Policy transfer e policy learning nelle politiche

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Policy transfer e policy learning nelle politiche
“Le politiche sociali in Italia nello scenario europeo”
Prima conferenza annuale ESPAnet Italia 2008
Ancona, 6-8 novembre 2008
Policy transfer e policy learning nelle politiche pensionistiche
Un esempio di europeizzazione?
Furio Stamati (*)
Paper presentato alla prima conferenza annuale ESPAnet Italia 2008
Sessione: nr. 11 Europeizzazione delle politiche sociali
ABSTRACT: Una volta pilastro di un welfare state in espansione, politicamente remunerativo e capace di finanziare i
cicli politici con un debito implicito, la previdenza è divenuta l’obiettivo privilegiato di delicati processi di
ricalibratura, volti ad attualizzare un deterioramento delle finanze pubbliche, precedentemente esternalizzato ai danni
delle future generazioni. Le difficoltà politiche legate ai tentativi di risanamento hanno garantito spazi di vocalità e
d’intervento alla sfera comunitaria che, dal canto suo, ha incontrato la dimensione sociale sul sentiero dell’integrazione
economica e della legittimazione democratica del suo operato. Dalla convergenza di una disponibilità ad agire da parte
del livello sovranazionale e del bisogno di nuove risorse ideazionali dei governi nazionali, nasce una dinamica di
europeizzazione dai chiari risvolti cognitivi. Pur se il coinvolgimento dell’UE in ambito sociale è una realtà, dal punto
di vista teorico la logica incrementale dell’apprendimento è talvolta difficile da contestualizzare nel modello di path
dependent change oggi prevalente in letteratura e basato sul concetto di punctuated equilibria. Inoltre, interpretare
l’apprendimento come una via d’uscita dai vincoli elettorali della “new politics” del welfare state rischia di condurre ad
un giudizio pessimistico sulle possibilità riformatrici dei regimi democratici.
Il presente lavoro studia l’evoluzione dell’intervento comunitario in ambito previdenziale tra gli anni Novanta e gli
anni Duemila. Il processo di europeizzazione viene interpretato come una variabile condizionante, che funge da veicolo
e da stabilizzatore (grazie all’impegno della Commissione Europea) di apporti cognitivi e “cognitivamente rilevanti”
che insistono su un articolato processo di policy change. Una prima analisi dei puzzle teorici e metodologici sopra
enunciati conduce alla definizione di un modello esplicativo, in seguito applicato ai processi di riforma pensionistica in
Italia e in Germania. In conclusione, si può affermare che l’istituzionalizzazione di contatti, di prassi e di
argomentazioni (narrative e normative) di rilevanza comunitaria abbia rilassato alcuni vincoli tecnici ed elettorali sulla
dinamica delle riforme. Essa non è però riuscita ad avviare né un compiuto processo di apprendimento sociale, né una
convergenza tra sistemi pensionistici, data la rilevanza del contesto nazionale sulla principale variabile esplicativa delle
riforme: la competizione politica.
KEYWORDS: EUROPEIZZAZIONE, POLICY CHANGE, PENSIONI, POLICY LEARNING, POLICY TRANSFER, COMPETIZIONE POLITICA
* Istituto Universitario Europeo
Department of Social and Political Sciences
Via dei Roccettini 9
San Domenico di Fiesole
50014 - Firenze
Please e-mail comments to:
[email protected]
If we wish to really understand the dynamic of welfare reform, we have to open the “black
box” of the cognitive and normative orientations of policy actors.
Anton Hemerijck, 2008
Policy-makers are not seeking the truth, but power and consensus required for re-election.
Manuele Citi e Martin Rhodes, 2007
Di fronte alla necessità di una ricalibratura della spesa assicurativa e assistenziale, i sistemi europei di welfare hanno conosciuto, sin dalla fine degli anni Ottanta, le difficoltà di avviare processi di
problem solving rapidi, efficaci e dotati di sostenibilità finanziaria e politica. Nel tentativo di reagire
ai loro deficit cognitivi, i decisori politici nazionali avrebbero rivolto la propria attenzione alle esperienze di altri Paesi e a nuovi paradigmi normativi (di origine internazionale, transnazionale e
sovranazionale) fino ad istituzionalizzare progressivamente dinamiche di policy learning e policy
transfer capaci di aumentare le risorse disponibili per la formulazione, il momento decisionale e
l’attuazione delle nuove politiche di riforma. L’effetto combinato di pressioni sistemiche e della ricerca di soluzioni a livello internazionale ha indebolito il monopolio statale e ridotto l’autonomia
nazionale nella gestione di questi ambiti d’intervento: un nuovo semisovereign welfare state
(Liebfried e Pierson 2000) ha sostituito il vecchio modello di stato sociale, mettendo in luce alcuni
limiti dei più consolidati modelli teorici. Un crescente numero di studiosi, siano essi interessati ai
nuovi governance pattern dell’integrazione europea -in generale al processo di cosiddetta europeizzazione o, in particolare, al Dialogo Sociale ed al Metodo Aperto di Coordinamento (MAC)oppure alle dinamiche di riforma del welfare state, vede nell’intuizione dell’apprendimento una
chance di superare una concezione basata esclusivamente sul potere e sull’interesse e troppo legata
ai tradizionali boundaries of welfare (Ferrera 2005). Questi limiti si traducono nell’incapacità di
spiegare due fenomeni ormai largamente accettati quali evidenze empiriche: l’esistenza ed il
successo di riforme significative nonostante la soggiacente struttura di interessi e il trasferimento
o l’apertura al livello europeo di alcuni ambiti centrali della sovranità statale.
Non ci troviamo, tuttavia, davanti ad una soluzione immediatamente applicabile. Fatto salvo il
merito di affiancare alla dimensione del potere e del conflitto quella delle risorse cognitive e del
dialogo, l’immediatezza della lettura secondo la quale un decisore che percepisce il suo deficit
informativo tende a rivedere i caratteri metodologici e sostantivi del suo operare (secondo
meccanismi di emulazione e/o di trial and error) non appare capace di colmare un profondo iato
esistente nella letteratura specialistica. Se gli studi ad un più elevato grado di connotazione possono
utilizzare questa impostazione senza troppi problemi teorici, specialmente in settori ove l’aspetto
regolativo della governance è più marcato, studi più estensivi vivono, da un lato, il problema teorico
di introdurre una fonte di cambiamento graduale come l’apprendimento in sistemi caratterizzati da
una forte resilienza istituzionale e, dall’altro, quello di gettare sui sistemi democratici l’ombra di un
policy making elitario e opaco (quando non contraddistinto da un vero e proprio moral hazard),
svincolato da meccanismi di accountability e capace più di “aggirare” che di rappresentare
legittimamente, la struttura di interessi maggioritaria fra i governati. Sinteticamente, se i principi
generali dell’analisi istituzionale restano invariati, l’innesto del policy learning presenta alcuni
rischi di rigetto.
In questo lavoro cercherò, di discutere il significato di apprendimento, valutando in modo
induttivo le sue intersezioni con le iniziative europee ed il concetto di europeizzazione e cercando di
portarlo più vicino ad un framework teorico denotativo, che non rinunci a considerare il ruolo
primario dei decisori politici quali rappresentanti di specifici interessi sociali. Secondariamente, mi
propongo di utilizzare l’accostamento fra apprendimento ed europeizzazione come base concreta
per l’analisi di alcuni aspetti dei processi di riforma pensionistica in Italia e in Germania, due tra i
paesi in cui le riforme erano considerate maggiormente improbabili (a maggior ragione nella
difficile area della previdenza). Le conclusioni di questo lavoro sono intenzionalmente votate più
alla definizione di una possibile agenda di approfondimento che alla produzione di nuova
conoscenza, sia essa teorica o empirica.
2
1. Apprendimento ed europeizzazione: quale relazione e che tipo di variabili?
1.1 Apprendimento e rappresentanza degli interessi
1.1.1 La dimensione cognitiva del policy change
In che modo apprendimento ed emulazione intervengono nel complesso meccanismo causale delle
riforme pensionistiche? Cominciamo affermando che policy transfer e learning divengono due
concetti indissolubili se si considera che le politiche sono esportabili soltanto se vi è coscienza dei
vincoli tecnici e politici imposti dal logoramento dello status quo e del fatto che i limiti degli assetti
vigenti sono spesso invisibili. In assenza di crisi violente e senza alcun trasferimento, anche solo in
termini ipotetici, non è possibile decostruire l’auto-evidenza normativa e cognitiva (la specifica
policy story) che legittima la configurazione istituzionale esistente: di conseguenza è impossibile
individuare e correggere gli errori. Pur se una simile impostazione sembra aprire spazi illimitati alla
forza della persuasione e del dialogo, va precisato che nessuno dei due concetti ha un legame
intrinseco con la governance democratica o con la gestione di politiche pubbliche. Apprendimento e
trasferimento (nelle sue varie forme) costituiscono, in modo più generale, degli strumenti: delle
fonti di informazione ed expertise, preziose per elaborare maggiori e migliori soluzioni
(dimensione funzionale) e sottoporle al giudizio degli stakeholder in modo più abile e persuasivo
(dimensione relazionale). La strategica autoreferenzialità che li contraddistingue è ancor più
evidente, se si considera l’origine di questi concetti nello studio delle organizzazioni complesse e
nella teoria dell’errore, che -del resto- relegavano l’apprendimento all’ambito meramente operativo
della valutazione a posteriori di corsi d’azione già intrapresi.
Una prima declinazione politica del concetto di apprendimento è ravvisabile nella seminale analisi
di Heclo (1974), che lo situa all’interno di un’interazione sociale e che fa seguire la fase
tradizionale del confronto politico (powering) ad un momento preliminare di circospezione e
perplessità (puzzling) destinato a modificare il comportamento in risposta alla percezione di nuove
difficoltà (stimolo esterno). Lo sforzo trasformativo degli individui viene mediato dalle loro
dotazioni iniziali di risorse e dalla rete di scambi e contatti che li collega ed è ulteriormente filtrato
dalle caratteristiche specifiche dei programmi, la cui consolidata efficacia fa impennare i costi
relativi di un completo rovesciamento dell’esistente, rendendolo del tutto improbabile. L’immagine
che ne risulta è quella di un cambiamento tendenzialmente top down, fluido e incrementale e
istituzionalmente vincolato; ma reso deterministico dal meccanismo di stimolo (esogeno) e risposta
che lo innesca. Un’ulteriore importante sfumatura politica viene introdotta dai lavori di Haas (1990,
1992), che sottolinea come forme di apprendimento siano necessarie agli attori politici per
formulare, grazie ad una migliore padronanza degli argomenti, definizioni di problemi che siano
contemporaneamente efficaci e compatibili con la propria identità ideologica.
Sempre all’inizio degli anni Novanta, mentre la fine della guerra fredda sembra consentire un
approccio più globale al problem solving, Rose (1991) avvia la nuova letteratura sul policy transfer
introducendo i concetti di diffusione e lesson drawing ed immaginando policy maker disposti a
valutare l’appropriatezza di certi corsi d’azione sulla scena internazionale e ad appropriarsi di quelli
più efficaci riproducendoli, emulandoli o traendone ispirazione, ovvero non ostacolando dinamiche
di sintesi o ibridazione. In seguito, autori come Deacon (1997), Dolowitz e Marsh (2000) ed Evans
e Davies (1999) operazionalizzano il framework teorico del trasferimento formulando specifiche
research question e precisando il ruolo delle reti nazionali e transnazionali di attori nel contesto di
una crescente internazionalizzazione del patrimonio cognitivo. Ancora una volta, è vitale il legame
con processi autonomi di policy learning, capaci di giustificare la produzione di conoscenza nuova
ed originale, il cui approfondimento non viene certo meno negli anni successivi.
L’apprendimento si afferma, nel corso degli anni Novanta, come una via per superare la rigidità
istituzionale: nella sua veste di dinamica di idee, esso postula il cambiamento di un fattore
sovraordinato o antecedente rispetto alle istituzioni e capace di influenzare -se non addirittura di
determinare- gli interessi materiali e le preferenze che a loro volta le originano (Blyth 2003). Con la
3
crisi dei modelli che, con speciale riferimento al welfare state, volevano spiegare le dinamiche
istituzionali ricorrendo esclusivamente al conflitto sociale, è proprio a partire dalle nuove letture
dell’intuizione di Heclo che si produce lo iato, prima accennato, fra una macroanalisi più incentrata
sulla struttura e una micro/meso-analisi più interessata agli attori. May (1992) e Bennet e Howlett
(1992) hanno distinto tre livelli di analisi del cambiamento: quello sociale, avviato -in modo
discontinuo oppure incrementale- nella società civile da imprenditori politici desiderosi di ridefinire
l’agenda e la definizione dei problemi, quello politico legato al know how e alla competenza di
politici e burocrati, il terzo relativo all’attuazione della politica che è incrementale e iterativo. Le
letture di Wildavsky (1992) e Sabatier e Jenkins-Smith (1993) hanno sottolineato il dato endogeno,
continuo e graduale dell’apprendimento attraverso i concetti di continua ridefinizione dei problemi
e di revisione del “sistema di credenza”, richiamando il potere delle idee nel guidare un’azione che
resta sempre e comunque cognitivamente vincolata e trova proprio nell’incrementalismo la sua
principale fonte di efficacia. Secondo Sabatier e Jenkins-Smith (1993) la struttura triadica si
produce anche nei sistemi di credenza, caratterizzati da un nocciolo normativo, da posizioni
strumentali e da routine ausiliarie: questi livelli sono posti in ordine decrescente di resistenza al
cambiamento cosicché solo il primo richiede necessariamente uno shock esogeno per trasformarsi.
L’analisi di Peter Hall (1993) evidenzia altrettanto fortemente il ruolo delle idee e l’esistenza di tre
livelli (precisamente relativi a settaggi, strumenti e paradigmi) di cui solo uno conosce la necessità
di interventi esogeni (il cambiamento paradigmatico o sociale), ma insiste sul carattere strumentale
dell’apprendimento per il raggiungimento dei fini del governo.
Se nell’analisi di Heclo il processo era graduale, efficace e scatenato esogenamente, le riletture di
Hall e Sabatier e Jenkins-Smith distinguono tra cause endogene ed esogene e sviluppano un
giudizio pessimistico sulla capacità trasformativa autonoma del sistema dato che legano gli effetti
più sostanziali a mutamenti di livello normativo/sociale/paradigmatico (la cui variazione si estende
ai livelli sottostanti), confidando nel ruolo provvidenziale di elementi esogeni inevitabilmente
casuali. Da questa base comune, l’analisi di Hall viene poi reinterpretata in senso neoistituzionalista principalmente da Pierson (1994, 1996), che assume in modo ancor più rigido la
capacità strutturale delle istituzioni di assorbire, all’interno degli equilibri esistenti, qualsiasi
cambiamento che non si ponga come fattore di crisi. Sabatier e Jenkins-Smith, introducendo il
concetto di advocacy coalition, si avvicinano invece ad una lettura maggiormente attoriale del
cambiamento, compatibile con le analisi micro sia nel campo delle politiche pubbliche che
dell’europeizzazione, svincolate da alcune delle implicazioni più rigide della path dependency e
della policy legacy. Restano da saldare i due lati dell’analisi: quello astratto, che vede le
macrostrutture immobilizzate dai vincoli istituzionali e quello più concreto ed empirico, capace di
esaminare i processi di evoluzione concretamente operanti in singoli ambiti settoriali.
A patto di mantenere una visione concreta di policy learning, senza ipostatizzarlo come fenomeno
in sé o come variabile indipendente tout court, una lettura dell’apprendimento in senso politico e di
policy può divenire capace di superare il vero scoglio dei modelli teorici relativi al welfare state1: la
centralità della domanda di redistribuzione dei rischi e della ricchezza collettivi sia sotto forma di
risorse di potere della sinistra che di alleanze sociali in cui la borghesia ha un ruolo pivotale. Ne
risulterebbe una nuova concezione del rinnovamento dello stato sociale, intermedia tra
un’immagine top down completamente clientelare o paternalistica ed una bottom up dai tratti quasi
rivoluzionari: in tal modo, si vorrebbe spiegare come le riforme possano avvenire nonostante la
dinamica degli interessi non appaia scossa da nessun cambiamento paradigmatico, seguito a forme
esogene di apprendimento sociale. Se il policy learning esiste ed è realmente operante non tanto
come proprietà sistemica2, ma solo attraverso il suo effetto nelle azioni e nelle strategie (di alcuni)
dei decisori che “apprendono”, diviene una questione di assoluta importanza comprendere quali
1
Non sorprende che i teorici più legati agli effetti strutturali (Pierson 2004, ma in un senso diverso anche Thelen e
Streeck 2005) continuino a dichiararsi scettici in merito a questa possibilità (Hemerijck 2008).
2
Come ricordano, ad esempio, Radaelli e Schmidt (2004): “The problem with institutional thinking is that institutions,
strictly speaking, do not have cognitive capacities of their own. This is why we turn to discourse.”
4
sono gli attori che applicano (cioè traducono in effettivo policy change) gli stimoli provenienti dai
propri processi cognitivi.
1.1.2 Il vincolo elettorale e l’applicazione dell’apprendimento
I risultati promettenti dell’agenda di ricerca basata sulla competizione politica (Ross 2000,
Kitschelt 2001, Green-Pedersen 2002, Bonoli e Powell 2003) e la volontà di soffermarci su attori
che siano protagonisti sia nel policy making che nella società civile, ci spingono a focalizzarci
sull’apprendimento di secondo ordine dei partiti politici (aggregati in coalizioni di governo e
opposizioni). Il concetto cardine di questa visione è quello di offerta politica, con cui si vuole
sottolineare il ruolo attivo dei policy maker nell’interpretare -sotto la pressione elettorale ed in
modo auto-interessato, discrezionale e selettivo- la domanda di policy della maggioranza dei
cittadini, includendola nel proprio programma, più o meno compiutamente, a seconda della
rispettiva capacità di sostenere il costo politico-elettorale ed amministrativo da essa implicato.3 E’
evidente come l’elaborazione programmatica operata dai partiti getti le premesse della definizione
dei problemi e della formulazione di politiche che concretizza l’azione di governo: se la
distribuzione dell’elettorato e la forza relativa dei partiti fra distinti gruppi sociali e distinti livelli di
governance è una chiave di lettura della loro offerta in termini di ricalibratura distributiva e
istituzionale, è proprio il loro sforzo strategico di legare novità e identità a creare occasioni di
ricalibratura funzionale e normativa. Di fronte a questo innegabile ruolo dei policy entrepreneur
(Kingdon 1984), la lettura “economica” del sistema politico4 offre un prezioso contraltare,
sottolineando come la competizione fra partiti incalzi i programmi elettorali, spingendoli il più
vicino possibile ai desiderata sociali e trasformandoli quindi in una vera offerta, non solo in una
liturgia funzionalista o -nel caso opposto- ideologico-identitaria. E’ questo incentivo a competere
(che riguarda tutti i partiti, siano essi office o policy seeking) a mantenere efficace il vincolo
elettorale, subordinando l’azione politica alla volontà dell’elettorato e spingendo all’acquisizione di
nuove risorse cognitive (Jones 2001) –anche solo limitate ad un semplice policy bandwagoning- i
decisori che vogliono allargare i loro margini di autonomia (political slack; Mulè 2000).
Qual è dunque il ruolo dell’apprendimento e dell’emulazione in questo contesto? In altre parole,
come possiamo riportarli (da fenomeni astratti, seppur intuitivi) nel cuore dell’agire concreto dei
decisori politici? Una risposta preliminare alla prima domanda sorge dal rilievo che la complessa
interazione fra la domanda maggioritaria e l’offerta politica “aggregata”, che caratterizzano il mercato elettorale delle politiche sociali, è un processo lungo e articolato, in grado di mettere a dura
prova le risorse dei partiti politici. Un partito o una coalizione “meno dotati” saranno in difficoltà
nel gestire la capacità di rispondere alle sfide del mercato elettorale e della competizione politica e perfino nel caso in cui, per pura fortuna, la loro posizione iniziale nel policy space sia straordinariamente favorevole- di far sopravvivere la riforma ai veti incrociati in qualità di “maggioranza di
governo”. Non è sorprendente, quindi, affermare che l’apprendimento -di qualsiasi genere- ha, in
quanto progresso nel know how, un ruolo simile a quello che la teoria economica attribuisce
alla tecnologia: quello di migliorare l’offerta rilassando alcuni constraint. Il risultato è una
migliorata capacità di mediare fra la domanda ed i vincoli istituzionali posti dal sistema,
eventualmente agendo sulla prima con operazioni informative o perfino di marketing politico.
3
Per costo politico-elettorale intendiamo in questo saggio, con una forma semplificata, la necessità di giustificare
(come già sottolineato da Haas) in modo coerente con la propria identità storica le novità portate dal nuovo assunto
programmatico, cioè di giustificare, agli occhi delle constituency più fidelizzate, il tentativo di conquistare una nuova
fetta di elettorato al momento presente nel mercato potenziale del partito e di porsi in modo credibile nei confronti di
quest’ultima (acquisizione di commitment). Per costo amministrativo, intendiamo il costo di tradurre in pratica la
“promessa elettorale” se il responso delle urne è favorevole: entrano qui in gioco le risorse cognitive e mediatiche a
disposizione del nuovo governo e, soprattutto, i vincoli operativi all’azione governativa, tra i quali possono essere
inclusi la forza e l’evidenza normativa di determinati assunti paradigmatici (ad esempio la “disciplina fiscale”), la
consapevolezza dello stato della finanza pubblica, la capacità e le risorse necessarie per rapportarsi in modo autorevole
con blocchi sociali favorevoli -ovvero avversi- al corso d’azione proposto.
4
Tutta la letteratura, formalizzata e non, che prende le mosse da Black (1948) e Downs (1957).
5
Contemporaneamente, l’apprendimento non è uno strumento neutrale nelle mani del policy maker:
il suo contenuto sostantivo implica l’affermazione di paradigmi e principi normativi che possono
introdurre vincoli nuovi, sotto forma di obiettivi addizionali o di restrizioni negli strumenti e nei
settaggi utilizzabili (perché rivelatisi controproducenti o divenuti inappropriati). Inoltre, esso
aumenta la comprensione delle falle dello status quo, determinando in senso funzionale almeno
parte dei programmi politici ed imponendo il compito di risolvere problemi spesso tecnicamente
complicati, ma garantendo anche una forma di legittimazione particolarmente efficace.
In che modo queste influenze esterne entrano nell’interazione fra domanda e offerta politica? Una
delle letture più chiare e promettenti è offerta da Kitschelt (2001). Riprendendo la sua analisi, si può
affermare che esistono due tipi di fattori che spiegano la transizione fra un equilibrio ed un altro nel
policy space: i push factor, che sostanzialmente intervengono a ridefinire la domanda politica e
quindi l’offerta sulla base della normale “rappresentanza” ed i pull factor, che sostanzialmente
colgono l’effetto dei mutamenti contestuali sull’offerta politica, in termini di nuove opportunità di
azione offerte alle strategie competitive dei partiti ed alla loro “imprenditorialità politica”. Se il
modello che schematizza il processo di formazione dell’equilibrio politico può essere forse
considerato un po’ auto-referenziale (specialmente nelle sue varianti formalizzate), questi due tipi di
fattori costituiscono delle “finestre aperte sul mondo”, per l’interazione tra le forze fondamentali
(domanda e offerta) del mercato politico-elettorale. Una delle sfide teoriche lanciate dal concetto
di apprendimento è quella di spiegare come quest’ultimo influisce sull’agency sottostante le
riforme, prima di spiegare qualsiasi influsso sulla struttura. Crediamo che i push e i pull factor
possano rendere conto in modo soddisfacente della prima interazione.
Prendiamo ora in considerazione anche il secondo interrogativo. Come già anticipato, per cogliere
questo tipo d’influenza, è necessario accogliere una concezione più dinamica di path dependency e
di altri assunti chiave del neo-istituzionalismo, riconoscendo il carattere intrinsecamente evolutivo
dello status quo, la cui stessa sopravvivenza dipende -in realtà- da fattori di sottodeterminazione
istituzionale che ne prevengono la sclerosi ed il decadimento (Hemerijck 2008; Hacker 2002;
Thelen e Streeck 2005, Crouch 2005). Senza entrare nell’intricato dibattito gnoseologico ed ontologico relativo alla natura situazionale o universale degli incrementi di conoscenza ed alla
cumulabilità o irriducibilità dei successivi paradigm shift, va rilevato che l’apprendimento è inseparabile da qualche forma di gradualità. Ciò rende più complesso e continuativo il meccanismo
di path departure, che non si riduce a bruschi e improvvisi salti fra una deterministica dipendenza
istituzionale dal percorso ed una fatalistica (poiché a posteriori ineludibile), cataclismatica
palingenesi5. Quali implicazioni ha dunque l’accostamento fra policy learning e path dependency?
L’impostazione gradualista, da sempre cara alla letteratura sulla political economy delle riforme
(Rodrik 1996), ha scosso le fondamenta della lettura istituzionale “ortodossa” -basata sulle proprietà
ontologiche di istituzioni intese come “oggetti inamovibili” (Pierson 1998)- consolidatasi nel corso
degli anni Ottanta di fronte alle difficoltà obiettive e alle resistenze politiche dei primi tentativi di
contenimento o riforma sottrattiva del welfare state. Pur in un contesto favorevole dovuto a fattori
ideali e materiali, interni ed esterni, come la crisi del keynesismo, le prime avvisaglie di un vasto
spettro di dinamiche di post-industrializzazione e i primi grandi fenomeni di internazionalizzazione
della politica economica (integrazione europea, perestrojka sovietica, Uruguay Round), due grandi
pilastri proteggevano -a discapito dell’impostazione funzionalista- il vecchio policy paradigm
sociale, ancora solidissimo sul versante etico-normativo, ma ormai svuotato nella sue pretese di
funzionalità.
Il primo di questi è appunto la complessità tecnica del processo di riconoscimento e instaurazione
di incentivi virtuosi, capaci di favorire la sostituzione dell’intervento attivo e correttivo dello stato
(welfare inefficient perché impositivo sia nel finanziamento che nell’offerta/concessione di servizi)
con un sistema maggiormente sinergico e integrato, fatto di responsabilizzazione individuale,
concorrenza di fornitori privati ed attenzione a non produrre distorsioni economiche. Il nodo
5
“Crisis-and-catharsis path of institutional change”, nella formulazione di Anton Hemerijck (2008).
6
problematico stringe i riformatori nelle sue spire: il welfare state include -nel diamante dei suoi
protagonisti- intervento pubblico e mercato; ma li trascende entrambi in nome dell’efficienza
economico-finanziaria, e, contemporaneamente, di considerazioni etiche e di sviluppo legate al
benessere (individuale e collettivo) dei cittadini e, talvolta, alla strategia industriale della nazione.
Questa necessità di proiettare su più dimensioni le conseguenze di ogni intervento garantisce al
politico riformatore, in materia di “investimento sociale” e di “equità intergenerazionale”,
possibilità di scambi e compensazioni simboliche oltre che economiche (Schludi 2005); ma
esaspera il bisogno di contestualizzare le singole proposte (magari funzionalmente ineccepibili) in
una visione paradigmatica di sviluppo della società. La gestione della multi-dimensionalità impone
quindi un duplice vincolo all’offerta di policy che, per quanto faticosamente, può essere superato
attraverso l’apprendimento e l’emulazione di migliori prassi, se queste vengono intese come
strumenti per comprendere meglio il proprio “ambiente operativo” (Mintrom 2000).
La seconda fonte di path dependency è il radicamento degli istituti vigenti nella percezione e nei
desiderata di una vasta platea di beneficiari, in grado di compromettere le aspirazioni policy e
office-seeking di qualsiasi imprenditore politico, grazie a “ritorsioni” nell’arena corporativa ed
elettorale (Pierson 2001). Consolidatisi come progetto politico in grado di garantire gli equilibri
socio-economici che legavano i bisogni dei ceti meno abbienti a quelli di una classe media ampiamente frammentata, gli istituti dello stato sociale permarrebbero come punto di equilibrio di una
serie di veti incrociati di attori politici o corporativi e di gruppi di interesse (Esping Andersen 1990,
Baldwin 1990). Stavolta, si tratta di un vincolo legato (più tradizionalmente) alla domanda politica,
che agisce indirettamente sulle proposte dei policy maker attraverso l’arena elettorale o corporativa:
un fatto che, di certo, non esautora i decisori privandoli del proprio potere d’iniziativa e di azione,
ma distingue una policy direction espansiva e politicamente remunerativa (credit claiming) da una
sottrattiva, perseguibile soltanto evitandone i costi politici con artifici di offuscamento o di gestione
del discredito (blame avoidance, blame shifting, blame buffering). (Weaver 1986; Pierson 2001)
Entro a questi pilastri, tuttavia, continuano ad esistere crepe che garantiscono, certo in particolari “giunture” critiche di origine in parte esogena (fortuita?), la fluidità necessaria
all’innovazione istituzionale: senza questo assunto fondamentale, l’unico modo di accogliere il
policy learning è quello di opacizzarlo e postularlo come un’ennesima variante dell’abusato concetto di shock esogeno. Più vantaggioso pare invece connotare l’analisi fino al punto in cui le crepe
nella struttura6 emergono all’occhio dell’osservatore. Di fronte all’idea che lo stato sociale, tramite
reazioni omeostatiche (Howlett e Cashore 2007), sia di regola capace di reagire alle sfide esterne
ritrovando l’equilibrio con minimi aggiustamenti dello status quo (determinati, a seconda delle letture, da elementi puramente sistemici7 -anche normativi e cognitivi- oppure dall’auto-interesse di
attori razionali) i riformisti più determinati e gli studiosi che, negli ultimi vent’anni, hanno rilevato
empiricamente che le riforme (per quanto difficili) accadono, hanno concentrato le proprie speranze
e i propri sforzi sugli elementi più capaci di insistere sui due fattori di resistenza appena delineati,
tentando di affrancare il quadro teorico di riferimento dal loro latente razionalismo (Blyth 2003).
Elementi ormai classici nello studio del policy change, come i mutamenti dell’opinione pubblica
(Hall 1993), aperta a nuovi paradigmi, e le capacità imprenditoriali (Mintrom 2000) degli attori
politici (e dei network che li collegano) si sono affiancati al progressivo intensificarsi dello stress
sul sistema di fattori esogeni scatenati dai processi di mondializzazione e ristrutturazione industriale
(Bonoli 2000), a loro volta legati alla fine del bipolarismo e all’evoluzione tecnologica. Allo stesso
modo, il ruolo di trend endogeni di istituzionalizzazione e de-istituzionalizzazione è stato
apprezzato quale fattore interferente (Ferrera e Gualmini 2004), capace di tenere conto dell’apertura
dei contesti nazionali a fattori “globali” la cui azione presunta ricorda da vicino la prospettiva
implicitamente funzionalista della “vecchia” teoria dell’industrializzazione.
6
Grief e Laitin (2004:649) con un linguaggio rational choice li chiamano quasi-parametri: “Endogenous change in this
perspective is driven by marginal shifts in the value of quasi-parameters. Such shifts make the institution more or less
sensitive to environmental changes and they can render an institution no longer self-enforcing in a given environment.”
7
E’ il caso del modello punctuated-equilibrium (Krasner 1984; Baumgarten e Jones 1993; 2002).
7
Si tratta di un contesto in cui la designazione di una variabile come indipendente o intervenente
non è priva di tratti valutativi e pertanto non è incontestabile, ma in cui non può certamente essere
trascurata l’influenza del sistema politico sulle capacità di innovazione del welfare state. Il sistema
di relazioni tra attori politici è capace di relazionare il decisore a vari gruppi sociali -constituency
beneficiarie, penalizzate o marginalizzate dallo status quo (Schludi 2005)- di selezionare un
paradigma guida attraverso il vaglio della competizione nel mercato elettorale (Kitschelt 2001) e di
attribuire le risorse di potere e di veto dei promotori e degli oppositori dei futuri interventi (Korpi
1983; Tsebelis 2002), legando la loro stessa possibilità di esistenza, coerenza e sopravvivenza a
determinate condizioni di forza relativa. Secondo questa interpretazione, il gioco politico è lo
snodo principale nella produzione, distribuzione e redistribuzione di risorse materiali e
ideazionali, tra cui figurano, naturalmente, anche tutti quegli asset cognitivi che entrano nel
sistema in qualità di push e pull factor.
1.2 Intervento comunitario ed europeizzazione
1.2.1 Non solo “OMC pensioni”: il coinvolgimento europeo nella dimensione sociale.
Nonostante l’approccio country-based sia prevalente in letteratura, il livello comunitario insiste
sul policy making pensionistico nazionale operando sia nel merito che nel contesto, con interventi
diretti sulla materia e grazie a quel ravvicinamento di attori, politiche e istituzioni prodotto
dall’approfondimento dell’integrazione europea e comunemente indicato con il termine
europeizzazione. Da un punto di vista sincronico, Ferrera (1996) ha sottolineato l’importanza di una
comunità epistemica sempre più integrata, mentre Liebfried e Pierson (2000) hanno suggerito una
tripartizione degli stimoli del livello europeo sui welfare state nazionali: pressioni dirette positive e
negative (l’Europa Sociale e l’impatto dell’integrazione negativa) e pressioni indirette (conseguenze
di altre politiche economiche e delle relative reazioni sociali). In prospettiva diacronica, un’ampia
letteratura si è invece dedicata al “destino” del welfare state in Europa, confrontandosi sull’ipotesi
neofunzionalista di un’assoluta convergenza (o comunque di un rallying dei casi più difformi da un
modello centrale) e quella avanzata da autori come Scharpf (2000) e Streeck (2000) -che vedono le
differenze permanere o perfino accentuarsi in nome di una solidarietà competitiva ancillare ai
vantaggi comparati nazionali- oppure Radaelli (2000), che teme l’immobilismo dei sistemi più
divergenti. Ognuno di questi stimoli porta con sé una forma di apprendimento; sia esso
situazionale (anche solo legato alle nuove sfide imposte dal “vincolo esterno” europeo) oppure
riconducibile ad una migliore comprensione delle conseguenze degli istituti vigenti e dei possibili
reform pathway. In particolare, si può distinguere un impatto cognitivo verticale, in cui il momento
sovranazionale offre un nuovo framing e trasmette nuove competenze agli attori nazionali, da un
impatto orizzontale, in cui l’apprendimento è spontaneo ed il livello comunitario costituisce
principalmente un mediatore di policy transfer (Börzel e Risse 2003).
Nelle prossime pagine cercheremo di riassumere gli snodi principali dell’intervento comunitario
in materia pensionistica, per comprendere quale definizione di “europeizzazione” risulti più
pertinente ed, eventualmente, utile per connotare più concretamente il termine apprendimento.
1.2.1.1 Le prime fasi dell’intervento comunitario
Storicamente, una costitutiva ambizione “politica” ha portato la CEE ad includere, fra le sue
principali missioni, anche un interessamento nella sfera sociale, la cui evoluzione può essere
distinta in tre fasi. Fino a metà degli anni Ottanta, questa sensibile area è rimasta pressoché isolata
dall’intervento comunitario8, lasciando una robusta (perché ancora politicamente remunerativa) leva
di controllo sullo sviluppo economico-sociale nelle mani degli equilibri politici nazionali e del loro
bias keynesiano. Tuttavia, proprio la realizzazione delle quattro libertà fondamentali di circolazione
8
Inizialmente è per il tentativo di affrettare un’unione politica; negli anni Sessanta e Settanta, a causa di una
predilezione per le iniziative economiche, che si unisce alla cosiddetta eurosclerosi, avviata dalla politica estera gollista,
rafforzata dall’Ostpolitik di Brandt e dal peggioramento delle relazioni USA-URSS e culminata con l’abbandono del
sistema di Bretton Woods e le crisi petrolifere.
8
e il progetto di creazione di un mercato interno -istituto tipico, in realtà, di una ben più semplice
free trade area (Balassa e Irwin 1961)- non poteva non produrre notevoli effetti distributivi e
redistributivi sui sistemi sociali nazionali, in seguito a processi di ristrutturazione industriale e postindustrializzazione fortemente influenzati dal procedere dell’integrazione. Un esempio
dell’impostazione hard law ed intergovernativa di questa fase sono i Regolamenti 1612 del 1968,
relativo ai diritti pensionistici supplementari dei lavoratori migranti e 1408 del 19719 (attuato dal
Regolamento 574 del 1972) sul coordinamento dei regimi di sicurezza sociali. Il loro effetto è
quello di erodere la capacità di controllo degli stati membri sull’appartenenza dei propri cittadini
agli schemi obbligatori, spezzando il legame tra confini territoriali e monopolio statale nella
fornitura del servizio, in una cornice favorevole al mercato e fortemente soggetta all’intervento
giurisprudenziale (Ferrera 2000, 2005).
Fra il 1985 e il 1999, si apre una fase di ripensamento, alla luce del nuovo slancio integrazionista
legato all’Atto Unico Europeo e al progetto di perfezionare l’integrazione commerciale (Single
Market Program - SPM). Sin dal Libro Bianco sul completamento del mercato interno del 1985, la
Commissione rivolge una maggiore attenzione alle conseguenze sociali dell’integrazione
economica e a forme di consultazione più inclusive. Convertendo l’inefficiente istituzione dei
Confronti Trilaterali10, essa coinvolge gli interessi organizzati di lavoro e capitale in un “Dialogo
Sociale Europeo”, strutturando una rete di referenti dotati di risorse sia cognitive che politiche: utili
alleati nel tentativo di anticipare e ridefinire le priorità degli Stati Membri. La nuova risorsa
relazionale è, per sua natura, fonte di molteplici sottodeterminazioni istituzionali: si apre ai
contributi e all’azione di attori insoddisfatti dello status quo, li pone in una dimensione
transnazionale e mette in concorrenza livello nazionale e sopranazionale, permettendo alla
Commissione di sfruttare il suo vantaggio cognitivo per collegare l’obiettivo integrazionista alla
new wisdom liberale. Si realizza così il primo passaggio da una negoziazione puramente
intergovernativa ad una negoziazione affiancata da una sfera (informale ma normativamente
rilevante) di “decisione congiunta”, in cui il livello sovranazionale detiene maggiore influenza
(Scharpf 2000)11. In questi anni, la dimensione sociale dell’azione europea trova piena
legittimazione, prima con la Carta Sociale del 1989 (annessa come protocollo al Trattato di
Maastricht e inclusa nel 1997 nel Trattato di Amsterdam) ed il contemporaneo Social Action Plan;
poi con la Comunicazione (1992) Towards a Europe of Solidarity. Intensifying the fight against
social exclusion, fostering integration ed il Libro Bianco Growth, Competitiveness, Employment
(1993): una vera road map dei futuri interventi in materia.12 Dal punto di vista contenutistico e
sostantivo, i testi istituiscono un riferimento normativo e narrativo prezioso per i futuri tentativi di
riforma: la nozione di Modello Sociale Europeo. Essa unisce una serie di obiettivi ispirati dai Paesi
Scandinavi (futuri membri dell’Unione) ad alcuni temi specifici del discorso politico in auge nella
Francia di Mitterand, come il concetto chiave di esclusione sociale. Quest’ultimo, con il suo
carattere dinamico e multidimensionale, contribuisce ad evidenziare le falle e la mancanza di
sinergia dei sistemi pre-esistenti, insieme alla loro incapacità di offrire occasioni di sviluppo
individuale e sociale: viene così avanzata l’idea di una diffusa esigenza di riforma, dai connotati
equitativi, oltre che sottrattivi.
9
Quest’ultimo contribuisce a rendere efficace la libertà di circolazione dei lavoratori con i suoi quattro principi (euguale
trattamento, cumulabilità piena dei periodi contributivi, esportabilità delle prestazioni, unicità della legislazione per tutti
i residenti in un paese secondo il principio internazionale lex loci laboris) e con l’istituzione di un quadro di
comunicazione volto ad aiutare il lavoratore alle prese con ostacoli pratici di ordine burocratico.
10
Nati all’interno del Comitato Permanente per l’Occupazione, per superare la stagflazione degli anni Settanta.
11
In linea col tentativo di ridurre il deficit democratico, un nuovo carattere partecipativo si sostituisce al tipico elitismo
della legittimazione cognitiva dell’agire comunitario (Ferrera e Giuliani 2008), all’origine di molte resistenze nazionali
alle cosiddette “ingerenze” comunitarie.
12
Quest’ultimo grande contributo della gestione Delors affianca, completa e -in qualche modo- è reso necessario,
dall’ormai consolidato progetto di unione monetaria, dato che garantisce un forte impegno politico ad evitare derive
liberiste e anti-sociali. Tale impegno è una determinante chiave della sua forza ed opportunità politica, così diverse dal
passato ed altrimenti inspiegabili.
9
Allo stesso tempo, l’opacità del decision making ed il frequente intervento della Corte segnalano
il ritardo strutturale dell’integrazione positiva, caratterizzata da sforzi di ri-regolazione
esplicitamente conservatori.13 Fra il Consiglio Europeo di Essen (1994), che avvia un monitoraggio
multilaterale delle performance occupazionali14 e il Vertice Straordinario sull’occupazione di
Lussemburgo (1997), cominciano i primi esperimenti in direzione di un nuovo modello di
governance. Il processo decisionale diviene più flessibile e veloce rispetto al metodo comunitario
classico, ingolfato da varie possibilità di opting out e dal vincolo dell’unanimità in alcune aree
decisionali, origine al contempo di complessità e ambiguità normativa. Nel Dicembre 1996, la
Commissione riesce a presentare una dichiarazione congiunta intitolata Azione per l'occupazione in
Europa: un Patto di fiducia, approvata in giugno con la partecipazione delle parti sociali europee:
un testo tecnico e funzionale dotato di una fortissima ed inedita legittimazione politica,
ambiziosamente destinato a rilanciare lo stesso completamento del mercato interno. Sostenuta da
molteplici fattori15, la Strategia Europea per l’Occupazione (SEO) avviata in Lussemburgo
costituisce, sotto il profilo della governance, una versione leggera del Patto di Stabilità e di Crescita
(Sgp) e degli Indirizzi di massima per le Politiche Economiche (BEPG). Immediatamente acquisita
nel nuovo Trattato di Amsterdam, essa realizza un coordinamento a livello europeo introducendo
una procedura priva di sanzioni e basata su linee guida comuni definite annualmente e
sull’elaborazione di piani d’azione nazionali da sottoporre alla valutazione del Consiglio Europeo
(Zeitlin e Pochet 2005). A dispetto dell’apparente debolezza dell’iniziativa, va riconosciuta alla
Commissione (guidata da Santer e, in seguito, da Prodi) la capacità di leggere una fase
politicamente delicata, in cui si rivela più remunerativo un profilo basso, compensato da una sempre
maggiore abilità di gestire la parte operativa del processo: comitologia, cooperazione con le
burocrazie nazionali e gli altri referenti a livello sub-nazionale, valutazione e peer review.
Lentamente, la Commissione trasforma la propria identità (Beach 2004): dal prescrittivismo
normativo di alto profilo politico della gestione Delors ad una modalità d’influenza più sottile,
meno visibile e più incentrata su aree d’intervento in cui l’intensità e la miopia dello scontro
politico hanno un impatto ridotto, ed acquisiscono maggiore importanza l’expertise e la continuità
dei contatti e dei progetti.16 Similmente, la SEO tenta di prevenire lo scontro politico e
l’imposizione di “verità assolute”, aprendosi invece alle proposte di ottimizzazione situazionale e
value-laden avanzate dai partecipanti sulla base del proprio auto-interesse, della percezione
autonoma della propria utilità e del modo migliore per aumentarla.
L’intervento sovranazionale e l’ampliamento dei compiti comunitari sono legittimati dal sempre
più consolidato ruolo di broker della Commissione, che si pone come policy counsellor interno
all’Unione, cioè come un soggetto capace di raccogliere, interpretare e sintetizzare in quadri
d’azione coerenti le istanze, le proposte e le raccomandazioni provenienti da vari livelli di
governance (incluso quello internazionale dell’OECD, dell’ILO e della Banca Mondiale). Per
13
E’ questo il caso del Regolamento 1247 del 1992, che introduce, allo scopo di eliminare gli effetti di alcune sentenze
indesiderate, la piena sovranità nel campo delle prestazioni pensionistiche non contributive, unitamente ad alcuni
sistemi di cautela e salvaguardia che permettono di negare l’accesso dei non-nazionali agli schemi, anche
manipolandone i requisiti minimi. Il nuovo sforzo normativo, tuttavia, non riduce la complessità giuridica della materia.
Nei sistemi assicurativi di cosiddetto I pilastro, il monopolio coercitivo nazionale è confermato dalla Corte (sentenza
Poucet-Pistre del 1993) che non concede possibilità di uscita da schemi pubblici con un chiaro fine solidaristico e
redistributivo, incompatibile con un regime di concorrenza; tuttavia, ciò è possibili negli schemi di II pilastro, se
finalizzati all’investimento di capitale, per garantire concorrenzialità e meritocrazia (Sentenza Coreva 1995).
14
Reso possibile dalla creazione del Mutual Information System on Social Protection (MISSOC) nel 1990 e dal pieno
sviluppo amministrativo e tecnologico dell’Eurostat negli anni successivi.
15
Fra i quali ricordiamo: una costellazione di governi di centro-sinistra, il “Contributo Comune” offerto dai protagonisti
del Dialogo Sociale, l’autorevolezza del Rapporto Westendorp e il nuovo principio giurisprudenziale di “effetto diretto
amministrativo”, che legittima ed irrobustisce i contatti e gli scambi diretti, formali e informali, fra la Commissione e le
Amministrazioni nazionali e subnazionali.
16
A dimostrazione della stabilità di una policy community ormai transnazionale, favorevole alla visione integrazionista
della Commissione, la ricca agenda del Vertice di Vienna del Dicembre 1998 viene di nuovo integrata dal contributo
delle parti sociali europee, con un Compendio di buone prassi sull'integrazione dei disabili nel mondo del lavoro.
10
evidenti ragioni di vicinanza e interconnessione17 (ben rilevabili dalla logica funzionalista della
Commissione) la dimensione sociale si apre alla materia previdenziale, sotto la pressione di due
rilevanti pubblicazioni internazionali: Averting the Old Age Crisis della Banca Mondiale (1994) e
Ageing populations, pension systems and government budgets dell’OECD (1996). La prima risposta
della Commissione Europea, con il supporto del Cpe (Comitato di Politica Economica), è il Libro
Verde Supplementary pensions in the single market: a green paper, in cui le esperienze delle prime
riforme in alcuni Stati Membri e le analisi economiche internazionali sono sintetizzate in un quadro
di rinnovamento del Modello Sociale Europeo, all’insegna del problema demografico, della
sostenibilità fiscale e dell’efficienza del mercato del lavoro.18 Al Libro Verde seguono
l’approvazione della Direttiva 1998/49 sulla portabilità delle prestazioni e dei diritti acquisiti di
secondo pilastro e, nel 1999, due Comunicazioni relative alla creazione di un mercato unico per le
pensioni integrative e per la regolazione dei mercati finanziari nei quali esse operano. Il 1999 è
anche l’anno della fondamentale Comunicazione A concerted strategy for modernising social
protection, in cui viene proposto di approfondire il coordinamento delle politiche sociali oltre la
SEO, perseguendo la piena realizzazione del modello di solidarietà, inclusione sociale e attivazione
delineato negli anni precedenti. Fra le sue varie iniziative, questa vasta e multidimensionale
proposta fa suo il progetto di creare sistemi pensionistici sicuri e sostenibili, garantendo un tasso di
sostituzione dignitoso e promuovendo l’invecchiamento attivo; in tal modo vengono di fatto gettate
le premesse per l’estensione alla previdenza del modello di governance incorporato nella SEO. Il
primo passo è il pieno supporto garantito dal Consiglio nel Dicembre 1999 e l’istituzione, su
richiesta della Commissione, di un “Gruppo di lavoro di Alto Livello per la Protezione Sociale”,
che fornisce all’esecutivo comunitario un referente immediato delle burocrazie nazionali (che si
trasformerà nel Comitato per la Protezione Sociale –Cps- nel corso del 2000); nei primi mesi del
2000 la Commissione vara inoltre un suo forum di discussione sulle pensioni. Nonostante queste
iniziative il Social Action Programme 1998-2000 rivela l’impasse cui è ormai giunta la seconda
fase, e la necessità di nuovi strumenti e di un’agenda innovativa: per dirla con Wincott (2003), il
bisogno di passare da una “regolazione sociale” ad una vera “politica sociale”.
1.2.1.2 Dopo l’Agenda di Lisbona: la terza fase dell’intervento comunitario
La terza fase è avviata da un fondamentale punto di svolta nella storia delle politiche dell’Unione:
il Consiglio Europeo Straordinario tenutosi a Lisbona nel marzo 2000. Con la nuova agenda per il
2010, l’obiettivo dell’Unione è quello di uscire vincente dal processo di post-industrializzazione,
trasformandosi in un’economia della conoscenza coesa e competitiva, anche grazie all’introduzione
di forme basate (ma, in generale, ancor più soft) sulla governance della SEO e raccolte sotto
l’etichetta generale di “Metodo Aperto di Coordinamento”.
Vi sono quattro elementi da tenere in considerazione per comprendere le implicazioni normative,
cognitive e relazionali di questa fase. Il primo è l’opera di costituzionalizzazione dei diritti dei
cittadini e dei denizen -residenti cui viene riconosciuto uno status di semi-appartenenza- in
parallelo alla cittadinanza tradizionale che, culminata nella Carta di Nizza e nel progetto di
Costituzione Europea, ha introdotto canali permanenti di destrutturazione e comunicazione tra
sistemi sociali prima separati da stabili frontiere politiche. Il secondo è la ridefinizione del
concetto di giustizia sociale secondo il cosiddetto Paradigma dell’Investimento Sociale, nato
proprio dalle ricerche, commissionate e finanziate dall’UE, di Ferrera, Hemerijck e Rhodes (2000) e
17
Spillover sequenziali, secondo Heimerijck e Schludi (2000).
Non deve stupire che l’ambito di intervento sia quello meno strutturato e “rinchiudibile”della previdenza integrativa,
più vicino ad un mercato che si riconosce nei principi di concorrenza e competitività e più bisognoso di coordinamento,
in un’unione monetaria, per ridurre le temute fughe di capitali dai Paesi che incoraggiano l’investimento di secondo
pilastro (producendo un surplus di capitali e una diminuzione del tasso d’interesse di equilibrio) a Paesi che, invece,
mantengono un’impostazione più statalista (quindi un costo del denaro più elevato ed attraente per i capitali esteri).
18
11
di Esping Andersen (2002): una versione europea della visione supply-side e post-kenesiana del
welfare state offerta dai grandi think tank internazionali.19
Il terzo elemento è il perdurante interesse per la portabilità dei diritti e dei benefici, che
rappresenta l’originaria area d’intervento in materia e continua a rispondere al bisogno di garantire
la mobilità di circolazione delle persone, fatto che la rende un diritto giudiziabile a livello
comunitario. Ad esso si unisce il bisogno di garantire un mercato europeo unito e concorrenziale per
i fondi pensione integrativi. Nel contesto dell’Agenda Sociale 2000-2005 e grazie al nuovo forum
previdenziale organizzato dalla Commissione, nel febbraio 2002 viene adottato un Piano d’Azione
per le competenze e la mobilità (Com 72/2002) volto ad assicurare la congruenza del MAC pensioni
con un obiettivo tradizionale, intrinsecamente comunitario e rivolto più a facilitare il processo
d’integrazione che a salvaguardare la qualità sociale e finanziaria dei singoli sistemi previdenziali.
A seguito del Piano, viene avviata in giugno una consultazione che permette il rodaggio del nuovo
network e dei suoi eterogenei componenti sul difficile tema della contribuzione datoriale e diverrà
fondamentale, nel momento in cui il MAC pensioni mostrerà un generale orientamento ad ampliare
il peso del secondo pilastro occupazionale, per mostrare l’inadeguatezza di alcune disposizioni
regolamentari oramai obsolete. Fortemente dibattuta nello stesso periodo è la Direttiva 41/2003,
proposta originariamente nel 2000, che -integrandosi con iniziative contigue nel ramo assicurativoregola le attività di tutti gli enti pensionistici aziendali o professionali20, garantendo libertà di
fornitura e di circolazione dei capitali e mutuo riconoscimento nei pilastri a capitalizzazione, ma
imponendo criteri d’investimento prudenziali. Il nuovo intervento sulla portabilità viene indicato,
dal 2003 in poi, come completamento di questa creazione di mercato, cui dovrebbe contribuire
anche una riduzione delle distorsioni fiscali richiesta insistentemente dalla Commissione sin dal
2001 (Com 214/2001). La possibilità di rinegoziare alcuni aspetti del secondo pilastro e di ottenere
ulteriori garanzie in materia di pilastro pubblico per i nuovi profili professionali guadagna il favore
dei sindacati europei, suscitando più perplessità nelle organizzazioni datoriali, pur con alcune
differenze fra i settori. La spaccatura negli interessi sociali, tuttavia, non facilita il percorso del
testo: inizialmente presentata nell’Ottobre 2005 e riproposta -dopo l’esame del PE in giugno- in una
versione emendata nell’ottobre 2007 con il supporto di due studi dedicati finanziati dalla
Commissione, la Direttiva è ancora in attesa di approvazione.
L’ultimo e più importante elemento è, ovviamente, è il MAC pensioni, oggi confluito nel MAC
sociale, che svolge il ruolo peculiare di affrontare la modernizzazione dei sistemi pensionistici entro
i confini nazionali, certamente in modo coordinato, ma senza un’esplicita riduzione di sovranità. Gli
obiettivi originari del MAC -l’elaborazione e la diffusione di migliori prassi e lo sviluppo
progressivo e decentralizzato delle politiche nazionali- sono dichiaratamente legati ad un’idea di
“apprendimento” e vengono realizzati combinando tutti gli strumenti sperimentati e rivelatisi
efficienti dal 1985 in poi: linee guida flessibili ma calendari definiti, revisione periodica e
benchmarking con relativo naming and shaming, focus sull’implementazione con un ruolo diretto
del Consiglio, coinvolgimento stabile ma saltuario dei Vertici politici nazionali (durante i Consigli
Europei di Primavera). La disponibilità degli attori sociali e delle burocrazie nazionali ad accettare
la scommessa di un ripensamento ad ampio spettro ed alternativo sia alle lungaggini del metodo
comunitario che al bias economico degli interventi del passato permette di procedere rapidamente
tra l’Ottobre 2000 e il Vertice di Stoccolma del Marzo 2001.21 La Commissione ha, ancora una
19
Combinando i più recenti contributi in materia economica e sociale, gli autori legano considerazioni di efficienza
dinamica, sostenibilità e copertura dei nuovi rischi sociali, all’attivazione -o meglio alla capacitazione, nel senso
suggerito da Amartya Sen- in un contesto di responsabilizzazione individuale, garanzia di pari opportunità ed
accumulazione di capitale umano.
20
Secondo Ferrera (2000), il giro d’affari, attraversato da potenti dinamiche di trans- e sub-nazionalizzazione, è pari a
circa un terzo del PIL europeo.
21
Nell’Ottobre 2000, la Comunicazione The future evolution of social protection from a long-term point of view: safe
and sustainable pensions (Com 2000/622) delinea le implicazioni macroeconomiche del nuovo paradigma, che si
compone di sitemi pensionistici robusti, di una gestione disciplinata della finanza pubblica e di politiche attive del
lavoro. Il mese successivo il Comitato di Politica Economica (Cpe) -in sempre più stretta collaborazione con il Cps-
12
volta, il ruolo fondamentale di produrre i documenti di sintesi, ottenendo -di fatto- il ruolo di
agenda setter delle riunioni e, quindi, di “educatore” di questo processo di apprendimento.22 Le
parti sociali e le burocrazie sono coinvolte attivamente nel processo, anche se in modo meno
sviluppato che in altre forme di coordinamento aperto (questo ha portato alcuni autori [Natali 2006]
a parlare di “metodo di coordinamento chiuso”); mentre i governi nazionali ottengono un potere di
veto sia collettivo (nel Consiglio), che individuale, anche nella forma di più diplomatici opting out.
Il processo decisionale risulta invece isolato dall’intervento della Corte di Giustizia
(precedentemente un attore ed uno stimolo chiave dell’azione comunitaria) e del PE, che pure
continua a vedere nella dimensione sociale un suo intrinseco campo d’azione e che ha risposto
istaurando un proprio Forum previdenziale nel 2003.
Dal momento della sua nascita, il MAC pensioni ha conosciuto tre cicli di attuazione (2001-2003,
2004-2006 e 2006-2008) e due principali tentativi di razionalizzazione: il primo è stato nel 2005
(Com. 706/2005), mentre il secondo è iniziato a fine luglio 2008 ed è attualmente in corso (Com.
418/2008). Pur in mancanza di risultati sul piano regolativo, il MAC ha creato (non senza un
notevole sforzo da parte dei comitati tecnici) standard inediti e condivisi, ha avvicinato culture e
linguaggi grazie alla sua estrema flessibilità prescrittiva e diffuso informazioni sull’esistente, ma
senza individuare nettamente modelli virtuosi da emulare. Nel giugno 2002, quindici rapporti
nazionali sulle sfide attese ai sistemi pensionistici confluiscono in un documento del Cps, che li
sintetizza nei tre principi guida del MAC pensioni: salvaguardare la capacità di soddisfare gli
obiettivi sociali, mantenere la sostenibilità finanziaria, assecondare i nuovi bisogni sociali. Tra
Luglio e Dicembre si conclude la fase di definizione della strategia, con la fissazione di 11 obiettivi
di compromesso fra Cpe e Cps. Notevole l’introduzione di un capitolo pensionistico nelle BEPG,
che porta altri Consigli dei ministri a chiedere pari dignità in materia rispetto all’Ecofin. Nel corso
del 2003, si fa strada l’ambizione di rafforzare la dimensione sociale della strategia di Lisbona
(Com 261/2003), nonostante la persistente debolezza di legittimazione e coesione degli attori
sociali. In Dicembre, il rapporto congiunto del 2003 (Com 773/2003) conclude il primo ciclo del
MAC, confermando una predilezione per riforme di lungo periodo destinate a ritardare l’uscita dal
mercato del lavoro e a sviluppare la previdenza integrativa. Tuttavia, non sono mancati problemi di
coordinamento fra i comitati e dubbi sull’utilità dei benchmark di fronte ad un contesto istituzionale
di natura tanto variegata ed al diritto alla segretezza fatto valere da alcuni paesi relativamente ai
propri dati. La natura tecnica e ristretta della conoscenza prodotta è un elemento chiave per
comprendere gli aspetti qualitativi del suo impatto cognitivo, che risulta molto limitato in senso
pubblico o sociale, ma si rivela prezioso nel cosiddetto “secondo livello” di apprendimento. Ci
riferiamo, in questo senso, al miglioramento delle institutional capabilitiy, al ravvicinamento delle
posizioni tra attori economici e sociali, alle collaborazioni bilaterali instaurate da alcuni paesi, alla
creazione di figure di riferimento (funzionari ed esperti) di spessore europeo ed all’indubbio sforzo
scientifico profuso per comprendere e descrivere meglio le implicazioni socio-economiche dei
sistemi previdenziali, che facilita il reperimento di dati per scopi accademici.
Contrariamente alle aspettative più ottimistiche del 2003 e alle dichiarazioni contenute
nell’Agenda sociale di febbraio (Com 33/2005), la revisione del dicembre 2005 (Com 706/2005)
presenta gli stessi caratteri del complessivo ripensamento dell’Agenda di Lisbona, avvenuta nel
corso dello stesso anno, a seguito della revisione di medio termine operata dai due rapporti Kok
presenta una prospettiva delle conseguenze previdenziali sui bilanci nazionali fino al 2050 (Epc/Ecofin/581/00), in base
alla quale consiglia di ritardare il pensionamento, decumulare il debito, rafforzare l’equivalenza attuariale ed accrescere
il ruolo di schemi a capitalizzazione attraverso strutture multipilastro. In Dicembre, viene adottata a Nizza l’Agenda
Sociale dell’Ue, mentre il Vertice di Stoccolma vara il MAC pensioni nel marzo 2001, indirizzando subito una nuova
richiesta di informazioni congiunta a Cpe e Cps.
22
Tale compito le permette di consolidare la sua vocazione di mediatore nell’interazione multilivello fra gli attori
guidati da interessi sociali e quelli guidati da interessi economici (Natali 2006): una contrapposizione che in effetti si
riproduce anche al suo interno, mettendone alla prova la coesione, ma permettendole di giocare, attraverso le sue varie
DG, su più tavoli contemporaneamente e sempre con un certo margine di credibilità.
13
del 2003 e del 2004. La generale insoddisfazione per gli scarsi progressi in vista del 2010, si
affianca alle due sfide proprie del MAC pensioni, stretto fra la necessità di integrare la cospicua
mole di dati provenienti dai Nuovi Stati Membri -caratterizzati da un welfare state del tutto
peculiare e da un’inferiore capacità amministrativa- e quella di procedere davvero alla definizione
di espliciti corsi d’azione, con tempi e spazi di confronto molto più limitati in un’Unione di 25 (e
poi 27) paesi.
Restano invece forti legami funzionali con la SEO, rafforzati dall’attenzione per l’equità e
l’adeguatezza delle riforme su base intergenerazionale e in una prospettiva life-circle. La principale
priorità della revisione, integrata da un’ampia opera di consultazione presso i network legati al
processo decisionale, è di raggiungere una migliore integrazione con i campi contigui delle politiche
sanitarie e d’inclusione sociale, trasformandoli in un’area unitaria d’intervento (MAC sociale), che
sviluppi una maggiore massa critica e funga da secondo pilastro di una strategia di Lisbona ormai
prevalentemente orientata alla crescita e all’occupazione. Il nuovo ciclo viene fissato
straordinariamente per il 2006-2008, in modo da riallinearsi con Lisbona e gli altri processi (BEPG
e SEO), imponendo così un sostanziale stop al livello comunitario del processo pensionistico23
(nell’ambito del quale i nuovi programmi nazionali erano stati consegnati nel luglio 2005) e
focalizzandosi maggiormente sugli altri due ambiti. In seguito a questa ridefinizione, la sostenibilità
sociale ed economica e la capacità dei sistemi di modernizzarsi e flessibilizzarsi viene pienamente
assunta in un policy paradigm ormai consolidato, mentre gli obiettivi in materia pensionistica si
concretizzano in una maggiore attenzione per l’adeguatezza dei trattamenti minimi e l’elevamento
del tasso di occupazione fra gli anziani, già obiettivo centrale della SEO e di Lisbona. Più
indirettamente, la revisione del marzo 2005 del Patto di Stabilità e di Crescita accorda un
trattamento più favorevole in caso di infrazione a quegli Stati che stiano riformando in senso multipilastro il proprio sistema pensionistico, facilitando nel contesto bismarckiano l’emulazione di una
struttura tipica dei sistemi pensionistici beveridgiani.
Non si può non riconoscere una certa convergenza anche rispetto ai policy advice, ad esempio,
della Banca Mondiale, che sempre nel 2005 ha rielaborato la propria proposta di sistema a tre
pilastri considerando con maggiore attenzione il ruolo di uno zero pillar universalistico, dedicato
alla prevenzione della povertà e di un fourth pillar comprendente risorse non previdenziali, fra cui i
servizi sanitari. Quanto alla governance, il gradualismo viene incluso come aspetto intrinseco alle
riforme in ambito previdenziale e come principio guida capace di mantenere la flessibilità e
l’adeguatezza dei sistemi, mentre il focus sull’applicazione dell’approccio definito durante il ciclo
precedente rende il livello nazionale protagonista di questa fase, come si può notare dal Rapporto
Congiunto del 2006 (Com 62/2006). Ciò non impedisce l’apertura di un nuovo ed importante fronte
di integrazione positiva, pienamente coerente sia con la creazione di un mercato europeo per i fondi
di secondo e terzo pilastro, sia con lo sforzo profuso -tra febbraio 2004 e dicembre 2006- per creare
un mercato dei servizi unificato, socialmente sostenibile e capace di garantire adeguato
riconoscimento ad alcune aree di interesse prioritario. Si tratta del tentativo di individuare (grazie ad
una consultazione aperta tra l’inizio del 2006 e l’estate 2007) accanto ai “servizi di interesse
economico generale” (Com 374/2004), di “servizi sociali di interesse generale” (Com 177/2006): un
campo funzionalmente e politicamente nevralgico per lo sviluppo del mercato dei servizi e
bisognoso di un chiaro intervento definitorio e regolativo di respiro regionale.
1.2.2 Profili di europeizzazione nell’intervento comunitario in campo pensionistico
Sintetizzando, l’evoluzione dell’intervento comunitario in materia pensionistica è contraddistinta
sia da dipendenza dal percorso, sia da uno sforzo di integrazione positiva che porta alla
sistematizzazione di alcuni elementi destrutturati per lo status quo. Sullo sfondo c’è il lento
23
Inoltre, questi anni di transizione sono definiti “leggeri” e vengono impiegati per acquisire dimestichezza con i nuovi
strumenti (il programma pluriennale PROGRESS 2007-2013 e la sua linea di bilancio dedicata, lo sviluppo di un
database pubblico del MISSOC e il nuovo quadro semplificato di indicatori) oltre che ad iniziative destinate a
migliorare la trasparenza e la visibilità del MAC e del decision making nazionale.
14
emergere della dimensione sociale, legata all’intensificarsi dell’integrazione commerciale, che
tende -come avviene a metà degli anni Novanta- a rispondere positivamente ad alcune costellazioni
di fattori facilitanti. Più in profondità, troviamo nell’approccio hard law al tema della portabilità
una situazione di path dependent change -a volte sclerotizzato in vera e propria path dependencyparzialmente compensata da margini più ampi per l’integrazione dei mercati finanziari (quindi delle
prestazioni di secondo e terzo pilastro) grazie all’Unione monetaria e alle forti prerogative
comunitarie in materia di concorrenza. Come contraltare, e spesso come residuo necessario di tali
iniziative, c’è un denso e variegato processo di sottodeterminazione istituzionale, avviato
principalmente (almeno secondo la nostra ricostruzione) dall’imprenditorialità politica della
Commissione Europea. La sua capacità di raccogliere le risorse cognitive, amministrative e
soprattutto relazionali, necessarie ad erodere il controllo degli Stati su alcune reti di attori, crea le
condizioni per contendere il monopolio nazionale su alcune aree di policy, pur molto complesse sia
politicamente sia tecnicamente. L’aspetto più rilevante, tuttavia, è che l’estrema lentezza che
caratterizza questa trasformazione non ne compromette il carattere cumulativo. Sebbene non si
possa parlare di un disegno unico e sempre coerente, la stratificazione dell’arena europea ed il
suo carattere plurale e multi-dimensionale divengono una realtà progressivamente ineludibile,
sulla quale il MAC pare piuttosto imporre un principio ordinatore (e coordinatore)
improntato al riconoscimento di quella natura multilivello, che ormai si è radicata
nell’esperienza quotidiana dei decision maker grazie agli effetti del Single Market
Program e dell’Unione monetaria.
Che valenza assume il concetto di europeizzazione in questo campo? In che modo la letteratura
sull’europeizzazione ci può aiutare a valutare gli effetti di questo processo così multiforme?
Innanzitutto è opportuno rilevare se il concetto europeizzazione è applicabile alla dinamica descritta
finora. Il termine, utilizzato negli anni Ottanta per indicare il coinvolgimento del livello europeo in
ampie parti della legislazione nazionale, è stato oggetto di un vero e proprio boom nel corso dei
primi anni 2000, fino ai tentativi di ridefinizione di un concetto ormai slargato, avviati fra il 2003 e
il 2006 (Radaelli 2003; Giuliani 2004; 2006). Prima indicativo di un fenomeno storico o culturale, il
termine ha cominciato a contraddistinguere, senza una chiara definizione dei rapporti causali, un
processo di adattamento non limitato all’attuazione delle normative europee e caratterizzato da
processi di convergenza di attori e modalità di governance e di interconnessione dei policy network.
E’ proprio questo legame tra policy e politics che rende vago il termine europeizzazione, ponendolo
su entrambi i fronti della frattura individuata all’inizio. L’interazione causale tra istituzioni e agency
resta infatti indefinitamente sospesa tra la riproduzione istituzionale degli interessi e delle idee ed il
ruolo trasformativo di questi ultimi (Featherstone e Radaelli 2003), complicandosi anche in merito
alla direzione del processo (top-down o bottom up: vedi Olson 2002) ed all’identificazione dell’UE
come policy entrepreneur favorevole al cambiamento o come contesto istituzionale di riferimento.
L’europeizzazione24 si avvicina così, divenendone una tradizionale chiave di lettura ma senza
esserne assorbita, ai processi cognitivi che attraversano prima la CEE (Kerr 1973) e poi la
governance multi-livello dell’Unione (fra gli altri, Ladrech 1994 e Börzel e Risse 2003): due
elementi che restano entrambi difficili da misurare, ponendosi da un lato la minaccia del gradismo,
dall’altro quella di rinunciare a verificarne il carattere processuale e cumulativo. Questa difficoltà
tende a riportare l’europeizzazione vicino al concetto di istituzionalizzazione, come proposto sia da
Sandholtz Stone Sweet e Fliegstein (2001) che da Risse, Caporaso e Green Cowles (2001): una
formulazione consolidata, strategicamente ambigua ma che, come evidenziato tra gli altri da
Giuliani (2004), si rivela forse troppo astratta per la letteratura empirica.
Il ruolo delle istituzioni, tuttavia, è multi-dimensionale e multi-direzionale, fino a cercare di
riunire approcci diversi della stessa analisi istituzionalista. Ad esempio Börzel e Risse (2003)
suggeriscono, ricombinando i concetti di logic of consequentialism e logic of appropriateness
24
Intesa qui non come mero trasferimento di competenze (Lawton 1999), ma come effetto del coinvolgimento della
dimensione europea nel policy making nazionale, indipendentemente dalle sue eventuali conseguenze, ad esempio una
convergenza (Radaelli 2003).
15
sviluppati da March e Olsen (1989), che le due logiche di mutamento sono entrambe operanti e
possono essere attivate dai decisori favorevoli al cambiamento in una sequenza strategicamente
favorevole in relazione al contesto. Nel caso di politiche redistributive come la previdenza,
un’azione preliminare in senso cognitivo avrebbe il vantaggio di avvicinare le preferenze degli
attori prima di avviare la competizione all’interno delle istituzioni formali, nelle quali il gioco è
regolato dalle risorse di potere e dalla logic of consequentialism.
Dalla nostra prospettiva, è una lettura di “europeizzazione come istituzionalizzazione” che
sembra più utile e coerente per connotare sul piano sostantivo i fenomeni di policy learning e policy
transfer. Nella particolarmente accurata definizione proposta da Radaelli (2003), il termine si
riferisce a:
“Processes of (a) construction, (b) diffusion, and (c) institutionalization of formal and informal rules,
procedures, policy paradigms, styles, ‘ways of doing things’, and shared beliefs and norms which are first
defined and consolidated in the making of EU public policy and politics and then incorporated in the
logic of domestic discourse, identities, political structures, and public policies”
e, relativamente al policy change, conosce quattro differenti possibili outcome: inerzia,
assorbimento (un cambiamento di primo o secondo ordine), trasformazione (un cambiamento
paradigmatico) oppure “retrenchment” (in una connotazione simile al concetto neo-funzionalista di
spillback).
Il collegamento con il paradigma neo-istituzionalista, reso possibile dal comune interesse per
fenomeni concreti (carattere post-ontologico) permette di attribuire valore teorico ad alcuni aspetti
evidenti nella nostra breve disamina: ad esempio, alle istituzioni informali come il benchmark
periodico, la peer review e i contatti fra le burocrazie oppure alla creazione e all’aggregazione di
attori come i comitati e le agenzie, la cui sopravvivenza è legata a quella delle nuove reti. In effetti,
se per il paradigma neoistituzionalista è difficile concepire una destrutturazione incrementale, dal
lato della stabilizzazione, il concetto di positive feedback è intrinsecamente graduale: una visione
più fluida del cambiamento istituzionale può quindi legarsi alla progressiva emergenza di
istituzioni rivali dentro e di fianco allo status quo (Thelen e Streeck 2005). Questo ci porta ad
una prima importante formulazione. Nonostante la sua natura frammentata e graduale (non
sincronizzata), una parte dei molteplici sforzi cognitivi, argomentativi e normativi che
attraversano l’arena europea può restare incorporata in un processo di istituzionalizzazione
parallela, ricevendo dalla sua intrinseca permanenza nel tempo un carattere di cumulabilità
altrimenti irraggiungibile e spesso non aprioristicamente pianificato.
Come rilevato dagli studi sull’europeizzazione, il processo di istituzionalizzazione riguarda le
politiche, le prassi e i metodi d’interazione e infine gli attori. Riprendendo Olsen (2002),
sembrerebbe che –nel caso delle pensioni- l’europeizzazione come creazione di istituzioni di livello
comunitario possa effettivamente avere un impatto positivo sull’europeizzazione intesa come
cambiamento istituzionale a livello domestico: l’Unione Europea assume decisioni vincolanti per i
suoi membri o li aiuta ad assumerne di proprie, crea aree di contatto che facilitano il policy transfer
bilaterale così come aree confronto aperte a forme di valutazione; inoltre, permette di ridefinire
problemi e posizioni in un contesto più ampio di quello nazionale e meno soggetto a pressioni
politiche. Tutte le informazioni diacronicamente raccolte sull’evoluzione delle iniziative
comunitarie possono essere così sistematizzate alla luce di questo assunto di carattere teorico:
-
-
Vi è una progressiva stratificazione di ambiti e di interessi comunitari, che collegano le
iniziative a diversi possibili issue linkage, talvolta fra loro in conflitto: integrazione
commerciale, libera circolazione, cittadinanza sociale europea, sussidiarietà, stabilità
macroeconomica, crescita e competitività internazionale;
Questo espande le opportunità argomentative e di package dealing, rendendo particolarmente
complessa la gestione degli aspetti relazionali del policy-making (concertazione, trasparenza)
ma garantendo ampie possibilità di coalition building e giustificazione. Non a caso, è spesso
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-
la stessa Commissione a riferirsi ad altri influenti soggetti internazionali, “diffondendo” così
la propria responsabilità;
L’evoluzione dell’intervento in campo sociale è legata all’introduzione di nuovi modelli di
governance capaci di aumentare l’inclusività dell’arena europea, vincolandovi così gli Stati,
con l’effetto di ridurne l’autonomia;
Il processo qui delineato non si risolve nell’impatto di alcuni interventi normativi
sovraordinati o coordinati alla giurisdizione nazionale, né in processi cognitivi di carattere
astratto, ma interviene nella politics e nella polity dei sistemi pensionistici, con la creazione di
organi, istituti, pratiche (politiche, amministrative e burocratiche) e sedi di confronto che
rafforzano e stabilizzano le occasioni di apprendimento e revisione delle identità;
Nessuno di questi effetti ha un carattere meramente strutturale: il ruolo dell’imprenditorialità
politica è centrale. Quest’ultima si manifesta tipicamente nella conversione o nel
completamento di istituti già esistenti, evidenziando la possibilità che alcuni “strumenti”
(seppur reingegnerizzati) sopravvivano ai paradigmi entro i quali sono stati originariamente
concepiti, contribuendo ad una loro revisione condizionata.
Quanto alla disponibilità di farsi “imprenditori di policy”, l’auto-interesse dei soggetti guidati
da una logica burocratica è fonte di coesione e di espansione per i nuovi network e i nuovi
strumenti di governance: l’esempio principale di questo continuo sforzo di espansione è
proprio la stessa Commissione Europea;
Tuttavia, determinante garanzia di cumulabilità da un punto di vista diacronico è la
permanenza delle innovazioni nell’architettura istituzionale del policy making. Essa permette
un’interazione fra parti differenti e differentemente direzionate della struttura, opponendo
alcuni nuovi istituti dotati di grande momento (un forte flusso iniziale di feedback positivi) a
vecchi istituti molto consolidati ma ormai sclerotizzati (flusso ormai stabile di feedback
positivi);
Nella fattispecie, il carattere tecnico della materia ed una bassa capacità d’inclusione hanno
confinato i processi di apprendimento alla sfera degli esperti e dei decisori, interrompendo il
flusso di interazione e comunicazione che, attraverso partiti ed altre organizzazioni di
rappresentanza degli interessi, avrebbe dovuto auspicabilmente avviare forme più diffuse di
apprendimento, in grado di sostenere politicamente futuri interventi di ricalibratura.
Alla luce di queste considerazioni e della definizione cui ci riferiamo, pare di poter affermare in
modo abbastanza sicuro che un processo di europeizzazione è iniziato ed è in atto nelle politiche
pensionistiche. Altra questione è capire, dapprima, se è stato efficace dal punto di vista cognitivo, e,
solo successivamente, se gli asset cognitivi eventualmente introdotti nei sistemi nazionali siano stati
effettivamente operanti nei processi di riforma. Quali sono dunque gli effetti cognitivi
dell’europeizzazione? La risposta richiede alcune precisazioni. In effetti, in ambito previdenziale,
gli apporti sembrano essere particolarmente forti sull’arena corporativa, sulle burocrazie e sugli
esecutivi; mentre sono stati meno efficaci sul grande pubblico o sulle dinamiche di competizione
partitica, dato il carattere “chiuso” del MAC pensioni, almeno finora. In altre parole, si dovrebbe
coerentemente ipotizzare che l’apprendimento di primo e secondo livello risulti più marcato, a
discapito di un autentico e vasto impatto di social learning. Questo è sicuramente compatibile
con il carattere lento e graduale (in alcuni periodi inconcludente) che si rileva dall’analisi empirica
delle riforme.
Ancor più difficile è poi individuare le innovazioni veramente paradigmatiche delle riforme, come
l’introduzione di pilastri privati a capitalizzazione o la revisione delle formule di calcolo dei
benefici nel senso di una maggiore equità attuariale (ad esempio nel passaggio tra schemi a
“benefici definiti” e schemi a “contribuzione definita”). Bisogna, però, continuare a sottolineare che
il vero ostacolo all’apprendimento sociale non è tanto la mancanza di quell’apprendimento di
secondo tipo che coinvolge i partiti in quanto membri del governo o dei network: ma piuttosto le
ben note strategie di blame avoidance che tendono a separare l’azione di partiti e coalizioni dalla
17
loro identità, adducendo “Bruxelles” come capro espiatorio. Questa frattura strategica tra l’azione
dei decisori ed il loro discorso politico potrebbe aver interrotto il principale canale di
comunicazione sociale del MAC, considerando che le capacità comunicative e persuasive del livello
europeo sono ridotte dalla permanenza di confini amministrativi e culturali e da un circolo vizioso
di deficit democratico.
Se l’effetto delle variabili politiche nazionali è tanto determinante, non possiamo non verificare
l’effetto di un’altra faccia dell’europeizzazione, che pertiene ad un livello più generale e che non si
suppone più esclusiva della materia previdenziale: l’europeizzazione dei partiti e dei sistemi
politici, che alcuni autori confinano nel regno della politics ed altri vedono giungere fino alla polity.
In questo caso, la trasformazione dei soggetti partitici costituirebbe un’alterazione delle relazioni
con l’elettorato e l’opportunità di introdurre cambiamenti programmatici anche in aree
tradizionalmente penalizzanti: non soltanto un elemento di puzzling, ma soprattutto di powering.
1.2.3 Profili sintetici di europeizzazione dei sistemi politici e dei decisori partitici
L’evoluzione dei partiti politici è un ambito al quale la letteratura sull’europeizzazione, si è
interessata solo marginalmente (Poguntke et al. 2007), nonostante la rilevanza di un possibile
processo di riconfigurazione della competizione politica sull’impatto domestico dell’azione
comunitaria. Inoltre, l’agenda di ricerca non è univoca e comprende interessi diversi, così come
diverse definizioni del fenomeno. Il carattere pervasivo dei principali elementi del confronto
politico a livello nazionale tenderebbe, secondo i principali studiosi, o a deflettere l’attenzione da
alcuni aspetti critici del policy making nazionale (Laedrech 2002) o piuttosto a replicarlo (Hix e
Lord 1997), assumendo così un carattere per nulla europeo. L’europeizzazione in questo contesto
parrebbe assumere due principali risvolti: la prima in relazione alla salienza della dimensione
europea nel dibattito politico (Marks e Wilson 2000); la seconda in relazione all’attitudine nei
partiti nei confronti dell’UE (Hix 1999), della legittimità del suo intervento e dell`appropriatezza
delle sue indicazioni. Riguardo al primo punto, la rilevanza della dimensione europea potrebbe
rispondere ad una generalizzata europeizzazione delle policy domestiche. Riguardo al secondo
punto, resta invece da determinare se la posizione più o meno europeista di un certo partito sia
condivisa anche dai suoi omologhi, o se riveli al contrario una forma di idiosincrasia. In tutti i casi,
questa seconda dimensione dovrebbe rappresentare soprattutto l’effetto di un ampliamento del
discorso politico nazionale, dovuto all’esistenza di partiti politici di livello europeo e ad un
possibile riallineamento delle varie culture ed identità.
Mentre una valutazione di carattere generale è totalmente al di fuori dei limiti di questo saggio, le
ultime considerazioni assumono grande rilevanza, anche se necessitano di una parziale
ridefinizione. Se il sistema politico nazionale è caratterizzato da una costellazione di attori
tipica (ed a sua volta ben inserita) nello scenario europeo, allora è più probabile che la
competizione politica domestica filtri il processo di ricalibratura in modo compatibile con il
discorso e le argomentazioni provenienti dal livello comunitario. In tal caso, sugli stimoli
comuni di carattere globale, rafforzati dall’integrazione commerciale, non si imporrebbe soltanto un
tentativo congiunto di definire il problema ed escogitare delle soluzioni, ma anche una certa
omogeneità nel funzionamento del principale filtro domestico all’intervento sovranazionale.
Peter Mair (2000) è stato fra i primi ad analizzare l’impatto dell’Ue sul formato (numero di partiti
rilevanti) e sui meccanismi (distanza ideologica e dimensioni di confronto) dei sistemi politici
europei. Secondo la sua ricostruzione, la fase di progressiva frammentazione che i sistemi partitici
europei hanno attraversato della fine degli anni Settanta non pare prodotta da un qualche effetto
diretto del livello comunitario. Inoltre, essa non sarebbe rilevante per introdurre una dimensione
europea nella competizione politica: le dichiarazioni di europeismo o euroscetticismo che
caratterizzano l’identità di alcuni partiti sono piuttosto legate ad altri fattori, storici o socio-culturali.
Analisi più recenti hanno però evidenziato come l’effetto di europeizzazione della politics possa
presentarsi in forme meno evidenti e più sottili. Poguntke et al. (2007) hanno riconosciuto il ridotto
impatto sui sistemi politici rilevato dalla precedente letteratura, evidenziando però le trasformazioni
18
interne ai singoli partiti. Prima di tutto, gli autori suggeriscono che, in presenza di alcuni fattori
facilitanti, l’inclusione dei leader degli esecutivi può rafforzare (anche in termini di staff e
collaboratori) le elite e gli specialisti di affari europei, rendendoli più autonomi dal resto
dell’organizzazione e più dipendenti dal livello comunitario: ciò rafforzerebbe progetti politici
legati ai policy network europei, anche se minoritari. Questo dato non può essere realmente definito
un fenomeno cognitivo, ma potrebbe essere considerato un fenomeno ‘cognitivamente rilevante”,
ovvero in grado di influenzare indirettamente il dibattito ed il patrimonio condiviso di idee e
paradigmi: in questo caso, dal lato del confronto politico, cioè del powering.
Da un punto di vista programmatico, gli eurogruppi, divenuti partiti europei dal 2004, possono
esercitare, sui membri più coinvolti nel decision making comunitario, un’influenza simile a quella
di altre pratiche (formali e informali) di condivisione e dialogo, grazie e a sedi di confronto e
dibattito quali forum e policy working group, transazionalizzando sia alcuni contenuti sostantivi che
le strategie politiche necessarie a promuoverli. Inoltre, il PE, non potendo finanziare direttamente i
partiti in base all’art.191 TCE in seguito al Trattato di Nizza, distribuisce finanziamenti e contributi
alle Fondazioni culturali che fanno capo ad un partito (e spesso ad uno solo dei suoi leader),
promuovendo la riflessione orientata alla competizione politica direttamente attraverso risorse
materiali e ideazionali. Una dinamica in parte opposta, ma dai risultati simili, è suggerita da Auel e
Benz (2005), con l’idea di un crescente attivismo a livello europeo dei parlamentari nazionali: un
processo bottom up, stavolta avviato dal tentativo dei quadri inferiori dei partiti di non lasciare alle
elite al governo (anche del proprio colore) il monopolio sul decision making comunitario. In modo
simile, le responsabilità dei parlamenti nazionali impegnati ad attuare direttive europee -adottate
largamente al di fuori del proprio controllo- portano le assemblee legislative a dotarsi di organi e
strumenti finalizzati ad una maggiore consapevolezza negli affari europei, come il tedesco
“Comitato sull’Unione Europea” del 1994. Questa trasformazione si affianca alla stabilizzazione
dei rapporti tra i parlamenti nazionali e le istituzioni europee (con l’apertura di veri e propri outpost
a Bruxelles) ed i contatti informali (capaci di ridurre il vantaggio informativo degli esecutivi) tra
parlamentari delle coalizioni di governo ed i loro omologhi altrove all’opposizione (Töller 2006).
Degne di menzione, sono anche le riunioni fra i rappresentanti delle omologhe commissioni
parlamentari nazionali ed europee, alcune delle quali hanno ormai cadenza periodica, come nel caso
degli Affari Esteri. Da un punto di vista organizzativo, il cuore del sistema formale di scambio di
informazioni è costituito dai progetti di cooperazione amministrativa ed informatica, cui sono
preposti uffici di collegamento e Rappresentanti permanenti. Il principale snodo nella rete dei
parlamenti nazionali è, però, naturalmente il COSAC25, attivo dal 1989 come sede di confronto,
organizzazione di iniziative bilaterali e (più raramente) esame legislativo congiunto: il suo ruolo è
ancor più rilevante sul piano organizzativo dal 1997, anno in cui il Protocollo sul ruolo dei
parlamenti nazionali nell’UE ne ha rilanciato la funzione di comunicazione e coordinamento.
Determinare con precisione gli effetti di questi legami, spesso personalistici e informali, è difficile
a causa di vari fattori: in primo luogo, se l’aggregazione tra partiti a livello europeo è guidata
dall’affinità ideologica, allora possiamo riformulare un argomento goodness of fit e supporre che
sistemi politici più distanti dalla costellazione europea subiscano effetti asimmetrici, con
modificazioni sia intra-partito (rafforzamento delle leadership europeiste) che inter-partito
(rafforzamento dei partiti vicini alle grandi famiglie europee). In tal caso, più della posizione nei
confronti dell’Ue, conterebbe la spendibilità, in policy dimension di rilevanza domestica, di
strategie di competizione politica che hanno diffusione europea. Secondariamente, però, stabilire
chiari rapporti causali è un compito reso difficile dal fatto che i partiti possono (e sono talvolta
costretti ad) isolare la propria identità ed i propri programmi dagli imperativi funzionali che
affrontano all’interno degli esecutivi. Una conseguenza problematica è che un partito non accetterà
mai di porsi come semplice intermediario dell’elaborazione normativa e cognitiva del livello
sovranazionale. A differenza degli esecutivi (interessati a politiche di blame avoidance) ogni partito
25
Conference of Community and European Affairs Committees of Parliaments of the European Union.
19
(specialmente se euroscettico) sarà portato a contestare aspramente i corsi d’azione della sua stessa
coalizione, oppure a mostrare le sue nuove posizioni come risultato dei propri sforzi di problem
solving rispetto a problemi nazionali e sfide globali. Questo opacizza l’effettiva interazione tra
rafforzamento dei legami con gli altri partiti europei e reazione all’esposizione a dinamiche rilevanti
a livello nazionale ancor più nella comunicazione politico-elettorale che nel discorso politico degli
esecutivi. Affrontare questo spinoso problema richiede uno studio empirico molto preciso, in cui
ogni generalizzazione dovrebbe seguire soltanto a studi positivi dettagliati.
Tuttavia, sul versante delle opportunità, il potenziamento e lo spazio di manovra garantito alle
elite europeiste all’interno dei partiti si rivela come un’intuizione chiave: essa può spiegare alcuni
mutamenti di obiettivi e discorso nella loro azione. Tali mutamenti, sono proprio quelli
maggiormente legati alla tesi di una trasformazione ideazionale dei decisori politici, a seguito degli
effetti cognitivi dell’europeizzazione. Se non si vuole parlare di fenomeni cognitivi tout court, si
potrebbe definirli fenomeni di rilevanza cognitiva, per tenere conto dei loro effetti sulla
competizione politica. Inoltre, il dato che li rende possibili, ad esempio l’emergere e la successiva
stabilizzazione di sedi di contatto o di legami informali, è del tutto compatibile con la definizione di
europeizzazione precedentemente abbracciata. Le altre letture del fenomeno potrebbero invece
essere inserite nella nostra analisi solo dopo un’attenta riformulazione dei loro meccanismi e dei
loro effetti.
1.3 Europeizzazione come apprendimento e apprendimento sotto forma di europeizzazione.
Quale ruolo nel processo di riforma?
Quali conclusioni possono essere tratte al termine di questa lunga disamina? Sicuramente,
apprendimento ed europeizzazione sono due concetti che hanno una notevole area d’intersezione.
Altrettanto certo è che, interpretando un concetto alla luce dell’altro, si realizza il duplice vantaggio
di concretizzare storicamente il primo e di dare un senso ed un ruolo funzionale più chiaro al
secondo. Allo stesso tempo, però, è necessario o rinunciare ad alcuni profili non comuni, oppure
rilassare l’identificazione fino a concedere che molte occasioni di apprendimento istituzionale sono
disponibili al di fuori dell’arena e dell’azione europea e che l’europeizzazione mantiene un rilevante
carattere sostantivo (sotto forma di direttive e regolamenti) e dimostra alcune potenzialità di
ravvicinare i decisori politici nazionali su basi identitarie e non soltanto cognitive. Sulla base della
definizione di europeizzazione proposta da Radaelli e dopo aver riconosciuto la difficoltà insita
nell’attribuire un significato trasformativo ad un processo graduale in un contesto di dipendenza dal
percorso, abbiamo collegato la questione chiave del potenziale cumulativo delle dinamiche
cognitive al progressivo consolidamento di istituti capaci di colonizzare spazi istituzionalmente
sottodeterminati nella macrostruttura della politica sociale. La ragione principale che ci ha condotto
a questa soluzione è il rifiuto di un’interpretazione funzionalista dell’apprendimento, che ne ponga
la legittimazione in un autoevidente avvicinamento ad una nozione oggettiva di “verità”. Poiché
supponiamo che lo sforzo di revisione paradigmatica sia sempre situazionale, non sistematico,
sottoposto a vincoli e soggetto ad arretramenti, le potenziali risorse cognitive hanno bisogno di
sedimentarsi su una struttura capace di dare loro la stabilità necessaria all’accumulazione.
Sintetizzando, il tratto distintivo dell’europeizzazione è quello di intervenire a tutti i livelli di
governance, al punto di compromettere la stessa autonomia nazionale, che viene erosa in una rete
interconnessa di welfare state semi-sovrani, fra loro comunicanti. In questo senso la dinamica di
europeizzazione rivela tre dimensioni principali: in primo luogo, ha introdotto una nuova
concezione (framing) del welfare state in generale, percorrendo nuovi issue-linkage, analizzando
potenziali spillover sulla base di un confronto fra le varie tradizioni europee e sottolineando le
cosiddette “macchie cieche” dei singoli sistemi nazionali, sia dal punto di vista del contenuto
sostantivo delle policy che da quello delle loro modalità di formulazione ed implementazione. In
secondo luogo, ha creato e comunicato nuovi vincoli operativi, strumentali ad una gestione
ritenuta virtuosa, trasparente e cooperativa delle politiche economiche e sociali degli Stati Membri,
accumulando problem pressure come una vera e propria “crisi artificiale”, dagli esiti altrettanto
20
efficaci ma molto meno drammatici. Infine, ha creato network e sedi istituzionali che favoriscono
la partecipazione e lo scambio d’informazioni, contribuendo a smussare e sprovincializzare le
relazioni politiche e corporative e instaurando un clima di confronto più trasparente, informato e
pragmatico. Come già suggerito da Knill e Lehmkuhl (2002) il cambiamento avviato dal livello
sovranazionale si trasmette lungo tre meccanismi: modifiche alle normative europee e modifica
della struttura di opportunità e delle convinzioni degli attori domestici. L’interazione tra gli ultimi
due aspetti è fondamentale: mentre le nuove opportunità traducono i processi di apprendimento in prassi politica, è l’affidabilità e la persistenza delle nuove risorse cognitive a
determinare la loro plausibilità. Attraverso un mutuo processo di rafforzamento, il livello europeo
si è inserito stabilmente nel policy making domestico, legittimandosi come detentore e fonte di
asset cognitivi destinati a migliorare le performance dei sistemi nazionali. Per contro, la
permanenza degli istituti originati dalle iniziative comunitarie ha stabilizzato e rafforzato un’attività
di puzzling contraddistinta da visioni del mondo e assunti prescrittivi ritenuti attendibili (qualsiasi
meta-analisi che cerchi di misurare il “valore di verità” delle nuove cognizioni è fuori dal nostro
presente interesse di ricerca) e più adeguati al nuovo contesto.
Possiamo allora affermare che alcuni apporti delle iniziative europee hanno avuto un
perdurante (cioè “non effimero”) impatto cognitivo sullo status quo proprio in conseguenza
della loro stessa istituzionalizzazione, che ha consentito un’interazione fra due realtà
contrastanti ma omologhe ed ormai complanari. Inizialmente, gli effetti sono stati minimi; ma la
permanenza dello status quo garantita dalla stabilizzazione paradigmatica del sistema non ha potuto
evitare l’infiltrazione di alcuni di questi elementi in spazi di istituzionalmente sottodeterminati
(Thelen e Streeck 2005) avviando processi cumulativi d’istituzionalizzazione parallela. Questo ha,
da un lato, condizionato le dinamiche di policy domestiche, cioè il funzionamento delle istituzioni
già esistenti, e dall’altro modificato le reazioni tipiche del sistema agli shock esterni, ivi comprese
le strategie dei singoli attori all’interno delle proprie specifiche interazioni –siano esse guidate solo
dall’interesse o anche da aspetti ideazionali.26 Tuttavia, questo processo di stratificazione
istituzionale ha anche fornito risorse e potenzialità utili ai governi nazionali per affrontare alcuni
difficili problemi macroeconomici, spesso vincolati dall’esistenza di altre iniziative europee in
settori limitrofi (Schmidt e Radaelli 2004). Determinante, è stata l’azione di un imprenditore di
policy27 operante in una dimensione temporale molto più ampia di quella dei governi nazionali (la
Commissione Europea) e nel contesto di vulnerabilità strutturali a fenomeni politico-economici
esogeni, saltuariamente caratterizzati da picchi d’intensità assimilabili a shock
(internazionalizzazione dei mercati, invecchiamento della popolazione…). Seguendo un proprio
interesse a massimizzare le proprie competenze, anche attraverso strumenti apparentemente soft
come la delega, ancora compatibili con un obiettivo integrazionista che non si può certo escludere
sul piano ideologico, la Commissione ha favorito la transnazionalizzazione di alcuni aspetti del
policy making, candidandosi e abilitandosi a rispondere ad alcune domande sociali -attuali o
potenziali- spesso in modo conflittuale con gli Stati.
Sotto questo aspetto, l’integrazione commerciale e monetaria nell’Unione ha stabilizzato ed
ancorato ad istituti concreti la nuova ricetta neo-liberale, monetarista e supply-side impiegata
per rispondere alle sfide della globalizzazione, mentre lo sviluppo di una dimensione sociale
ha fornito alcuni punti fissi per ricalibrare la spesa sociale in vista delle sfide della post-industrializzazione. L’Agenda di Lisbona, con il suo tentativo di fornire un più ampio background
economico all’integrazione commerciale e monetaria, ha tentato di ricongiungere queste due istanze
(declinandole in un modo in realtà diverso tra la sua prima e la sua seconda versione) e di rilanciarle
con un nuovo strumento -il MAC- risultato di una sostanziale conversione di pratiche di coordinamento istituzionalizzatesi durante o poco dopo il completamento del mercato interno nel 1992. Di
26
Questo discorso costituisce principalmente una strutturazione dei fattori già indicati da Risse, Caporaso e Green
Cowles (2001): vulnerabilità alle pressioni esterne, capacità di rispondere, congruenza delle iniziative europee rispetto
alle eredità e preferenze nazionali, discorsi che influiscono sulla vulnerabilità e capacità percepite.
27
Come abbiamo visto, a sua volta non esente da processi di apprendimento di puzzling e powering.
21
per sé, probabilmente, i nuovi obiettivi e la nuova governance non possono garantire un effettivo
apprendimento, né tantomeno una pedissequa attuazione delle prescrizioni normative eventualmente
emerse dal processo. Tuttavia, essi determinano dei canali di mobilitazione e informazione capaci ad un tempo- di ridefinire informazioni, vincoli e payoff dei decisori e degli stakeholder e di
stimolare e conservare gli sforzi e gli esperimenti (sia bottom up che top down) diretti a
concettualizzare il cambiamento. Altri fattori che rafforzano strutturalmente questa rete di relazioni
e di issue linkage (europeizzazione giuridica ed amministrativa, interventi regolativi sul piano
sostantivo) sono a loro volta capaci di contribuire sul piano cognitivo, illustrando anche solo che
l’Ue è attiva, capace di porre limiti di sovranità e caratterizzata da regole definite e con implicazioni
altrettanto precise. Da ultimo, una diversa forma di europeizzazione sembra -almeno teoricamentepoter influire sulla variabile intervenente che la recente letteratura ha indicato come più capace di
determinare la variabilità nazionale di iniziative di diffusione comunitaria: la competizione politica.
L’ipotesi del rafforzamento delle elite europeiste all’interno dei partiti potrebbe contribuire a
spiegare alcuni aspetti delle riforme nazionali che risultano problematici se la connotazione
ideologica del partito viene, in ogni momento, legata troppo strettamente alla sua identità storica.
Inserendosi al cuore del meccanismo che garantisce la comunicazione fra domanda e offerta
politica, il processo di apprendimento e trasferimento di policy iniziato, assistito e mediato dalla
dimensione comunitaria ha riconfigurato dall’interno le finalità e le modalità degli equilibri del
policy making, trasformandone la natura in modo tale da richiedere un framework teorico meno
pessimista sul ruolo trasformativo delle dinamiche graduali, specie se (in tutto o in parte) di
carattere endogeno.
Più precisamente, qual è il ruolo dell’europeizzazione in un simile framework? Secondo la nostra
interpretazione, l’europeizzazione presenta un carattere troppo debole e ambiguo per essere
considerata una variabile indipendente nel processo di riforma delle politiche sociali. Il suo effetto
non sarebbe comparabile con quello delle dinamiche di post-industrializzazione e globalizzazione o
di grandi eventi di portata nazionale: variabili che, nel corso degli ultimi decenni, hanno talvolta
assunto “valori di soglia” capaci di scuotere ampiamente il decision making pensionistico. Inoltre, il
suo legame con le altre variabili non è né preciso né definito e diretto come quello di una variabile
intervenente, ad esempio la competizione politica e le policy legacy, con le loro caratteristiche
genetiche ed i loro sviluppi endogeni. Secondo la nostra interpretazione basata su push e pull
factor, il processo di europeizzazione è, da un lato, filtrato dalla competizione politica,
dall’altro invece interviene direttamente sul sistema pensionistico grazie alla diretta
applicabilità ed al carattere sovraordinato di alcuni istituti del diritto comunitario. Parimenti,
la velocità e la direzionalità dell’europeizzazione è certamente influenzata dagli stati del mondo che
si producono in corrispondenza di determinati valori delle variabili globalizzazione e postindustrializzazione; tuttavia essa segue anche un binario ormai divenuto istituzionalmente
indipendente, soprattutto nell’arco temporale degli ultimi tre decenni: quello (che riteniamo
nettamente prevalente) dell’integrazione europea, mantenuto vivo dall’attività, dall’ideologia e
dall’interesse burocratico di imprenditori politici come la Commissione Europea.28
Seguendo questa specificazione, l’europeizzazione può essere definita, come già suggerito da
Natali (2004:1081) seguendo lo schema d’interazione di Van Evera (1997), “uno slancio ulteriore,
coerente ma non causalmente collegato allo stimolo originario”, cioè una variabile condizionante.
28
Il carattere qualitativo di questo tipo di analisi, rende difficile la specificazione: se, come in questo caso, vi è un
interesse a focalizzare in modo preciso l’intervento europeo in relazione ad una possibile dinamica di europeizzazione,
l’appiattimento sul fronte delle variabili indipendenti potrebbe risultare riduttivo e distorsivo. Se invece l’analisi è
maggiormente focalizzata sull’impatto di singole iniziative europee (nel novero dei vari interventi internazionali) allora
è possibile considerare il ruolo del vincolo esterno come un fattore approssimativamente esogeno (Ferrera e Gualmini
2004). Per una possibile specificazione alternativa in un framework molto simile a questo, cfr. Stamati (2007).
22
Figura 1.1
Vincoli politico-economici alle riforme
EUROPEIZZAZIONE
Mondializzazione e postindustrializzazione;
Shock di rilevanza nazionale
Variabili
indipendenti (input)
Dinamiche competitive e
istituzionalmente vincolate di
rappresentanza degli interessi;
Sviluppi endogeni/policy legacies
Variabili
intervenenti (filtri)
VARIABILI
CONDIZIONANTI
Stato corrente del
sistema pensionistico
Variabili
dipendenti (output)
Questa ci sembra -in effetti- la specificazione più congruente con la nostra analisi, dato che questo
tipo di variabili sono caratterizzate dal fatto di agire sulla variabile indipendente sia in modo
mediato dalle variabili intervenenti, sia in modo diretto, esattamente come da noi rilevato nel caso
in esame. In altre parole, l’europeizzazione ed i suoi impatti cognitivi e normativi avrebbero un
ruolo formalmente simile -e spesso funzionalmente collegato- a quello di alcuni vincoli specifici
della political economy delle riforme: a livello meramente esemplificativo, la gestione
dell’incertezza, la scelta di una sequenza d’interventi time-consistent e la formulazione di package
deal.
In Figura 1.1 offriamo uno schema semplificato di quest’interazione. Senza sovraccaricare
l’immagine con l’illustrazione di attuali e potenziali push e pull factor e precisando che la nostra
variabile dipendente assume, in una prospettiva diacronica, il valore di “stato corrente” del sistema
per tenere in debito conto il carattere dinamico degli equilibri della competizione politica, anche
quando essi portano (in verità nella maggioranza dei casi) al mantenimento dello status quo.
Riferendosi implicitamente a questo schema di policy change il successivo paragrafo si occupa di
ipotizzare alcuni potenziali effetti del processo di europeizzazione (finora studiato da una
prospettiva comunitaria e top down) sulle riforme delle pensioni italiana e tedesca negli anni
Novanta e Duemila. Per isolare in modo più concreto e preciso simili effetti (o in ultima analisi per
falsificare le nostre ipotesi) le considerazioni che seguono dovrebbero, tuttavia, essere corroborate
in un’indagine di natura maggiormente empirica (ad esempio attraverso interviste), che al momento
è preclusa. Ciò che ora ci proponiamo è –più limitatamente- di rintracciare nelle ricostruzioni dei
processi di riforma pensionistica, almeno alcuni profili compatibili con le nostre argomentazioni
teoriche, suscettibili di generare interrogativi di carattere più empirico.
23
2 Europeizzazione e apprendimento nelle riforme italiana e tedesca
Questa sezione `e organizzata in analogia allo schema esplicativo della Figura 1.1. Dopo una
rapida introduzione sul contesto istituzionale dei due paesi, illustreremo le principali variabili del
processo, ovviamente con particolare attenzione per l’europeizzazione quale fattore condizionante.
Per facilitare la lettura, offriamo qui uno schema preliminare che riporta i passaggi fondamentali dei
due processi di riforma, che verranno sinteticamente commentati negli ultimi paragrafi.
Tabella 2.1 – Fasi dei processi di riforma
Fasi (anni)
Riforma italiana
Retrenchment (1989-1992)
Riforma Amato
Modernizzazione (1995-1999) Riforme Dini e Prodi
Ricalibratura (2000-2007)
Riforma tedesca
Riforma Blüm I
Riforma Blüm II
Riforma “Maroni” e Riforma Riester e
Pacchetto sul Welfare Riforma Rürup
Principale pressione
europea
Single Market Program
+ Unione Monetaria
+ Agenda di Lisbona
Lo schema espone in parallelo il progressivo ampliamento degli strumenti di pressione del livello
europeo nei confronti delle politiche pensionistiche nazionali e la progressiva complicazione e
multi-dimensionalizzazione di questo policy fiele.
2.1 Il contesto istituzionale: similarità e differenze
Nella lettura di Maurizio Ferrera, Italia e Germania appartengono a due diversi welfare regime:
sud-europeo la prima, cristiano-democratico o conservatore la seconda. Tuttavia, l’originaria
categorizzazione dei due sistemi come esempi di welfare continentale, proposta da Esping Andersen
(1990), resta valida in riferimento al sistema pensionistico: in entrambi i paesi quest’ultimo è di tipo
bismarckiano di prima generazione, per effetto di un policy transfer che ha interessato tutta
l’Europa. Dopo la comune, drammatica, esperienza autoritaria conclusasi con il secondo conflitto
mondiale, le due repubbliche si dotano di costituzioni che istituzionalizzano molti veto point. Il
potere esecutivo è ridimensionato di fronte al legislativo, il quale oltretutto si realizza attraverso una
dialettica bicamerale: un bicameralismo forte su base federale in Germania ed un più rigido
bicameralismo perfetto nella regionalista Italia. In Germania, tuttavia, il premier ha più strumenti
per imporre la propria leadership al gabinetto dei ministri ed il rapporto con il Parlamento è maggiormente “razionalizzato”. Tradizionalmente decisivi per il policy making, sono il ruolo degli
interessi organizzati, anche bancari e finanziari, e gli scambi e contatti informali tra le elite
economiche, burocratiche e politiche. Ne è un esempio la partitocrazia italiana, intesa come sistema
di potere basato sull’infiltrazione -coordinata mediante accordi spartitori- dei partiti nell’industria
nazionalizzata e nelle istituzioni politiche e sociali29. Attorno ai principali soggetti politici e
corporativi, alcuni network fortemente istituzionalizzati danno vita a comunità epistemiche piuttosto chiuse e caratterizzate dalla presenza di sedi di consulenza e accordi trilaterali30, all’interno di
un’economia di mercato coordinata e di un sistema di relazioni industriali neo-corporativo nel caso
tedesco e conflittuale con una progressiva tendenza alla concertazione nel caso italiano.
La struttura della competizione politica si differenzia storicamente soprattutto per la moderata
polarizzazione del sistema politico tedesco, determinato da un sistema proporzionale razionalizzato
da una soglia di sbarramento al 5%. Il caso italiano costituisce invece un’evoluzione da un
pluralismo polarizzato ad un bipolarismo frammentato, attualmente in corso di “semplificazione”.
Causa principale di quest’inefficienza è stata la mancanza di reali soglie minime di rappresentanza,
29
Il welfare state è conseguentemente considerato una forma di “partitocrazia distributiva” (Ferrera 2006).
Oltre all’italiano Cnel ed al tedesco Sozialbeirat, vi è un rilevante coinvolgimento delle commissioni parlamentari,
specie in materie tecnicamente complesse.
30
24
sia nel vecchio sistema proporzionale, sia nel sistema misto-maggioritario, abbandonato tra molte
polemiche nel 2005. Di fronte all’inadeguatezza del convenzionale iter parlamentare, la produzione
legislativa italiana vede un ampio ricorso alla potestà legislativa del governo, sotto forma di decreti
legge, legislazione delegata e provvedimenti finanziari. Prima del 1993, lo scenario politico è
dominato da un grande partito cristiano democratico (DC) e dai suoi alleati minori, rappresentanti
dei vari volti di un ceto medio in trasformazione ma incapaci di imprimere una svolta in senso
liberale. Al contrario, il sistema politico della Germania Occidentale è caratterizzato dall’alternanza
fra due partiti popolari di estrazione cristiano democratica (CDU/CSU) e socialdemocratica (SPD) e
dal ruolo pivotale del piccolo partito liberale (FDP), quasi sempre membro della coalizione di
governo. La competizione politica tra attori ideologicamente non troppo distanti consente una
gestione maggiormente consensuale della politica pensionistica, facilitando il compito dei decisori e
permettendo, già negli anni Settanta, riforme finalizzate al contenimento della spesa. In Italia,
l’esclusione dei post-fascisti e dei comunisti dal governo congela qualsiasi possibilità di alternanza,
riducendo la qualità e la trasparenza dell’azione di governo e ritualizzando ideologicamente il
conflitto politico sul welfare state, fino a rendere inevitabile un’espansione della spesa pubblica
nell’ambito della vecchia logica occupazionale del sistema, utile per ricompensare in modo
clientelare alcuni gruppi sociali di prioritario interesse elettorale.31
Un’importante riconfigurazione dello scenario politico si produce in entrambi i paesi tra la
fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta, in seguito alla crisi politica e valutaria
italiana del 1992-93 ed al processo di riunificazione tedesca iniziato con il crollo del muro di
Berlino nel 1989. In ambedue i casi, lo shock politico nazionale comporta anche una diretta
ridefinizione del cleavage centro-periferia e di quello tra zone sviluppate ed arretrate ed un indiretto
riallineamento del conflitto sociale che, scongelato dalla lenta dinamica post-industriale, viene
sollecitato dagli altri fattori destabilizzanti, conoscendo un’accelerazione decisiva. Tratteremo di
questa evoluzione nel paragrafo seguente.
In ambedue i paesi il rapporto con l’Unione Europea è una chiave di lettura fondamentale per gli
sviluppi delle politiche domestiche: entrambi questi membri fondatori rafforzano la propria identità
europeista in alcuni momenti critici della propria storia, sia sul fronte interno (l’Italia alla fine degli
anni Settanta) che sul fronte esterno (la Germania di Adenauer nei primi anni della Guerra Fredda).
Tuttavia, almeno da un punto di vista economico finanziario, il rallentamento dell’economia italiana
ed il grande sviluppo industriale tedesco portano ad una radicale divergenza dei due sistemi: negli
anni Ottanta e Novanta la situazione critica della finanza pubblica italiana è uno degli stimoli più
forti ad “europeizzare” (per la paura di “restare fuori dall’Europa”) le politiche economiche, nella
speranza di migliorarne l’efficienza. La Germania, con un sistema industriale più liberale ed
efficiente e la moneta più stabile in Europa, è invece un esempio da emulare: il suo coinvolgimento
è soprattutto dettato dalla speranza di estendere la propria influenza economica sulla regione.
Sul fronte delle politiche sociali, il sistema italiano e quello tedesco sono entrambi lontani dal
compromesso tra Nord-Europa e Francia che caratterizza il Modello Sociale Europeo. Tuttavia, la
solidità economica della Germania e la maggiore omogeneità di preferenze in un sistema industriale
neo-corporativo riducono gli incentivi tedeschi ad accettare l’intervento europeo, in merito al quale
l’Italia conosce invece uno iato tra la dirigenza del principale partito ex-comunista (PDS, poi DS) e
la sua base sociale e sindacale di riferimento. In entrambi i paesi, però, la permanenza di un
discorso politico ancora legato ai cleavage dell’industrializzazione ed alla preoccupazione
bismarckiana per il mantenimento del censo si combina a trasformazioni sociali ormai postindustriali: tutto ciò rende politicamente difficile garantire copertura alle nuove figure professionali e crea veri e propri corto-circuiti redistributivi all’interno del ceto medio,
compromettendo l’equità, l’adeguatezza e la popolarità welfare state.
31
Ne è un esempio l’ultima irresponsabile riforma espansiva del 1990, finalizzata a mantenere il consenso dei lavoratori
autonomi per un sistema ormai vacillante ed adottata senza alcuna copertura finanziaria.
25
2.2 Il processo di riforma: le variabili indipendenti ed intervenenti
L’effetto combinato di globalizzazione e post-industrializzazione sulle economie occidentali si
riassume nel tentativo di avviare un processo di “modernization in hard times” (Häusermann 2007),
cioè nella sfida di ridimensionare la spesa sociale tradizionale, affiancandovi allo stesso tempo la
copertura dei rischi sociali legati ai nuovi percorsi professionali e familiari (Bonoli 2000), in un
contesto di austerità permanente (Pierson 2001), imposto dall’accresciuta sensibilità socio-economica al mercato mondiale e dalla nuova struttura demografica. L’impatto sul sistema pensionistico,
tuttavia, è filtrato tecnicamente dal funzionamento e dalle modalità di finanziamento degli schemi
previdenziali. Gli effetti “in sé” delle variabili indipendenti possono soltanto essere presupposti a livello teorico: quello che l’osservazione empirica rileva è il risultato reale dell’interazione fra nuovi
stimoli e policy legacy. Sotto questo aspetto, Italia e Germania nonostante il diverso stato di
salute economica, affrontano in realtà un problema essenzialmente analogo, data la natura
pubblica, monopilastro e di tipo PAYG (o a ripartizione) dei propri sistemi.
Da un punto di vista macroeconomico, il rendimento complessivo del sistema a ripartizione è dato
dalla somma del tasso di crescita dei salari/contribuzioni e dal tasso di crescita della popolazione.
Questa modalità di finanziamento è pertanto desiderabile quando il suo rendimento è strettamente
superiore al tasso d’interesse, naturalmente senza considerare il costo opportunità del mancato
investimento dei contributi capitalizzati nel sistema economico o in ricerca e sviluppo (che in effetti
compensa la possibilità di garantire copertura alla prima generazione a “costo zero”). Il processo di
post-modernizzazione evidenzia quindi una vulnerabilità genetica dei sistemi PAYG, alla quale
nemmeno una grande solidità dei conti pubblici può opporsi. La profittabilità relativa e la
sostenibilità economica (misurata dai tassi di sostituzione e di dipendenza economica degli anziani)
degli schemi a ripartizione dipendono in modo cruciale dai due tassi di crescita di cui sopra, che
sono altamente correlati: alti o molto alti a livelli bassi di sviluppo economico, bassi o pressoché nulli nelle economie industriali avanzate e terziarizzate. L’impossibilità di diversificare i
due rischi macroeconomici -che la post-industrializzazione trasforma progressivamente in stati
“certi” del mondo- crea una pressione funzionale per le principali direttrici di riforma previdenziale:
il contenimento dei costi e l’introduzione di pilastri complementari (occupazionali o volontari).
Quest’ultimo punto in particolare crea spazi per un policy transfer dai sistemi multi pilastro
cosiddetti beveridgiani, che dalla metà degli anni Settanta si sono dotati di pilastri complementari
privati a capitalizzazione, in alcuni casi facoltativi o alternativi al sistema pubblico (possibilità di
opting out).
Tabella 2.2 – Lo scenario dei processi di riforma: i principali indicatori socio-economici
Crescita
del PIL
reale
Rapporto
Tasso di:
Aspettativa Crescita della
Spesa per
pensionati
di
pensioni/Pil Occupazione
popolazione
Debito/Pil occupati (Stima UE 2030)
Disoccupazione vita (anni) (Tasso fertilità)
Rapporto
Deficit/Pil
Italia
1990
2,05% -11,44%
97,30%
N.D.
12,8%
(N.D.)
52,61%
8,90%
76,90
0,08% (1,33%)
1995
2,83%
-7,41%
122,22%
N.D.
14,5%
(N.D.)
51,16%
11,20%
78,10
0,00% (1,18%)
2000
3,58%
-0,86%
121,64%
42,71%
14,7%
(15,7%)
53,88%
10,10%
79,60
0,05% (1,23%)
2005
0,09%
-4,35%
120,46%
45,88%
14,2%’
(15’’%)
57,48%
7,70%
80,40
0,74% (1,34%)
1990
^ 5,26%
-1,89%
40,38%
N.D.
64,15%
4,80%
75,20
0,87% (1,45%)
1995
1,89%
-3,20%
55,73%
N.D.
12,5%
(N.D.)
64,64%
8,00%
76,50
0,29% (1,25%)
2000
3,21%
1,31%
60,37%
34,47%
13,0%
(14,4%)
65,57%
7,50%
78,00
0,14% (1,38%)
2005
0,78%
-3,37%
71,05%
37,29%
11,4%’ (12,3%’’)
65,51%
10,60%
79,00
-0,06% (1,34%)
Germania
Fonti: OECD; Commissione Europea; Governo italiano
N.D.
^: Dato stimato
‘:Dato anno precedente
“: Dato anno successivo
La competizione politica ed i suoi riflessi sull’azione dei governi nelle arene elettorale e corporativa filtrano e ridefiniscono questa problem pressure: i decisori politici si trovano di fronte ad un
26
dilemma. Da un lato, l’unico modo di attuare riforme sottrattive sembra essere una politica di allontanamento del biasimo basata sull’offuscamento; dall’altro il discorso politico dei partiti ed i
tentativi di giustificazione dell’esecutivo sono tra i principali fattori di apprendimento sociale, specie in ambiti tecnicamente complessi e soggetti a grande incertezza come la riforma delle pensioni.
La scelta è quindi tra pagare un doppio costo politico ed amministrativo, definendo, attuando
e sposando completamente le riforme sottrattive, nella speranza di scatenare quel processo di
apprendimento sociale destinato a facilitare revisioni paradigmatiche; oppure bloccare la
diffusione dell’apprendimento e realizzare riforme infinite, invisibili e tendenzialmente
parametriche, elevando le proprie ambizioni soltanto in presenza di opportunità di blame
shifting. Miopia, incertezza e carattere dominante delle strategie di offuscamento costituiscono un
forte disincentivo alla prima opzione, imponendo una gestione sub ottimale dell’incertezza. Questo
porterebbe ad un esito paradossale e nel lungo periodo inefficiente, poiché riforme adottate
timidamente in un quadro generale indefinito -oltre ad essere path dependent- sono più vulnerabili a
revisioni, imponendo al processo nel suo insieme un andamento erratico: è a questo punto che nuovi
pull factor possono garantire una via d’uscita dallo stallo decisionale.
Nel caso italiano, la crisi politico-istituzionale e la grande pressione imposta dagli attacchi
speculativi degli anni Novanta hanno imposto alle riforme il carattere tecnico di un
“risanamento”, consentendo ad attori dotati di legittimazione tecnocratica e ad una parte riformatrice della sinistra di organizzare una concertazione con i sindacati nel quadro di un totale
sbandamento dei vecchi attori politici e delle loro subculture. Più velleitaria, sebbene inconcludente,
la posizione dell’inedita coalizione di centrodestra, formata dai post-fascisti (AN) da un nuovo
catch-all party (FI) e da un movimento per l’indipendenza del Nord (LN). Avendo proclamato a
gran voce un’identità liberista e riformatrice, la coalizione non può opporsi in termini di principio
alla riforma sottrattiva che non era riuscita ad attuare. Nel caso tedesco, gli effetti più critici della
riunificazione sono la pressione posta dai nuovi cittadini sugli equilibri finanziari degli schemi della
ex Germania Ovest, l’ingresso di un elettorato dalle preferenze più stataliste e interventiste, e la
conseguente ridefinizione della competizione politica secondo un cleavage geografico, molto
rilevante nella struttura federale della polity. Nel corso degli anni Novanta, il principale problema del sistema pensionistico tedesco è l’individuazione di fonti di finanziamento alternative
all’aumento del tasso di contribuzione, di fronte all’aumento della spesa e alla necessità di garantire maggiore copertura ai gruppi sociali più colpiti dalle trasformazioni industriali (Schludi 2005,
Schulze e Jochem 2007). Gli stati dell’est e la riforma del welfare state divengono lentamente due
dimensioni determinanti per gli obiettivi elettorali dei due maggiori partiti. Nel 2002,
l’affermazione a livello centrale di un nuovo soggetto di sinistra (PDS), impegnato nella difesa del
welfare state, sancisce la rottura di quel consenso in materia pensionistica che aveva facilitato le
pionieristiche riforme degli anni Ottanta. Si verifica così un riallineamento che avvicina i meccanismi di competizione politica in Germania alla struttura prevalente negli altri paesi europei.
2.4 Europeizzazione-apprendimento come variabile condizionante
Secondo il nostro modello teorico, l’intervento europeo produce un effetto positivo sui pull factor
della competizione politica, offrendo ai decisori una serie di elementi abilitanti per intensificare i
propri sforzi riformatori. Nel caso italiano, questo effetto è ben documentato, mentre nel caso
tedesco è solo apparentemente ridimensionato dalla ben nota efficienza degli apparati burocratici e
dalla sensibilità inizialmente ridotta al vincolo esterno dell’Uem. In entrambi i paesi, inoltre, la
presa di posizione europea interviene sulla political economy delle riforme chiarendo ai principali
stakeholder la natura della sfida demografica al sistema monopilastro a ripartizione ed i suoi
possibili policy linkage con i temi chiave della competitività internazionale e della ristrutturazione
industriale. In Germania, nonostante le prestazioni altalenanti dell’economia, i livelli di debito e
deficit non costituiscono un problema relativamente ai vincoli di Maastricht ed -in seguito- del Patto
di Stabilità e di Crescita; tuttavia, tra il 1999 ed il varo dell’Agenda di Lisbona, la futura
27
sostenibilità dei sistemi pensionistici suscita l’interesse europeo tanto quanto gli squilibri finanziari
di breve periodo, concentrando l’attenzione del Consiglio Ecofin sul caso tedesco (Hering 2006). In
Italia, visto lo stato drammatico dei conti pubblici, la prospettiva di restare eternamente in balia
delle turbolenze dei mercati finanziari e valutari produce grande coesione e costituisce la principale
base sulla quale articolare l’offerta di package deal di riforma. Le richieste dell’Unione monetaria
sono fondamentali per costruire un issue linkage tra l’insostenibilità di lungo periodo del sistema
pensionistico e l’insostenibilità di breve periodo delle politiche macroeconomiche, consentendo di
inserire una riforma intrinsecamente rivolta al futuro nella cornice di una serie di interventi
assolutamente urgenti.
Dopo l’11 settembre 2001, l’aggravamento dei conti pubblici tedeschi negli anni 2002-2004 porta
all’apertura di una “procedura per deficit eccessivo”, legata a forti pressioni da parte della
Commissione e dell’Ecofin per l’introduzione di stabilizzatori automatici della spesa pensionistica.
Le richieste europee vengono presentate (è il caso dell’Agenda 2010 del governo Schröder) come
un’irresistibile “force of circumstance” (Meyer 2005). Secondariamente, anche in Germania la
problem pressure fiscale aumenta l’influenza del Ministero dell’Economia sul resto del gabinetto,
compromettendo la parità di grado con il Ministero degli Affari Sociali, caratteristica dei governi di
centrodestra, anche in termini di spessore politico dei ministri (Meyer 2005). L’Italia, entrata
nell’Unione monetaria con un sistema politico apparentemente più efficiente ed un esecutivo
rafforzato, è ben lontana da un compiuto risanamento e cerca di confermare la sua nuova identità
affrontando difficili riforme strutturali, anche in campo previdenziale. Questo impegno si
rivelerà fondamentale negli anni successivi, quando anche il secondo paese fronteggerà una
procedura per deficit eccessivo.
Forniremo una breve panoramica delle riforme più rilevanti nei due casi di studio alla fine del
paragrafo. Di seguito, invece, partendo dai risultati della nostra analisi del concetto di
europeizzazione, offriamo una ricognizione dei principali sviluppi istituzionali che possono aver
agito come meccanismi di trasmissione sui pull factor e sulle opportunità dei decisori politici.
2.4.1 Apprendimento e capacità istituzionali
In generale, un importante effetto cognitivo dell’azione europea è legato ai nuovi compiti delle
burocrazie all’interno dei meccanismi di soft governance (non solo in materia pensionistica), visto
che la definizione di obiettivi quantitativi, il monitoraggio e la valutazione sono prassi e routine di
lavoro in parte o del tutto estranee alle culture più legate ad una concezione legalista della burocrazia. Come dimostrato da Ferrera e Sacchi (2005), l’impatto dei nuovi obblighi in una fase di
decentralizzazione amministrativa (1997) e politico-legislativa (2001) è particolarmente stressante
ed oneroso per l’Italia, a causa della mancanza di coesione e professionalità o ruoli specifici nella
struttura organizzativa. Tra il 1999 ed il 2005, l’esecutivo italiano si dota di alcuni istituti (come il
Comitato interministeriale CIACE ed il “Gruppo di lavoro per il monitoraggio degli interventi di
politica occupazionale e del lavoro”) che stabilizzano da un punto di vista organizzativo i contatti
con il livello sovranazionale e sviluppano un’inedita abilità di interlocuzione con i policy network.
Queste dinamiche -endogene ma facilitate dalla pressione imposta dalla nuova governance europea- ampliano le possibilità di riforma poiché, pur non essendo tutte intrinsecamente legate
all’ambito pensionistico, rilassano alcuni vincoli tecnici ed operativi all’azione dell’esecutivo.
In Germania, l’influsso della soft governance europea comincia a trasformare la cultura
amministrativa tedesca, anch’essa legata ad una visione legalistica e poco orientata alla valutazione.
Da un punto di vista tecnico, i documenti richiesti dall’UE non costituiscono una sfida per la
burocrazia tedesca, che li inserisce in modo indolore nella propria routine operativa. Tuttavia,
l’indicazione a livello pubblico (o almeno di network) dell’insufficienza di alcune performance è
inizialmente interpretata come un’ingerenza “disdicevole”. Tale reazione, anche se normalizzatasi
con il passare del tempo, porta gli stessi attori europei ad un atteggiamento conciliante e a
28
circoscrivere le principali rimostranze agli “addetti ai lavori”, ostacolando nuovamente processi di
social learning (Büchs e Friedrich 2005).
2.4.2 Apprendimento ed europeizzazione della competizione politica
L’istituzionalizzazione di sedi di contatto e lo sviluppo di alcune potenziali affinità tra soggetti
omologhi di differenti sistemi politici sono i due elementi che più fanno supporre la presenza di
canali efficaci di comunicazione e collaborazione, che trascendano gli ovvi contatti a livello
personale e/o informale tra vari membri del parlamento. Abbiamo già sottolineato una serie di
istituti e di occasioni di contatto tra parlamentari di nazionalità diversa e ideologia simile; perché
queste potenzialità di apprendimento si attualizzino è necessario che la competizione politica non
presenti meccanismi troppo atipici e country-specific e che le argomentazioni europee siano salienti
e diffuse nel policy discourse nazionale.
Come già ricordato, per quanto riguarda l’europeizzazione dello scenario politico tedesco ed i
suoi effetti sulla competizione elettorale, una delle conseguenze dell’unificazione è l’emergenza a
sinistra di un nuovo soggetto e di nuove argomentazioni: ciò rende i meccanismi del sistema
politico più simili alla realtà degli altri paesi europei. Già dal 1999, con il documento “Europe: The
Third Way/Die Neue Mitte” cofirmato da Blair e Schröder, la SPD si propone come un soggetto
politico riformista, impegnato in un tentativo di modernizzazione della protezione sociale, del tutto
in linea con le iniziative di un’Unione Europea “social-democratica” come mai prima di allora.
Inoltre, se i risultati delle elezioni tedesche del 1998 e del 2002 sembrano consolidare uno schema
di “quadriglia bipolare” alla francese, la successiva tornata elettorale, producendo -per la seconda
volta nella storia tedesca- un governo di “grande coalizione” sottolinea la vicinanza dei due partiti
popolari. Pur avendo attivato il welfare state come dimensione di un intenso scontro politico, il
meccanismo di competizione che lega questi due partiti li espone ormai agli stessi bisogni strategici
dei loro omologhi europei, rimuovendo un possibile ostacolo all’europeizzazione della
competizione politica.
Ancora più forte sembra poi l’impatto del framing del Social investment paradigm come
strumento per realizzare un’agognata modernizzazione del discorso politico e per marginalizzare il
PDS. L’obbligo di produrre documenti programmatici, benché non impegnativi, rende più coerenti
nel tempo le strategie di riforma, divenute più vincolate e vincolanti: anche iniziative ed idee
affermatesi indipendentemente dall’intervento europeo vengono legittimate, sistematizzate alla luce
del nuovo paradigma e sostenute con i nuovi indicatori e le nuove parole chiave. Il discorso politico,
almeno nell’arena corporativa, subisce, attraverso i documenti scritti prodotti dai governi, le
infiltrazioni della nuova logica di appropriatezza europea (Büchs e Friedrich 2005). Tanto più
questi impegni sono sottovalutati, tanto più il lessico europeo viene ripetuto pedissequamente e
filtra senza mediazioni, scaricando tutto l’onere di una nuova concettualizzazione sugli avversari
del nuovo paradigma, che si trovano così ancor più marginalizzati.
In Italia, la vera e propria rivoluzione seguita allo scandalo di Mani Pulite redistribuisce le risorse
di potere e popola lo scenario politico di molti nuovi attori (o di vecchi attori sotto nuove spoglie),
la cui identità indefinita ed i cui incentivi elettorali spingono ad una generalizzata condanna
dell’inefficienza delle vecchie istituzioni (comprese le politiche sociali) di cui nessuno reclama la
paternità. Tuttavia, le relazioni politiche ancora magmatiche e l’elevatissima incertezza (sia presso
l’elite che, soprattutto, nell’opinione pubblica) premiano un ristretto numero di imprenditori politici
molto vicini agli ambienti ed alla visione del mondo del livello sovranazionale. Attraverso i propri
contatti personali in ambito europeo, la propria collocazione politica nel cuore del vecchio centrosinistra, le proprie conoscenze tecniche, la propria legittimazione tecnocratica ed un comune
progetto riformista, questa elite riesce a farsi egemone grazie al vantaggio informativo concesso
dall’Unione Europea, e a vincolare i sindacati ad un più che decennale processo di riforma, che
consente all’Italia una storica ed inaspettata adesione all’Unione monetaria.
29
Nel corso degli anni Duemila, nuovi incentivi politici per un’espansione fiscale sono riemersi nel
gioco della competizione politica, per il temporaneo rafforzamento della protesta di sinistra dopo i
sacrifici degli anni Novanta e per la rinuncia da parte del centro destra ad alcuni elementi della sua
identità neo-liberista. L’ex partito comunista, dopo una transizione decennale, è confluito, insieme
ad una parte degli ex-cristianodemocratici, nel soggetto politico più riformista ed europeista del
sistema italiano (PD), la cui nascita è -in effetti- l’ultima opera di alcuni protagonisti delle riforme
degli anni Novanta. Tuttavia, in riferimento alla collocazione dei principali soggetti politici nello
scenario europeo, è proprio il più euroscettico centro-destra ad avere nel PPE esempi e riferimenti
chiari. Il PD, invece, non sembra deciso a collocarsi nella tradizione socialdemocratica, nonostante
il recente esito di sottorappresentazione elettorale dei suoi ex alleati di sinistra renda critica una sua
ferma collocazione nel centro-sinistra. Attualmente, il sovraffollamento del centro ed il vuoto a
sinistra sono un fattore di divergenza dalla situazione prevalente nei paesi dell’UE, nonché un
risultato paradossale in un sistema politico prima caratterizzato da una spiccata diversità ideologica.
2.4.3 Apprendimento sociale ed opinione pubblica: solo push factor negativi?
Le analisi economiche e le rilevazioni demoscopiche hanno rilevato che, durante i processi di
riforma, il livello d’informazione dell’opinione pubblica non è stato commisurato all’entità dello
sforzo compiuto dai decisori politici. Come indicato dai più essenziali modelli di electoral
behaviour, l’invecchiamento della popolazione non porta soltanto il trasferimento di una quota di
iscritti al sistema dal fronte dei contributori netti a quello dei beneficiari, ma rafforza il rischio
politico di un’accentuazione della domanda di redistribuzione e di una conseguente miope risposta
da parte di decisori interessati al mantenimento del consenso.
Prendendo in esame in rilevamenti dell’Eurobarometro, si nota che negli ultimi 10 anni di riforme
non è cambiato il paradigma cognitivo e normativo delle politiche pensionistiche. I dati della ricerca
speciale effettuata nel 2001 non paiono messi in discussione dall’evidenza delle indagini
successive, pur se meno dettagliate. In particolare, l’opinione pubblica è convinta che la copertura
del disavanzo pensionistico debba essere garantita effettuando tagli su altri fronti e che
l’elevamento delle aliquote contributive sia una soluzione più desiderabile di un prolungamento
della vita lavorativa, anche facilitato da incentivi attuariali: tutto ciò pur dichiarando un’età
desiderata di pensionamento di qualche anno più alta dell’età media di uscita dal mercato del
lavoro. Nonostante la crisi dei primi anni Novanta, anche l’opinione pubblica italiana mostra una
consapevolezza spiccata soltanto riguardo al rischio di essere colpita nei propri diritti acquisiti o nel
proprio futuro benessere. Al contrario, essa si dimostra assolutamente conservatrice riguardo a
qualsiasi soluzione che non sia l’aumento del prelievo contributivo. Di conseguenza, è possibile
affermare che l’impatto dell’apprendimento sociale sia incompleto e potenzialmente
controproducente: se il pubblico conosce gli effetti disgreganti delle trasformazioni economiche e
della globalizzazione, non pare però convinto dai nuovi strumenti. A dispetto degli issue linkage
individuati dai decision maker domestici e sovranazionali, gli elettori preferiscono affrontare il
costo (che non sanno quantificare) di mantenere in vita i vecchi istituti, più vicini alla propria
visione del mondo. Manca perfino una generalizzata consapevolezza della diffusa iniquità della
redistribuzione interna al sistema, elemento che potrebbe invece favorire la costruzione di coalizioni
favorevoli a pacchetti multi-dimensionali di riforma (Schludi 2005).
Sia in Italia che in Germania, la bassa adesione volontaria agli schemi integrativi, rafforzata e -per
la verità- legittimata dalla pessima immagine del mercato finanziario che si è venuta a creare in
questi anni, è la conseguenza di un’informazione spesso incompleta, distorta e frammentata, rimasta
come residuo di un’impostazione blame avoidant mai abbandonata durante il processo di riforma.
Ancor più rilevante e pregna di conseguenze a livello politico è una dinamica che si è realizzata con
30
un certo grado di similarità nelle due esperienze di riforma: in entrambi i paesi, un tentativo32 di
elevare l’età pensionabile in modo inframarginale (cioè immediatamente applicabile) non è
sopravvissuto all’alternanza di governo, venendo ritirata o ridimensionata dopo una violenta
campagna elettorale.
La Commissione Europea, unico attore sovranazionale con qualche interesse a sostenere in prima
persona le riforme è ormai percepito come un soggetto liberista, anche in conseguenza della stessa
retorica di blame-shifting messa in opera dai governi nazionali. Questo non le consente di avviare su
larga scala un dialogo diretto con i cittadini in materia di riforma delle pensioni, soprattutto
considerando la generalizzata preferenza dell’opinione pubblica per una gestione nazionale delle
politiche sociali. La disparità fra apprendimento dei decision maker ed apprendimento dei decision
takers ha quindi creato, in questo caso, una tendenza verso lo status quo. Il fattore determinante è
stato una gestione sub ottimale dell’incertezza, che non ha permesso una chiara quantificazione dei
benefici e dei costi -individuali e sociali- delle opzioni a disposizione: la riforma è stata così
abbandonata ancor prima di dispiegare i suoi effetti.
2.4 Il processo di riforma: gli output in prospettiva comparata33
In questa sezione addurremo esempi concreti a sostegno dell’analisi fin qui condotta e renderemo
più concrete le nostre argomentazioni. I due output in esame parrebbero quasi, a prima vista,
“troppo simili” per essere comparati. Tuttavia, crediamo che le loro effettive differenze in termini di
timing e singole misure possano essere utilmente riportate alle similarità e differenze istituzionali
rilevate finora, se l’analisi comparata si rivela sufficientemente fine-grained. Cercheremo di
dimostrarlo nei seguenti paragrafi.
2.4.1 La prima riforma Blüm e la riforma Amato
Entrambe queste riforme sono orientate al contenimento dei costi e, pur avendo effetti
inframarginali, vengono adottate con un largo consenso politico, che è però dovuto a ragioni
opposte. Una vera e propria resa dei partiti italiani, che tentano di guadagnare tempo di fronte agli
scandali giudiziari garantendo mano libera al governo parzialmente tecnico presieduto da Giuliano
Amato fa da contraltare alla reazione disciplinata ed informata del Parlamento tedesco, che
addirittura produce controproposte in anticipo sui tempi, come la bozza Biedenkopf, già ispirata ai
sistemi multipilastro. La Germania dimostra le sue maggiori capacità istituzionali preparando questa
riforma per tutti gli anni Ottanta, nominando commissioni di esperti e sapendo rinunciare a misure
costose come la revisione delle pensioni di reversibilità nel 1982, proposta dalla SPD. In Italia,
nonostante i primi bagliori di un dialogo politico orientato alla sostenibilità ed al riconoscimento dei
problemi strutturali, continua a prevalere una direzione espansiva. I politici tedeschi sanno fare
buon uso dello spirito collaborativo caratteristico di questa policy area sin dai primi anni Settanta,
affrontando prontamente uno stress finanziario sulle casse previdenziali che, in altri contesti,
sarebbe stato giudicato di minore importanza. In Italia è necessaria una crisi profonda e
multidimensionale (Ferrera 2006) per chiudere tutti gli spazi di collusione politica e procedere al
contenimento dei costi ed alla riduzione dell’iniqua frammentazione del sistema pensionistico.
Entrambe le riforme sono poi accompagnate da misure cautelative o compensative: nel caso
italiano si tratta dell’esenzione di una larga fetta di lavoratori dagli effetti più onerosi delle nuove
regole e dei primi tentativi di introdurre un secondo pilastro occupazionale volontario. In Germania,
dove questo tipo di integrazione esiste già dal 1974, vengono invece garantiti incentivi alla
32
E’ il caso dell’aumento del requisito minimo per il pensionamento di anzianità in Italia (riforma Maroni del 2004) e,
in Germania, dell’elevamento dell’età minima per le pensioni d’invalidità e del coefficiente demografico introdotti dalla
seconda riforma Blüm (1999).
33
L’analisi è basata principalmente su Ferrera e Jessoula 2007 e Natali 2007 per il caso italiano e Schulze e Jochem
2007 e Schludi 2005 per il caso tedesco. Omettiamo di conseguenza i riferimenti a questi testi.
31
permanenza al lavoro e crediti di maternità. La scelta di Amato rivela quali siano i costi della
mancanza di contesto istituzionale favorevole, perfino in un periodo di crisi estrema, in cui la
necessità delle riforme diviene impellente e ben chiara a tutti gli stakeholder.
In questa fase prevalgono le pressioni di carattere nazionale: il Trattato di Maastricht è un obbligo
solo virtuale, anzi, è proprio la battuta d’arresto dovuta alla mancata ratifica referendaria danese a
scatenare l’attacco speculativo contro la lira e le altre valute “deboli” dello SME. Tuttavia, il
successo del SMP ed il grande slancio integrazionista di questi anni suggeriscono che la futura
Unione Europea può essere una soluzione ad uno stato di vulnerabilità ormai insostenibile.
Integrazione negativa da un lato (in termini di accresciuta interdipendenza delle economie europee)
e progettualità politica fanno del progetto di Maastricht una grande risorsa simbolica, nonostante la
fase sia critica per la stessa approvazione del Trattato.
2.4.2 La seconda riforma Blüm e le riforme Dini e Prodi
Anche nella successiva fase di riforma si presentano alcune interessanti similarità. In primo luogo,
c’è il ritorno di un vivo scontro politico in materia pensionistica; inoltre, si realizzano i primi
tentativi di modernizzazione e revisione strutturale del sistema. In modo quasi paradossale, in
questa fase è l’Italia il riformatore più radicale: questo fatto dimostra tutta la forza della problem
pressure causata dall’esclusione dall’Uem, un progetto ormai avviato, e caratterizzato da sanzioni e
imperativi chiari. Nel 1994, dopo il fallimento della proposta avanzata dall’esecutivo di centrodestra, costretto alle dimissioni da litigi interni e dalla sua aggressiva strategia di commitment, un
nuovo governo tecnico raccoglie la sfida della riforma previdenziale, sostenuto da una maggioranza
di parlamentare di centro-sinistra. Il coinvolgimento attivo del sindacato, che s’impegna a dialogare
con la propria base associativa, consente nel 1995 una storica riforma del sistema di finanziamento
ed un primo rafforzamento organizzativo della previdenza integrativa occupazionale. E’ bene
sottolineare che si tratta anche del più intenso sforzo orientato ad avviare meccanismi di social
learning, ed è indicativo che sia stato realizzato nell’arena corporativa e non in quella elettorale. In
seguito alla riforma, il pilastro pubblico resta a ripartizione, ma adotta (escludendo ancora una volta
i lavoratori più anziani) una logica di contribuzione nozionale definita che ne promuove l’equità
attuariale. Questo criterio è inoltre rafforzato da un meccanismo di perequazione legato
all’aspettativa di vita (i cosiddetti “coefficienti di trasformazione”), che permette di introdurre, con
la garanzia di un’equivalenza finanziaria, un’età di pensionamento flessibile -57-65 anni- utile per
avviare, nel sistema contributivo, un progressivo assorbimento delle opzioni di pensionamento
anticipato nella pensione di vecchiaia, riducendo la grande difformità di rendimento a vantaggio
delle prime.
Le elezioni della primavera 1996 portano alla guida del successivo governo uno degli esponenti
più attivi dell’elite europeista, il futuro presidente della Commissione Europea Romano Prodi, che
integra la riforma Dini nonostante la resistenza dei suoi alleati più radicali. Il primo segnale di un
policy making più sofisticato e aperto agli esempi europei è la nomina di una commissione di
esperti (Commissione Onofri) incaricata di studiare una comprensiva ridefinizione e
razionalizzazione del welfare state italiano. Nello sforzo, poi coronato dal successo, di garantire
all’Italia il rientro nell’Unione monetaria, il governo Prodi sfrutta sia le possibilità “coercitive”
garantite dal vincolo esterno che quelle compensative offerte dai suoi asset organizzativi e
cognitivi, che gli consentono di avviare un progetto non meramente sottrattivo, ma soprattutto
modernizzatore. L’allentarsi del vincolo esterno ed il conseguente nuovo inasprimento della
competizione politica fermano le iniziative più ambiziose l’esecutivo Prodi -prima fra tutte,
l’introduzione di un meccanismo automatico per la revisione decennale dei coefficienti di
trasformazione- e ripropongono una fase erratica nel policy making sociale. Resta tuttavia nel
dibattito italiano, con tutte le sue difficoltà, il seme del neoprogressismo: un’innovazione
ideazionale possibile solo grazie all’azione di un’elite europeista, capace di sfruttare a suo
vantaggio l’effetto potenzialmente disgregante del vincolo esterno.
32
In mancanza di una pressione altrettanto intensa, l’esperienza tedesca viene fortemente
condizionata dai nuovi incentivi politici, ormai stabilizzatisi a quasi dieci anni dall’unificazione: la
riproposizione dei vincoli di Maastricht attraverso il Patto di Stabilità e di Crescita ha sicuramente
l’effetto di inasprire la politica economica del governo democristiano-liberale di fronte al
deterioramento della finanza pubblica, ma non crea alcuna disponibilità a sostenere mutui sacrifici,
né tra i partiti né fra i sindacati. In realtà, il progetto della seconda riforma Blüm potrebbe
teoricamente consentire ampi margini di compromesso: si tratta di ridurre la spesa complessiva
agendo sulle pensioni, trovare nuove fonti di finanziamento, estendere la copertura ai lavoratori
autonomi ed introdurre un coefficiente simile a quello della riforma Dini in Italia. Tuttavia, la CDU
è pressata dagli interessi subnazionali della CSU, impegnata nelle elezioni bavaresi, dalla
concorrenza interna del partito liberale e dalle controproposte espansive della SPD, che è in grado
di opporsi almeno alla parte finanziaria delle iniziative del governo, grazie alla sua maggioranza nel
Bundesrat. La facilità con cui tutti e tre i contendenti affrontano i costi intellettuali del puzzling è
quasi controproducente, soprattutto perché le soluzioni in lizza sono tutte vicine ai policy advice e al
dibattito accademico scaturito dopo pubblicazione di Averting the old age crisis della Banca
Mondiale. Alla seconda riforma Blüm sembrerebbe mancare non tanto il beneficio cognitivo di un
qualche tipo di framing, ma piuttosto un elemento di powering “cognitivamente rilevante”: una
figura di imprenditore politico che sappia rilanciare la propria proposta di riforma ed elevarla oltre
gli interessi domestici e di partito.
2.4.3 La riforma Riester e la riforma Maroni
La difficoltà del confronto politico tedesco può essere anche interpretata in termini di
ridefinizione delle reti degli stakeholder, non da ultimo per l’azione del Dialogo Sociale e di altre
iniziative comunitarie. Se, come suggerisce Christine Trampusch (2005), nel corso degli anni
Novanta si allentano i legami tra parlamentari tedeschi e gruppi d’interesse, l’affievolirsi di questo
potere di veto può avere due possibili effetti. Da un lato, una maggiore sensibilità al vincolo
elettorale, che rischia di aumentare l’incertezza e l’incoerenza delle riforme; dall’altro o una
maggiore apertura a processi di esterni di framing, potenzialmente in grado di ridurle. La SPD di
Schröder, vittoriosa alle elezioni del 1998 dopo una veemente campagna elettorale, guarda alla
terza via di Blair per cercare nuove opportunità politiche. I suoi dilemmi sono particolarmente
evidenti in relazione all’innovazione più importante del sistema pensionistico tedesco: il
coefficiente demografico. Il nuovo governo, sulla scia della campagna elettorale, indebolisce
immediatamente la riforma precedente, cancellandone l’introduzione, ma dovrà affrontare il
difficile compito di proporre un’alternativa equivalente su basi esclusivamente parametriche.
Contemporaneamente, in Italia il nuovo governo Berlusconi, eletto nel 2001, affronta due
problemi interconnessi: il primo consiste nel ridefinire l’agenda di riforme fallita nel 1994, sotto la
costante minaccia di una procedura d’infrazione per deficit eccessivo; il secondo è il tentativo di
costruire una serie di relazioni con gli attori sociali, che la coalizione non ha ancora avuto modo di
consolidare. La competizione politica, talvolta anche intra-partititica si articola secondo due assi: la
vicinanza ad attori sociali ancora legati alle vecchie esigenze di capitale e lavoro o ai nuovi
protagonisti della new economy e del mercato finanziario, dall’altro il cleavage geografico (Natali e
Rhodes 2005) che oppone le diverse esigenze sociali del Nord (che viene premiato) e del Sud (più
colpito dalle riforme). Le comuni esigenze di riempire il vuoto programmatico e di ridefinire il
portfolio relazionale dei due governi si traduce in un’aperta disponibilità nei confronti delle nuove
opportunità politiche legate all’Agenda di Lisbona. Si impone così il framing comunitario di un
welfare state orientato all’attivazione ed alla crescita, in linea con il nascente paradigma di
“Investimento Sociale” e bisognoso di interventi strutturati e comprensivi. Nonostante alcuni
elementi di difficoltà, come l’accesa competizione elettorale e il rallentamento economico globale
seguito al crollo delle Twin Towers (che, presentandosi come una lenta stagnazione, non sembra
porsi come un favorevole fattore di sblocco) sotto la pressione dell’agenda europea, i due governi –
33
di opposto colore politico- si impegnano nella prima metà degli anni Duemila, in un percorso di
riforma su due fronti: mercato del lavoro (Riforme Hartz e Riforma “Biagi”) e previdenza (Riforma
Riester e Riforma Berlusconi-Tremonti, cosiddetta “Maroni”). Da non sottovalutare il dato
temporale: la Riester (fine 1998-2001) e la Maroni (fine 2001-2004/2005) sono due riforme
pensionistiche lunghe, che mettono alla prova la tenuta delle coalizioni di governo, specialmente
con l’avvicinarsi delle nuove elezioni.
Tre elementi sono rilevanti per comprendere il ruolo dell’Unione Europea nel processo. In primo
luogo, in entrambi i Paesi, le commissioni ed i gruppi di lavoro incaricati di studiare le riforme sono
utilizzati più come strumenti per animare un dibattito riformista ed aumentare l’inclusività del
policy network, in linea con lo stile decisionale della Commissione Europea. In secondo luogo, c’è
un salto di qualità argomentativo che lega gli sforzi d’innovazione non più solo alla dimensione
fiscale e ad una mera reazione adattativa alle pressioni della globalizzazione. Il lento processo che,
a livello comunitario, affianca un nuovo approccio soft all’integrazione positiva determina alcuni
aspetti sostantivi delle agende di riforma dei primi anni Duemila, rendendole più orientate al futuro
e –soprattutto- incentrate sul problema demografico nel suo complesso (è il caso dello “scalone”
nella riforma Maroni34), anche in termini di rapporti familiari e di incentivi alla fertilità. L’ultimo
punto è l’impatto, sia immediatamente regolativo che filtrato dal discorso politico nazionale,
dell’issue linkage che lega il consolidamento della struttura multi-pilastro alla libera circolazione
dei capitali (specialmente nell’Eurozona) e dei servizi da un lato ed alla necessità di accumulare
liquidità finanziaria da investire nella crescita, dall’altro. Questo nuovo framing contribuisce a
ridefinire il dilemma vissuto dalle associazioni datoriali, precedentemente tentate dalla prospettiva
di mantenere gli elementi integrativi del sistema (l’italiano Tfr e il tedesco Entgeltumwandlung) al
proprio interno, anziché affidarli al mercato. Non deve quindi stupire l’intransigente reazione del
sindacato in entrambi i casi, resa ancor più apparente in Germania dalla maggiore (presunta) affinità
ideologica con il governo. In entrambi i paesi, il sindacato vede ridotto il suo ruolo pivotale
all’interno di un network che si allarga, esamina visioni politiche che marginalizzano la sua base
associativa (più legata al vecchio modello produttivo) e combatte per garantirsi un ampio
coinvolgimento nell’amministrazione della previdenza integrativa a livello occupazionale, la cui
trasformazione comunque presenta una ratio vicina alle preferenze del “padronato”.
Un ultimo aspetto è relativo alle competenze subnazionali in materia di previdenza integrativa:
non possiamo dedicare la giusta attenzione al tema in questa sede, ma ricordiamo che, in questo
campo, le forti richieste di autonomia delle regioni italiane e dei Länder tedeschi sono anch’esse
legate, come già sottolineato da Ferrera (2005) a processi di transnazionalizzazione. Questa nuova
frontiera del policy making sociale (molto rilevante per la competizione politica e i cleavage
geografico-elettorali di entrambi i paesi) aumenta la porosità dei confini statali, istituzionalizzando
un ulteriore vincolo all’operato dei governi, generalmente intesi come i principali rappresentanti del
livello nazionale.
Difficile tenere conto di ogni innovazione introdotta da queste due importanti riforme, di certo
non del tutto determinate da input europei: basti qui aver evidenziato delle possibili relazioni causali
che si riferiscono all’interazione fra i vari livelli di governance. Per comprendere meglio quanto gli
effetti di europeizzazione possano essere duraturi, è però necessario seguire un’ultima fase del
processo, che contribuisce a ridefinire ulteriormente lo stato del sistema pensionistico.
34
In entrambi i paesi viene proposto un elevamento del requisito di vecchiaia. In Germania il tentativo di portarlo da 65
a 67 anni non trova il necessario sostegno politico. In Italia, la riforma del Ministro del Welfare Maroni elimina il
pensionamento flessibile nel sistema contributivo, elevando il requisito a 65 anni per gli uomini e 60 per le donne
(cosiddetto “scalonissimo”). La misura non crea molte difficoltà poiché si riferisce a coorti destinate al pensionamento
dopo il 2015, anche se genera aspri dibattiti in tema di libertà di scelta e di parità di genere. Lo “scalone” consiste
invece nel tentativo analogo di elevare a 60 anni il requisito anagrafico minimo del pensionamento anticipato (che per il
resto considera l’anzianità del lavoratore): una novità che va rintracciata in una disposizione estremamente graduale
della vecchia riforma Dini. In Stamati (2007) offro un’analisi più approfondita della misura e della sua interazione con
il meccanismo di “superbonus”.
34
2.4.4 La riforma Rürup ed il Pacchetto sul Welfare
Affrontiamo ora due riforme più divergenti e più complesse da osservare in parallelo rispetto alle
precedenti. La prima differenza è relativa al fatto che, nel caso tedesco, la riforma costituisce una
prosecuzione del precedente intervento; mentre nel caso italiano si tratta di un parziale
rovesciamento, simile a quello occorso in Germania prima della riforma Riester. Il governo rossoverde, pur riconfermato solo di stretta misura nelle elezioni del 2002, s’impegna in un nuovo
comprensivo round di ricalibratura che include la già citata riforma Hartz. Rilevante è ancora il
ruolo delle Commissioni Hartz e Rürup, la cui composizione è già sintomatica di un network più
aperto, nel creare un dibattito di rilevanza pubblica sui temi della riforma, attività che prelude alla
definizione -nel corso del 2003- di “Agenda 2010”: il nuovo piano di riforma del governo, che (fin
dal nome) vuole presentarsi come l’Agenda di Lisbona nazionale. In linea con i policy advice della
Commissione Rürup e con il Rapporto Strategico trasmesso conformemente agli impegni del MAC
pensioni, la riforma del 2004 introduce finalmente un coefficiente di sostenibilità su base
demografica (Nachhaltigkeitsfaktor), pur condizionandolo ad un fattore di aggiustamento di
significato e natura più politici. Inoltre, viene realizzato l’innalzamento a 67 anni del requisito
anagrafico per la pensione di vecchiaia (in modo graduale e solo dal 2012 al 2029) e a 63 anni per il
pensionamento anticipato.
La riforma può essere così intesa come un perfezionamento delle misure attuate da Riester, dato
ancor più evidente se si considera il successo delle attività d’informazione e semplificazione
burocratica dedicate alla previdenza integrativa. Il risultato appare sorprendente se si considera la
relativa debolezza del governo che –già prima di sciogliersi anticipatamente nel 2005- è
costantemente vincolato da un’intensa competizione politica, persino all’interno della stessa SPD.
L’elemento che va sottolineato fortemente è la capacità del Rapporto Strategico Nazionale del 2002
di garantire la coerenza temporale della riforma, che, in effetti, rispetta tutti i punti più rilevanti del
progetto presentato all’Unione Europea: il giudizio del Rapporto Congiunto del 2006 è tanto
positivo, che la Commissione ed il Consiglio si limitano a suggerire un ampliamento della copertura
nei pilastri integrativi nel prossimo futuro.
Nel caso italiano, la riforma di fine 2007 costituisce un compromesso tra le due anime
(riformatrice e massimalista) della coalizione di centro sinistra, tornata al governo di nuovo sotto la
guida di Romano Prodi. Sulla scarsa coesione dell’esecutivo influiscono moltissimo le disposizioni
e gli incentivi alla competizione intra-coalizionale introdotti dalla nuova legge elettorale
proporzionale, varata in extremis dal centro-destra prima delle elezioni del 2006 ed eloquentemente
soprannominata “Porcellum”. La definizione della nuova strategia si rivela un processo lungo e
difficile, nonostante riguardi uno dei punti più netti e popolari del programma elettorale: la
revisione della riforma Maroni. Il processo decisionale porta ad un’estenuante stagione di trattative
e ad un processo legislativo blindato da voti di fiducia e maxi-emendamenti. Questa volta, lo
stimolo del vincolo esterno –sotto forma di una procedura per deficit eccessivo ereditata dal
governo Berlusconi II- ha un impatto solo ambiguo, in effetti restringendo le possibilità di
compensazione e lo spazio di manovra garantiti all’esecutivo. Anche il governo italiano è preda di
un’aspra contesa elettorale, che s’insinua all’interno dei maggiori partiti del centro-sinistra,
impegnati –mettendo a repentaglio la stabilità del governo- a definire le proprie risorse di potere
all’interno del nuovo soggetto politico in cui stanno per confluire: il Partito Democratico (PD).
Perfino aver anticipato di un anno il già programmato trasferimento del Tfr agli schemi integrativi
con una formula di “silenzio-assenso” (misura adottata con la riforma precedente) comporta un
notevole costo politico e d’immagine per il governo, che viene criticato dalla stessa opposizione,
autrice della norma.
Le inevitabili concessioni all’ala radicale dello schieramento includono misure relativamente
visibili ed espansive, il cui potenziale di credit claiming è però condizionato da un dibattito politico
pur sempre evolutosi in direzione di una ricalibratura. In effetti, l’auspicato ritorno in termini
elettorali non serve a scongiurare una storica sconfitta della sinistra nel 2008. Tra queste misure,
35
spiccano l’introduzione di “scalini” basati su quote di anzianità e vecchiaia in luogo dello “scalone”
della riforma Maroni e la prefigurazione di un trattamento agevolato su base occupazionale per i
cosiddetti “lavori usuranti”: una categoria ancora da definire ma dal grande richiamo politico. Oltre
alle misure parametriche necessarie a coprire parte dei mancati risparmi, vi sono alcune concessioni
all’ala riformista, che ricordano da vicino alcuni interventi della precedente riforma Prodi e
confermano la persistenza delle strategie di offuscamento. Il primo di questi, è l’introduzione di un
regime di decorrenza (le cosiddette finestre: brevi periodi di tempo definiti, solo entro i quali chi ha
maturato i diritti può effettivamente smettere di lavorare) anche per le pensioni di vecchiaia e per il
pensionamento con 40 anni di anzianità. Il secondo è l’aggiornamento dei coefficienti di
trasformazione, di cui si conferma la revisione decennale, pur prevedendo la nomina di una
commissione incaricata di studiare meccanismi automatici di revisione periodica. Quest’ultima
misura resta tuttavia incompiuta per la crisi di governo che chiude la legislatura tra gennaio e aprile
2008. Insieme ad essa, restano inattuate una delega per un’ulteriore armonizzazione di alcuni
schemi previdenziali del pubblico impiego ed un ambizioso progetto di razionalizzazione delle
Casse e degli Enti Previdenziali.
Le due ultime riforme dei nostri casi di studio sembrano così reintrodurre una divergenza nelle
capacità decisionali dei due paesi, dimostrando il ruolo chiave della competizione politica anche in
momenti in cui l’apporto europeo è più incisivo e rilevante.
2.5 Conclusioni: europeizzazione, un effetto duraturo?
L’applicazione ai casi di studio della prospettiva teorica elaborata nella prima parte del saggio ci
ha consentito di sottolineare alcuni importanti profili di similarità e differenza tra i processi di
riforma. Una volta precisate alcune essenziali caratteristiche del contesto, la generica estensione che
abbiamo lasciato al termine “europeizzazione” ci ha consentito di rilevare una serie di dinamiche
cognitive o (se riferibili all’attività di powering) “cognitivamente rilevanti” a livello politico e
burocratico. In particolare, abbiamo voluto precisare come l’istituzionalizzazione dei contatti fra
partiti di diversa nazionalità sia solo potenzialmente un fattore di apprendimento e/o policy transfer:
la fluidità di questi trasferimenti dipende in modo cruciale dall’applicabilità delle singole soluzioni
al proprio contesto di competizione politica. Questo determina una certa variabilità nel meccanismo
di filtraggio che il gioco competitivo dei partiti impone sul processo di riforma, che a sua volta
produce variabilità negli output dei vari paesi, persino quando le pressioni esterne ed il “bisogno
d’Europa” si fanno più forti. Tuttavia, i meccanismi e le sedi di comunicazione e confronto
transnazionale ci sono, stanno producendo feedback positivi e non sembrano soggetti ad un
facile o immediato rovesciamento.
Secondariamente, l’evoluzione dell’intervento europeo sembra produrre effetti in linea con le
nostre aspettative: da semplice pressione competitiva o rigido vincolo esterno, esso diviene un forte
elemento di ridefinizione del dialogo domestico, aumentando la sua influenza anche in contesti
economicamente meno vulnerabili, nel nostro caso la Germania. In teoria, questo dovrebbe
diminuire ulteriormente i costi di transazione dovuti all’incertezza, visto che l’Ue non è più solo in
grado di rendere evidenti i problemi, ma anche di “convalidare”delle soluzioni. Purtroppo, la nostra
indagine, prettamente teorica, non può dimostrare sul campo il ruolo di ogni singolo aspetto e di
ogni singolo canale durante il concreto sviluppo delle riforme. Crediamo tuttavia che non si
potrebbe in ogni caso parlare di falsificazione: se gli scambi di informazioni e di influenze sono
ormai una possibilità oggettiva nelle mani dei riformatori, il loro ruolo può essere misurato solo
caso per caso ed, in ogni modo, non dovrebbe essere escluso a priori. Soprattutto, il dato di stabilità istituzionale degli apporti comunitari è un elemento di coerenza per il policy making
nazionale, suscettibile di garantire maggiori possibilità di accumulazione a processi di riforma
graduali, che da soli resterebbero vittima di una logica di breve periodo.
Il risultato dell’analisi è che la combinazione fra europeizzazione e political competition permette
di capire la logica politica di alcune fasi opache e persino contorte del processo, chiarendo sia
36
l’origine di alcune opportunità di riforma inaspettate, sia l’incapacità di muovere dei passi che, a
prima vista, sembrerebbero scontati. L’interazione delle due variabili ci ha permesso di ipotizzare
che la stessa disponibilità dei governi nazionali ad accettare l’assistenza cognitiva dell’Unione trovi
un limite nella riluttanza a rinunciare del tutto alle strategie di blame avoidance. L’effetto negativo
di questa scelta sulla political economy delle riforme pensionistiche prende la forma di
un’interruzione nella diffusione del policy learning. L’apprendimento si ferma al livello (che la
letteratura indica come “secondo”) delle burocrazie e dei policy maker, senza mai raggiungere il lato della domanda. In tal modo non si realizza quell’apprendimento sociale che,
riconfigurando allo stesso tempo push e pull factor, consentirebbe uno slittamento di tutto il
“mercato elettorale” in un’area del policy space più favorevole all’innovazione istituzionale.
Nonostante questo, il sistema pensionistico bismarckiano che caratterizzava Italia e Germania è
cambiato, anche grazie alla determinazione del livello comunitario nel promuovere il policy
transfer della formula multi-pilastro sviluppatasi storicamente nei paesi beveridgiani. Inoltre, gli
stimoli portati dalla crisi che ha colpito questi sistemi (particolarmente vulnerabili ai fenomeni di
post-industrializzazione e globalizzazione a causa della genetica inadeguatezza al nuovo contesto
del loro sistema di finanziamento) ha aperto il campo all’intervento comunitario, che sembra essersi
strutturato come dato ormai stabile di un welfare state multilivello (o semi-sovrano). A tal
proposito, un elemento che si è mostrato rilevante ma sul quale abbiamo deciso di non soffermarci è
la dimensione territoriale e di ridefinizione della polity creata dall’impatto europeo sulle
politiche nazionali. In paesi come Germania e Italia, in cui le differenze regionali e la ripartizione
delle competenze sono elementi rilevanti anche per la competizione politica, questo aspetto non
dovrebbe essere sottovalutato nell’analisi dell’europeizzazione del discorso politico.
Le prospettive future sembrano dipendere molto da una rinnovata importanza dei contesti
nazionali, nel momento in cui una competizione partitica più accesa sembra richiedere al livello
comunitario una presenza maggiore, che in questa fase di stasi dell’integrazione e di (ri)definizione
del nuovo MAC sociale esso non è in grado di garantire. Sicuramente sulle prossime riforme avrà
un impatto rilevante il fenomeno delle bolle speculative ed il ritorno ad una visione più interventista
dell’economia politica, ma questo dice poco sulla possibile direzione degli interventi e sul modo in
cui gli issue linkage verranno esplorati. Il rischio finanziario e possibili strategie protezioniste
minacciano gravemente i nuovi pilastri integrativi, ed è certo che i regimi in transizione sono
estremamente vulnerabili a shock di questo genere, capaci di precludere al sistema di finanziamento
l’unica via d’uscita (economicamente virtuosa) dalla bancarotta. E’ certo, però, che gli istituti e le
prassi introdotte negli ultimi due decenni continueranno ad esercitare un effetto di collegamento che
potrà contribuire a creare bisogni e soluzioni comuni.
Non tutti i segnali, però, sono negativi. In Germania, le nuove politiche di informazione hanno
fatto registrare una rapida crescita dei nuovi contratti integrativi introdotti dalla riforma Riester e il
sistema politico ha considerato, seppur senza successo, l’ipotesi di anticipare i tempi previsti per
l’innalzamento del requisito anagrafico di vecchiaia. In Italia il nuovo governo sembra molto
orientato a politiche di attivazione e workfare: con un nuovo istituto informale di “Finanziaria
estiva” (d.l. 112/2008) è stata deliberata la soppressione dei limiti di cumulo tra pensione di
anzianità e redditi da lavoro. Maurizio Sacconi, a capo del nuovo “Ministero del Lavoro, della
Salute e delle Politiche Sociali” sarà l’interlocutore unico del MAC sociale, fatta eccezione,
ovviamente, per le implicazioni economico-finanziarie. Il nuovo ministro sta affermando un’identità
orientata al dialogo e ha diffuso a fine Luglio 2008, un Libro Verde destinato ad avviare la
discussione sul futuro del modello sociale italiano.
Il documento contiene molti indicazioni di un possibile futuro policy discourse sul welfare state;
nell’impossibilità di analizzarlo in questa sede, ci limitiamo a sottolineare che tale emulazione del
policy making style della Commissione Europea pare indicare una buona consapevolezza sia delle
prospettive del nuovo MAC sociale che delle lezioni tratte dalle esperienze del passato.
37
3 Fra gradualismo e path dependency: quali possibili conclusioni?
In questo saggio abbiamo cercato di affrontare da un’angolazione molto particolare un problema
centrale nella recente letteratura: quello del cambiamento istituzionale applicato alle politiche
sociali. Nel tentativo di raggiungere un equilibrio soddisfacente tra un modello teorico articolato ma
chiaro ed una ricostruzione puntuale ma sintetica (e soprattutto teoricamente fondata) abbiamo
incontrato non poche difficoltà. La prima è dovuta al fatto che, per un modello teorico che voglia
essere predittivo e preciso, la cosa più facile è prevedere una stasi completa. Spiegare il
cambiamento è invece difficile, perché la sua natura indeterminata crea un trade off tra precisione e
semplicità, nonché rigore analitico, almeno se si desidera seguire una prospettiva in cui “la storia
conta”. Una seconda difficoltà sorge dal fatto che le riforme del welfare state, l’europeizzazione e
l’apprendimento sono tre concetti estremamente ostici da definire e soprattutto da
operazionalizzare, sia come variabili dipendenti che, a maggior ragione, come fattori causali.
La prima parte del lavoro è stata dedicata al tentativo di affrontare questo problema, discutendo
l’intuizione che il concetto di apprendimento esprime e alcune possibili ragioni della sua rilevanza
nel dibattito teorico degli ultimi anni. Secondo noi, per non rinunciare al realismo e al pragmatismo
introdotti dall’analisi delle dinamiche di competizione politica nei processi di ricalibratura della
spesa sociale, l’apprendimento deve trovare spazio all’interno degli equilibri del sistema politico.
La soluzione proposta è stata di considerare la competizione politica come un processo
sensibile ai mutamenti del proprio contesto operativo. La capacità del sistema di relazioni di
incorporare fattori che ridefiniscono la domanda (push factor) e l’offerta (pull factor) politica
consente una notevole reattività a tutti quei processi di puzzling che si muovono sullo sfondo
dello scontro politico.
Il passaggio successivo è stato quello di legare la funzionalità esplicativa ed astratta del concetto
di apprendimento ad una serie di elementi empirici dotati di una propria storicità. Abbiamo
ricercato tali elementi in una disamina sintetica ma densa delle iniziative comunitarie in materia
sociale e specialmente pensionistica, indipendentemente dalla loro etichetta teorica (integrazione
europea, europeizzazione…). Successivamente, abbiamo cercato di capire quali eventi e soprattutto
quale prospettiva fossero più vicini al termine europeizzazione, cui ci legava non un rapporto di
necessità ma piuttosto una scelta dichiarata in base ad un interesse teorico. L’europeizzazione ha
confermato, naturalmente, il suo carattere multi-dimensionale, ma -con un certo margine di arbitrioci ha permesso di attribuire un contenuto sostantivo all’astrattezza del concetto di apprendimento.
Questo spiega anche la scelta del titolo. Partendo dalle dinamiche cognitive, l’europeizzazione
poteva intervenire nel discorso come un elemento di maggiore connotazione; al contrario, la
sequenza inversa non sembrava altrettanto fruttuosa per l’argomentazione. Lavorando, senza
nessuna pretesa di esaustività, all’intersezione dei due concetti, abbiamo inevitabilmente ridotto la
portata di entrambi; ma abbiamo ricavato una serie di percorsi, storicamente fondati, ed una
schematica periodizzazione dell’azione europea. Tutto questo ci è servito a capire come e perché tra
gli anni Ottanta e gli anni Duemila si sia verificato un cambiamento nella governance comunitaria
che è stato centrale anche dal punto di vista cognitivo. Se il concetto di europeizzazione viene
ricondotto ad una dimensione di istituzionalizzazione, lo stratificarsi di iniziative, prassi, obiettivi
ed esperienze che caratterizza l’azione comunitaria costituisce un fenomeno istituzionale parallelo,
che in alcuni casi riesce ad intrecciarsi al consolidamento istituzionale domestico e a stabilizzare i
canali che trasmettono singole e transitorie risorse cognitive, consentendo la loro sedimentazione ed
attribuendo loro un carattere cumulativo. Anche nel caso italiano, dominato certamente dagli
imperativi del vincolo esterno, l’apprendimento non è avvenuto solo attraverso un processo di trial
and error. E’invece crescente la rilevanza dei meccanismi di framing e di trasferimento orizzontale,
resi possibili dalla soft governance e dall’apertura di moltissimi canali di comunicazione.
L’analisi dell’europeizzazione dei partiti e dei sistemi politici è invece motivata dalla complessità
di capire la forza dell’interazione tra il livello comunitario e la competizione politica domestica. La
letteratura mostra come non si possa parlare di un’influenza netta del livello europeo sulla
38
competizione partitica, ma che vi siano delle iniziative dotate di un certo potenziale di
ravvicinamento. Abbiamo così voluto puntualizzare alcune possibili arene di scambio di
informazioni e visioni del mondo, dimostrando l’esistenza di una generica possibilità di
incontro, cha andrebbe chiaramente vagliata in modo empirico caso per caso. A sostegno di
questa evidenza, abbiamo proposto un argomento teorico, in realtà non molto sviluppato, che
s’ispira vagamente al principio di goodness of fit. In questo caso, riteniamo legittimo aspettarci che
qualsiasi dinamica (endogena o esogena) porti un sistema politico nazionale più vicino alla
costellazione partitica più comune in Europa, si riveli come un acceleratore dei contatti e degli
scambi nell’arena europea. In altre parole, le istituzioni comuni esistono e possono rendere possibile
uno scambio, ma non è certo che bastino da sole a rinsaldare i rapporti o a creare convergenza.
Nondimeno, quando una forma di ravvicinamento in qualche modo si crea, è lecito supporre che i
contatti si stringano e trasmettano più informazioni. Nel caso in cui questi apporti abbiano
prevalentemente carattere strategico, il loro effetto sulla fase di powering specialmente se
asimmetrico come nel caso italiano, assume una rilevanza cognitiva determinante nel dibattito
politico.
Nelle conclusioni intermedie della prima parte abbiamo cercato di definire nel modo più preciso
possibile gli effetti dell’europeizzazione, che non assomigliano né a quelli di una variabile
indipendente, né tantomeno a quelli di una variabile intervenente, soprattutto date le variabili
indipendenti scelte. Per la sua indipendenza dai fattori che avviano il processo di riforma e per la
sua capacità di intervenire sia direttamente che in modo mediato sullo stato del sistema
pensionistico, abbiamo considerato l’europeizzazione una variabile condizionante:
un’interpretazione favorevole al nostro tentativo di studiare il meccanismo attraverso il quale essa
influenza la competizione politica e insiste sulla political economy delle varie riforme. Utilizzando i
concetti di push e pull factor, abbiamo distinto effetti sulla domanda e sull’offerta politica,
ipotizzando che un’azione del primo tipo sia in realtà avviata solo da un processo di apprendimento
più potente e diffuso: quel social learning che la letteratura pone alla base del cambiamento
paradigmatico. In tal modo, l’atteggiamento opportunistico dei decisori politici, che sfruttano gli
apporti cognitivi del livello sopranazionale, ma non li trasferiscono sull’opinione pubblica, in
qualche modo spiega la dialettica interna alle riforme. Da un lato, le riforme avvengono perché i
costi politici ed amministrativi degli interventi sono stati in molteplici modi abbassati dall’azione
comunitaria. Dall’altro, le riforme non assumono mai un carattere comprensivo e determinante
perché, secondo le regole della competizione politica, nessuno dei decisori è disposto a sostenere
unilateralmente il costo elettorale di avviare un compiuto processo di apprendimento sociale. In tal
modo, molti effetti positivi dell’apprendimento sulle capacità istituzionali e sulla competenza
dei decisori non possono essere sfruttati appieno, poiché la perdurante incertezza
dell’opinione pubblica restringe gli spazi di riforma: il processo resta così bloccato in un
equilibrio subottimale. Gli ultimi sviluppi sembrano indicare che, nonostante un processo di
riforma in alcuni momenti più incisivo di quello tedesco, la storica inferiorità del contesto
istituzionale italiano stia pesando di nuovo sulla capacità di problem solving, ora che la
competizione politica ha pienamente assorbito e superato lo shock dei primi anni Novanta.
Secondariamente, abbiamo cercato di affrontare in modo diretto il punto, secondo noi critico,
dell’interazione fra la gradualità dell’apprendimento e la logica rigidamente duale del cambiamento
istituzionale nella prospettiva del punctuated equilibrium. La lettura neo-istituzionalista (storica) ha
due principali risorse per affrontare questo problema. La prima è il consolidato concetto di positive
feedback, che fondamentalmente suggerisce una gradualità intrinseca del processo di
istituzionalizzazione: in questo senso, “time matters”è un’espressione che deve essere letta in una
prospettiva incrementale. La seconda risorsa è la nuova agenda di ricerca sul cambiamento
istituzionale endogeno (Steinmo 2008), che concettualizza una maggiore variabilità degli effetti
diacronici sui processi di istituzionalizzazione, rilassando il determinismo dei “positive feedback”,
che non lasciava virtualmente nessuno spazio significativo all’agency. L’interazione tra dinamiche
39
istituzionali che si intrecciano garantisce invece agli attori più margini di manovra e porta ad una
ridefinizione dello status quo: una ridefinizione in cui anche l’agency conta.
Crediamo che i due casi di studio, pur nell’estrema sintesi della nostra trattazione, possano
evidenziare la capacità d’infiltrazione nella struttura istituzionale pre-esistente che è stata
dimostrata da almeno alcune delle molte iniziative comunitarie che abbiamo ritenuto significative.
La scelta di due casi per certi versi simili anche negli output ci ha costretto ad un’analisi più
dettagliata, per provare quanto le differenze nel sistema politico e nella salute del sistema
economico siano state operativamente rilevanti. In questo senso, un’analisi più fine-grained era
necessaria sia per impostare una comparazione corretta, sia per verificare la capacità del nostro
modello di descrivere il policy change che si è verificato nei sistemi pensionistici italiano e tedesco.
In conclusione, giova ancora una volta ricordare che gli assunti proposti da questo lavoro sono di
natura prospettica e che devono essere adeguatamente corroborati da un’analisi più approfondita. Se
la relazione fra le variabili che abbiamo ipotizzato nel modello qui presentato continuerà a rivelarsi
soddisfacente, confidiamo di poter aumentare il potenziale predittivo del modello, formulando una
serie di ipotesi più esplicite e falsificabili. Tuttavia, fra i punti fermi di una possibile agenda di
ricerca, resta la consapevolezza del delicato rapporto che lega decision maker e decision taker.
Qualsiasi lettura che contrapponga i processi di apprendimento dell’offerta politica agli incentivi
perversi della domanda, dovrebbe preoccuparsi di stabilire i limiti di opportunità e di legittimità
degli spazi di agency ottenuti grazie alla political slack, soprattutto in considerazione del fatto che i
decisori hanno un chiaro incentivo competitivo ad ostacolare l’apprendimento sociale, continuando
a perseguire la new politics indicata da Pierson e da Weaver. In caso contrario, una definizione
generica di apprendimento rischia di certificare a posteriori (cioè solo in virtù del fatto che lo status
quo è stato spezzato) qualsiasi intervento come un progresso dovuto ad un potenziamento cognitivo.
Il rischio è quello di trasferire sul piano sostantivo un bisogno di natura metodologica, adottando un
approccio impropriamente valutativo. Per quanto l’apprendimento di secondo livello possa rivelarsi potente e riforme importanti possano essere attuate anche di fronte a push factor negativi, l’esito resta meno efficiente e soprattutto per nulla desiderabile. Accettare un esclusivo
ruolo facilitante dei pull factor significherebbe giustificare qualsiasi tentativo di indebolire o
aggirare, quando la domanda si rivela troppo “inconsapevole”, il vincolo politico-elettorale che lega
rappresentati e rappresentanti in un rapporto principal-agent.
Il dato normativo che invece emerge dalla letteratura sull’apprendimento è che i decisori
dovrebbero essere talvolta capaci di percorrere la relazione con gli elettori in senso inverso,
facendosi promotori del cambiamento senza sfuggire ai meccanismi di accountability democratica.
Se, al contrario, le elite depositarie del potere tendono a legittimare il proprio operato attraverso
meccanismi che dovrebbero rimanere pertinenza esclusiva delle burocrazie (come il monopolio di
alcune conoscenze specialistiche), non sono soltanto la credibilità dei programmi elettorali, la
legittimità delle riforme e la qualità delle strategie di giustificazione a rischiare qualche forma di
detrimento. L’istituzione che, in questo caso, viene -per così dire- sottodeterminata è la fiducia
nell’efficienza e nelle capacità di problem solving delle stesse istituzioni democratiche.
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