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ULRICH SCHULZ-BUSCHHAUS
Das Aufsatzwerk
Institut für Romanistik | Karl-Franzens-Universität Graz
Permalink: http://gams.uni-graz.at/o:usb-069-264
Il naturalismo in Francia
Ogni tentativo di definire – con qualche pretesa di oggettività – il naturalismo francese deve
necessariamente partire dalle «differentiae specificae» che possono esistere fra «naturalismo» e
«realismo». Per (ri)costruire un concetto di naturalismo, dobbiamo partire cioè dai tratti distintivi che lo
separano da un altro concetto che gli si trova storicamente e tipologicamente vicino. E usando il concetto
di «realismo», dobbiamo, inoltre, chiarire subito che adoperiamo questo termine in un senso più largo e
in un senso più ristretto. In un senso più ristretto, ci riferiamo al realismo come «scuola» e «movimento»,
al realismo cioè di un Champfleury, di un Duranty e così via; in un senso più largo, il termine dovrebbe
invece designare – un po’ alla maniera di Lukács – l’opera romanzesca dei tre grandi narratori «realisti»
della letteratura francese: l’opera di Stendhal, Balzac e Flaubert che, infatti, ha fornito a Zola i suoi
principali modelli narrativi.
Ci chiediamo, dunque, che cosa distingue la narrativa del naturalismo, anzitutto quella di Zola, dalla
narrativa di quegli scrittori che possono essere considerati – storicamente – i suoi precursori. E qui
appare già un fatto significativo che consiste nell’automatismo con cui siamo soliti identificare letteratura
naturalista e narrativa. Il naturalismo significa, infatti, l’ultima tappa di un’evoluzione nella gerarchia
dei generi che conduce al primato ormai incontestato della narrativa, prevalentemente romanzesca, su
tutti gli altri generi, e specialmente sulla poesia «lirica». Sappiamo che il termine «lyrisme» funziona,
per Zola, quasi come un insulto poetologico con cui Zola ama combattere, per esempio, la concorrenza
letteraria di un Victor Hugo. O, detto in altri termini: quali sono i tratti specifici del naturalismo zoliano di
fronte al realismo dei grandi romanzieri ottocenteschi e di fronte alla scuola (al movimento) dei cosiddetti
«realisti» sensu strictiori?
Per rispondere a tale domanda ci vorrebbe senza dubbio un discorso molto lungo. Nello spazio
piuttosto ristretto di cui dispongo mi limito invece a tre osservazioni che riguardano aspetti che considero
di importanza centrale per la distinzione che vorrei proporre. Il primo punto riguarda quei caratteri del
naturalismo che gli danno l’ambizione di un’«entreprise totalisante» (per parlare con Colette Becker),
quegli aspetti cioè che trasformano il naturalismo da una scuola letteraria in un progetto «totalizzante»,
in un movimento non solo estetico, ma politico e sociale. Il secondo punto che vorrei sottolineare
consiste nella concezione, cara alla poetica naturalista, di una letteratura sperimentale: sperimentale
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sia sul versante del contenuto (come nel caso di Zola), sia sul versante della forma (come nei casi
dei fratelli Goncourt o di Henry Céard). Il terzo punto riguarda un aspetto che risulta in un certo
senso complementare al carattere sperimentale del romanzo naturalista: mi riferisco al suo carattere
spiccatamente comunicativo, alla comunicatività cioè che gli conferiscono gli elementi di «romanfeuilleton» di cui si serve volentieri per creare il prototipo di una moderna letteratura di massa. Il
romanzo naturalista, specialmente quello di Zola, mi appare infatti come un fenomeno letterario di una
straordinaria complessità che arriva ad una sintesi quasi paradossale: si presenta come un testo che
pretende allo stesso tempo al prestigio di una letteratura sperimentale, dichiaratamente di avanguardia,
e al successo massiccio di una (nuova) letteratura di massa.
Come Colette Becker ha mostrato in un articolo interessante sulla formazione letteraria di Zola
negli anni Sessanta dell’Ottocento (Aux sources du naturalisme zolien 1860–1865, in AA.VV., Le
NaturalismeColloque de Cerisy, Parigi, 1978, pp. 13–33),già agli inizi della sua carriera Zola si mostra
ossessionato dall’idea di fondare non soltanto una scuola, ma un movimento. A ciò contribuisce la
consapevolezza (o l’illusione) che Zola divide con tanti suoi contemporanei di vivere un momento storico
decisivo: un’epoca cioè di transizione. Già nel 1860 Zola scrive al suo amico Baille: «Notre siècle
est un siècle de transition; sortant d’un passé abhorré, nous marchons vers un avenir inconnu» (citato
da C. Becker, op. cit., p. 17). Sipotrebbe naturalmente obiettare che qualsiasi momento storico può
venir considerato come un momento di «transizione»; ma ciò che mi appare qui significativo è il gesto
enfatico con cui il giovane Zola si atteggia a profeta, occupandosi anzitutto, per quanto riguarda il
«secolo di transizione», della «marcia verso l’avvenire». Questo atteggiamento profetico si ripete e si
conferma quando, nella stessa lettera del ‘60,Zola formula la necessità di una nuova «religione»: «Ce qui
caractérise notre temps, c’est cette fougue, cette activité dévorante; activité dans les sciences, activité
dans le commerce, dans les arts, partout: [...] . Dans la religion, tout est ébranlé; à ce monde nouveau
qui va surgir, il faut une religion jeune et vivace» (citato da C. Becker, op. cit., p. 18).
Nella consapevolezza di vivere un’epoca di transizione, Zola concorda in maniera sorprendente con
certe idee formulate anche da Flaubert, per esempio in una lettera a Louis Bouilhet del dicembre 1850:
«Nous sommes venus, nous autres, trop tôt et trop tard. Nous aurons fait ce qu’il y a de plus difficile
et de moins glorieux: la transition» (Flaubert, Correspondance, a cura di J. Bruneau, Vol. I, Paris 1973,
p. 730).Una tale analogia è rivelatrice perché proprio attraverso l’analogia si può captare la profonda
diversità dell’intonazione che distingue lo stesso pensiero in Flaubert e in Zola. Per Flaubert, si tratta di
una formula di scetticismo, intonata a un sentimento di rassegnazione. Per Zola predomina nello stesso
pensiero invece un tono profetico, anzi messianico che richiede una nuova certezza, una nuova fede,
una nuova religione (tutti termini che ricorrono negli scritti di Zola, tanto di carattere saggistico come
di carattere romanzesco).
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Si potrebbe così parlare di un diverso atteggiamento verso il concetto di «scienza» che separa il
naturalista Zola da un realista come Flaubert. Per Flaubert, la scienza finisce con l’essere un motivo
di scetticismo. Basta leggere l’ultimo romanzo incompiuto Bouvard et Pécuchet per convincersi che
il positivismo ha conferito a Flaubert anzitutto un senso della relatività e della falsificabilità di ogni
asserzione scientifica. Nell’opera di Zola, l’analogo di Bouvard et Pécuchet sarebbe un romanzo come il
romanzo conclusivo della serie dei Rougon-Macquart: Le docteur Pascal. In questo romanzo la scienza
non costituisce un motivo di scetticismo, ma tutt’al contrario la base su cui fondare un insieme di certezze.
Anzi, l’opposizione concettuale fra dubbio e certezza diventa un’idea-chiave della struttura del romanzo.
O, se vogliamo parlare col protagonista Pascal, tipico rappresentante del «raisonneur» come appare in
quasi tutti i romanzi di Zola: «Aucun bonheur n’est possible dans l’ignorance, la certitude seule fait la vie
calme» (Zola, Le Docteur Pascal, a cura di J. Borie, Paris 1975, p. 235).Ossia, citando Clotilde, l’altra
protagonista, allieva ribelle e finalmente domata del maestro scienziato: «Je ne suis plus allée à l’église,
je commençais à être heureuse près de toi, tu devenais la certitude... » (Le Docteur Pascal, op. cit. p. 211).
L’ultima citazione dal Docteur Pascal mi appare sommamente significativa («Je ne suis plus allée
à l’église [...] Tu devenais la certitude»). Se consideriamo che il personaggio di Pascal rappresenta nel
romanzo la scienza trionfante (benché, a prima vista, in pericolo), tale allegoria si mette in opposizione
e, più ancora, in concorrenza colla Chiesa. Difatti, ciò che contraddistingue l’enfasi della scienza nel
naturalismo, almeno in quello di Zola, sono gli aspetti religiosi (o cripto-religiosi) di un credo scientifico
che mette l’accento non sul dubbio ma sul dogma, e che tende a trasformare la scienza-chiave della
fisiologia in una nuova forma di religione oppure dì «Religionsersatz». Si pensi alle leggi dell’eredità che
equivalgono – per così dire – alle conseguenze del peccato originale, alla salute che risiede nella norma
scientifica come nella grazia divina, alla malattia che viene regolarmente concepita come punizione di
un peccato ossia di una deviazione sessuale. Così si spiega anche la ricorrenza di un plot romanzesco
formato da una specie di psicomachia che confronta chiesa cattolica e chiesa scientifico-naturalistica
sul terreno di un’anima: plot che caratterizza, oltre Le Docteur Pascal, un romanzo come La Conquête
de Plassans e,ben inteso, il ciclo incompiuto Les quatre Evangiles, evidentemente concepito come la
Summa non solo scientiae, ma anche theologiae del messianismo naturalistico. Allargando e totalizzando
il realismo verso un movimento sociale tout court,Zola e il naturalismo si allontanano non solo dallo
scetticismo di Flaubert, dal conservatorismo di Balzac, dall’individualismo di Stendhal, ma anche dalle
ambizioni più modeste della scuola del «réalisme» di tipo Champfleury o Duranty.
Dall’inizio, dunque, il naturalismo propagato da Zola vuole sì essere nuova letteratura, ma la nuova
letteratura vale – nell’intenzione zoliana – essenzialmente come punto di partenza verso una nuova
religione, una nuova morale e finalmente una nuova politica. «La République sera naturaliste ou elle ne
sera pas», dichiara Zola in un famosissimo passo di Le Roman expérimental,completando così il quadro
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di un movimento di avanguardia che trascende consapevolmente i limiti tradizionali della letteratura
e dell’arte, per offrire mediante i suoi testi modelli di fede religiosa e di comportamento politico.
Specialmente nel senso di questo allargamento dell’attività letteraria ad un’attività di messianismo
politico, il naturalismo rappresenta forse il primo esempio di un fenomeno storico che si è poi diffuso
nella prima metà del Novecento. Mi riferisco al fenomeno dei gruppi di avanguardia le cui pretese
contemporaneamente politiche e letterarie li situano in una zona di affinità e di tensione con certi partiti
(movimenti) politici; si pensi all’affinità-tensione del Futurismo col partito fascista o all’affinità-tensione
del Surréalisme col partito comunista.
Il secondo punto che vorrei sottolineare è la volontà del Naturalismo di produrre una letteratura
sperimentale, ponendosi così alla punta più avanzata del progresso e – per parlare con Zola – della marcia
verso l’avvenire. Questo concetto di «letteratura sperimentale» presenta nel caso di Zola due aspetti
diversi. Un primo aspetto consiste semplicemente nella coscienza di avanguardia, nella consapevolezza
e nell’orgoglio di esser penetrato in un’area estremamente avanzata: un’area in cui si esperimenta
e da dove altri letterati e concorrenti come Ernest Renan o Victor Hugo possono essere guardati
con disprezzo, per venire relegati nell’ormai «superata» retroguardia di una «retorica romantica»
colpevolmente responsabile di «tutte le menzogne del lirismo» («tous les mensonges du lyrisme»).
L’altro significato della sperimentalità letteraria risiede in una più precisa analogia colla sperimentazione
scientifica. Giacché la scienza (la fisiologia) per evidenti ragioni etiche non può sperimentare sull’uomo,
la letteratura secondo Zola deve supplire a questa lacuna, almeno in un senso più o meno metaforico. Così
Zola vorrebbe trasformare il romanzo realista in romanzo sperimentale: «Le roman naturaliste [...] est une
expérience véritable que le romancier fait sur l’homme» (Le Roman expérimental, citato da C. Mouchard,
Naturalisme et anthropologie, in Le Naturalisme, op. cit., pp. 391–406, qui p. 394). Riferendosi alla
metodologia sperimentale sviluppata da Claude Bernard, che consiste in un processo triadico composto
da «sentiment», «raison» e «expérience», Zola attribuisce alla letteratura la competenza specifica del
primo passo, cioè del mondo ipotetico del «sentimento». O, detto in altre parole: il romanziere che
pretende di essere uno sperimentatore come il fisiologista deve sempre partire da certezze scientifiche per
sviluppare sulla loro base delle ipotesi che saranno poi verificate o falsificate da nuove sperimentazioni
scientifiche: «[...] la science, à mesure qu’elle avance, nous fournit à nous autres écrivains un terrain
solide, sur lequel nous devons nous appuyer pour nous élancer dans des nouvelles hypothèses» (Zola, Le
Roman expérimental, in Oeuvres complètes, Paris 1906, Vol. 19, Oeuvres critiques, p. 126). Zola ritiene
dunque che la funzione principale della letteratura dovrebbe consistere in una sorta di cooperazione
alla fisiologia sperimentale: in un certo senso il suo aiuto alla scienza significherebbe l’anticipazione
fantastica di ipotesi che potranno poi guidare il lavoro più lento e – certo – più serio della sperimentazione
vera e propria: «[...] dans notre roman expérimental, nous pourrons très bien risquer des hypothèses
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sur les questions d’hérédité et sur l’influence des milieux, après avoir respecté tout ce que la science
sait aujourd’hui sur la matière. Nous préparerons les voies, nous fournirons des faits d’observation, des
documents humains qui pourront devenir très utiles» (Zola, Oeuvres critiques, op. cit., p. 126).Così, il
ruolo profetico che Zola reclama per la letteratura si salva anche di fronte alla scienza: la letteratura
appare, in una nuova divisione del lavoro intellettuale, ormai responsabile delle ipotesi da formulare e,
di conseguenza, anche della direzione a cui il lavoro più specificamente scientifico viene destinato.
Con tutto ciò, il lato sperimentale del naturalismo si limita, nel caso di Zola, al solo livello
del contenuto; vedremo ancora che, al livello dell’espressione e della scrittura, Zola si mostra
piuttosto riluttante ad inaugurare sperimenti o innovazioni di stile e di struttura. Questa riluttanza più
specificamente zoliana non vale tuttavia per altri rappresentanti del naturalismo compreso in un senso
più largo. È stato particolarmente il critico francese Yves Chevrel che ha messo l’accento sull’esistenza
di un altro naturalismo, sul fatto cioè che accanto a quello zoliano, che cerca di realizzare la sua
sperimentalità sul versante del contenuto, c’è anche un naturalismo impegnato in esperimenti di stile e di
scrittura. Se vogliamo indicare la direzione complessiva di tali sperimentazioni si dovrebbe parlare della
tendenza ad una sdrammatizzazione progressiva della struttura romanzesca. Mi riferisco al tentativo
di avvicinare l’azione (o piuttosto la non-azione) romanzesca all’immobilismo e al grigiore della vita
quotidiana: un tentativo che è sintomatico di un certo naturalismo eccentrico rispetto a quello centrale (e
per così dire trionfante) di Zola, naturalismo di Henry Céard e del suo romanzo Une belle journée, del
primo Huysmans e dei fratelli Goncourt e del loro documentarismo. Negli esempi più rappresentativi
di questo naturalismo eccentrico possiamo osservare un’estrema riduzione di tutto quello che, nel
romanzo, è dramma, trama o plot; significativamente c’è anche una certa riluttanza ad adoperare ancora
il termine «romanzo» sostituito volentieri dai termini «monographie » o «étude». Quando Chevrel parla
di «turbolenze della scrittura» – «turbulences de l’écriture» (cfr. Le Naturalisme, Parigi, 1982, pp. 148–
168) –,si riferisce in primo luogo all’inserzione di documenti extraletterari nel testo narrativo, all’uso
del dialetto o di certi gerghi (argots)professionali o di classe sociale e ad una tendenza complessiva
che cerca di avvicinare la durata della narrazione alla durata reale del tempo narrato, una tendenza
che toglie naturalmente alla narrazione gran parte della sua concentrazione drammatica. Specialmente
l’ultima tendenza all’identificazione di tempo narrativo e di tempo narrato («Erzählzeit» e «erzählte
Zeit» secondo i termini della narratologia tedesca) persiste poi oltre i confini del naturalismo sensu
strictiori. Essa conduce per esempio al naturalismo altamente sperimentale (sperimentale sul versante
della scrittura) di Arno Holz che chiamava le sue innovazioni «konsequenter Naturalismus», in contrasto
col naturalismo di Zola che mancherebbe di consequenzialità e che non tirerebbe le conclusioni del
suo programma. Un esempio piuttosto sorprendente di naturalismo in questo senso di «konsequenter
Naturalismus» alla Holz persiste perfino in certi episodi della Recherche proustiana malgrado l’esplicita
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volontà dell’autore di scrivere un romanzo anti-naturalistico fondato su una poetica concepita come
l’antitesi simbolistica del naturalismo. Penso a quegli episodi della Recherche di cui la critica si è
raramente occupata: cioè le «matinées» e le «soirées» che rassomigliano a dei verbali di conversazione in
cui il tempo narrativo si espande addirittura oltre la durata del tempo narrato, registrando senza discrimini
di rilevanza per un eventuale plot romanzesco ogni parola parlata durante una conversazione (e dando
così un intenso «effet de réel» che non corrisponde sempre alla poetica esplicita riassunta nell’ultimo
volume di Le Temps retrouvé).
Tali fenomeni rimandano però esclusivamente alla corrente di un naturalismo eccentrico e marginale,
non alla prassi zoliana. Nella scrittura zoliana domina invece la ricerca di uno stile e di una scrittura che
risultino altamente comunicativi, leggibili nel senso della «lisibilité» di Roland Barthes. Nella sua Lettre
à la jeunesse Zola si rifiuta di definire uno stile o una retorica naturalistici, sostenendo che il naturalismo
è solo un metodo, un insieme di procedimenti analitici e sperimentali: «Je me tue justement à répéter
que le naturalisme n’est pas dans les mots, que sa force est d’être une formule scientifique» (Oeuvres
critiques, op. cit., p. 138).Affermando così una certa indifferenza del naturalismo e della propria scrittura
a problemi di stile e di forma, Zola mi pare tuttavia non del tutto sincero. Soprattutto dopo i contributi
critici di Hans Jörg Neuschäfer e di Jacques Dubois sappiamo bene che la particolarità dell’opera
narrativa di Zola consiste proprio in una congiunzione singolare: una poetica cioè che vuole essere di
tipo sperimentale e che, allo stesso tempo, è concepita come la poetica di una prototipica letteratura di
massa. E siamo così giunti al mio terzo punto.
Come Balzac, Zola è uno scrittore che non si rivolge ad un pubblico ristretto – come facevano, seppure
in modi molto diversi, Stendhal o Flaubert –, ma che vorrebbe raggiungere il pubblico più vasto possibile,
il pubblico – si potrebbe dire – delle masse. In ogni modo, il caso di Zola mi appare significativo anche
sotto l’aspetto di un nuovo rapporto dello scrittore coi lettori. L’autore dei Rougon-Macquart èfra i primi
che operano nella consapevolezza di non rivolgersi a un pubblico di conoscitori, di specialisti oppure di
mecenati, ma di trovarsi di fronte ad un mercato. In questo rapporto col mercato mi pare importantissimo
il fatto che Zola, da un lato, se ne rende conto (come tanti altri), ma, da un altro lato, lo accetta anche
e anzi l’esalta, distinguendosi in questa esaltazione del mercato profondamente da uno scrittore come
Flaubert. La testimonianza più caratteristica della fiducia zoliana nel mercato letterario è il famoso saggio
L ‘Argent dans la littérature. In questo saggio il mercato che autori come Flaubert o Baudelaire vedevano
come un sistema anonimo di costrizioni è visto da Zola, tutt’al contrario, come una forza di liberazione:
«L’argent a émancipé l’écrivain, l’argent a créé les lettres modernes» (citato da J. Borie, Introduction,
in Zola, Le Docteur Pascal, op.cit., p. 19).
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L’immagine che uno scrittore come Zola si fa di se stesso non è dunque solo quella del profeta, è anche
quella di un grande «entrepreneur», di un industriale della letteratura: un’immagine in cui si incontrano
elementi di eredità sansimoniana ed elementi dell’ideologia imperialista fin-de-siècle. Si sa che, in tutta
l’opera di Zola uno degli elementi che ne costituiscono il fondamento ideologico è la distinzione fra
l’industriale attivo e produttivo e il capitalista passivo che vive delle sue rendite, due figure che vengono
sempre contrapposte – come l’ideale e il contro-ideale – in un senso di religioso manicheismo. Ora,
l’ideale dello scrittore, per Zola, è senza dubbio quello dell’industriale che, a forza di lavoro e di audacia,
conquista il mercato. Significativamente, sotto questo aspetto della conquista del mercato, Zola è anche
pronto a difendere degli industriali della letteratura che non erano – come lui – contemporaneamente
anche dei profeti. Così, nell’articolo citato, c’è un’apologia del «roman-feuilleton » piuttosto singolare
negli ambienti letterari dell’epoca: «Remarquez d’ailleurs que, si un Ponson du Terrail amasse une
fortune, il travaille énormément, beaucoup plus que les faiseurs de sonnet qui l’injurient. Sans doute,
au point de vue littéraire, le mérite est nul; mais la besogne considérable du feuilletoniste explique
son gain, d’autant plus que cette besogne enrichit des journaux» (Oeuvres critiques, op.cit., p. 167).
Nel passo citato, che è insieme un’apologia del romanziere di massa Ponson du Terrail (autore della
serie dei romanzi di «Rocambole») e un’apologia dei media moderni (qui dei giornali che guadagnano
denaro e che ne fanno guadagnare agli scrittori), incontriamo due concetti-chiave di Zola: «le travail»
e «la besogne», valori che, per lui, non hanno bisogno di essere legittimati, ma che valgono per sé. Chi
lavora finisce col conquistare il mercato, e chi conquista il mercato, finisce con l’avere ragione perché
finalmente in sintonia colla sua epoca: «La vie est ainsi, notre époque est telle. Pourquoi se révolter
puérilement contre elle, lorsqu’elle restera à coup sûr une époque grande parmi les plus grandes?» (ivi).
Ora, per conquistare il mercato non basta evidentemente la sola volontà di lavoro, come Zola
suggerisce nel suo articolo; bisogna anche disporre di un senso che chiamerei strategico, cioè di una
determinata strategia di emergenza nel «campo letterario» (per parlare con Pierre Bourdieu). Questa
strategia di emergenza, seguita da Zola, è stata accuratamente studiata, appunto con una prospettiva da
Bourdieu, da Jacques Dubois (Emergence et position du groupe naturaliste dans l’institution littéraire,
Le Naturalisme, op.cit., pp. 75–91). Nella sua analisi sociologica, Dubois giunge a dei risultati molto
vicini alle mie tesi due e tre. Dubois sostiene infatti che l’emergenza del romanzo naturalista, cioè
del romanzo zoliano, si deve anzitutto alla congiunzione di due fattori raramente riuniti, cioè alla
simultaneità di una pretesa di avanguardia e di una pretesa di comunicazione colle masse:
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«D’une part, le roman naturaliste joue à plein les mécanismes de l’institution, dans la mesure où il se pose
en avant-garde visant à légitimer un genre et à le faire entrer dans le système de concurrence des formes
artistiques; d’autre part, il est en rupture, au moins partielle, avec ce même jeu, dans la mesure où il va
à la rencontre d’un public nouveau auquel il propose un type d’écriture qui lui est homogène et qui est
susceptible, en outre, d’une diffusion massive et standardisée» (Le Naturalisme, op.cit., p. 82).
Ora, per la funzione comunicativa mi pare importantissima la «concezione pubblicitaria» della
produzione letteraria sviluppata da Zola (prendo il termine da Dubois che parla della «conception
publicitaire de la production textuelle», p. 89). Storicamente, si tratta forse della prima volta che una tale
concezione pubblicitaria entra nell’ambito della grande letteratura, della letteratura cioè che pretende allo
stesso tempo di trovarsi artisticamente all’avanguardia. «Dans cette histoire», dice Dubois, «le lancement
d’un livre, son succès massif, la programmation étalée sur plusieurs années d’un massif romanesque,
l’étiquette d’école comme slogan prennent une importance inédite» (Le Naturalisme, op.cit., pp. 90–91).
Ancora più importante risulta però a mio avviso l’aspetto che Dubois comprende sotto il titolo
«un certain type de massification des produits culturels»: «stéréotypie des formes, neutralisation des
contenus, multiplication des messages, etc.» (Le Naturalisme,op.cit. p. 90). Non sono d’accordo con
Dubois per quanto riguarda la «neutralizzazione dei contenuti», ma gli altri concetti servono assai
bene a designare la differenza che esiste tra il romanzo di Zola e quello –, diciamo – di Flaubert.
Anzitutto, le mie letture confermano pienamente la formula di Dubois che definisce la particolarità del
romanzo zoliano – rispetto a quello realista – in una sorta di compromesso: «compromis entre conditions
d’élaboration de la littérature élitaire et conditions d’élaboration de la littérature populaire (le romanfeuilleton)» (ivi). (Anche se non mi piace il concetto di «letteratura elitaria» che presuppone un tipo di
società fortemente stratificata in cui la classe dominante si dedicherebbe idealmente al consumo di una
letteratura di avanguardia: immagine indubbiamente illusoria, dato che già nell’Ottocento «littérature
élitaire» significa in fondo non letteratura per l’élite, per la classe dominante, ma letteratura per
specialisti, per gli addetti ai lavori dell’attività letteraria, che, in un senso sociologico, possono anche
appartenere alla piccolissima borghesia oppure al semi-proletariato della «bohème». L’élite del sistema
culturale di una società non è quasi mai identica all’élite dei sistemi politici o economici della stessa
società, almeno nelle condizioni della società moderna, differenziata più funzionalmente che secondo
ranghi, dignità e qualità).
Dubois ha però ragione in quanto nel caso del romanzo naturalista si tratta infatti dell’ultimo
compromesso abbastanza convincente fra un tipo di letteratura per specialisti e un tipo di letteratura per
non-specialisti, una produzione testuale cioè che si preoccupa colla stessa intensità dell’applauso dei
critici specializzati e del successo presso la massa di un pubblico che consiste di lettori non professionali.
Per raggiungere questo scopo, il romanzo di Zola si e valso di una formula molto abile che vorrei
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riassumere col concetto di una combinazione di elementi flaubertiani e di elementi balzacchiani (e
sotto la categoria di elementi balzacchiani includo anche gli evidenti elementi di roman-feuilleton e
romanzo popolare). Da Flaubert, Zola ha preso i principali tratti della tecnica del narrare, conferendo
loro però un carattere fortemente standardizzato: mi riferisco alla scomparsa del narratore onnisciente
la cui funzione viene delegata ad un personaggio romanzesco di «raisonneur» («Wirklichkeitsexperte»),
poi al dominio di una situazione narrativa personalizzata (secondo la terminologia di Stanzel), all’uso
dello style indirect libre, alla chiusura stilistica dei singoli capitoli, alla pretesa di certe descrizioni
di elevarsi ad una specie di poème en prose,e così via. In questa tecnica narrativa, prevalentemente
formata da procedimenti flaubertiani, viene però calata una materia narrativa orientata prevalentemente
verso modelli balzacchiani e modelli del roman-feuilleton, tipo Sue, Dumas, anzi Ponson du Terrail. Si
tratta dunque di momenti estremamente drammatici, anzi melodrammatici, di forti contrasti (fra forti
e deboli, grassi e magri, buoni e cattivi, egoisti e altruisti), di una grande densità diegetica, ricca di
peripezie e di capovolgimenti, anche di messaggi morali spesso appoggiati dalla tendenza a conferire
a personaggi e avvenimenti romanzeschi significati allegorici. Questa tendenza al romanzo-appendice
risulta particolarmente chiara in romanzi la cui materia narrativa non si presta dapprincipio a questo tipo
di narrazione, per esempio nella «summa» teorica del ciclo Le Docteur Pascal. Secondo i suoi temi,
questo ultimo romanzo del ciclo dei Rougon-Macquart lascerebbe aspettare un romanzo intellettuale,
tipo À rebours. In realtà però, anche qui Zola cerca di accumulare effetti altamente drammatici,
sviluppando per esempio una lotta feroce fra il protagonista e sua madre il cui oggetto è il contenuto di
un armadio – cioè i documenti della famiglia e i manoscritti dello scienziato – e che finisce con un autoda-fé, un incendio in cui si condensa simbolicamente la vittoria – certo provvisoria – della tradizione
sul progresso scientifico (che viene così paradossalmente stimolato dalla drammatica narrazione di una
sua provvisoria sconfitta). E perfino la stessa morte dello scienziato diventa l’occasione di un momento
di grande suspense. Sitratta infatti di sapere a che ora precisamente avverrà la morte. Il morente sta
aspettando Clotilde, la sua amata, che arriverà alle cinque, mentre il morente stesso prevede la sua morte,
in una diagnosi applicata alla propria malattia, alle quattro. Si crea pertanto, attraverso la descrizione
effettivamente nuova e fisiologicamente molto dettagliata di un decesso per disturbi cardiaci, un effetto
di grandissima tensione, risolto finalmente in maniera tragica: è purtroppo il dottore che ha ragione,
prevedendo le sue ultime tre crisi e fissando quella conclusiva alle quattro, cosicché l’amata alle cinque
arriverà in ritardo.
Senza dubbio, si tratta di una suspense alquanto artificiosa e un po’ tirata per i capelli. Ma è un effetto
che è sintomatico del modo di narrare di Zola: una narrazione che apre sì a qualcosa di nuovo – qui per
esempio a un realismo fisiologico fino allora inaudito – ma che allo stesso tempo non trascura nessun
effetto offerto da una vasta tradizione romanzesca e drammatica.
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