Gian Paolo Caprettini Shrek, lʼorco benevolo che mangia tutte le

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Gian Paolo Caprettini Shrek, lʼorco benevolo che mangia tutte le
Gian Paolo Caprettini
Shrek, lʼorco benevolo che mangia tutte le fiabe
Lʼintermedialità è condizione costitutiva della testualità così come la
memoria è condizione costitutiva della cultura. Il fatto che un contenuto testuale possa transitare da un medium allʼaltro, dal folclore al
cinema, ad esempio, come vedremo più avanti, è strettamente connesso
allʼaltro fatto che, per passare da un piano di manifestazione a un altro,
occorre una memoria comune; perché il testo risultante dalle varie “traduzioni” possa essere considerato nella sua identità (indipendente dalle
varie realizzazioni) è necessario che questa identità dipenda dallʼappartenenza alla sfera che lo contiene, vale a dire la propria cultura.
Gli storici dei media riconoscono nellʼidea di medium un collegamento stretto con la tecnologia, sia che la tecnica sia quella di scrivere
su un foglio, sia quella di trasmettere a distanza. Ma se noi risaliamo,
con la semiotica della cultura, quella alla Jurij M. Lotman, tanto per
intenderci, attraverso le procedure del pensiero, alla nozione di memoria, notiamo che ogni giorno lavoriamo non soltanto con la facoltà
psichica che consente a ciascuno di noi di ricordare, ma con quellʼaltra
facoltà che ci permette di riconoscere che anche gli altri hanno una
memoria e che ci obbliga a tenerne conto: diciamo che la risultante di
queste due facoltà è la memoria condivisa o memoria culturale1.
Si tratta di unʼidea che ci permette di difenderci dalla considera1
Osserva giustamente Aleida Assmann, Erinnerungsraume: Formen und Wandlungen
des Kulturellen Gedachtnisses, Beck, München, 1999 (tr. it. Ricordare. Forme e mutamenti della memoria culturale, Il Mulino, Bologna, 2002, p. 21): «oggi la memoria
individuale è circondata da una serie di mediatori tecnici che cancellano il confine tra
processo intrapsichico ed extrapsichico». Ora, il cinema mi pare invece il medium principale che facilita gli scambi tra il mondo intrapsichico – che si mette in moto durante la
ricezione – e quello extrapsichico – che invece valuta, classifica e integra il film all’interno di un più vasto processo culturale e storico oltre che individuale. Analogamente,
muovendo da Ejzenštejn, si può affermare con Giorgio Tinazzi che «l’immagine si porta
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zione che il potentissimo computer possa godere sia di intermedialità
(permettendo il passaggio e lʼintegrazione dei media) sia di intertestualità (fruendo di banche dati) quando è invece macchina che raccoglie e gestisce memoria ma che non condivide. Il condividere è un
processo mediante il quale si governano procedure come quella del
riconoscimento: ci si riconosce a distanza di molti anni tra persone, si
riconosce un testo dentro un altro testo, si riconosce un ricordo dentro
una memoria. E si riconosce un film dentro un altro film, e soprattutto, ed è quello di cui voglio parlare oggi, si riconosce un personaggio
dentro un altro personaggio.
Una delle forme testuali del cinema, che esso ha fatto propria grazie alla sua capacità di rappresentare plurisensorialmente lʼimmaginario, è il personaggio: è sulla base del carattere insieme testuale e corporeo del personaggio che il cinema ha potuto assegnare allʼattore un
carattere mitologico (oltre che mitopoietico). Con lʼidea di personaggio, con la sua identità composita e transitoria, ci si allontana, come ha
mostrato Ferdinand de Saussure, da una concezione semiotica “scolastica” per cui il personaggio sarebbe un segno, cioè una entità stabile
che sta al posto di qualcosʼaltro: il personaggio è invece un crocevia di
segnali – dal nome allʼabito, dal carattere allʼetà – e quindi costituisce
il vettore plastico di mutamenti che si effettuano nel mondo e che contribuiscono a “fare” la storia che vediamo.
È radicale la differenza tra lingua e storia, tra nome e accadimento.
Il cinema, e in parte la televisione, ci hanno insegnato che linguaggio
e storia possono convivere. E convivono attraverso un personaggio,
che si assume delle mosse. Immaginare che ci possa essere una storia
senza personaggi è impossibile. Immaginarsi che ci sia un linguaggio
senza parlanti è altrettanto impossibile.
Allora, oggi mi fido di un particolare signore, un orco, che si chiama Shrek, e vado con lui ad esplorare i confini del personaggio neldietro una duplice capacità: quella di produrre pathos e quella di coniugarsi con altre
immagini», in «La valle dell’Eden», VII, n. 14, gennaio-giugno 2005, p. 14.
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lʼomonimo film, ricavato da un testo di William Steig e diretto da
Andrew Adamson e Vicky Jenson (2001). Questo particolare signore
è lʼincarnazione di una specifica identità, la cui astrazione si chiama
trikster, personaggio esperto, come direbbe Carl Gustav Jung (che lo
ha studiato con Kerenyi) in “scoronamento degli istituti”, capace di
insidiare o di rendere umile e fragile qualcuno che detiene il potere
(nella fattispecie sia il gulliverizzato Lord Farquaad, sia, se vogliamo,
gli eroi delle vecchie fiabe parodizzati nella storia).
Shrek inoltre lavora in maniera quasi mitologica quando scorona
se stesso e lo fa con ingenuità raccontando la propria storia. Devo
fare due passi indietro: per parlare di personaggio, devo parlare di due
istituti estetico-espressivi, la fiaba e la parodia. Parto sempre dalla fiaba, poiché è il mio focus personale, il mio modo di presentare quello
speciale rapporto tra storia e linguaggio di cui dicevo prima, e ho visto
che andando a fare ricerche sul cinema e sulle storie audiovisive, la fiaba torna sempre o meglio i mythoi si impongono. Penso che il motivo
risieda nel fatto che la fiaba possa fare a meno del personaggio, poiché
essa stessa è un grande testo-personaggio, dove esistono delle funzioni
– come ha mostrato Propp – non degli attori. Una piccola ricognizione
sullʼidea di fiaba mi permette di chiedermi cosa sia in sostanza la fiaba, come prototipo del racconto, non come genere letterario, sia chiaro; di che sostanza sia, se orale, scritta, mimica, memoriale, illustrata,
se sia illustrata per qualcuno – per bambini, per esempio – per poi
approdare al cartone animato, per esempio Peter Pan o anche appunto
Shrek, lʼorco benevolo che mangia tutte le fiabe.
La costruzione digitale del personaggio, il fatto che sia stato creato
con lo spessore della sua pelle, con tanto di muscoli, facendolo però assomigliare a qualcosa che nella realtà non cʼè, che esiste solo lì, è assai
significativo. Cogliamo la differenza tra lʼintertestualità che governa e
si rapporta al mondo esperienziale (essendo dunque rappresentazione)
e lʼintertestualità virtuale, astratta, artificiale. Shrek non esiste altrove
se non nel suo libro-fonte. Se avessi molto tempo proporrei di farlo esi47
stere in un supertesto come elemento del Motif-Index of Folk-Literature
di Thompson2: lì, in effetti, sotto la voce «Ogre» sono citati racconti
che contengono speciali attributi del personaggio, come le orecchie a
trombetta3, la sua grandezza benevola, le sue difficoltà a cogliere le differenze sessuali, ci sono le sue propensioni ad inghiottire il mondo della
natura, o a espellerlo, con tutte le forme grottesche che Michail Bachtin
ha studiato così bene e che fanno di Shrek un eroe carnevalesco.
Lʼorco è un personaggio che ingloba il mondo e agisce come personaggio delegato dalla comunità a distruggere ritualmente ciò in cui crede.
Noi deleghiamo sempre più spesso, anche non ritualmente, qualcuno a
distruggere ciò in cui crediamo di credere. Allora, lʼinteresse della questione di un cinema dʼanimazione che punta a sostituire lʼidea di personaggio come uomo o donna sulla scena, con un personaggio ricostruito,
virtuale, è importantissimo da un punto di vista teorico. Anche semioticamente, poiché non esiste in realtà lʼoggetto di referenza a cui ci si
riferisce. Il personaggio è il vero veicolo dellʼintertestualità. Io sono in
unʼaula universitaria, e non posso rivolgermi a voi dicendo: «Che cosa ci
fate nella mia palude?», perché se dico questo, come fa Shrek, è come se
privassi voi e me del mio ruolo riducendo ai minimi termini la nostra rispettiva posizione sociale in questo momento, scivolando dallʼaccademico al popolaresco e quindi dal tragico al comico. Quando lo dice Shrek è
come se davanti a lui ci fosse lʼintero casting delle fiabe, i Tre porcellini,
Pinocchio, tutti convocati di fronte al grande agente intertestuale che è
lʼorco. Mediante questa convocazione intertestuale, Shrek compie una
strepitosa, fantasmagorica – e tragica – azione parodica. La parodia, in
particolare, di cui dovremmo parlare consiste della capacità di ridere di
se stessi, di governare la propria detronizzazione.
La fiaba è un testo per definizione intermediale e intertestuale, che
Stith Thompson, Motif-Index of Folk-Literature, Indiana University Press, Bloomington,
1993.
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Le orecchie a trombetta sembrano una contaminazione delle voci a trombetta che nell’iconografia del mondo tardo antico e medievale venivano poste dinanzi alla bocca di
chi praticava calunnia, pettegolezzo e insinuazione.
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raccoglie memoria culturale simbolica e soprattutto la conserva e la
irradia attraverso quel processo che si chiama tradizione (e che fino a
cinquantʼanni fa circa aveva ancora carattere orale). Chesterton diceva
che la tradizione è la democrazia dei morti, cioè che bisogna rimettere
in circolo con la tradizione i rapporti di familiarità che la fiaba ci ha
fatto perdere. Assmann, per parte sua, inizia il suo bel libro citato
sopra con lʼidea di commemorazione. E la fiaba è il modello testuale mediante cui il mito diventa intertestuale. Il personaggio non solo
la veicola, ma la governa, distribuisce intorno a sé parte del sapere.
In unʼintervista, se ricordo bene, del 1949, Walt Disney rispondeva, a
chi gli chiedeva dove fossero i personaggi che creava: «Ci sono e non
ci sono, sono qui e sono altrove». Sembra una battuta quasi sofistica.
Eppure in questa frase cʼè tutta una parte che vorrei sostenere, ovvero
che se si passa alla virtualità rientriamo nel fiabesco, nella dimensione
memoriale, usciamo dalla stretta griglia della testualità ed esploriamo
il ricco mondo della eredità culturale.
Cesare Segre anni fa proponeva di distinguere ciò che è interdiscorsivo da ciò che è intertestuale, dove intertestuali dovevano essere
solo dei passaggi da un testo allʼaltro, delle intrusioni o citazioni, e
invece interdiscorsivo ciò di cui parlo adesso, cioè lʼidea che ogni discorso ne contenga altri, e che ci sia una circolarità perenne, grazie
alla memoria condivisa.
Lʼelemento parodistico innescato da Shrek sul fatto fiabesco è fondamentale, poiché la parodia per essere tale ha bisogno di un testo oggetto, di
un testo bersaglio: la parodia è il vero genere intertestuale, come afferma
Massimo Bonafin4. Se non capisco il referente cui rimanda un testo (o un
personaggio o una musica o un fatto parodistico) sono totalmente escluso
4
Massimo Bonafin, Contesti della parodia, Utet Libreria, Torino, 2001. Volume che consiglio agli studiosi di cinema anche se tratta prevalentemente della cultura medievale.
Appropriate le considerazioni di Roberto De Gaetano che si richiama all’insegnamento
di Bachtin quando tratta del grottesco e della sua degenerazione moderna dove si neutralizza la sua carica dissacrante (Roberto De Gaetano, Il corpo e la maschera. Il grottesco
nel cinema italiano, Bulzoni, Roma, 1999).
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dalla comprensione. Il valore della parodia è quello di creare un rapporto
enciclopedico tra il proprio testo e gli altri testi, sicché lʼoperazione dellʼumile orco è pari a quella autoriflessiva e parodistica che fa la televisione
quando produce comicità, che fa di se stessa oggetto del discorso.
Allora percepiamo che è in gioco un medium: noi infatti percepiamo un medium non soltanto con il sistema nervoso ricevendo gli
stimoli che veicola, ma perché esso parla di se stesso. Qualcosa di
simile capita quando il regista è mostrato nel girare un film. E si badi
che se si segue il mio ragionamento, tutte le volte che cʼè metalinguaggio cʼè parodia. E che la parodia sia espressa, o colta dallo spettatore
è problema secondario.
Penso di aver tracciato in linea sommaria i dati di cui volevo parlare, ma forse non ho accentuato la questione della vita. Prima si citava
Ejzenštejn, a proposito di che vita dare ai suoi personaggi, ovvero,
se cʼè un metodo per far meglio risaltare la vita degli stessi. Quello
della vita è tema curiosamente includente, ed è per questo che guardo
ai personaggi virtuali dei cartoni animati, che non hanno corporeità,
che sono segno di se stessi e non di qualcosʼaltro che sta nel mondo.
Shrek è segno della memoria culturale e grazie a lui entriamo in una
speciale inquietudine che è il sapore fiabesco. Tutti i personaggi dellʼimmaginario e del fantastico sono convocati nella palude di Shrek,
luogo anche metaforicamente platonico, lago al di sopra silente, ma al
cui interno bolle qualcosa. La palude di Shrek è questa grande memoria culturale in cui abitano piccoli personaggi, piccole storie, modeste
imprese testuali, tutti di fronte a lui, al grande tavolo del mercato a
vendere la propria identità. Pinocchio non è più Pinocchio, i Tre porcellini non sono più i Tre porcellini; e allora il fatto che lʼidentità venga
a mancare permette di scoprire un ulteriore dato dellʼintertestualità:
lʼesserci del testo in un altro testo, lʼessere parodizzato, e poi scomparire: perdere la propria identità, lʼestrema scommessa della parodia e
dell’intertestualità.
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