Il potere legislativo del Governo tra forma di
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Il potere legislativo del Governo tra forma di
Il potere legislativo del Governo tra forma di governo e forma di stato Andrea Simoncini 1. Una premessa di metodo: sullo sfondo, la prassi complessiva delle fonti primarie Marta Cartabia nella sua introduzione fa riferimento a fonti nuove e prassi antiche. E cosi facendo mette a contatto due termini (fonti e prassi) che rimangono legati indissolubilmente. Uno studio sulle fonti del diritto che si limitasse ad una disamina teorico-dogmatica della dialettica potenziale tra norme e norme sulla normazione non avrebbe senso compiuto; cioè l’indagine non compirebbe tutto il tragitto, che pur deve compiere, per cogliere il significato dei fenomeni. Orbene, entrambe le relazioni 1 discusse nell’atelier muovono da una intelligente ed aggiornata disamina della prassi più recente sulla decretazione d’urgenza e sulla delega. Ma il dato diventa ben più inquietante se sovrapponiamo queste due fotografie e, soprattutto, se completiamo la scena con i dati riguardanti la legge ordinaria. C’è un aspetto di metodo rilevante in questa operazione: le fonti normative si comportano come un sistema, ovvero come un insieme di elementi caratterizzati da relazioni; da ciò consegue che ogni modificazione che tocca uno degli elementi dell’insieme si riverbera inevitabilmente sugli altri, tanto che limitarsi ad estrapolare un fattore senza avere nell’orizzonte anche gli altri, àltera irrimediabilmente il giudizio. Considerare i decreti-legge ed i decreti legislativi senza considerare le leggi o, ché sarebbe lo stesso, considerare le ordinanze di necessità senza guardare quello che succede alle fonti primarie, costituirebbe un affronto parziale del tema e, quindi, sebbene in apparenza poggiato su evidenze empiriche, al fondo incapace di spiegare l’andamento reale dei fenomeni. L’immagine complessiva che emerge dalla prassi (come segnala nel suo intervento Saitta) è che oggi il titolare effettivo e, sostanzialmente, esclusivo della legislazione non è più il Parlamento, ma il Governo, vero “signore delle fonti”, come l’ha definito Marta Cartabia parafrasando la dottrina internazionalistica. Se, infatti, com’è ormai diventata una buona abitudine non solo nelle rassegne dei costituzionalisti ma anche nei rapporti del Comitato per la legislazione, sottraiamo alla percentuale complessiva delle leggi approvate dal Parlamento, le leggi di conversione dei decreti legge, le leggi cadenzate a contenuto tipizzato (finanziaria, bilancio, comunitaria, etc) e le leggi di ratifica dei trattati internazionali, ci accorgiamo che le leggi parlamentari “vere e proprie” sono meno di un terzo del totale. E, se a tale dato affianchiamo la produzione dei decreti legislativi – che solo nei primi 36 mesi della XVI legislatura, sono stati 143 – occorrerà concludere che il decreto delegato oggi rappresenta, da solo, oltre il 30% di tutta la produzione di fonti primarie (comprensiva di tutte le categorie legislative sopra elencate). Dunque, si può fondatamente sostenere che più dei due terzi della normazione primaria oggi deriva da atti normativi del Governo (ovviamente non contabilizzando gli atti di natura secondaria). Tale dato, oltre che a giustificare la meritevolezza del tema scelto dal Gruppo di Pisa per questo Convegno, offre una misura palese della distanza ormai abissale che separa questa fotografia da quella formulazione negativa degli articoli 76 e 77, da quel doppio e sonante “non può” con il quale la Costituzione sottolinea quanto eccezionale ed episodico avrebbe dovuto essere l’ “esercizio della funzione legislativa” da parte del Governo. La preferenza per la legge ordinaria, nell’intenzione dei costituenti, era il riverbero della centralità politica del Parlamento nella forma di governo ed il sospetto con il quale si 1 Si vedano le relazioni introduttive di di A. Sperti e E. Frontoni in questo volume. 1 guardava al Governo legislatore non era espressivo di un’opzione tecnica nell’ organizzazione del processo di produzione normativa, bensì della scelta netta su quale dovesse essere il motore principale dell’“integrazione politica” della Repubblica2. 2. È entrata in crisi una consolidata chiave interpretativa: il sistema delle fonti è un indicatore della forma di governo. 2.1 Il legame fonti/forma di governo e l’interpretazione costituzionale La prima tesi conclusiva attorno alla quale mi pare si possa sintetizzare il dibattito, è che una delle più consolidate chiavi interpretative utilizzate negli studi sulle fonti - quella per cui il sistema delle fonti sarebbe essenzialmente un indicatore della forma di governo - oggi è in crisi. Proviamo a schematizzare. Il tema del sistema delle fonti normative e della loro evoluzione è stato tradizionalmente ricondotto al capitolo costituzionale della forma di governo. Conseguentemente esso ha seguito la sorte affatto peculiare di questa parte del nostro sistema costituzionale: quella di essere un’area scarsamente prescrittiva (potremmo dire, a “precettivit{ attenuata”), in cui una volta fissati i lineamenti essenziali del regime prescelto – nel nostro caso il governo “parlamentare” razionalizzato – si è poi lasciato gran parte della concreta disciplina costituzionale alle convenzioni ovvero alle consuetudini costituzionali3. Paradigmatica sul punto è la disciplina a dir poco laconica e stringata del Governo in Costituzione - formazione ed organizzazione - una disciplina destinata ab origine ad essere incisivamente integrata dalla prassi. E con ciò, agendo sul piano dell’interpretazione costituzionale, si è fornita al tempo stesso una spiegazione del testo, ma anche una giustificazione dell’evoluzione, spesso radicalmente innovativa, subita dagli istituti della forma di governo nella concreta storia dell’esperienza repubblicana. 2.2 Le ragioni di questo legame Orbene, prima di vedere in cosa questo legame sia entrato in crisi, occorre, per correttezza di analisi, riconoscere che esso ancora esprime un’effettiva quanto intuitiva verit{: vi è, infatti, un indiscutibile e profondo legame tra sistema delle fonti e forma di governo; le due relazioni di Sperti e Frontoni ne evidenziano con chiarezza le ragioni. Ma v’è di più: all’opinione dottrinale, da tempo si è affiancato l’esplicito ed autorevole avallo della stessa giurisprudenza costituzionale che, anche in una delle decisioni recenti più importanti proprio nel settore delle fonti normative – la sentenza n 171 del 2009 – ha solennemente ribadito che “è opinione largamente condivisa che l’assetto delle fonti normative sia uno dei principali elementi che caratterizzano la forma di governo nel sistema costituzionale. Esso è correlato alla tutela dei valori e diritti fondamentali. Negli Stati che s’ispirano al principio della separazione dei poteri e della soggezione della giurisdizione e dell’amministrazione alla legge, l’adozione delle norme primarie spetta agli organi o all’organo il cui potere deriva direttamente dal popolo.” Ma gi{ in un’altra storica decisione riguardante la reiterazione del decreto-legge – la n. 360 del 1996 - la Corte aveva chiaramente riconosciuto che “la prassi della reiterazione, tanto più se diffusa e prolungata nel tempo - come è accaduto nella esperienza più recente - viene, di Sulla ricostruzione delle fonti del diritto come “atti che esprimono formalmente processi di integrazione politica” cfr. G. ZAGREBELSKY, Manuale di diritto costituzionale, Torino, UTET, 1993, p. 14. 3 Si vedano a tal proposito gli atti del Gruppo di Pisa svoltosi ad Otranto nel 2004, i cui atti sono contenuti nel volume V. TONDI DELLA MURA, M. CARDUCCI, R.G. RODIO (cur.), Corte costituzionale e processi di decisione politica: atti del seminario di Otranto-Lecce svoltosi il 4-5 giugno 2004, Torino, Giappichelli, 2005, 2 2 conseguenza, a incidere negli equilibri istituzionali (v. sentenza n. 302 del 1988), alterando i caratteri della stessa forma di governo e l'attribuzione della funzione legislativa ordinaria al Parlamento (art. 70 della Costituzione)”. Questo legame, d’altronde, non è una “creazione” della nostra Costituzione” ma, come ha opportunamente ricordato Massimo Siclari nella discussione, risale all’origine stessa della forma di governo parlamentare nel periodo statutario, alla “invenzione” dei decreti-legge e delle deleghe di “pieni poteri” al Governo durante l’esperienza liberale Orbene, se è stata utilizzata per così tanto tempo, a cosa è dovuta la fortuna di questa chiave di lettura? Indubbiamente alla sua efficacia descrittiva. In effetti, gli atti normativi, ed in particolare quelli del Governo, sono ottimi “rilevatori” dell’ evoluzione della forma di governo parlamentare. Se provassimo a sintetizzare – a grandissime linee - come sono cambiati i rapporti tra Parlamento e Governo nei sessanta anni della nostra esperienza repubblicana, infatti, vedremmo delinearsi due grandi periodi. Una prima fase, che potremmo definire di consolidamento della democrazia, caratterizzata dall’assoluta centralit{ del Parlamento nel circuito di decisione politica. Essendo le Camere il luogo naturale di espressione della rappresentanza pluralistica del paese, esse, in questo periodo, si trovano a svolgere una vera e propria funzione “educativa” alla prassi democratica. Per questa ragione, alla nota conventio ad excludendum sul piano delle maggioranze di Governo, corrisponde una fortissima valorizzazione delle minoranze parlamentari nel procedimento di decisione legislativa (si pensi al ruolo delle commissioni in sede deliberante). In questa fase, volendo estremizzare, si può affermare che lo scopo fondamentale del procedimento legislativo era creare consenso, più che produrre decisioni. La complessità della negoziazione legislativa – e la sua conseguente lunghezza – sono espressioni di una nozione “consensuale” di democrazia (per usare la nota classificazione di A. Lijphart), in cui non ci si “accontenta” della maggioranza semplice, id est di governo, ma la si considera una condizione minima per la decisione, mirando ad ottenere il consenso più ampio possibile. Questa prima fase di consolidamento della democrazia parlamentare inizia ad entrare in crisi alla fine degli anni ’80 quando, assieme ad i grandi mutamenti dello scenario geopolitico, emerge la convinzione che tutte le forze politiche siano ormai “dentro” il recinto democratico. In quel momento salta definitivamente la conventio ad excludendum. Ciò finisce per spostare progressivamente l’attenzione dal piano della capacit{ rappresentativa/consensuale del sistema di produzione normativa al piano della sua efficienza decisionale/maggioritaria. Nasce, sul piano parlamentare, il dibattito sulla c.d. “democrazia decidente” e si assiste ad un forte spostamento del baricentro del circuito della decisione politica verso il Governo. Le riforme elettorali in senso maggioritario completano il quadro, realizzando un sistema politico in (perdurante…) transizione: bipolare, ma non compiutamente bipartitico, e dunque capace di associare i “sogni” di un sistema maggioritario, alla “triste realtà” di governi ancora di coalizione. Sono queste, sinteticamente, le ragioni che spiegano come l’evoluzione del sistema delle fonti normative, caratterizzato anch’esso dal macroscopico ed irresistibile spostamento del baricentro dal Parlamento verso il Governo, sia ancora un ottimo indicatore della mutazione subita dalla forma di governo. 2.3 Conseguenze di questo legame … Il problema è che aver enfatizzato questo legame fonti/forma di governo ha prodotto due fondamentali conseguenze – di natura problematica -: sul piano teorico e sul piano dei controlli. 3 2.3.1 (segue) sul piano teorico La principale conseguenza sul piano teorico, con riferimento al decreto-legge, è stata, da un lato, l’enfatizzazione del “continuum politico sostanziale” Governo/Parlamento e, dall’altro, la concentrazione pressoché esclusiva dell’attenzione, dal punto di vista della efficacia normativa, sulla legge di conversione. Il decreto-legge attenua la sua natura di fonte normativa autonoma, per diventare sempre più una sorta di “fase interna” del procedimento legislativo parlamentare, dimenticando la sua peculiarissima struttura costituzionale. Le teorie prevalenti sono ben note: la legge di conversione come “novazione” della fonte (Paladin), la teoria del decreto-legge come atto di per sè invalido e la legge di conversione come bill of indemnity di ripristino dell’ordine costituzionale delle competenze (Esposito e Sorrentino). Il carattere comune a queste ricostruzioni teoriche è che l’atto definitivo, quello - se mi si passa l’espressione - da “prendere sul serio”, è la legge parlamentare; le vicende che riguardano il decreto-legge ed i suoi possibili vizi rimangono in secondo piano o sullo sfondo. C’è una sostanziale omogeneit{ politica che lega Governo e Parlamento e quest’ultimo possiede sempre l’ultima parola sulla sanzione politica dell’azione dell’esecutivo. Se alla fine interviene una legge del Parlamento, approvata dalla maggioranza, vuol dire che questioni davvero fondamentali di “legittimazione” dell’azione del Governo, in realtà, non si pongono. È questo il motivo per cui la dottrina in questi anni si occupa molto meno della delega; in tal caso il Parlamento interviene prima e, quindi, l’azione normativa del Governo nasce, per dir così, strutturalmente, limitata. La logica dominante, ancora, è quella del continuum sostanziale Governo-Parlamento. L’ulteriore conseguenza sul piano teorico è che non si è mai affermata una distinzione sostanziale tra legge ed atti aventi forza di legge: discutendo, ad esempio, della riserva assoluta di legge, non si è mai discusso (da ultimo Bin e Pitruzzella4), che quando la Costituzione prevede una tale riserva, questa possa essere assolta anche tramite decretolegge o decreto legislativo. All’unificazione sostanziale sul piano della volontà politica, corrisponde la separazione delle due fonti sul piano “solamente” formale, ragion per cui i vizi del decreto-legge non rilevano nella fase di conversione; il fatto che (prima o poi) intervenga il parlamento fa sì che i vizi formali - del decreto (sia esso legge o legislativo) cedano dinanzi alla appropriazione politica che ne fa la maggioranza. È la Corte costituzionale che in una storica sentenza, la n. 360 del 1996, discutendo di reiterazione dei decreti-legge, offre un’efficace quanto sintetica formulazione di questa posizione teorica: “A questo proposito va, infatti, considerato che il vizio di costituzionalit{ derivante dall'iterazione o dalla reiterazione attiene, in senso lato, al procedimento di formazione del decreto-legge in quanto provvedimento provvisorio fondato su presupposti straordinari di necessità ed urgenza: la conseguenza e' che tale vizio può ritenersi sanato quando le Camere, attraverso la legge di conversione (o di sanatoria), abbiano assunto come propri i contenuti o gli effetti della disciplina adottata dal Governo in sede di decretazione d'urgenza.” 2.3.3 (segue) sul piano dei controlli Qual è la principale conseguenza di questa impostazione teorica? L’indebolimento (fino alla scomparsa) del controllo sulla costituzionalit{ “formale” delle fonti legislative del Governo o, se si vuole, l’affermarsi pratico di una distinzione tra il trattamento dei vizi formali e di quelli sostanziali delle leggi, per cui solo i secondi rappresentano vere e proprie violazioni 4 R. BIN, G. PITRUZZELLA, Le fonti del diritto, Torino, Giappichelli, 2009, 4 dell’ordine costituzionale, mentre i primi rappresentano soltanto condizioni necessarie, ma non sufficienti, di “incostituzionalit{”. Sia consentita una riflessione a questo riguardo: in realtà, esiste una debolezza intrinseca, per dir così ontologica, del controllo di costituzionale sui vizi formali. A differenza del vizio sostanziale che colpisce una o più norme, il vizio formale, infatti, opera, sulle disposizioni in quanto atto, a prescindere dal loro contenuto. Per usare l’immagine di Marta Cartabia, il vizio formale agisce come una bomba a grappolo, in cui l’incostituzionalit{ dell’atto-fonte si trasmette, in una reazione a catena, a tutte le norme approvate che, spesso, sono numerosissime, molto rilevanti (pensiamo ai decreti legge che contengono intere manovre finanziarie) ed in alcuni casi, di per sé, necessarie ed apprezzabili quanto a contenuto (come ha osservato durante la discussione Gemma). Da queste ragioni deriva la considerazione “realistica” – espressa recentemente da Zagrebelsky5 e ripresa sia da Frontoni che da Ruotolo - per cui i giudici costituzionali molto spesso esitano davanti a norme che presentano solo vizi formali, ma non sostanziali, finendo per annullare solo quelle norme dietro le quali – in realtà - oltre al vizio formale si scorge anche un vizio sostanziale. Il punto, però, è che a questa debolezza intrinseca, l’impostazione teorica che qui stiamo discutendo aggiunge un’ulteriore ragione di debolezza, per dir così, “pratica”. Per una puntuale analisi dei caratteri propri di questa debolezza del sindacato di costituzionalità sulle fonti legislative del Governo, non si può non rinviare al lavoro svolto dalla troppo prematuramente scomparsa collega Alessandra Concaro. Sulla “adeguatezza” o meno del giudizio di costituzionalit{ sulle fonti si è concentrata una parte sostanziale del dibattito (Morelli, Passaglia, Ruotolo, Gemma), osservando che oggi si è surrettiziamente affermata l’idea che il vizio formale sia una sorta di vizio “di serie B”, cioè un vizio meno rilevante. Assistiamo così a una situazione davvero paradossale in cui la parte più propriamente “kelseniana” della costituzione – quella, cioè, in cui la essa si pone effettivamente come norma sulla normazione – sembra presentare un tasso di “rigidità” inferiore rispetto a quello della parte sostanziale. Il vizio procedurale provoca – per adoperare gli argomenti di Frontoni e Ruotolo - una sorta di incostituzionalit{ “minore”. Decisivo sul punto è il contributo che ci può venire della comparazione con l’esperienza francese (su cui si è soffermato in particolare Passaglia), dalla quale emergono due dati notevoli. In primis, il segreto dell’elevato successo della saisine parlamentare, cioè del ricorso al Conseil Constitutionnel da parte della minoranza parlamentare, per violazione delle norme sul procedimento (il Conseil è arrivato ad annullare un’intiera legge finanziaria per violazioni procedurali) è facilitato dal fatto che il procedimento è di tipo preventivo, consentendo così, dopo l’annullamento della deliberazione parlamentale, alle camere di riapprovare la legge. In secondo luogo, l’esperienza francese dimostra che la maggior capacit{ di controllo dei vizi formali dei poteri legislativi del Governo nasce dal fatto che in quel sistema vi è una chiara definizione costituzionale e regolamentare del ruolo del Governo nel procedimento legislativo e non dal contrario, come sovente si pensa. G. ZAGREBELSKY, Conclusioni, in La delega legislativa: atti del Seminario svoltosi in Roma, Palazzo della Consulta, 24 ottobre 2008, Giuffrè, Milano, 2008, p. 319 e ss. 5 5 3. Si sta progressivamente affermando una “nuova” chiave interpretativa: il sistema delle fonti è un indicatore della forma di Stato 3.1 Un legame “relativamente” nuovo Se, quindi, la consolidata lettura che mette in relazione sistema delle fonti governative e carattere concreto della forma di governo, sta mostrando la corda sul piano delle conseguenze teoriche e dell’efficacia dei controlli, un altro profilo sta emergendo progressivamente con maggior chiarezza. Un profilo, si badi bene, già evidenziato dalla dottrina, ma che ora appare sempre più prevalente nella lettura della nostra esperienza costituzionale: quello del sistema delle fonti come indicatore della forma di stato o, detto altrimenti, la percezione che la disciplina delle fonti è una questione che riguarda la parte della Costituzionale dedicata alla protezione dei diritti fondamentali e non solo ai “poteri” per usare una classica distinzione didattica6. Ovviamente, come abbiano detto, sarebbe errato pensare che in questi anni non vi sia stata consapevolezza che il concreto assetto delle fonti primarie influenza la garanzia dei diritti fondamentali (basti pensare agli studi seminali di Pizzorusso7); la stessa Corte costituzionale ha inserito, seppur incidentalmente, il riferimento a diritti ovvero valori fondamentali, di solito con la formula per cui bisogna garantire il rispetto degli articoli 76 e 77 della Costituzione “a maggior ragione laddove siano coinvolti diritti fondamentali”8. La novità che emerge dal dibattito è che questa considerazione dallo sfondo (per usare l’immagine di Zagrebelsky), da dietro le quinte della scena, sta sempre più venendo in primo piano come il valore costituzionale principale da tutelare Dalle relazioni introduttive, e dalla discussione che ne è seguita, sono emersi diversi profili di questo “nuovo” rapporto tra assetto concreto delle fonti del governo e tutela dei diritti fondamentali. 3.2 Assetto delle fonti e diritti di partecipazione degli “attori” politici ed istituzionali Innanzitutto, è stato evidenziato quello che potremmo definire il profilo più “classico” del rapporto fonti/diritti. È evidente, infatti, che la disciplina del procedimento legislativo ordinario, delle sue fasi e dei suoi tempi, rappresenta una forma di garanzia dei diritti dei singoli parlamentari e delle minoranze parlamentari a partecipare a tale procedimento. L’adozione extra-costitutionem di fonti normative del Governo che godono di un iter procedimentale del tutto diverso rispetto a quello ordinario, oltre ad alterare la forma di governo, lede precisi diritti di partecipazione politica sia dei singoli parlamentari (anche di maggioranza, sia delle minoranze presenti in Parlamento, ma non nel Governo. Questa tesi ha avuto in alcuni rilievi del Presidente Napolitano, sui quali in generale ci soffermeremo più avanti, una ulteriore specificazione (su cui è intervenuto Chinni); per il Presidente della Repubblica9 la disciplina – costituzionale e regolamentare - del procedimento legislativo ordinario è posta – tra gli altri valori - anche a tutela del diritto delle commissioni parlamentari di partecipare alla decisione legislativa, ragion per cui qualsiasi deviazione dal M. LUCIANI, La «Costituzione dei diritti» e la «Costituzione dei poteri». Noterelle brevi su un modello interpretativo ricorrente, in Studi Crisafulli, a cura di II, Padova, Cedam, II, 1985, p. 497 e ss. 7 A. PIZZORUSSO, Sistema delle fonti e forma di Stato e di Governo, in Quad. cost., 2, 1986, p. 217 e ss. 8 Cfr. Corte cost.,, sent. n. 302/1988, oppure n. 171/2009 in cui si riferisce alla tutela dei valori e diritti fondamentali. 9 Cfr. la lettera del Presidente Napolitano ai Presidenti delle Camere e al Presidente del Consiglio inviata in data 22 febbraio 2011 nella quale ha richiamato l'attenzione sull'ampiezza e sulla eterogeneità delle modifiche fin qui apportate nel corso del procedimento di conversione al testo originario del decreto-legge cosiddetto "milleproroghe". 6 6 procedimento ordinario, se non correttamente utilizzata, finisce per comprimere questa posizione giuridicamente tutelata delle commissioni in quanto articolazioni dell’istituzione parlamentare. Spostandoci sul settore della delega, ma sempre sulla stessa lunghezza d’onda, è stato ricordato (Nannipieri), riprendendo la relazione introduttiva, la frequente violazione del diritto delle commissioni parlamentari a partecipare con il proprio parere alla redazione dei decreti legislativi, nella prospettiva dei pareri parlamentari come “limiti ulteriori” posti dalla legge delega alla decretazione legislativa. Così come Mobilio e Frontoni hanno esteso lo stesso rilievo alla scarsa effettività con cui viene rispettato il diritto delle regioni e degli enti locali a partecipare alle decisioni legislative attraverso i meccanismi delle intese con la Conferenza Stato-Regioni, ovvero con organismi parlamentari di raccordo con il sistema delle Autonomie (si veda l’ampio coinvolgimento di commissioni ad hoc e non previsto ad esempio dalla legge delega sul cd. Federalismo fiscale). 3.3 Assetto delle fonti e diritti fondamentali: la certezza del diritto oggettivo Ma a questo versante, che potremmo definire dei diritti di partecipazione democratica, si stanno affiancando nuovi profili del rapporto assetto delle fonti/forma di stato, direttamente legati ai diritti civili fondamentali. Nel dibattito, infatti, è stata sottolineata con grande intensità una relazione che, se di certo non rappresenta una novità, sicuramente apre nuovi scenari nella valutazione della prassi in materia di fonti. Mi riferisco al tema della “qualit{ della normazione” con riferimento alla produzione legislativa che sempre più si realizza per il tramite di decreti-legge e decreti legislativi (sul tema hanno insistito Morelli, Carnevale e Geti). L’attenzione che ormai da molti anni si sta dedicando al valore della redazione dei testi normativi ha già portato delle novità ragguardevoli nella prassi del Governo in materia di fonti primarie. Si pensi all’impatto del Comitato per la Legislazione, organismo istituito presso la Camera dei deputati con compiti di consulenza specificamente riguardanti i decreti-legge, le deleghe e le delegificazioni e avente come parametro di controllo essenzialmente i requisiti di qualità della legislazione. Ebbene proprio nella prospettiva della qualità del drafting, è emerso un aspetto critico che affianca decretazione d’urgenza e legislativa sul piano della in-comprensibilità di questi atti da parte dei destinatari delle norme che essi pongono. Detto altrimenti, una delle conseguenze del “caos” normativo derivante dal modo in cui oggi Governo ed Parlamento utilizzano rispettivamente la decretazione (d’urgenza e legislativa) e la legislazione (di conversione e delega), è che viviamo in una condizione in cui non è possibile obbedire alle disposizioni di legge in quanto esse non sono concretamente “conoscibili”. Alcune esemplificazioni significative sono emerse nel dibattito. Sul versante del decreto-legge sono riaffiorati temi ben conosciuti: dai decreti-legge omnibus (che, in spregio a qualsiasi criterio di omogeneità, continuano ad essere contenitori normativi “aperti” a contenuti del tutto eterogenei, carattere amplificato esponenzialmente in sede di conversione: per tutti si pensi al monstrum del decreto c.d. “milleproroghe”10), ai decreti-legge “a perdere” (su cui Sperti si sofferma, cioè quelle catene di decreti destinati a non essere convertiti e, quindi, a decadere essendo, però, “riutilizzati” all’interno di disegni di legge ovvero di conversioni successive). Ovvero quelli in cui intere (e successive) manovre economiche sono approvate per decreto-legge (e si vedano le osservazioni nella relazione Sperti sulla crescita di “peso” dei decreti legge, considerando che il tasso di accrescimento in sede di conversione è di circa il 70%, in termini di commi). 10 7 Ma la relazione Sperti ha anche attirato l’attenzione su di un tema, apparentemente secondario, ma in realtà estremamente rilevante nella prospettiva della tutela della certezza del diritto oggettivo; il riferimento è alla questione degli emendamenti in sede di conversione di un decreto-legge; che efficacia hanno? Considerando il numero altissimo di decreti-legge convertiti con modificazioni da parte del Parlamento, si comprende che la questione è tutt’altro che astratta o di scuola. Ebbene, sul piano teorico, sono possibili due opposte soluzioni dinanzi ad un emendamento che nella sostanza abroghi (totalmente o parzialmente) una disposizione del decreto-legge in sede di conversione, a seconda che si dia prevalenza all’intenzione generale (convertire) ovvero al contenuto specifico (modificare). Infatti, per un verso, si può considerare prevalente la circostanza che la modifica del decreto è pur sempre contenuta all’interno di una legge di conversione; da ciò seguirà che le modifiche apportate in sede parlamentare saranno efficaci a partire dalla data di entrata in vigore della legge di conversione (a meno che l’emendamento parlamentare non abbia un espresso tenore retroattivo e ciò sia consentito dalla materia), ma tutti gli effetti prodottisi durante i giorni di vigenza del decreto verranno stabilizzati, in quanto il decreto-legge si ritiene “convertito”. Del tutto opposta è la prospettiva di chi considera la modifica parlamentare una “mancata conversione pro parte” del testo del decreto-legge; in questo caso, mentre la modifica avrà sempre efficacia ultrattiva dall’entrata in vigore della conversione, le parti del decreto modificate decadranno ex tunc. La questione, come si può immaginare, risale ad antica data e la stessa legge 400 del 1988 aveva tentato (parzialmente) di risolverla affermando nei commi 5 e 6 che: “Le modifiche eventualmente apportate al decreto-legge in sede di conversione hanno efficacia dal giorno successivo a quello della pubblicazione della legge di conversione, salvo che quest'ultima non disponga diversamente. Esse sono elencate in allegato alla legge. Il Ministro della giustizia cura che del rifiuto di conversione o della conversione parziale, purché definitiva, nonché della mancata conversione per decorrenza del termine, sia data immediata pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale.” (corsivo aggiunto) Orbene la giurisprudenza costituzionale sembrava aver scelto decisamente la seconda prospettiva e in un precedente (la sentenza n. 51 del 1985) aveva stabilito che la conversione con emendamento modificativo costituisce una “mancata conversione in parte qua”. Ma dinanzi ad un caso recente di emendamento sostanzialmente modificativo, la relazione Sperti ha segnalato il singolare percorso argomentativo della Corte costituzionale, la quale dapprima ha ribadito che “nel caso in esame risultano astrattamente ipotizzabili due alternative ermeneutiche: che l’emendamento dianzi ricordato implichi la conversione della norma del decreto-legge censurata e la sua contestuale modifica con effetto ex nunc (a partire, cioè, dal giorno successivo alla pubblicazione della legge di conversione); o che, al contrario, l’emendamento equivalga ad un rifiuto parziale di conversione, che travolge con effetto ex tunc la norma emendata per la parte non convertita (…)” Poi, proseguendo in linea con la propria giurisprudenza precedente, ha osservando che anche la Suprema Corte di Cassazione, occupandosi di una fattispecie analoga “si è espressa a favore della seconda delle soluzioni in precedenza indicate, e cioè nel senso che l’emendamento equivalesse ad un rifiuto parziale di conversione: donde la conclusione che, in riferimento [al caso di specie], la norma del decreto-legge dovesse considerarsi tamquam non esset, anche durante il periodo della sua provvisoria vigenza (Cass. civ., sez. III, 26 maggio 2005, n. 11186; Cass. civ., sez. I, 17 marzo 2000, n. 3106)” 8 Ma poi – sorprendentemente - sulla base di queste considerazioni la Corte costituzionale non ha preso una chiara posizione, rinviando agli atti al giudice a quo al fine di riesaminare la questione, limitandosi a suggerire come possibile criterio risolutivo la “possibilità di ravvisare nell’emendamento apportato in sede di conversione un mutamento della stessa ratio della norma censurata”. Dunque, da questa decisione si deve desumere che la mancata conversione pro parte in caso di emendamento abrogativo o modificativo non vi è sempre, ma solo se l’emendamento realizza in concreto un mutamento di ratio; se invece la ratio rimane identica, allora, oltre alla modifica, vi sarebbe conversione. Il che sta a dire, concretamente, che l’efficacia di un numero impensabile di norme giuridiche durante il periodo di vigenza decreto-legge è affidata a questa sottile quanto impalpabile distinzione. Vista l’ampiezza della portata degli interventi in sede di emendamento parlamentare, (ovvero la prassi ora richiamata dei c.d. decreti legge “a perdere”), si comprende come l’impatto di una questione del genere coinvolga l’esistenza e l’applicabilit{ di numerosissime disposizioni rispetto alle quali, questo è il punto, l’ordinamento finisce per trovarsi in una condizione di oggettiva incertezza11. Condizione che, analogamente al periodo buio della “reiterazione” abnorme dei decreti legge (ante-1996) sta ponendo nuovamente in discussione la reale efficacia dei decreti legge durante i sessanta giorni di vigenza. Oggi, infatti, in molti casi, ragioni di prudenza invitano, non soltanto i professori di diritto, ma anche i cittadini e la pubblica amministrazione ad attendere la conversione di un decreto legge prima (di commentarlo oppure) di obbedire effettivamente al loro contenuto. Ma potremmo proseguire in questa disamina sul versante della delega legislativa, sol che si pensi alla “mirabolante” operazione dei cosiddetti decreti “taglia leggi”, con la quale si è voluto procedere all’abrogazione di un numero imprecisato di disposizioni (salvo poi richiamarle in vita per decreto-legge, visti i disastrosi effetti collaterali prodotti), ovvero la prassi, anch’essa emersa nella relazione introduttiva e nel dibattito, delle deleghe integrative e correttive “mascherate”. Se a questo panorama aggiungiamo il regime del tutto “opaco” delle ordinanze extra-ordinem (su cui si vedano le altre relazioni nel convegno), il quadro risulta ancora più drammatico. La storia in questi casi può essere, però, di ammonimento. Non va dimenticato, infatti, che nel 1996, dinanzi alla prassi ormai parossistica della reiterazione dei decreti-legge, quello che innescò la svolta radicale della Corte costituzionale, rappresentata dalla famosa sentenza n. 360, fu una diffusa “reazione ambientale” – così la definì Zagrebelsky nel suo editoriale nel n.1 dei Quaderni costituzionali del 1996 – per cui un numero crescente di giudici, dinanzi ai decreti-legge iterati, sostanzialmente smise di applicarli, rimettendo la questione di legittimità alla Corte. Ed, allora, sarà opportuno ricordare anche il precedente – per ora isolato - della sentenza 364 del 1988 della Corte costituzionale sul principio della conoscibilità delle fonti come prerequisito sostanziale di una forma di stato democratica. La Corte, lo ricordiamo, in quella occasione affermò nitidamente che “lo stato è tenuto a favorire al massimo la riconoscibilit{ sociale dell’effettivo contenuto delle norme”, dal momento che non si può chiedere l’obbedienza rispetto a norme non conoscibili. Occorre ammettere che, dinanzi a questa condizione, appare giustificabile il comunicato del Presidente della Repubblica - in occasione della promulgazione della conversione del c.d. decreto milleproroghe - in cui il Quirinale, con una affermazione che inizialmente aveva suscitato non poche perplessità in quanto ritenuta velleitaria, “ha preso atto dell’impegno assunto dal Governo e dai Presidenti dei gruppi parlamentari di attenersi d’ora in avanti al criterio di una sostanziale inemendabilità dei decreti-legge” (corsivo aggiunto). 11 9 C’è da chiedersi se la condizione attuale, ormai, non configuri uno scenario simile. Ma vi è un ulteriore aspetto per il quale l’inconoscibilit{ pratica delle fonti normative finisce per ledere i diritti fondamentali (in questo caso) dei cittadini, anche se, mi pare, vi si rifletta poco. Un elemento fondamentale per il funzionamento di istituzioni democratiche (un requisito essenziale di “qualit{” della democrazia, direbbe Morlino12) è che gli elettori, votando, possano effettivamente far valere la responsabilità politica degli eletti. Questo presuppone che i cittadini elettori (nel caso di elezioni politiche nazionali) siano in grado di sapere chi e come ha preso le decisioni che impegnano il livello massimo di autorit{ dell’autorit{ pubblica e, cioè, in primis, le decisioni legislative. Anche a voler concedere che oggi, nei fatti, la responsabilità si concentri prevalentemente sulle scelte di indirizzo (fiducia e sfiducia), piuttosto che sulle singole decisioni a riguardo delle leggi, un sistema normativo oggi così caotico e confuso rende quasi impossibile comprendere (e dunque valutare) come i deputati ed i senatori abbiano votato sui provvedimenti in discussione e, quindi, a chi concretamente vada attribuita la responsabilità delle scelte legislative. Si pensi alla modalit{ ormai consolidata di formazione dei “grandi decreti-legge” contenenti intere manovre economiche ovvero la manutenzione legislativa dell’intero corpus normativo (i c.d. decreti “milleproroghe”), in cui molto spesso si giunge alla conversione attraverso un “maxiemendamento” governativo su cui, di solito, si pone la fiducia. Chi ha concretamente inserito le disposizioni nel maxiemendamento che poi vengono votate “a scatola chiusa” dal Parlamento? Molto spesso esse sono il frutto di una attività non formalizzata di lobbying istituzionale (svolto cioè non solo da rappresentanti di interessi economici, ma anche da rappresentanti dei singoli ministeri che vogliono così evitare il coordinamento derivante dalla approvazione in consiglio dei ministri), realizzando così una forma di negoziazione legislativa estremamente “opaca”. Ovvero, si pensi alla prassi, evidenziata nel dibattito da Nisticò, delle deleghe integrative e correttive, approvate – quanto alla legge delega – da un certo governo, ed eseguite – quanto ai decreti legislativi - da governi diversi; di chi è la responsabilità? 3.4 Conseguenze di questo legame… 3.4.1 (segue) sul piano teorico Ovviamente, se poniamo in primo piano la relazione fonti normative/forma di stato, cambia del tutto il quadro teorico di riferimento. Il cambio di prospettiva riguarda principalmente il rapporto tra decretazione e legge e, più precisamente, la natura stessa della legge di conversione. Nell’ottica della forma di governo, come abbiamo visto, l’attenzione si concentra essenzialmente sulla legge di conversione (in quanto espressione della volontà politica della maggioranza) tendendo, da un lato, a sottovalutare il decreto-legge come fonte autonoma e, dall’altro, a considerare la legge di conversione nient’altro che una espressione della ordinaria potestà legislativa del Parlamento. In questa nuova direzione, invece, le due fonti mantengono la loro autonomia e differenziazione: da un lato, c’è il decreto-legge con le sue caratteristiche costituzionali e, dall’altro, la legge di conversione, anch’essa, si badi, con le sue tipicità. In questo contesto teorico, infatti, si tende a sottolineare la “tipicit{” della legge di conversione (Monaco nel dibattito ha insistito sul punto) che è una fonte oggettivamente diversa dalla legge ordinaria in quanto caratterizzata necessariamente da un antecedente – 12 L. MORLINO, Democrazie e democratizzazioni, Bologna, Il Mulino, 2010, p. 255 e ss. 10 l’emanazione e pubblicazione in Gazzetta ufficiale del decreto legge – che diviene, a sua volta, l’oggetto necessario di un effetto “tipico” che essa produce: la conversione. È indubbiamente a Giovanni Pitruzzella che si deve il merito di aver, da un lato, focalizzato l’attenzione sulla fase della conversione (la sua monografia del 1989 è significativamente dedicata alla legge di conversione, piuttosto che al decreto-legge), e di aver immaginato il rapporto tra decreto e legge di conversione, come un collegamento interprocedimentale tra atti e procedimenti che mantengono la loro autonomia. Qual è la conseguenza decisiva di questo cambio di ottica? Per percepirla appieno occorre spostarsi sul piano dei controlli. 3.4.2 (segue) sul piano dei controlli Il principale effetto di questa diversa ricostruzione dei rapporti tra decreto-legge e legge di conversione è che i vizi del decreto-legge, anche quelli formali, in quanto tali inficiano le norme poste da tale fonte anche se esse non sono incostituzionali sul piano sostanziale. Con la conseguenza, dunque, che tali vizi non possono essere sanati da una legge – come quella di conversione - la quale, ovviamente, in quanto fonte primaria non ha la facoltà di rimuovere tale contrasto. Si rivaluta energicamente quindi l’orientamento giurisprudenziale avviato dal famoso obiter dictum contenuto nella sentenza 29/1995 in cui la Corte aveva solennemente affermato che “a norma (del) citato art. 77, la pre-esistenza di una situazione di fatto comportante la necessità e l'urgenza di provvedere tramite l'utilizzazione di uno strumento eccezionale, quale il decreto-legge, costituisce un requisito di validità costituzionale dell'adozione del predetto atto, di modo che l'eventuale evidente mancanza di quel presupposto configura tanto un vizio di legittimità costituzionale del decreto-legge, in ipotesi adottato al di fuori dell'ambito delle possibilità applicative costituzionalmente previste, quanto un vizio in procedendo della stessa legge di conversione, avendo quest'ultima, nel caso ipotizzato, valutato erroneamente l'esistenza di presupposti di validità in realtà insussistenti e, quindi, convertito in legge un atto che non poteva essere legittimo oggetto di conversione.” Certo, con il senno di poi, abbiamo compreso che questa linea giurisprudenziale aveva un punto debole: il fatto che – a detta della Corte – non basta la “mancanza” di un requisito costituzionale ad invalidare un decreto e quindi la legge, bensì occorre l’“evidente” mancanza; specificazione che ha consentito ai giudici delle leggi in moltissimi casi di “chiudere” un occhio (o tutti e due) su violazioni patenti della Carta costituzionale. Una prima verifica del fatto che il quadro sta mutando nella direzione accennata, si deve indubbiamente alle due fondamentali sentenze (la n. 171 del 2007 e n. 128 del 2008) con le quali la Corte, applicando per la prima volta la dottrina del 1995, ha annullato alcune norme di decreti-legge già convertiti in legge, a causa della evidente mancanza dei requisiti di cui all’art. 77 della Costituzione. Ovviamente su queste novità si è soffermata la relazione introduttiva e molti degli interventi nel dibattito. a) Le novità nella giurisprudenza costituzionale: luci e ombre? Come spesso accade, però, la riflessione su questa giurisprudenza ha consentito di evidenziare sia le luci che le ombre di questa “svolta” giudiziaria. Innanzitutto le luci: la Corte in queste decisioni, pur non avendo modificato la dottrina della “evidente” mancanza e dopo aver indicato, sulla base di quali indici “intrinseci ed estrinseci” 11 si deve procedere all’indagine effettiva della esistenza dei requisiti13, ha anche individuato una sorta di “fattispecie sintomatica” della evidente mancanza dei requisiti: l’evidente estraneità14 ovvero eterogeneità15 delle norme rispetto all’oggetto del decreto. In entrambi i casi, infatti, è l’assoluta eterogeneit{ delle norme (sull’ineleggibilit{ dei sindaci, ovvero sulla espropriazione del Teatro Petruzzelli di Bari) rispetto al decreto nel suo complesso a far decidere la Corte sulla insussistenza dei requisiti di straordinaria necessità ed urgenza. A queste luci, però, seguono le ombre perché, come ha rilevato Carnevale, lo spostamento dell’attenzione sul requisito dell’omogeneità comporta per la Corte l’onere di definire cosa essa intenda con tale termine – concetto non esente da forti flessibilità semantiche - e d’altra parte apre il problema altrettanto complicato e contraddittorio della valutazione dei requisiti di cui all’art. 77 anche rispetto agli emendamenti aggiunti dal Parlamento in sede di conversione (problema di certo non risolto dalla discutibile soluzione ipotizzata dalla sentenza 355 del 2010 sulla quale si è soffermato Chinni). Dal dibattito è emersa anche una proposta a riguardo del controllo giurisdizionale sui decretilegge e sugli atti normativi in genere. Acclarato che una delle ragioni fondamentali per le quali la Corte costituzionale si muove in maniera così – eccessivamente – cauta e prudenziale in materia di vizi formali delle fonti normative è l’effetto spesso “devastante” che avrebbero le sue decisioni (si pensi solo ai decreti-legge contenenti le manovre finanziarie), una proposta da valutare potrebbe essere quella di modulare l’efficacia temporale delle decisioni costituzionali, affermandone la valenza solo pro futuro (in fin dei conti la sentenza n. 360 del 1996 che, eccettuato il decreto legge oggetto della decisione, di fatto salvò tutti i procedimenti ancora in corso di conversione, costituisce un precedente). Ovvero sospendendo l’efficacia della decisione sino ad una data futura e dando così tempo al Parlamento di intervenire sui vizi formali (ad esempio, trasferendo in un disegno di legge le norme dei decreti-legge con, eventualmente, efficacia retroattiva se la materia lo consente). Questa soluzione – ovvero altra analoga – avrebbe il pregio di stimolare in maniera effettiva il dialogo tra Parlamento e Corte costituzionale che su questi temi è assolutamente necessario; ovviamente nel dibattito sono stati sottolineati anche i rischi (in particolare dalla professoressa Musumeci) per la Corte di abdicare alla sua funzione di garanzia per essere trascinata di fatto nel dibattito politico. b) Le novità nel controllo del Presidente della Repubblica: luci e ombre? Ma la novità più rilevante emersa nella prassi recente e su cui si sono soffermate tanto le relazioni quanto la discussione nell’atelier, è l’emersione sempre più decisa e pervasiva del controllo da parte del Presidente della Repubblica sul potere legislativo del Governo. Controllo, probabilmente, più penetrante sul decreto legge che sulla delega, anche se, come ha bene evidenziato Frontoni, in questa rassegna non può essere tralasciato l’intervento eclatante quanto decisivo della Presidenza della Repubblica nell’iter di approvazione di uno dei decreti legislativi connessi alla delega sul cd. Federalismo fiscale16. Punto 6 del cid sent. 171/2007 Sent. 171 del 2007 (punto 6 cid) 15 Sent 128 del 2008 (punto 8.2 cid) 16 Si tratta della vicenda concernente il decreto legislativo in materia di federalismo fiscale municipale. Il Presidente della Repubblica aveva rifiutato (con lettera inviata al presidente del consiglio) di emanare il decreto approvato dal consiglio dei ministri nella seduta del 3 febbraio 2011 in quanto era mancato il parere favorevole delle Camere, obbligatorio secondo il procedimento per l'esercizio della delega previsto dai commi 3 e 4 dall'art. 2 della legge n. 42 del 2009. 13 14 12 Nel dibattito è stata evidenziata in particolare la prassi della presidenza Napolitano che, quantomeno ad una prima valutazione, sembra chiaramente muoversi all’interno della chiave di lettura del collegamento tra sistema delle fonti/forma di stato. I numerosissimi interventi presidenziali (abbiamo contato, dal sito del Quirinale, oltre 25 comunicati ufficiali del Presidente riguardanti solo l’emanazione di decreti legge o la promulgazione di leggi di conversione), si muovono decisamente nell’orbita della difesa dei diritti delle minoranze parlamentari, della tipicità della legge di conversione e della sua infungibilità con i disegni di legge ordinari del governo. Tutti elementi “teorici” che, come abbiamo già rilevato, sono valorizzati in questa nuova “fase”. Orbene, proprio perché questa prassi del controllo presidenziale sta crescendo anche sul piano quantitativo, essa andrebbe studiata analiticamente ed articolata nei suoi elementi strutturali (Piccirilli). Si pensi, ad esempio, che sino ad oggi se il veto del Presidente e le sue ragioni ostative alla promulgazione avevano una precisa forma di pubblicità nell messaggio previsto dall’art. 74 della Costituzione, i rifiuti di emanare erano normalmente lasciati ai rapporti interni, a quella azione di moral suasion presidenziale che sin dalla prassi di Einaudi caratterizza i rapporti tra Capo dello stato e Governo. La prassi più recente, invece, si è arricchita di numerosi casi in cui il Presidente ha reso ufficiale il suo rifiuto all’emanazione e le ragioni di tale scelta (si pensi, per tutti, al controverso comunicato sul rifiuto di emanare il decreto legge sul c.d. caso Englaro) oppure ha provveduto all’emanazione, ma accompagnandola da motivazioni “dissenzienti” (per usare l’immagine di Sperti), sino alla emanazione affiancata dalla pubblicazione contestuale di comunicati in cui la Presidenza rivolge indirizzi al Governo ovvero al Parlamento (il caso più evidente, è il comunicato che ha seguito l’emanazione e, poi, la conversione del decreto-legge cd. milleproroghe). Ovviamente, dinanzi al rifiuto del Presidente, avente ad oggetto singole disposizioni ovvero complessi di disposizioni contenute nei decreti deliberati in consiglio dei ministri, si aprono due strade per il Governo: rinunciare alla emanazione del decreto, ovvero procedere ad una sua modifica in modo da ottenere il “via libera” presidenziale. Questa sorta di “negoziazione” preventiva dei decreti con il Quirinale (siano essi decreti-legge, che legislativi, sebbene per questi ultimi il fenomeno sembra meno appariscente) proietta, com’è ovvio, tante ombre quante sono le “luci” che accende, essendo una forma di controllo che, probabilmente per la prima volta, dà l’impressione di riuscire a contenere effettivamente e preventivamente l’abuso della decretazione d’urgenza da parte del Governo. Innanzitutto, la durata temporale di questa negoziazione; un caso emblematico è offerto proprio da un recente decreto-legge17 contenente le misure di stabilizzazione dei mercati finanziari; il preambolo del decreto attesta che il decreto è stato adottato dal Consiglio dei Ministri il 30 giugno 2011, ma la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale – e la contestuale presentazione del disegno di conversione – è del 7 luglio. Oltre alla patente violazione – puntualmente evidenziata in dottrina 18 - del precetto costituzionale, secondo il quale “quando (…) il Governo adotta (…) provvedimenti provvisori con forza di legge, deve il giorno stesso presentarli per la conversione alle Camere” (corsivo aggiunto), la distanza temporale tra l’adozione e l’emanazione presidenziale è la prova documentale di quanto complessa sia stata la “trattativa” tra Governo e presidenza, trattativa D.L. n. 98 del 2011 A. CELOTTO, Ormai è crollato anche il requisito costituzionale della "immediata presentazione" del decreto-legge alle Camere per la conversione (prendendo spunto dal D.L. n. 98 del 2011), in www.associazionedeicostituzionalisti.it, 19/07/2011, 2011. 17 18 13 peraltro espressamente richiamata nel comunicato del Quirinale che ha accompagnato l’emanazione19. Ma dinanzi ad una prassi del genere sorgono ulteriori perplessità. Come ha rilevato nella sua sintesi De Siervo, immaginando che il Presidente abbia chiesto ed ottenuto una modifica del testo originalmente deliberato dal Consiglio dei ministri, chi ha approvato la versione finale pubblicata in Gazzetta Ufficiale? Il tenore letterale del preambolo attesta inequivocabilmente che il testo emendato non è tornato in Consiglio dei Ministri e quindi si deve ritenere che il testo definitivo è l’esito di una “contrattazione” bilaterale tra Governo (Presidente? Sottosegretario alla Presidenza? Ministro per i Rapporti con il Parlamento? Ministri interessati per materia?) e Presidenza della Repubblica. E poi, l’intervento del Presidente è sempre più marcatamente un controllo di merito politico sul contenuto specifico dei decreti; di certo non è un controllo “esterno” sulla palese incostituzionalit{ o sulla “evidente mancanza” dei requisiti previsti dalla Costituzione. E questo controllo in molti casi non si limita alla demolizione di parti inopportune contenute nel decreto-legge (spesso rinviandole ai procedimenti legislativi ordinari), ma contiene suggerimenti ovvero indicazioni, in ogni caso forme espressive di un vero e proprio “indirizzo” presidenziale. “Il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha oggi emanato il decreto-legge, approvato dal Consiglio dei Ministri il 30 giugno, recante "Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria", essendo stati essenzialmente ricondotti i suoi contenuti alle norme strettamente attinenti alla manovra finanziaria ed a quelle suscettibili di incidere con effetto immediato sulla crescita economica. Il Presidente della Repubblica rileva altresì che il decreto-legge prevede gran parte della manovra necessaria per raggiungere il pareggio del bilancio entro il 2014; per la restante parte si dovrà procedere con gli ordinari strumenti di bilancio per il triennio 2012-2014 e i relativi disegni di legge collegati” (corsivo aggiunto). 19 14