Leggi l`anteprima - Matisklo Edizioni

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Leggi l`anteprima - Matisklo Edizioni
Federico Bianchessi
Lezioni di lingue
«Vertigini»
Collana di narrativa
a cura di Vera Bonaccini
Lezioni di lingue
© 2015 Federico Bianchessi
© 2015 Matisklo Edizioni
Prima edizione, marzo 2015
ISBN: 978-88-98572-39-7
In copertina: disegno dell’autore
Matisklo Edizioni S.N.C.
di Oddera Cesare & Vico Francesco
Via Eremita 14
17045 Mallare (SV)
[email protected]
www.matiskloedizioni.com
UN ERUDITO DIVERTISSEMENT
I dodici racconti di Lezioni di lingue di Federico
Bianchessi sorprendono il lettore a diversi livelli. Il primo,
e il più evidente, deriva dai titoli stessi dei racconti. Oh,
Giacomo!; La bambola di Joyce; La seppia di Emily D.; Il
Mago; Il Re della Birra; Le Muse; Il coro alpino; M; Sara­
kasi; La nota di Montale; Pierino e il cane di Trimalcione;
Girolamo e il Gattung. Cosa può immaginare, il lettore, da­
vanti a questo inventario pirotecnico di accostamenti stra­
vaganti tra bambole, seppie, birre, muse, gatti, cani e autori
famosi come Leopardi, Joyce, Dickinson, Montale? Forse
proprio quella felice deriva di analogie e di incroci linguisti­
ci in cui si snoda e si annoda, erudito e divertente, il libro.
E qui è la seconda sorpresa: chi si accinge a inoltrar­
si nel testo non sa dentro quale schema orientarsi, non lo
soccorre la griglia di un genere – racconto realistico, fanta­
stico, sociologico – ma lo pervade una fibrillante inquietu­
dine che lega e slega generi diversi, dove le lingue sono dif­
ferenti come le storie.
Ogni racconto non esiste in quanto racconto: è un’in­
venzione, uno stratagemma, una macchina narrativa, che
ruota attorno a un interrogativo. Come può una lingua con­
frontarsi, accordarsi, contrastare con un’altra? Molti temi,
grazie al pretesto della narrazione, sono evidenziati: tra­
duzione, tradimento, invenzione, incrocio, isolamento, ma­
linteso.
A questo proposito non posso evitare una considera­
zione personale: il mio amore per la scrittura deriva dall’a­
ver letto libri tradotti da altre lingue. È in quei libri russi,
inglesi, tedeschi, e non nei ritmi e nella musicalità della lin­
gua italiana, che ho imparato l’energia stessa della scrittu­
ra. La scrittura è translinguistica: ha una sua vita autono­
ma, irriducibile, che non è solo serva della fedeltà a una
grammatica. Occorre proprio imparare l’alfabeto cirillico
per amare l’intraducibile Chlebnikov? O non è possibile un
pensare per immagini e concetti che percorra molte lingue
per esistere in modi diversi e con diverse seduzioni? È pro­
prio necessario essere strettamente fedeli al significato di
un testo o quella che domina non è forse la potenza incom­
mensurabile del tema?
«Già, il nocciolo duro... risulterà proprio questo: l’in­
commensurabile come sola autentica unità di misura delle
esperienze cognitive umane. L’incommensurabile viene at­
tivato ogni volta dall’ambizione di tradurre un linguaggio in
un altro, una parola con un’altra, come trasformare una
persona in un’altra mantenendo la sua stessa identità astrat­
ta. Ecco per esempio l’artista che ridisegna il mondo e sce­
glie di cambiare il proprio nome, da sé. Così Jean-Baptiste
Poquelin diventa Molière. O motivazioni diverse creano pse­
udonimi come Pollaiolo, Tintoretto, Correggio... o Manzù,
Savinio...».
Avverte Bianchessi: «Il filo conduttore di questi do­
dici racconti sono gli incontri tra lingue. Moderne e anti­
che, europee e extraeuropee, lingue parlate e lingue canta­
te, letterarie o gergali, classiche o dialettali. Ogni personag­
gio si esprime attraverso una propria lingua ma soprattutto
si confronta e si modifica a contatto con le lingue degli altri.
In questo senso, si tratta di Lezioni di lingue. Perché ogni
incrocio culturale attraverso diversità linguistiche diventa
apprendimento e questo apprendimento germoglia una cul­
tura nuova e ulteriore, figlia di quell’incrocio. Incontro, ma
anche scontro: le lingue funzionano come barriere, per di­
fendersi e per isolarsi. Ma anche per aprire porte e abbatte­
re muri secolari di incomprensione».
Su queste barriere che possono diventare porte o fi­
nestre l’autore inventa un libro brillante e paradossale, per
certi versi cortazariano e impertinente, che ci fa girovagare
per le regioni dei linguaggi attraverso diverse maschere
narrative. Ogni racconto è, in sé, un mondo a parte, e ci
mostra il problema della lingua e della traduzione sotto un
aspetto sempre cangiante e molteplice.
Scrive Walter Beniamin: «Le traduzioni da Sofocle
furono l’ultima opera di Hölderlin. In esse il senso precipita
di abisso in abisso, rischiando di perdersi in profondità lin­
guistiche senza fondo [...] Dove il testo direttamente, senza
la mediazione del senso, nella sua lettera, appartiene alla
vera lingua, alla verità o alla dottrina, è traducibile per de­
finizione. Non più per sé, ma solo per le lingue [...] Tutti i
grandi scritti devono, in una certa misura [...] contenere fra
le righe la loro traduzione virtuale».
Intorno a quella traduzione sempre possibile si aggi­
rano questi racconti, in un variopinto, divertito e strava­
gante caleidoscopio di stili. Bianchessi si compiace nel tes­
sere un libro di storie e di lingue, e non cerca l’attenzione
del lettore tradizionale ma quella del lettore complice, bi­
bliofilo, ossessivo: attraverso questo ebook impaginato dal­
le Matisklo edizioni quel lettore avrà la sensazione di aggi­
rarsi in una stanza vasta e disordinata, ricca di carte scritte
in tutte le lingue, carte che cercano l’ordine di molteplici
sguardi, tra humour e tragedia, tra ossessione ed erudizione.
«Le lingue sono dei muri se nascondono la com­
prensione». Ecco di cosa ci parla Bianchessi: della mancan­
za di questi muri, del loro sfondamento. Perché la diversità
delle lingue può anche essere una barriera ma è soprattutto
un costante arricchirsi di analogie e prospettive nuove, nel­
l’errare e negli errori delle lingue. In uno dei racconti espli­
citamente scrive: «Resta ogni volta un margine di ombra, di
inespresso, di intraducibile e di incalcolabile. Quel margine
è la porta stretta verso la verità, verso il logos. Di cui noi no­
tiamo soltanto l’assenza, o meglio la sfocatura. Ogni tradu­
zione è una necessaria sfocatura del senso. Ma ogni scalino
della traduzione ci avvicina all’area di quella sfocatura...».
La riflessione sull’abisso tra nome e pseudonimo;
l’ansia di perfezione di un diplomatico nel tradurre i canti
di Leopardi in tedesco; un gatto ribattezzato Gattung; il mi­
sterioso rapporto fra la scrittura di Amleto e un verso di
Montale; un atto di spionaggio scoperto in una lettera at­
tribuita a Joyce e trovata dentro una bambola; l’orgasmo
reale che innerva il viaggio nella traduzione: all’interno di
tutti questi temi Bianchessi divaga con felici alchimie nar­
rative e inventa un progetto di scrittura alieno a questi tem­
pi semplificatori, ridando forma ed energia a quello che è
un palinsesto linguistico.
Viene alla mente un autore marginale ma parados­
sale, come l’argentino Juan Rodolfo Wilcock, bilingue, che
scrive in lingua italiana libri straordinari come La sinago­
ga degli iconoclasti o Il reato di scrivere; o anche il russo
Vladimir Nabokov, autore di un fondamentale saggio su
Nikolaj Gogol scritto in un inglese perfetto.
Il poeta Antonio Porta si raccomandava che un tra­
duttore non fosse passivamente interlineare, riproducendo
una statica copia dell’originale, ma che sapesse far risuona­
re nella sua lingua, a costo di commettere qualche infedeltà
grammaticale, lo spirito del testo. Bisogna usare la propria
lingua per esprimere al meglio quello che l’autore, nell’al­
tra, voleva dire.
Ricordo ancora quelle parole: mi sono rimaste im­
presse nella memoria come il perentorio invito a una infe­
deltà “autentica” ma rispettosa del testo tradotto. Perché,
nella scrittura, tutto è sempre fluttuante; tutto è mutamen­
to, trasposizione, metamorfosi.
«Morire, dal punto di vista dell’essere, consiste es­
senzialmente in questo: una trasposizione linguistica. Una
traduzione, ma all’interno dell’incommensurabile anziché
all’esterno. Dio è il luogo dove diventa possibile misurare il
cerchio».
Marco Ercolani
Lezioni di lingue
in ricordo di Bruno Tasso, traduttore
E sento tellterelltelltelltelltell (sai?
Telltereltelltelltell nella favella
dei passeri vuol dir: Come out! Fly!
Scappa, boy, c’è il babau!)...
Giovanni Pascoli, The Hammerless Gun, 1897
INTRODUZIONE
Il filo conduttore di questi dodici racconti è rappre­
sentato dagli incontri tra lingue. Moderne e antiche, euro­
pee e extraeuropee, lingue parlate e lingue cantate, lette­
rarie o gergali, classiche o dialettali. Ogni personaggio si
esprime attraverso una propria lingua ma soprattutto si
confronta e si modifica a contatto con le lingue degli altri.
In questo senso, si tratta di Lezioni di lingue. Perché ogni
incrocio culturale attraverso diversità linguistiche diventa
apprendimento e questo apprendimento germoglia una
cultura nuova e ulteriore, figlia di quell’incrocio. Incontro,
ma anche scontro: le lingue funzionano come barriere,
per difendersi e per isolarsi. Ma anche per aprire porte e
abbattere muri secolari di incomprensione. La traduzione
salva e al tempo stesso demolisce la tradizione. Tradurre è
tradire? Forse, ma è un tradimento che se può uccidere
contiene però anche la capacità di potenziare la vitalità di
un testo e di un messaggio, rendendo alla parola un servi­
zio di universalità. Questi racconti sono perciò dedicati al
lavoro dei tanti mediatori linguistici, traduttori, insegnan­
ti, interpreti, impegnati a decodificare il mondo e a ren­
dercelo meno oscuro.
F. B.
2.
LA BAMBOLA DI JOYCE
Teresa
Non avevo mai giocato volentieri con Reginadifran­
cia; sì, Reginadifrancia una parola sola. Era il suo nome,
no evidentemente ne avrà avuto un altro, ma la chiamava­
mo tutti così. Per quel vestito, per l’acconciatura dei capelli,
per quell’aria. Snob, ma non è la parola giusta. Aveva clas­
se, sul serio, non era affettazione, no. Emanava una specie
di alone aristocratico. Una luce interiore le scintillava negli
occhi azzurri e incantati, le si riversava sugli abiti di velluto
blu, sui pizzi, sui ricami dorati e fin sulle mani, non gras­
socce come quelle delle bambine ma sottili, raffinate. Non
le stonavano i gioielli, finti certamente ma di buona bigiot­
teria. Ne indossava parecchi, tra collana, coroncina, orec­
chini, spille, braccialetti e anelli. Quando stava seduta sulla
poltrona di papà dominava l’intero salone, anzi tutta la ca­
sa. Mi sentivo imbarazzata solo ad avvicinarmi a lei, indu­
giavo a scrutare il suo sguardo per indovinare i pensieri e
raramente le rivolgevo la parola, e quando lo facevo era con
imbarazzo e sottomissione. A volte la odiavo, lo confesso.
Quando lessi per la prima volta della rivoluzione francese,
di Maria Antonietta, della ghigliottina, non potei trattener­
mi dall’immaginare di trascinare lei, Reginadifrancia, al
patibolo. Preparai persino le carte del processo, le accuse di
tradimento del popolo, la sentenza. Non sapevo come ta­
gliarle la testa, in realtà non avrei mai osato, ma un pome­
riggio, mentre sguazzavo in piscina insieme a un paio di
amiche, proposi di annegarla. L’idea piacque e subito dopo
la merenda, la affrontammo tutte insieme. La dichiarammo
decaduta dal trono e in arresto, quindi, in attesa del mo­
mento adatto per procedere all’esecuzione, la chiudemmo
in una cella della Bastiglia, vale a dire in un gabbiotto di
legno nel giardino dove papà teneva il tagliaerba e altri at­
trezzi. Tra questi, c’era anche un falcetto per i sistemare i
cespugli. Ci parve lo strumento adatto a recidere il collo
della ex sovrana. Soluzione migliore del gettarla nella va­
sca, qualcuno avrebbe potuto accorgersi e salvarla. E poi
volevamo rispettare la storia. Alla regina di Francia era sta­
ta mozzata la testa e così era giusto procedere anche nel no­
stro caso. Anche una forma di rispetto, in un certo senso,
per Reginadifrancia. Non era tanto dignitoso finire a mollo
per una che nemmeno si era mai fatta un bagno in vita sua,
ma soltanto leggere spugnature quando si cambiava l’abito
di velluto blu con quello estivo di raso color pesca. Non c’e­
ra modo di erigere una ghigliottina in giardino, perciò, su
consiglio di Elvira, mia cugina, ci accontentammo di un
ceppo sul quale papà spaccava la legna per il camino. Mar­
gherita, l’altra mia cugina, cugina in seconda, una che sa
sempre tutto, giudicò accettabile la soluzione, dal momento
che sul ceppo era stata decapitata almeno un’altra regina,
Maria Stuarda. Fissammo l’esecuzione per un certo giorno,
non ricordo quale, ma dovemmo rinviare perché si scatenò
un temporale furioso. I rinvii si ripeterono altre volte, per
motivi diversi, con la condannata che attendeva con calma
impassibile il suo destino nel braccio della morte. Trascorse
quasi un anno, durante il quale Reginadifrancia riottenne
a un certo punto la libertà e anche il trono. Libertà provvi­
soria e regno precario, perché un caldo pomeriggio di fine
inverno ci ritrovammo davanti alla condannata e le annun­
ciammo di prepararsi a morire. Eravamo sole, potevamo
procedere senza altri indugi. Senza ripassare dalla Basti­
glia, la cerimonia si svolse velocemente con un giro della
carriola sulla quale avevamo legato la detenuta con dei
nastri rossi avanzati dai pacchi natalizi, fino al retro della
casa, davanti al ceppo. Margherita sostenne che bisognava
concedere i conforti religiosi a Exreginadifrancia, così le
recitò un «eterno riposo» e la benedisse. Elvira la prese per
i piedi e io la sdraiai a faccia in giù sul ceppo. Margherita
scostò il colletto di pizzo, ma attorno al collo c’era un nastro
blu con una perla finta e lo dovemmo tagliare con le forbici.
Sistemai di nuovo la condannata, impugnai il falcetto e lo
bilanciai un paio di volte sul collo nudo, prendendo bene la
mira. Calai il colpo. Netto. Confesso di avere chiuso gli oc­
chi al momento fatale, ma rimasi male quando li riaprii e
constatai che la lama era penetrata soltanto in parte nel
collo e si era fermata su una articolazione della testa, che
era così rimasta attaccata sia pure penzolante. Elvira e
Margherita si erano voltate dall’altra parte e quando si gira­
rono se la presero con me. Ero un boia incapace, sostenne­
ro. Litigammo un po’ sopra il corpo di Exreginadifrancia
appoggiato sul ceppo, con la testa sbilenca. Margherita vo­
leva provarci lei a dare il colpo di grazia, ma rifiutai: l’ese­
cuzione spettava a me. Sarà stato il nervosismo, ma la se­
conda volta fu peggio della prima. Il falcetto cadde male e
la testa si staccò sì e no di un altro centimetro, al massimo
due. Persi la pazienza. Soprattutto non volevo subire altri
scherni dalle mie cugine. Lasciai il falcetto, afferrai Exregi­
nadifrancia, la sbattei violentemente sul ceppo e infine, fu­
ribonda, le strappai la testa con le mani. Esultai. Esultam­
mo tutte e tre. Gettammo le due parti del corpo della defun­
ta nella carriola e a quel punto sorse il problema del dove
seppellirla. Ma sentimmo arrivare l’auto dei miei e nascon­
demmo i resti sotto un telo vicino al capanno degli attrezzi,
rinviando il funerale. Che alla fine non ci fu, perché è anda­
ta come dicevo prima: Borsodeste, sì una parola sola, ha
trovato il corpo e se l’è portato nella cuccia, dove l’ha tor­
turato un bel po’ prima di portarlo trionfante a mio padre al
momento di farsi mettere il collare per la passeggiata. È
stata una fortuna, perché si è preso lui la colpa. E poi c’è
stata quest’altra sorpresa, un’altra fortuna grossa a quanto
pare, che è poi il motivo per cui siete venuti qui a intervi­
starci, no? Le lettere, sì. Se n’è accorto papà quando per
consolare la mamma, che piangeva per quella antipatica
bambola, ha provato ad aggiustarla. O meglio, ha finto di
provare ad aggiustarla, perché era davvero ridotta male. Ma
io non so altro, per il resto dovete chiedere a lui. Ora spe­
riamo che la mamma non si arrabbi con me, perché finora
pensava che fosse stato Borsodeste a divorare Reginadi­
francia. Invece, è merito mio se nella pancia di quell’inutile
giocattolo abbiamo trovato un tesoro. È davvero un tesoro?
Quanto varrà?
Michele
Si è parlato di lettere, in realtà si tratta di una sola
lettera e di una busta sigillata. La lettera era dentro un con­
tenitore di pelle per due sigari, una scatolina dove si trova­
va anche un vecchio sigaro bruno e secco con la fascetta di
una marca francese che non avevo mai sentito, Voltigeurs,
mentre la busta, più grande, era arrotolata intorno al conte­
nitore, così, tenuta insieme con due lacci di cuoio che han­
no tutta l’aria di stringhe per scarpe e avvolta in questo faz­
zoletto. È vero quanto vi ha detto mia figlia Teresa. Volevo
calmare un po’ mia moglie, teneva talmente a quella sua
vecchia bambola. Era un ricordo della sorella, che è morta
giovane, di leucemia, e la teneva sul letto durante la fase fi­
nale della malattia. Il padre l’aveva comperata credo all’asta
di un antiquario, insieme all’arredo di un intero apparta­
mento, era antiquario anche lui e aveva combinato un buon
affare con il collega che aveva ceduto l’attività. Era poi an­
dato tutto venduto, salvo un quadro e quella bambola, ri­
masti in casa. L’origine della bambola è quella, cioè è come
è arrivata fino a noi, una specie di reliquia. Teresa la capi­
sco, la vedeva come un giocattolo ma impossibile da giocar­
ci, e poi, lo dico anch’io, le bambole di una volta avevano
quell’aria strana, un po’ macabra, a volte fanno paura. Cer­
to, farle fare la fine di Maria Antonietta è altrettanto strano,
ma le bambine d’oggi sono così. Dolcissime e poi a un tratto
tirano fuori le unghie, come piccole tigri. In realtà, è stata
credo l’unica volta che ha giocato con quella bambola. Re­
ginadifrancia, sì, l’avevamo ribattezzata così, prima credo
fosse Esmeralda, o qualcosa del genere. La lettera, diceva­
mo. Scritta a mano, credo con una stilografica, su una carta
fine, elegante, ma in parte rovinata dall’inchiostro e da qual­
che macchia. Era difficile da decifrare, dopo la data, scritta
all’inglese, 26 luglio, l’inizio «Dear Lucy» e la prima riga
con gli auguri per il settimo compleanno della bambina non
sono riuscito a leggere quasi niente. La calligrafia era mi­
nuta, non facile da interpretare. «Doll», «book», «cake»,
«flower», «shell», forse «home», «pencil», «heart», «smi­
ling». Nient’altro, nemmeno una frase completa. Anche la
firma è confusa, uno svolazzo, forse soltanto una «D», «dad­
dy». E in fondo, «Trieste 1914».
Ho pensato subito di chiedere un parere a Willy Da­
vidson, il mio professore d’inglese al corso estivo dell’Uni­
versità di Cambridge che avevo frequentato per la mia ditta.
Sì, mi occupo di compravendite immobiliari per manager al­
l’estero e con Willy avevo fatto amicizia, era un simpaticis­
simo compagno di bisbocce al pub oltre che un ottimo inse­
gnante. Ma era in vacanza e prima di riuscirlo a contattare
ho fatto vedere la lettera al padre di una compagna di
scuola di Teresa, Enzo Benzi, un super esperto di filatelia. I
francobolli sono una cosa e le lettere un’altra, è ovvio, ma
anche Teresa ha pensato a lui per decifrare il testo, visto
che ha l’occhio per queste cose, occhio e attrezzi, sapete,
come quelle lenti d’ingrandimento molto potenti. Gli sono
bastate infatti un paio di sere per completare il lavoro:
«This is a doll for your 7th birthday, she was born from a
new book I wrote, you’ll read it later, and she carries you a
cake I cooked with cream, tea and a kind of rose – but, oh, I
must stop, the receipt is from king and a top secret of war!
– ... So it cannot be ruled out your hungry doll has eaten it
before you. But will you not open her belly to take it out,
will you? She is not a shell, I am quite sure. Not open then
before I’m back home to you. I send you a box of pencils,
too, so if the doll has eaten your cake, you can sweeten your
heart drawing another cake, and we’ll cook it together for
Easter. I don’t know the doll’s name, it is to you to find a
name for her, so she stop being sad e she’ll be forever
smiling.»
«È la lettera di un papà inglese che nel 1914 ha rega­
lato questa bambola alla figlia Lucy per il suo settimo com­
pleanno», mi spiegò quando mi lesse al telefono il testo.
Voleva anche tradurmela, ma so abbastanza l’inglese per
capirlo da solo. La lettera era datata «Trieste, 26 luglio», il
giorno del compleanno. Era stata spedita con la bambola?
Dove era arrivata? In Inghilterra? La frase «è un segreto di
guerra» mi fece pensare alla Prima Guerra Mondiale, tanto
che controllai sull’enciclopedia: l’attentato di Sarajevo era
stato il 28 giugno e due giorni dopo la lettera sarebbe arri­
vata la dichiarazione di guerra dell’Austria alla Serbia, ini­
zio ufficiale del conflitto. Ho pensato che questa coinciden­
za aumentava forse il valore della lettera, e magari della
bambola. Una piccola festa di famiglia all’inizio della gigan­
tesca tragedia. Non avevo pensato ad altri collegamenti,
certo mi chiedevo chi poteva essere l’autore e come fare per
scoprirlo, e anche chi era Lucy e che fine aveva fatto, ma in
fondo non mi sembravano le cose più importanti. Era un
documento intimo, anche commovente. Niente di più. Poi,
una settimana dopo, mi ha chiamato Davidson. Gli ho man­
dato una email con il testo scannerizzato. E la settimana
successiva Davidson era qui, seduto dove è lei. Con l’aria di
un gattone che ha catturato un topo. Definirlo eccitato è
dire niente. Si agitava, girava e rigirava la lettera tra le dita
– ma per toccarla si era infilato i guanti – come una santa
reliquia. Guardi, io ho letto da ragazzo qualcuno dei rac­
conti di Gente di Dublino, non tutti per la verità, soltanto
per la scuola. Dell’Ulisse non sono andato oltre la prima
metà della seconda pagina. Che fosse una lettera di James
Joyce non sarei mai arrivato nemmeno a sfiorarne l’idea. E
sinceramente non mi scaldavo più di tanto, ammetto l’igno­
ranza. Willy invece parlava di scoperta storica. Il perché ve
lo avrà spiegato lui, immagino.
Willy
Subito, l’ho pensato subito. Quando ho letto la copia
scannerizzata sul computer e poi l’ho stampata, leggendo
«Trieste», «Lucy» e quanto diceva la lettera, l’associazione
mentale a James Joyce è stata immediata. Naturale. Inse­
gno inglese ai top manager da una dozzina d’anni, ma co­
nosco bene la letteratura. Conosco molto bene Joyce. Nel
luglio 1914 viveva a Trieste. Lì era nata sua figlia, avuta da
Nora Barnacle, nel 1907. Che quindi aveva sette anni come
la Lucy della lettera, che era anche il nome della figlia. Pro­
prio in quel periodo, nel giugno 1914, fu pubblicata la rac­
colta di Dubliners e forse è il libro al quale si riferisce nel
testo. Sempre che non parli dell’Ulysses, che iniziò pure
quell’anno. Ho subito dato un’occhiata alla calligrafia di
Joyce, in alcuni testi disponibili in rete, e mi è parsa coinci­
dere. Ho subito preso tre giorni di permesso, sono salito sul
primo volo per l’Italia e mi sono precipitato a vedere la let­
tera. Per me, era certamente di Joyce. Per quanto incredibi­
le fosse la scoperta, doveva essere così. Una lettera di Joyce
in una bambola! E non una, ma un plico di lettere. Avrei
volute aprirle subito, ma il mio amico Michele ha fatto bene
a impedirmelo. Per prima cosa, dovevamo accertare l’au­
tenticità della lettera che avevamo in mano. E affidarci a un
esperto. Secondo, la moglie di Michele, Laura, ha ereditato
il fiuto di antiquario del padre e ha suggerito di procedere
con la massima cautela per non intaccare il valore del re­
perto, che dovevamo preservare il più possibile nelle con­
dizioni in cui l’avevamo trovato. Ho allora coinvolto Jeff
Looms, un bravissimo grafologo del dipartimento di psico­
logia applicata al management, un collega e anche un ami­
co, al quale ho messo a disposizione la lettera. E l’ho messo
in contatto con le Fondazioni Joyce di Dublino, di Zurigo e
con quella italiana, che ha sede all’Università di Roma Tre.
La relazione di Looms ha messo fine anche agli ultimi dub­
bi: James Joyce ha scritto quella lettera. È la sua mano, la
sua scrittura, il suo inchiostro, la sua penna.
Nel frattempo, ho letto e riletto quel testo, ci ho pen­
sato sopra molti giorni e molte notti. E ho concluso che
parlava del contenuto della bambola. Cioè le altre lettere, o
gli altri documenti, perché non era sicuro di cosa si trat­
tasse esattamente. Joyce le aveva nascoste lì dentro, in ogni
caso, per qualche motivo. Era anche chiaro che né la lettera
né la bambola erano state spedite: la bambina viveva con
Nora e il padre, nella città allora austriaca. Qualcuno, oltre
a Lucy, aveva dovuto leggere quella lettera, poi aveva letto
ciò che era contenuto nella bambola, svitando la testa,
aveva aggiunto la stessa lettera infilandola nel portasigari –
e forse era stato Joyce stesso – aveva legato attorno l’altra
busta, sigillata, e aveva richiuso l’insospettabile portadocu­
menti, giunto intatto – quasi certamente – fino alle mani di
Teresa. Perché? A quel punto, ho esaminato con attenzione
il portasigari. Il sigaro-reliquia della marca preferita di Joy­
ce. Strana anch’essa, però, non facile da trovare a Trieste.
Presi con delicatezza il sigaro e mi accorsi che non si trat­
tava affatto di un sigaro: era un foglio scuro, di carta color
tabacco, avvolto attorno a un biglietto. Il biglietto portava
un timbro sbiadito con un drago sormontato da una corona
sopra un cancello e la scritta «Regnum Defende». Era una
specie di tesserino, un documento di riconoscimento ma
privo di fotografia, con il numero «I-1712» intestato a «Ita­
lo Sangiorgio, insegnante, nato a Londra il 2 febbraio 1882,
indirizzo via Bramante 4, Trieste». Era la data di nascita di
Joyce. Che però era nato a Dublino. Anche l’indirizzo cor­
rispondeva alla casa effettivamente abitata tra il 1912 e il
1915. Ignoravo il significato dell’emblema del timbro. Sul
retro, in minuta calligrafia erano scritti di seguito alcuni
versi: «I hear an army / A Flower given to my Daughter /
Go seek her out». Li riconobbi come gli incipit di tre poesie
dello scrittore irlandese. Qualche giorno dopo, scoprii l’ori­
gine del timbro: quel simbolo e il motto erano dell’Mi5, il
servizio segreto di Sua Maestà. Da quel momento, ho consi­
gliato all’amico Michele di mettere tutto nelle mani di un
legale e di valutare cosa fare. La mia parte in questa storia
si è conclusa in quel momento e con quel consiglio, che mi
risulta essere stato seguito. Ecco, è tutto. So che Michele si
è anche rivolto a un traduttore italiano di Joyce, che però
non conosco.
Ludovico
Mio padre era il notaio del padre della signora, la co­
nosceva fin da piccola, e io ho continuato ad assistere la fa­
miglia, oltre a frequentarla come amico. Quando mi hanno
parlato della scoperta della bambola, di Joyce, delle lettere,
dei servizi segreti, sulle prime ho suggerito di offrire il tutto
alla fondazione intitolata allo scrittore. Poi, tuttavia, ho ap­
profondito la questione e mi sono reso conto, soprattutto
dopo l’incontro con il professor Dossi, esperto e traduttore
di varie opere dello scrittore, che poteva essere la classica
manna dal cielo per la povera ragazza. Già, un miracolo: in
quella bambola Teresa poteva avere trovato la chiave per
aiutarla a pagare il costoso intervento chirurgico negli Stati
Uniti necessario a darle la speranza di sconfiggere la rara
malattia da cui era afflitta, la Charcot-Marie Tooth. Con l’a­
iuto di qualche giornale e di una rete TV abbiamo lanciato
così l’asta di beneficenza per i documenti dell’agente se­
greto James Joyce, irlandese che sembrava avere tradito la
causa della sua terra per mettersi al servizio degli occupan­
ti. L’eco è stata enorme, come è noto, ben oltre le previsioni
di tutti noi. Qualcuno ha parlato di montatura, ma non è
così. La scelta di mantenere chiuso il plico delle lettere fino
all’assegnazione all’acquirente è stata discussa molte volte,
ma sempre si è concluso che era la soluzione migliore per
alzare il livello di attenzione, questo sì. L’obiettivo era rica­
vare la somma maggiore possibile per un viaggio della spe­
ranza del costo di centinaia di migliaia di dollari. Ci siamo
riusciti. I duecentomila raccolti sono stati davvero preziosi.
L’acquirente, proprietario di una catena di villaggi turistici,
di origini irlandesi, aveva ricevuto tutte le garanzie sulla
autenticità dei documenti ed era sicuro di avere concluso
un buon affare: quando le lettere sono state finalmente a­
perte, nell’ufficio romano di un collega e alla presenza di un
docente universitario inglese e di alcuni giornalisti, l’effetto
è stato infatti sensazionale. Le tre lettere erano illeggibili,
una sequenza di parole senza senso apparente che copriva­
no fittamente sette fogli di carta sottile. Nel giro di una set­
timana, con l’aiuto di un esperto di crittografia, non fu tut­
tavia difficile decifrarle secondo il classico cifrario di Vige­
nère: la chiave, quella che tecnicamente si definisce il «ver­
me», erano gli incipit delle tre poesie. Per ogni messaggio,
era stata applicata la trasposizione alfabetica sulla base dei
tre versi.
«I hear an Army» indicava che le lettere delle parole
in chiaro del primo testo dovevano essere sostituite con
uno spostamento – secondo l’ordine alfabetico inglese – di
9, 8, 5, 1, 18, 1, 14, 1, 18, 13 e 25 posizioni, ripetendo quindi
la serie. Idem per gli altri due messaggi, dove «A Flower
given to my Daughter» serviva a cifrare una traslitterazione
di 1,6,12... posizioni, e «Go seek her out» di 7, 15, 19 e così
via.
La prima lettera conteneva una lista di collaboratori
filo-inglesi a Trieste, compresi diversi intellettuali, giornali­
sti e scrittori tra i quali Italo Svevo, una di agenti segreti
serbi – forse partecipi della cospirazione antiasburgica del­
la Giovane Bosnia di cui faceva parte l’attentatore di Saraje­
vo, Gavrilo Princip – e una di alcuni sospetti doppiogiochi­
sti. Nella seconda, erano riportati i movimenti navali mi­
litari osservati nel porto durante due settimane. La terza,
infine, era una sorta di indirizzario degli appartamenti uti­
lizzati come rifugio da alcuni indipendentisti irlandesi, a
Dublino, Belfast e Cork, oltre ai loro nomi di copertura. Tre
lettere, tre bombe nucleari.
Joyce si rivelava un informatore di Londra, con il
nome in codice Italo – lo stesso pseudonimo del suo amico
Ettore Schmitz, alias Italo Svevo – e di Sangiorgio, il patro­
no inglese. Lo scrittore passava dunque all’Mi5, di cui fa­
ceva parte, notizie riservate sulle trame anti-austriache, sui
movimenti navali militari nel porto di Trieste ma anche
informazioni su combattenti repubblicani irlandesi. Come
era possibile? Molti si indignarono. Qualche biografo affer­
mò di non sorprendersi più di tanto e spiegò che evidente­
mente Joyce in quel periodo aveva un gran bisogno di de­
naro e aveva ceduto a evidenti pressioni, forse a qualche
ricatto. Le sue opere non avevano successo, forse erano sta­
te pubblicate con l’aiuto dello stesso spionaggio inglese. A
quanto si desumeva dalla prima lettera, anche la moglie
Nora era nel giro di spie disseminate nei confini austroungarici alla vigilia dello scoppio della guerra.
Sì, certo, tre lettere, oltre alla prima, più una tessera,
potevano essere poche per dimostrare una tesi che ha sca­
tenato le polemiche più feroci all’interno del mondo lettera­
rio e non soltanto. Il blocco dei documenti, più la bambola,
è in seguito passato di mano tre volte, sempre a cifre molto
più alte dell’acquisto precedente. Grazie alla clausola che
avevo fatto inserire nel contratto, alla causa di Teresa sono
arrivati da quelle due vendite successive altri ottantamila
dollari. Soltanto a quel punto, la trama ha cominciato a sfi­
lacciarsi, con la denuncia per falso da parte della Fondazio­
ne Joyce svizzera, seguita da tutte le altre. A quanto pare,
nessuno dei loro esperti era mai stato contattato o, se era
avvenuto, nessuno lo ammise. Un giudice inglese ha ordi­
nato il sequestro dei documenti, iniziativa seguita anche
dalla magistratura italiana che ha preteso nuove perizie cal­
ligrafiche e analisi. Il problema è che bambola e documenti
sono probabilmente finiti in Russia, o forse addirittura in
qualche emirato. Rintracciarli, veri o falsi che siano, ora sa­
rà difficile. Autentico è invece il miracolo prodotto da quel­
la bambola decapitata. Grazie a lei e al sospetto agente
segreto James Italo Joyce, la piccola Teresa sta per essere
operata, è già ricoverata e l’intervento è fissato tra una set­
timana.
Gianni
Ho tradotto Joyce per sette anni. L’Ulisse. Soltanto
uno di meno del viaggio da Troia a Itaca, ma quanto l’intera
durata della sosta da Calipso. E prima dell’Ulisse, altre ope­
re, ma soprattutto posso dire di avere frequentato – come
un amico – James Joyce per una vita. Mi sono laureato a
Bologna con una tesi su di lui, penso di conoscerlo a fondo,
non meno di molti suoi biografi, da Richard Ellmann a
Gordon Bowker. Quando ho sentito della scoperta della
bambola, le lettere ritrovate, poi la storia dello spionaggio,
sono saltato letteralmente sulla sedia. Non è possibile. Non
ci credo. L’ho detto subito. A tutti quelli che conosco. È una
storia fin ridicola per chi conosce bene la vita di James Joy­
ce. Potevano essere documenti con tutti i crismi, carta, gra­
fia, timbri eccetera. Ma non potevano che essere falsi. Co­
me i diari di Hitler, come quelli di Mussolini. Ma ancora di
più era chiara la manipolazione. E poi, quando ho letto sul
giornale il testo della letterina alla figlia, mi sono accorto
improvvisamente di quella banalità, di quella svista ancora
più incredibile della messa in scena. Chi ha montato questo
imbroglio non conosceva affatto Joyce; per agire con tanta
superficialità doveva essere un grande esperto di contraf­
fazioni materiali, tecniche, ma un ignorante di storia della
letteratura. Come spiegare altrimenti quel «Dear Lucy»?
Lucy? La figlia di Joyce non si chiamava Lucy, si chiamava
Lucia. In italiano, certamente. Era nata a Trieste e non solo
era stata battezzata con un nome italiano, ma soprattutto –
altra svista madornale del contraffattore – con suo padre
parlava e scriveva in italiano. Al magistrato che è venuto a
interrogarmi ho esposto qualche personale sospetto su al­
cune delle persone indagate. Una, in particolare. Natural­
mente non faccio nomi, l’inchiesta è in corso. I documenti
sono stati sequestrati e le analisi hanno dimostrato che so­
no stati realizzati al massimo un paio di anni fa. Da chi? L’i­
dea di tradurre in inglese qualcosa che non lo era in origi­
ne, un nome proprio, e scrivere in inglese una lettera che
avrebbe dovuto essere in italiano, mi sembra l’errore tipico
di un falsario intellettuale. Che ha imbastito una favola, ma
ha peccato d’eccesso di zelo, per così dire. Forse è inglese,
forse italiano. Non dico altro. Ma il suo trucco ha servito u­
na buona causa, a quanto leggo: quella bambina è stata
operata con successo, potrà vivere. Allora, meglio così. Me­
no male che la sua Lucy Joyce, la sua traduzione patacca,
non è stata smascherata prima...
NOTA BIO-BIBLIOGRAFICA
Federico Bianchessi, milanese, nato nel 1956,
dopo la laurea in Lettere alla Cattolica svolge la carriera di
giornalista in diverse testate a Milano (Il Mondo, Il Gior­
nale, diretto da Indro Montanelli), Roma (La Voce, sempre
con Montanelli, L’Indipendente), Brescia (BresciaOggi) e
Varese (La Prealpina) dove attualmente risiede. Appassio­
nato di musica classica, è collaboratore del mensile Musica.
Ha pubblicato diversi racconti (raccolta Incartesimi, Nico­
lini Editore), vincendo alcuni premi, un romanzo storico
(Un tetto alla Scala, Zecchini Editore), un saggio politico
(Cuore e Regione, Lativa) e nel 2014 la biografia Gianni
Caproni, una storia italiana (Macchione Editore).
INDICE
Un erudito divertissement (di Marco Ercolani)
Lezioni di lingue
1. Oh, Giacomo!
2. La bambola di Joyce
3. La seppia di Emily D.
4. Il Mago
5. Il Re della Birra
6. Le Muse
7. Il coro alpino
8. M
9. Sarakasi
10. La nota di Montale
11. Pierino e il cane di Trimalcione
12. Girolamo e il Gattung
Nota bio-bibliografica