazioni mentali, dei modelli del mondo, delle mappe che
descrivono il mondo, il territorio, tramite questi 3 processi di modellamento: cancellazione,
generalizzazione e distorsione. L’uomo descrive agli altri il proprio mondo, le proprie mappe con il
linguaggio che rappresenta i canali, i filtri con cui interpreta la realtà.
Chiudete un attimo gli occhi. Immaginate di avere tra le mani un limone. Pensatelo come
meglio potete. Cercate di vedere il giallo della sua buccia, percepite al tatto la superficie rugosa o
liscia, sentitene l’odore. Immaginate ora di prendere un coltello ben affilato e di tagliare il limone.
Avvertite il succo che vi cola sulle mani. Portatene una parte alla bocca come per gustarlo. Adesso
fermatevi e descrivete ciò che vi accade. Avete avvertito l’acquolina in bocca? Il sapore aspro vi ha
fatto stringere la bocca? Ma avete il limone in mano? No di certo! E’ bastato immaginarlo con tutti i
vostri sensi per percepire tutte quelle sensazioni.
Da ciò deriva che nel descrivere agli altri la nostra mappa, tramite il linguaggio, ci serviamo
dei sistemi rappresentazionali visivo, uditivo e cenestesico. Ognuno di noi, pur servendosi di tutti e
tre i sistemi, ne predilige uno, perciò siamo definiti come visivi, uditivi o cinestesici. L’importanza
di questi canali aumenta o diminuisce in relazione alle circostanze. Ad un concerto, ad esempio, è
l’udito che acquista valenza maggiore, mentre per un atleta sarà il canale cinestesico quello più
sollecitato e per un ingegnere avere chiaro un progetto significa privilegiare il sistema visivo.
Quale può essere l’aspetto pratico di tutto ciò? La PNL studia i modelli vincenti, di
successo, indipendentemente dal settore in cui si opera, perciò può trovare applicazione nei campi
più svariati. Dalla psicoterapia alla psicologia dell’apprendimento, dal marketing alla vendita, allo
sport, all’incremento della motivazione o alla gestione dello stress.
Supponiamo di essere dei venditori d’auto. Trovandoci di fronte ad un potenziale cliente, la
prima cosa da fare è creare ciò che tecnicamente viene chiamato rapport, ossia dobbiamo entrare in
relazione con il cliente. Tale rapport si ottiene più facilmente assecondando il cliente. Questo
assecondare il cliente prende il nome di ricalco e si ottiene calibrando e modulando la propria voce,
la propria respirazione, i gesti, la postura, a quelli del soggetto che si ha di fronte. Prima faremo
parlare il più possibile il cliente, con delle domande aperte, cercando di capire cosa cerca soprattutto
in una macchina, per sapere se per lui è più importante la sicurezza, la comodità, lo status-symbol, o
quant’altro; se è un visivo, un uditivo o un cenestesico. Dopo di che, ricalcando il suo canale
preferenziale gli evidenzieremo l’aspetto per lui prioritario, utilizzando le sue parole ed
enfatizzandole se possibile, facendogli immaginare con tutti i suoi sensi ed in particolare con quello
preferenziale, di possederla già.
La descrizione dello stato mentale in cui si vuole che il soggetto entri è la guida.
Dunque, con il rapport entriamo in contatto, con il ricalco diventiamo simili, rispecchiandoci
nell’altro. Con la guida si porta l’interlocutore su una strada nuova.
Ricordo quando partecipai ad un corso d’ipnosi. Dopo la parte teorica ci divisero in piccoli
gruppi per sperimentare l’efficacia del ricalco e della guida. Io dovevo ipnotizzare una psicologa
che sapevo essere collaboratrice del docente. Sapevo che era già stata utilizzata come soggetto
ipnotico. Mi misi dirimpetto a lei e guardandola negli occhi, che lei apriva e chiudeva, dissi: “tu sai
già come si va in ipnosi, lo hai già sperimentato” mentre aprivo e chiudevo gli occhi, inizialmente
con gli stessi suoi intervalli, poi aumentandoli sempre più, fino a tenerli chiusi per un po’ di tempo.
Quando li riaprii era in trance.
Cosa avevo fatto. Avevo semplicemente preso a ricalcare la sua esperienza dicendo che lei
già sapeva e, contemporaneamente ricalcavo fisicamente i movimenti dei suoi occhi, per poi passare
a guidare aumentando gradatamente gli intervalli di chiusura degli occhi. Il resto lo ha fatto tutto lei.
Ci sono poi i segnali di accesso o scansione oculare, che sono dei movimenti degli occhi che
chiunque effettua, senza consapevolezza, quando pensa. In pratica sono degli indicatori dei sistemi
rappresentazionali utilizzati in quel momento. Sintetizzando, gli occhi in alto a sinistra indicano che
stiamo ricordando visivamente. In alto a destra, abbiamo la costruzione visiva. Lateralmente a
sinistra, ascolto ricordato, come se stessimo ascoltando un nastro. Lateralmente a destra,
costruzione auditiva. In basso a sinistra, dialogo interno. In basso a destra, sensazioni cenestesiche.
Sempre dalla mia esperienza di allenatore traggo questa esperienza. Avevo cambiato di ruolo una
mia giocatrice, spostandola a centrale d’attacco, mentre prima costruiva per l’attacco. Non aveva
ancora assimilato bene la chiusura d’attacco. Invece, era brava a bloccare gli attacchi avversari. Alla
vigilia di una trasferta, per non urtare la sua sensibilità, dissi in privato alla mia capitano di alzare
pochi palloni a lei. La capitano, in partita, dimenticò i miei suggerimenti dando al centrattacco i
palloni che riceveva, favorendo così gli avversari che avevano buon gioco contro chi non sapeva
attaccare bene. Chiesi un time-out nel quale, rivolgendomi alla capitano, domandai se ricordava le
mie disposizioni. Disse di sì, guardando in alto a destra, mentre avrebbe dovuto volgere lo sguardo
a sinistra lateralmente. Sicché, effettuai subito un cambio, facendo uscire il centrale per pochi
secondi. Di ritorno, sul pullman, mi appartai con la capitano chiedendo come mai mi aveva detto di
ricordarsi dei miei consigli se non era vero. Sorpresa mi chiese come l’avessi capito e mi disse che
il cambio effettuato era stato sufficiente a farle ricordare tutto ciò che le avevo detto la sera prima.
Un’altra tecnica molto importante è la ristrutturazione, vale a dire cambiare il riferimento di
un’affermazione, attribuendole un altro significato. Anche qui attingo alla mia attività sportiva
l’esempio chiarificatore.
Avevo un’alzatrice che in allenamento schiacciava molto bene, ma in partita non schiacciava
mai. Dopo averla esortata per mesi – senza alcun risultato apprezzabile – che doveva schiacciare in
partita, venne da me, un giorno, quasi con le lacrime agli occhi, confessando che erano quasi tre
notti che non dormiva, chiedendomi come doveva schiacciare. Di rimando le domandai: “qual è il
compito dell’alzatrice?”. “Di alzare la palla”, mi rispose. “No” dissi, “è quello di rendere
schiacciabile il pallone”. Da allora, come per incanto si sbloccò diventando una delle migliori
giocatrici che abbia mai visto in quel ruolo. Confesso che questa ristrutturazione è stata piuttosto
casuale. Mi preme però mettere l’accento sulla parola “alzatrice” e su come questa fosse limitante
con la sua definizione.
Infine accennerò all’ancoraggio. L’ancoraggio si basa sullo stimolo-risposta, come per i
riflessi condizionati di cui abbiamo già trattato. La differenza consiste nel fatto che con l’ancora
basta un solo stimolo per determinare la risposta. È il caso della persona rimasta bloccata in
ascensore che sviluppa una claustrofobia (ricordate? paura degli spazi stretti), cancellando tutte le
volte precedenti che ha preso l’ascensore senza incidenti, generalizzando la paura a tutti gli
ascensori e deformando la realtà che vuole gli ascensori utili anziché pericolosi.
Mi congedo dicendo semplicemente che la PNL è essa stessa un modello e che non
rappresenta assolutamente la verità, ma un mezzo per indagare come gli uomini costruiscono ed
impiegano le metafore della propria vita. E, questo breve scritto non ha certamente esaurito
l’argomento, ma spero abbia stimolato ad intraprendere un viaggio alla scoperta di sé stessi e delle
proprie meravigliose capacità insite nel nostro intimo, nonché a scoprire le sempre più vaste
applicazioni della PNL.