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Giacomo Leopardi
dissertazioni fisiche
otto editore
Introduzione di Carla Ongaro.
Prima edizione 1998.
© 1998, OTTO – Torino
[email protected]
http://www.otto.to.it
ISBN 88-87503-00-1
INDICE
Introduzione ........................................................................................................ 4
Dissertazione sopra il moto .................................................................................. 6
Dissertazione sopra l’attrazione .......................................................................... 10
Dissertazione sopra la gravità ............................................................................. 13
Dissertazione sopra l’urto dei corpi .................................................................... 17
Dissertazione sopra l’estensione .......................................................................... 21
Dissertazione sopra l’idrodinamica ..................................................................... 25
Dissertazione sopra i fluidi elastici ...................................................................... 29
Dissertazione sopra la luce.................................................................................. 34
Dissertazione sopra l’astronomia ........................................................................ 38
Dissertazione sopra l’elettricismo ....................................................................... 43
Note .................................................................................................................. 47
INTRODUZIONE
Le Dissertazioni fisiche, un viaggio nella scienza vista con gli occhi curiosi di un
tredicenne, catturato dalle teorie talvolta fantasione sulle regole dell’universo, furono scritte da Leopardi intorno al 1811, due anni prima della più nota Storia dell’Astronomia.
L’attenzione di Leopardi, poeta e scrittore, a temi di scienza, generalmente considerati dall’uomo contemporaneo aridi e distanti da una qualche sensibilità artistica, può sorprendere, pur essendo numerose, almeno nella storia europea, le personalità la cui fama è legata all’affermazione sia in campo artistico sia in quello scientifico. Leonardo da Vinci, genio eclettico, Albrecht Dürer, pittore e attento conoscitore
della matematica e della fisica, William Herschel, musicista e astronomo, Michail
Bulgakov, scrittore e medico, Primo Levi, scrittore e chimico, sono solo alcuni esempi.
Gli interessi e le ricerche nei diversi campi della scienza sono nati spesso dalla
necessità di una più approfondita conoscenza della natura per una migliore espressione della propria arte: fin dall’antichità i costruttori di strumenti musicali impararono le stringenti regole dell’armonia ed il rapporto tra note musicali e numeri; i
pittori del Rinascimento compirono minuziose ricerche sull’anatomia, sulla botanica, sull’ottica e sulla prospettiva. In altri casi furono gli argomenti di scienza a diventare oggetto di espressione artistica, come per Goethe che scrisse una Metamorfosi
delle piante in distici elegiaci e La teoria dei colori. In ogni epoca, è comunque sempre
la necessità di consapevolezza del mondo che avvicina l’uomo alla scienza. Risulta
quindi facile comprendere, pensando anche allo sviluppo del pensiero leopardiano e
al ruolo riservato in esso alla Natura, l’interesse del giovane poeta per la fisica.
All’epoca di Leopardi la scienza, in quanto conoscenza della natura, si era già
formalmente separata dalla filosofia, in quanto indagine sull’Universo, e tale frattura
andò via via rafforzandosi con l’inevitabile aumento della specializzazione nei diversi
settori. Non era più possibile descrivere il mondo come un tutto: si era resa necessaria una minuta suddivisione dei temi. Leopardi, studioso diligente, ripropose quindi
le conoscenze fisiche del suo tempo in dieci distinte dissertazioni, ordinate come in
un libro di scuola, dalla cinematica alla teoria sulla luce e sull’elettricismo, lasciando
trasparire maggiore interesse per i temi riguardanti l’attrazione e la gravitazione. Prive di originale valore scientifico, le dissertazioni appaiono un poco come un esercizio
di erudizione ma, presentate in prima persona, hanno il pregio di consentire la ricostruzione del dibattito scientifico, ancora vivo durante il XIX secolo, sui grandi temi
della fisica classica: l’astronomia, la meccanica, il calore.
Consapevole che «la scienza procede passo a passo e il lavoro di ogni persona
dipende dal lavoro dei suoi predecessori» (come in seguito affermò Lord Rutherford),
Leopardi non tralasciò di richiamare teorie obsolete e di descrivere esperimenti e
disquisizioni logiche, a sostegno delle moderne interpretazioni, riportando esempi
tratti dalla fisiologia, o utilizzando le teorie fisiche per interpretare la fisiologia. Così,
presentando la teoria newtoniana sul moto dei corpi, fece ampi riferimenti al sistema
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INTRODUZIONE
cartesiano su cui si fondavano, ancora verso la metà del ‘700, numerose opere scientifiche, nonostante i numerosi errori di fisica in esso contenuti. Il limite del sistema
cartesiano, pur essendo il primo sistema di pensiero completo e coerente dell’epoca
moderna, è di essere soprattutto una filosofia; Descartes infatti non considerava in
modo benevolo l’opera di Galileo, poiché in essa non era contenuta alcuna analisi
dei concetti da lui introdotti: forma, spazio, tempo, materia. È la materia oggetto di
indagine per Descartes; le sue qualità costituiscono la base su cui egli costruisce la
propria concezione di Universo infinito in cui i movimenti planetari ed i fenomeni
terrestri sono mantenuti da «vortici»; poiché la materia è compatta e non ammette il
vuoto, le modificazioni di una sua parte vengono propagate in tutte le sue parti,
dando origine a fenomeni vorticosi.
Nelle dissertazioni sulla gravità e sulla forza d’attrazione, Leopardi prese spunto
dalle spedizioni scientifiche in Perù e alla Cajenne intraprese da Bouguer e da Richer
(membri dell’Academie des Sciences de Paris) al fine di misurare la lunghezza del grado
meridiano, per ricordare la grande attività esplorativa che caratterizzò i secoli XVII e
XVIII, e che permise lo sviluppo di una cartografia rigorosa sulla base delle nuove
ipotesi circa la forma esatta della Terra.
Meno elaborate appaiono le dissertazioni sopra i fluidi, a denotare il ritardo del
mondo scientifico nel trovare un’interpretazione convincente per i fenomeni che
coinvolgono il concetto di calore e di energia. Ancora al principio del XIX secolo le
«imponderabili» sostanze senza peso, quali il fluido calorico e quello elettrico, governavano il mondo. In particolare, la sostanza calorica occupò un posto di speciale
importanza. Soltanto nel 1798, anno di nascita di Leopardi, Thompson, sulla base
di osservazioni sperimentali, avanzò l’ipotesi che il calore fosse «nulla più che un
movimento vibratorio interno alle parti costitutive dei corpi riscaldati», avvicinandosi al concetto di conservazione e trasformazione dell’energia che solo tra il 1820 e
il 1850 vengono introdotti insieme alla definizione di lavoro (nel 1824 Carnot definì il lavoro; nel 1847 Joule determinò l’equivalente meccanico del calore).
Leopardi, non essendo probabilmente a conoscenza delle nuove teorie accettò
incondizionatamente il concetto di «calorico» al pari di quello di «luce». A suo dire la
luce è «una delle trentatré sostanze semplici» e, come tale, non è fatta oggetto di
ulteriori analisi circa la sua natura, preferendo egli descriverne le proprietà e gli effetti piuttosto che illustrare la teoria ondulatoria introdotta già alla fine del XVII secolo
da Huygens per descrivere la rifrazione.
Sicuramente meno interessanti delle dissertazioni sulla meccanica e sulla
gravitazione, in cui è più marcata la ricerca bibliografica ed in cui più può esprimere
la cultura classica – forse ne era più fornita la biblioteca paterna – sono le ultime
dissertazioni riguardanti quelle parti della fisica che dovevano attendere ancora almeno la fine del XIX secolo per trovare pieno sviluppo. Esse offrono comunque
descrizioni interessanti quanto bizzarre: il fuoco, un composto di luce e di calorico, il
fulmine, la grandine, ne sono degli esempi…
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DISSERTAZIONE SOPRA IL MOTO
Il moto di cui ogni corpo è suscettibile, non mai però per propria forza, ha dato
soggetto a molte diverse Filosofiche questioni. Egli è, a dir d’Aristotele «Actus entis in
potentia, prout in potentia». Questa definizione sembra però così oscura, che ad onta
de’ maggiori sforzi degli ostinati Peripatetici da ogni sensato Filosofo al dì d’oggi vien
rifiutata. A simile inconveniente pongon riparo i Cartesiani [9], affermando essere il
moto una successiva applicazione della materia a diverse parti de’ corpi, che a lei
immediatamente s’avvicinano. Ma chi non vede l’assurdità d’un tal principio? Ammessa questa proposizione, dovrebbe ammettersi in conseguenza, che una nave
rattenuta, dall’ancora in mezzo al flusso dell’acque sia in perpetuo moto poiché ella,
è soggetta ad una continua applicazione delle sue parti con l’onde, che ad ogni tempo succedendosi, a lei immediatamente s’avvicinano: al contrario se un globo si ruoti
per mezzo dell’impulsione su qualsivoglia superficie, l’interior parte del globo resterà
sempre immobile, e ferma, ad onta della forza impressagli, il che non può affermarsi
senza una manifesta contradizione. Come falso perciò, e come assurdo deve rigettarsi
un siffatto principio. Qual sarà dunque la vera definizione del moto? Dovrò io forse
con il Bernier [3], ed altri Filosofi darmi per vinto, e confessare l’impossibilità d’esprimere che cosa è il moto? No: sarebbe questo un vile timore, che cede ad ogni piccolo
ostacolo, e non ardisce d’avanzarsi alla verità. Il moto vien definito dai Gassendisti[12]
una continua, e non interrotta mutazione del luogo, e benché con ridicoli sofismi si
sforzino i partigiani di Bernier di sopprimer questa definizione, essa viene approvata
dal chiarissimo Jacquier [15] nella sua Fisica, ed è questa quella, che da me viene
abbracciata come più chiara d’ogn’altra, e dimostrata dall’interno testimonio della
propria cognizione.
Definito adunque il moto, passiamo ad esaminare le sue leggi, e le sue proprietà.
Ogni corpo, come abbiam detto, è suscettibile del moto; nessun corpo è capace di
forza insita motrice. Ciò vien dimostrato dall’esperienza, né alcun sensato Filosofo
potrà dubitarne. Ciò posto adunque, qual sarà la vera cagione del moto? I Cartesiani
asseriscono esserne Iddio la prima, ed unica causa. Questa proposizione può, e deve
certamente ammettersi, non però così le conseguenze, che da essa deducono i di lei
Autori. Pretendon questi, che l’anima sia affatto incapace della forza impellente.
Chiamano error fanciullesco il credere che noi siamo gli autori di quei moti, che
tuttogiorno in noi sperimentiamo, e di quelli, che ad altri corpi vengon per nostro
mezzo communicati. Nondimeno io vorrò piuttosto pensar da fanciullo, e sostener
ciò, che la natura c’insegna, che opinar da sapiente, ed oppormi all’interna voce della
propria esperienza. Soffrano dunque i Cartesiani da un Bambino imbevuto ancora,
come essi dicono, da grossolani principj, alcune richieste. Io dimando se è lecito
opporsi alla natura colle Filosofiche ipotesi, quando senza alcuna difficoltà posson
seguirsi i suoi dogmi: io ricerco se v’è alcuna assurdità nel sistema il quale afferma
che Dio abbia nella sua creazione communicata all’anima umana la sua forza motrice de’ corpi: io chiedo finalmente se ciò sembra ripugnare alla natura più del contrario sistema, e se può mai ricorrersi alla prima causa, quando bastino le seconde a
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DISSERTAZIONE SOPRA IL MOTO
spiegare senza alcuna assurdità gli effetti, che sono in questione. Ciò posto io concedo, che Dio sia la prima, ed unica causa del moto, non però prossima, e nego in
seguito tutte le ridicole conseguenze che da questo principio traggono i Cartesiani.
Affermo soltanto essere Iddio la prima, unica, e prossima causa del moto primitivo
degli astri, de’ Pianeti delle sfere, del sole, ovvero, secondo il sistema Copernicano
della terra. In quanto poi ai moti de’ corpi animali, e vegetabili, e di quelli communicati
alle materie insensibili per mezzo de’ corpi animali, io ammetto l’Ente supremo come
causa di essi solamente remota. Ma di ciò abbastanza ragionasi in quella parte di
Metafisica, in cui si tratta de’ tre famosi sistemi di Eulero, di Cartesio, e di Leibnizio
intorno ai moti dell’uomo.
Altra legge del moto è, che un corpo qualunque incontrandosi nel suo corso con
altro corpo qualsivoglia, tanta forza motrice riceva il corpo spinto, quanta ne perde
quello, che a lui la comunica. Intorno però a questa forza motrice è a sciogliere una
questione. Che cosa è ella questa forza? Come possono spiegarsi i suoi effetti? Forse
attribuendo ai corpi inanimati le umane sensazioni? Forse astraendo da tutte le nostre idee ed ammettendo per forza motrice un’entità metafisica, che da noi in alcuna
parte non possa concepirsi? La prima di queste proposizioni è per se stessa un assurdo, la seconda in alcun modo non può dimostrarsi. Dovrò io dunque concludere
con il Jacquier che questa forza motrice non può spiegarsi se non intendendo sotto
questo nome i suoi effetti senza investigarne la causa.
La terza legge del moto è, ch’esso continui per tutto quel tempo in cui la forza
dell’impulsione trionfa di tutti gli ostacoli, che al medesimo oppongono gli attriti
del corpo mobile, e della superficie, su cui esso si muove, e d’ogn’altro impedimento,
che dall’umana industria non può esser tolto. La causa di questa continuazione del
moto è apportata da Cartesio, ed approvata da tutti quasi i moderni Filosofi, cioè
quella legge della natura, per cui ogni corpo, tolti gl’inevitabili ostacoli, è costretto a
rimaner sempre nello stato medesimo di moto, o di quiete, ciò, che in Fisica s’appella
Forza d’inerzia.
Riconosce similmente il Filosofo come altra regola del moto la progressione in
linea retta d’un corpo mobile sopra un piano orizontale. Un tal principio sussiste
ancora ad onta del seguente esperimento. In un piano orizontale avviene talvolta,
che se si comunichi la forza motrice ad un globo qualunque, esso scorre sulla superficie per qualche tempo in linea retta, e quindi come spontaneamente alla contraria
parte si volge, ciò che sembra opporsi al sopraddetto principio. Nondimeno possono
ammettersi ambedue gli esperimenti senza alcuna repugnanza né dall’una, né dall’altra parte. La contraria progressione del globo avviene, poiché nel suo moto rettilineo
egli riceve ancora un moto intorno all’asse, il quale persevera anche dopo estinto il
primo suo moto, finché esso venga altresì a svanire per i sopraddetti impedimenti.
La quinta legge, e proprietà del moto si è, che un corpo il quale ha ricevuto la
stessa quantità di moto impresso, che un altro corpo della stessa grandezza scorra
nello stesso tempo lo spazio medesimo di quest’ultimo, ciò che vien dimostrato dalla
natura, e dalla commune esperienza, né d’alcuna prova certamente abbisogna.
Son queste le principali leggi del moto, per la maggior parte evidenti al primo
aspetto, tanto allo sguardo d’un Filosofo, quanto agli occhi d’un semplice villanello.
Varie altre regole, e proprietà del moto accenna Cartesio, le quali però come osserva
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DISSERTAZIONE SOPRA IL MOTO
un sensato Scrittore sono per lo più «o inutili, o dubbiose, o false, o suppongono ciò ch’è
incerto, o un altro stato di cose diverso dal presente, e i corpi diversi di natura da quelli,
che veggiamo, o finalmente sono contrarie alla esperienza». Lasceremo adunque di esaminarle, e passeremo a spiegare alcuni fenomeni appartenenti al moto, che ne’ corpi
tuttogiorno si scorgono.
Le ragioni metafisiche dimostrano, che un corpo qualunque quiescente resiste
all’impulsione d’un corpo mobile, e un corpo mobile resiste a colui, che a rattenerlo
s’accinge, ciò che l’esperienza ancora ci fa chiaramente conoscere. Ciò posto qual
sarà la cagione d’una tal resistenza? La Forza d’inerzia. Abbiam già detto, che un
corpo ripugna alla mutazion dello stato, onde apertamente si scorge qual sia la cagione d’una tal resistenza, che vien fisicamente chiamata reazione, e la di cui contraria
forza, che fa un corpo impellente appellasi azione. Per ciò deducono i Filosofi un
corollario della Forza d’inerzia, cioè, che la reazione essere deve contraria sempre, ed
eguale all’azione del corpo impellente, finché la sua massa somministra al corpo
percosso la forza necessaria, poiché, se eguale essa non fosse, il corpo non resisterebbe che ad una sola parte della mutazion dello stato, il che è evidentemente falso.
In simil modo si spiega il moto retrogrado di qualsivoglia arma da fuoco allo
scoppiar della polve d’archibugio. Dal sopraddetto principio viene altresì spiegato il
seguente fenomeno. Se con forza sufficiente si spinga un vaso ripieno d’acqua, o di
qualunque altro liquore, l’acqua si muoverà d’un moto direttamente contrario a quello
del vaso, e poiché essa cedendo all’impulsione ammise in se lo stesso moto di questo,
se subitamente il medesimo venga rattenuto, l’acqua s’innalzerà sopra l’orlo del vaso.
Ciò avviene, perché opponendosi il fluido al moto del vaso si sforza di conservare il
suo stato di quiete, e quindi poiché acquistò perfettamente lo stato di moto, tenta di
mantenerlo ad onta della forza, che rattiene il suo recipiente.
Per la medesima causa vien chiaramente spiegato il modo, in cui avviene, che
quelli specialmente, i quali al mar sono ignoti, e su d’una nave allo stesso si affidano,
a molto incomodo, e nausea, e dolor s’assoggetino poiché resistendo al moto gli
umori contenuti nel ventricolo, negl’intestini, e negli altri canali, vengono a produrre ciò, che qui sopra dicemmo. Dalla forza d’inerzia, e dalla reazione proviene ancora, che quelli, che in un cocchio, o in una nave velocemente son trasportati, se
subitamente il corso sia rattenuto, i medesimi si sentano come spinti all’anterior
parte del luogo ove si trovano.
Ecco adunque per mezzo della Forza d’inerzia, e del principio di azione, e reazione, spiegati i principali fenomeni, che intorno al moto si osservano. Né credo
alcerto, che in dubbio possa rivocarsi quanto sopra abbiam detto, poiché dimostrata
essendo la Forza d’inerzia, sembrami, che senza alcun dubbio gli accennati fenomeni
ammetter si debbano.
Né alcuno si dia a credere, che supposta sia questa forza, poiché oltre l’essere ella
proposta, abbracciata, ed approvata da’ più sapienti Filosofi, essa vien dimostrata da
sì facili, e semplici argomenti, che dagli eruditi spiriti non solo, ma ancora da
qualsivolgia indotto fanciullo possono esser compresi. Ed infatti, che afferma mai
questo principio, se non che esser legge di natura, che ogni corpo tenda a conservare
il suo pristino stato? e ciò posto, non è egli dimostrato dalla quotidiana esperienza,
che un corpo ricusa di ammettere in se lo stato di moto, se quiescente, tenta di
perseverare nella sua progressione qualunque, se mobile?
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DISSERTAZIONE SOPRA IL MOTO
Suppongasi, che questa Forza d’inerzia, questa resistenza della materia alla
mutazion dello stato non sussita, se non nella mente del volgo, e non sia, che un
commun pregiudizio. Ammessa una tale ipotesi, noi vedremo al più leggero tocco
scuotersi, e muoversi i smisurati macigni, e similmente fermarsi al più piccolo cenno, ciò, che non sarebbe, a mio credere così disgradevole all’uomo, che non desiderasse l’adempimento di questa ipotesi. Nondimeno io sono obbligato ad affermare
non solo, che ciò sarebbe un assurdo, ma a stabilire ancora sopra la falsità di questa
proposizione la sede d’un principio, che sarà sempre immobile, ad onta de’ maggiori
sforzi degli ostinati avversarj.
Ecco brevemente esposta la dottrina del moto, in cui però non trattasi della
discesa de’ gravi, e di quelle altre proprietà, di cui il parlare sembrami appartenere
piuttosto ad un ragionamento intorno alla forza di gravità, e d’attrazione, che ad un
breve discorso intorno al moto.
Raccogliendo adunque ciò, che finora trattammo; io affermo doversi abbracciare la definizione del moto proposta dai Gassendisti, ammetto l’Ente supremo come
prima causa di qualsivolgia moto, che avvenga in tutto l’universo, negando però
quelle conseguenze che da ciò deducono i Cartesiani, ed opponendo ad esse le acconcie
distinzioni, e gli opportuni argomenti. Stabilisco, come principali leggi, e proprietà
del moto quelle, che di sopra accennai, e rigetto come inutile, o falsa ogn’altra di
quelle, che da’ Cartesiani vengon proposte. Affermo l’esistenza della Forza d’inerzia
e ciò, che da essa deducesi, cioè che l’azione esser deve contraria, ed uguale alla
reazione, ed ammetto finalmente tutto ciò, che già dissi intorno ai varj fenomeni, ed
osservazioni concernenti il moto.
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DISSERTAZIONE SOPRA L’ATTRAZIONE
Ella è l’attrazione quella forza meravigliosa, per mezzo di cui spiegansi facilmente tanti diversi fenomeni, la cagione de’ quali fu ignota perfino ai più sapienti Filosofi de’ secoli trasandati. Il flusso, e riflusso dell’onde marine sì fatale all’infelice Aristotile,
che impiegar non seppe la profonda sua scienza a preservarsi da un fine sì funesto, e
al tempo stesso sì poco compassionato spiegasi chiaramente per mezzo dell’attrazione, per mezzo di essa la cagion si dimostra della discesa de’ gravi, e della tendenza del
fuoco alla sfera, per suo mezzo finalmente assegnansi le regole, e le cause s’additano,
del giro interminabile di tutti i pianeti, e degli astri, e del sole, e di quelli innumerevoli globi, che si ruotano incessantemente nel cielo, e compongono l’ammirevol macchina del mondo intero. Questa forza che di tanto ajuto fu ed è tuttora alla moderna
Fisica fu dal celeberrimo Newton [21] posta in chiaro, ed inserita nelle Fisiche dottrine. Varj Filosofi furonvi prima dello stesso, dai quali si udì pronunziare il nome di
attrazione, e con dottissime ricerche, e felicissimo evento parlonne Keplero [16] intorno ai moti de’ corpi celesti, ma a dispetto degl’invidi ed ostinati calcoli de’ moderni Scrittori, che si sforzano con ogni loro potere di togliere a Newton la gloria di
averla dilucidata, e datogli per la maggior parte il suo essere, resterà sempre al medesimo un simile onore, che per l’andar de’ secoli non potrà essergli giammai rapito.
Profittando noi adunque delle dottissime, ed avventurate sue ricerche passeremo ad
esaminare le prove, le regole, e le proprietà dell’attrazione assegnando, e notando
quelle principali dottrine che alla sua cognizione son necessarie.
Fatalissimo destino di quasi tutte le Filosofiche scoperte egli è quello di esser
queste sempre soggette alle contrarie obbjezioni de’ stoltissimi, ed insensati avversarj,
talché uscita appena alla pubblica luce qualsivoglia dottrina, o recentemente compilata, o nuovamente tratta dagli antichi principj pongano essi tostamente a tortura il
loro esilissimo ingegno onde dimostrare in qualche modo la supposta falsità dei dogmi enunciati. Da siffatte obbjezioni non va esente in conto alcuno il Neutoniano
sistema. Conviene pertanto pria di svolgere, e spiegare le secrete leggi dell’attrazione
dimostrarne la sussistenza, e confondere i pertinaci avversarj della verità.
Il continuo, e non interrotto ravvolgersi de’ cinque primarj pianeti intorno al
sole, e dei pianeti secondarj ossia dei loro satelliti intorno ai primarj, che mai dimostra se non che una perpetua azione della forza attraente? Ciò viene ancora più chiaramente provato dai varj errori dei corpi celesti, che dagli astronomi ci vengono
indicati poiché secondo la diversa posizione, e la maggiore, o minor distanza dei
pianeti in rispetto al sole, e scambievolmente a se medesimi l’attrazione tra tutti i
corpi celesti agisce con maggiore, o minor forza, e da ciò nascono le inegualità de’
loro moti. Io lascio a’ miei avversarj la libertà di decidere se per mezzo di questa
raziocinazione vengano regolarmente, ed evidentemente spiegati i fenomeni de’ corpi celesti, e se debbasi ammettere come loro legittima causa la forza d’attrazione. Né
mai però avvenir potrà che per mezzo di questa forza in una sola massa tutti si uniscano i corpi celesti venendo in tal modo a formare una rozza mole infinita, poiché
essendo certo, che alcun orbe curvilineo non può da alcun corpo esser descritto che
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DISSERTAZIONE SOPRA L’ATTRAZIONE
per mezzo della composizion di due forze cioè, in questo caso centripeta, e tangenziale vien da quest’ultima impedito l’accennato inconveniente. Essendo poi dimostrato che gli astri risplendono per propria luce, e sono per conseguenza eguali in
tutto al globo solare può senza alcun dubbio ammettersi che intorno ad essi si aggirino altri primarj pianeti stando le stelle immobili nel proprio centro, e spiegandosi
in tal modo le cagione del rimaner queste stabili sempre, e fisse nel luogo a lor destinato senza soffrire in alcun modo la forza dell’attrazione degli altri corpi celesti
oltrediché essi sono tra loro sì distanti che l’accennata forza non può sopra loro in
alcun modo operare. Inoltre non solo nei corpi celesti si scorgono tuttogiorno le
chiarissime prove della forza attraente ma ancora nei corpi terrestri si appalesa talvolta in modo a ciascuno evidente poiché il dottissimo Bouguer [4] degnissimo Accademico parigino, il quale con altri valorosi compagni imprese il viaggio sopra modo
difficile alle ultime estremità del globo terraqueo per definirne la figura, vide, che il
pendolo da lui appeso nel Perù vicino al monte altissimo detto Chimboraco
allontontanavasi dalla vertical direzione minuti secondi 7 e mezzo ciò che egli attribuir non seppe né può infatti in alcun modo attribuirsi, che alla evidentissima attrazione del monte.
Sussiste adunque questa attrazione poiché senza di essa non potrebbonsi in alcun modo spiegare gli enunciati fenomeni, e sussiste in conseguenza il celeberrimo
sistema del sublime Filosofo Newton. Liberi adunque dalle opposizioni, che obbjettar
si possono alla verità del predetto sistema, e sgombra la via dalle importune molestie
degli avversarj passiamo a ragionar finalmente delle proprietà, delle leggi, e delle
diverse specie di attrazione, che nel prelodato sistema vengon proposte, e dimostrate
con i più chiari argomenti.
Cercasi da’ Fisici che cosa sia ella questa potentissima forza, e qual definizion dar
si gli debba. «I Filosofi sorpresi dal fenomeno meraviglioso, a dir di un moderno Scrittore, cercano di giustificare la loro ignoranza dicendo ch’essa, è un prodotto del bisogno.
Io rispetto i Filosofi e rido di questa lor frase». Nondimeno non vedesi, che egli stabilisca alcuna definizione della forza attraente, e se egli rispettando i Filosofi ride della
loro scusa forse i medesimi rideranno e delle sue parole, e di lui. Varj scrittori considerano questa forza come una qualche entità che si diffonda uniformemente per
ogni parte d’intorno al corpo attraente a guisa di raggi, o d’effluvj emananti dal
corpo già detto, ciò che avviene nel sole, od altri corpi splendenti la luce de’ quali
egualmente si diffonde in orbe curvilineo intorno ai medesimi: ciò che approvar non
deesi certamente poiché quest’attrazione, che dal corpo uscendo si diffonde uniformemente intorno ad esso potrà esser distolta dalla sua direzione per mezzo dell’aere
medesimo, in quella guisa appunto, in cui gli effluvj de’ corpi odoriferi si spandono
per l’atmosfera rapiti dai venti, o dall’aria stessa, che li circonda, ciò che è evidentemente un assurdo. Più sano consiglio è adunque a mio credere considerare soltanto
gli effetti della forza attraente senza ricercare la qualità che li produce.
Legge dell’attrazione universalmente approvata ell’è che ciascun corpo si attragga in ragione diretta della massa, e duplicata inversa della distanza. Alla seconda
parte di questa regola s’oppone in apparenza il seguente esperimento, ma una matura riflessione dovrà togliere qualsivoglia difficoltà. Un corpo qualunque si appenda
nell’estremità d’una bilancia il quale mantenga l’equilibrio tra l’altra estremità della
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DISSERTAZIONE SOPRA L’ATTRAZIONE
bilancia alla quale un corpo egualmente s’appenda. Quindi da un’alta torre si cali a
terra appoco appoco uno di essi corpi per mezzo di un filo il quale pur si comprenda
nel peso del medesimo destinato a mantener l’equilibrio si vedrà che la bilancia rimane sempre nella posizione, in cui era prima della discesa di uno de’ corpi. Laonde
rimanendo egualmente la medesima forza di gravità nelle diverse distanze dalla terra
sembra alcerto non doversi ammettere, che ciascun corpo si attragga nella ragione
duplicata inversa della distanza. Nondimeno siffatto principio alcuna alterazione
non soffre dall’accennato esperimento; poiché niuna differenza può scorgersi della
forza di gravità in una varietà sì piccola di distanza calcolato essendo inoltre, e dimostrato da’ Fisici, che questa diversità non può nemmeno notarsi se l’esperimento
vengane fatto nel monte delle Isole Canarie chiamato Pico di Tenerif, che affermasi
esser di tutti il più alto per la cagione medesima, che qui sopra abbiamo apportato. È
questa la legge principale dell’attrazione, alla quale rivocar si può in qualche modo
ogni altra di quelle, che intorno alla forza attraente vengono dai Fisici stabilite.
Non si ferma il Filosofo a dimostrare le proprietà dell’attrazione soltanto nelle
grandi, o piccole, maggiori, o minori distanze, e tra corpi diversi, ma passa ancora a
considerare quell’attrazione, la quale sussiste tra le molecole, che un sol corpo
qualsivoglia compongono, ciò che in Chimica nomenclatura si appella affinità d’aggregazione. Per mezzo di questa forza attraente vien formata tutta l’ammirevol macchina dell’universo, e la tenace inconcussa compagine di tutti i corpi. Né in tal modo
s’attraggon soltanto le primitive, minutissime particelle talché vengano esse sole per
tal mezzo a formare de’ corpi ma i medesimi ancora s’attragon talvolta per modo, che
dalla loro unione risulta un sol corpo come tuttogiorno avvenir si scorge nell’acque,
le di cui goccie unendosi insieme spinte dalla forza attraente che tra esse sussiste nel
massimo suo vigore vengono uniformemente a comporre una sola goccia.
La forza d’attrazione non sussite soltanto nelle grandi, o picciole, o minime
distanze, ma agisce ancora nel contatto stesso de’ corpi. Se per cagion d’esempio una
laminetta di vetro si ponga a contatto dell’acqua in modo, che la sua superficie lambisca quella del fluido si vedrà che senza qualche forza non si potrà la medesima
separare dall’acqua essendosi le minime colonne di questa appiccate a tutta la superficie della laminetta, le quali poi per proprio peso ricadono. Devesi notare però, che
l’attrazione in questo genere d’esperimenti, è grande nelle minime distanze, e massima nel contatto, ma tosto svanisce se d’un sol punto la distanza venga accresciuta.
Ciò è quello, che intorno alla legge d’attrazione fu scritto, e stabilito dagli antichi Filosofi, e dai moderni. Questa legge al dir del Abbate Para du Phanjas [23]
«postquam inanibus clamoribus, putidisque ignorantiae derisionibus vexata fuit, quibus
inter chimaeras, atque occultas qualitates rejiciebatur tandem ab astronomis, a naturae
studiosis, a doctis Physicis passim admittitur tamquam vera generalis naturae lex». Indegno sarebbe alcerto del nome di Filosofo chi ardisse ancora alzar la voce contro un
sistema pubblicato da uno de’ maggiori Fisici, e de’ più sagaci, e sottili indagatori
delle secrete leggi naturali, approvato dai più colti spiriti e dai più sensati sapienti, e
dimostrato dalle più forti ragioni, e dalla comune quotidiana esperienza.
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DISSERTAZIONE SOPRA LA GRAVITÀ
Quella proprietà, che indifferentemente appartiene ad ogni corpo che esiste forma al presente il soggetto delle nostre ricerche. La luce della verità che finalmente
sorse ad illuminarci ha fatto omai conoscere la falsità dell’antica proposizione, la
quale affermava la leggerezza de’ corpi abbracciata da’ vecchj Filosofi assai di questi
più lievi. Ogni corpo ha in se medesimo la forza di gravità, la quale non dee però
confondersi con il peso comune anch’esso a tutti i corpi poiché al dir del chiarissimo
Brisson [7] «queste due voci gravità, e peso esprimono due cose diversissime. La gravità di
un corpo è la forza, che lo sollecita a discendere, e il suo peso è la somma delle parti pesanti
contenute sotto il suo volume». La gravità altro non è, per mio avviso, che un’attrazione
del centro della terra relativamente ad ogni corpo, la quale agisce in proporzion della
massa, ed i corpi spinge perpendicolarmente a discendere. Cartesio [9] ricorre ad un
vortice di sottilissime, invisibili particelle; che si aggira intorno all’asse del globo
terraqueo, e spinge a basso ogni corpo che incontra nel velocissimo suo centrifugo
corso. Da ciò seguirebbe che «una pietra, al dir d’un sensato Filosofo, solo sotto l’equatore caderebbe direttamente verso il centro della terra, e in ogni altro luogo ella scenderebbe verso i circoli paralleli all’equatore, e alla fine sotto i poli neppur verrebbe a cadere
verso la terra» oltrediché una siffatta proposizione non può esser dimostrata in modo
alcuno ugualmente al parer di Gassendo [12], favorito ancora dal celebre Bernier [3],
il quale afferma uscir dalla terra degl’invisibili corpuscoli, che a guisa di ami, o di
uncini trapassano qualsivoglia corpo, e quindi abbassandosi lo spingono perpendicolarmente verso il centro. Funesto sarebbe alcerto lo sperimentare in se stesso la
forza, e la crudeltà di siffatti corpuscoli. Una tale assurdità merita appena di esser
combattuta. Le qualità occulte, che tanto occuparono lo spirito degl’antichi Fisici
sono finalmente svanite al raggio della moderna Filosofia. Guidati da questa noi
ammetteremo esser la forza di gravità una qualità occulta quando perciò non s’intendano, che i suoi effetti senza volerne più oltre ricercar la cagione. Questi congiunti
alle loro leggi, e proprietà aprono al curioso, e saggio indagator della natura un largo
campo di Fisiche osservazioni. Noi passeremo adunque a considerarli con quella
brevità, che dell’ampiezza del soggetto della varietà delle proposizioni ci verrà permesso: ozioso certamente non fu questo proemio.
La forza di gravità in egual tempo agisce ugualmente; per cagion d’esempio se
due corpi del peso medesimo per sola forza di gravità cadano l’uno dalla cima di una
torre di sufficiente altezza, e l’altro dalla metà della stessa il corpo, che cade dalla sua
sommità impiegherà per giungere al mezzo di questa quel tempo, che l’altro impiega
per giungere a terra; benché sembri che quest’ultimo sia più soggetto all’attrazione
del centro essendo alla terra più vicino, e che perciò più veloce esser debba la sua
discesa.
La diversità della distanza è in questo caso sì piccola rimpetto alla mole immensa
del globo terracqueo, la quale con accurati calcoli vien dimostrato da’ Fisici contenere 300.000.000.000.000.000.000 piedi solidi, che devesi alcerto considerar come
nulla, per il che viene la gravità chiamata costante. Io non ignoro, che ad alcuni
13
DISSERTAZIONE SOPRA LA GRAVITÀ
imperitissimi spiriti sembrerà forse assurda una siffatta proposizione imperocché
dirann’essi si abbandonino alla propria gravità un piccolo grano d’oro, ed una leggerissima piuma l’uno equivalente al peso dell’altra si vedrà, che in assai minor tempo
di quest’ultima percorrerà il primo lo spazio prefisso, e che, per conseguenza molto
maggiore sarà la gravità dell’oro di quella della piuma. Con un sì grande apparato di
verità errano quelli, che voglion dimostrare la falsità dell’opposta proposizione. Osservino questi, a quanta maggior resistenza dell’aria è soggetta la piuma, la quale non
ha le sue parti come l’oro raggruppate, e raccolte, e non è conseguentemente capace
di rompere al par di questo, e con la stessa forza, e velocità l’impeto dell’aria, che per
ogni parte l’investe, la penetra, l’obbliga a ritardare non poco il suo corso, e talvolta
ancora dalla sua direzion la distoglie. Vedesi infatti che nel vacuo boyliano [5] liberi
dall’accennato impedimento, e l’oro, e la piuma percorrono nello stesso tempo lo
spazio medesimo.
La gravità è sempre uguale nei luoghi istessi della terra, ma nelle diverse posizioni diversa è ancora la forza di gravità come da Richer [26] Accademico parigino fu
sperimentato nell’Isola Cajenna vicina all’equatore. Osservò egli, che un pendolo il
quale in Parigi batteva regolarmente i secondi misurava nell’Isola tempi più lunghi.
Ciò deve per mio avviso, e per quello de’ più saggi Filosofi spiegarsi in tal modo. La
terra aggirandosi intorno al suo centro ciascun punto della propria superficie insieme con tutti i corpi che sopra di essa si trovano vengono da essa portati a ravvolgersi
unitamente a tutta la sua mole. Il circolo dell’equatore è maggiore di tutti quelli, che
incontransi andando da questo ai poli maggiore, per conseguenza, esser deve la velocità della terra nel percorrere questo circolo di quella che impiega per trascorrerne
qualunque altro; onde minore sarà la sua velocità quanto maggiore è la distanza de’
circoli dall’equatore. Ciò posto è evidente, che ogni corpo discendendo al centro
della terra sarà ritardato dal moto centrifugo della medesima, e che la resistenza che
esso sperimenta tanto sarà minore quanto minore è la velocità del moto centrifugo,
e conseguentemente quanto maggiore è la distanza del circolo, in cui esso si trova da
quello dell’equatore, e viceversa. Perciò nell’Isola di Cajenna vicina a questo circolo
più tarde esser debbono le oscilllazioni del pendolo, le quali non sono, che un prodotto della forza di gravità, il che vien dimostrato dal modo medesimo in cui esse
avvengono. Poiché s’innalzi un pendolo dal punto di quiete ad un altro punto qualunque di sufficiente altezza, e quivi si abbandoni; egli dovrebbe da questo punto
cadere perpendicolarmente al centro della terra ma essendogli ciò impedito dal filo a
cui è appeso la sua gravità non può operare che portandolo a descrivere nella sua
caduta un arco che cominciando dal punto della sua elevazione va sino a quello, in
cui egli era in perfetta quiete prima del sofferto innalzamento. Quivi giunto, e per la
forza d’inerzia, che lo costringe a mantenere lo stato di moto, e per quella, che ha
acquistata nella sua caduta si porta ad un’altezza orizontale al punto della sua prima
elevazione, e quindi ricadendo per la sua gravità s’innalza sempre nel modo istesso,
che abbiam detto ai punti medesimi per delle vibrazioni isocrone cioè dell’istessa
durata; onde un pendolo mosso una volta sarà sempre in perpetuo moto; ciò che
avvenir dovrebbe se esso non fosse soggetto a verun impedimento, ma l’aria, che egli
è costretto a rompere per aprirsi il passo, e gli attriti del punto di sospensione ritardano a grado a grado il suo moto ed abbreviano le sue vibrazioni sino a ridurlo allo
stato di quiete cose tutte, che dalla comune esperienza vengon dimostrate.
14
DISSERTAZIONE SOPRA LA GRAVITÀ
Ogni corpo allor che discende ad ogni momento acquista una maggiore accelerazione per mezzo della forza di gravità «poiché, al dir del celeberrimo Poli [25], non
lascia ella giammai di accompagnare il mobile ne’ varj successivi punti dello spazio, per
cui va egli scendendo di mano in mano, e la velocità generata in ciascun istante non si
distrugge, ma coopera con quella dell’istante, che segue attesa la Forza d’inerzia, onde
non si avrà difficoltà di convenire, che in tempi uguali si aggiungeranno al mobile uguali
gradi di velocità. Quindi la velocità acquistata nel secondo istante sarà doppia della
prima quella del terzo sarà tripla quella del quarto sarà quadrupla, e così in appresso, e
conseguentemente il moto di un tal corpo sarà uniformemente accelerato. La velocità poi,
che cotesto corpo troverassi avere nel fine della sua caduta sarà come il numero degl’istanti
impiegati nel discendere, e quindi sarà la somma di tutte le velocità parziali acquistate in
ciascheduno di essi».
Un corpo scagliato verticalmente in alto cessato l’impeto della forza projettile
ricadrà secondo quella stessa direzione per cui era asceso non essendovi alcuna bastevol
causa, che lo costringa a declinare a dritta, o a sinistra. Se poi la forza projettile
spinga il corpo orizzontalmente, il medesimo descriverà cadendo una linea curva, la
quale non è che la composizione della forza centripeta cioè della tendenza al centro,
che conserva malgrado la forza projettile, e della forza tangenziale acquistata per
mezzo della projezione.
Alla gravità appartiene ancora il centro di equilibrio, ossia centro di gravità od
anche centro della massa. Altro egli non è, che quel punto, sopra il quale il volume di
un corpo si mantiene equilibrato, e il peso tutto, e gravità della massa si trova come
accumulata. Questo punto può essere, o inferiore, o superiore al corpo. Suppongasi
un perno acuto posto in vertical direzione; quindi un circolo di qualsivoglia solida
materia si sovrapponga alla sommità del perno surriferito in modo, che il centro del
circolo, e la cima del perno sieno fra loro esattamente a contatto si vedrà che il
circolo resterà perfettamente in equilibrio per essersi accumulata tutta la sua gravità
sopra il proprio centro, e la cima del perno; in questo caso il punto, o centro dell’equilibrio sarà inferiore alla massa del corpo equilibrato. Un tal punto sarà al medesimo superiore se per cagion d’esempio si sospenda un corpo qualunque all’estremità
di un filo, nel qual caso il centro di gravità sarà nell’altra estremità del medesimo, la
quale viene volgarmente chiamata punto di sospensione.
Il centro di gravità può ancora esser comune a due corpi come tuttogiorno scorgiamo nella volgar bilancia, nella quale due masse del peso medesimo, e poste nella
medesima distanza dal centro di gravità opponendo le loro forze, e non potendo
l’una prevalere all’altra perché il centro di gravità agisce egualmente sopra ambedue,
ne risulta un perfetto equilibrio. Che se l’una delle due masse opposte giunge a
superare ed elevar l’altro corpo per ritornar l’equilibrio converrà dare al centro di
gravità una maggior forza sopra il corpo preponderante, ed avvicinarlo, per conseguenza al medesimo sino a quel punto in cui l’altro corpo ritorni ad eguagliarlo, ed a
mantenersi col medesimo in orizontal direzione.
All’enunciata dottrina del centro di gravità spetta ancora quella della linea di
direzione cioè di quella perpendicolare, che dalla sommità di un corpo discender
deve alla sua base per mantenerlo in equilibrio. Se per cagion d’esempio un uomo
s’inchini obbliquamente per linea retta nella parte anterior del suo corpo egli dovrà
15
DISSERTAZIONE SOPRA LA GRAVITÀ
necessariamente cadere, se ad impedirlo egli non avvanza il piede in modo, che sopra
di esso cada perpendicolarmente dal capo la linea di direzione, ciò, che la natura
medesima ci spinge a far tuttogiorno per un moto abituale fatto bene spesso senza
saperne la causa.
Ciò è quello, che di comune consenso viene ammesso intorno alla forza di gravità, sopra la quale fu ragionato da’ Filosofi fino da’ secoli più remoti, e che posto
finalmente in tutto il suo lume è al presente di grandissima utilità alle Fisiche, Meccaniche, e Architettoniche dottrine, e dà anche al dì d’oggi ai moderni Filosofi un
aperto vastissimo campo di osservazioni, e scoperte.
16
DISSERTAZIONE SOPRA L’URTO DEI CORPI
Dovendosi nelle Fisiche dottrine parlare di tutte le cognite proprietà dei corpi
parlasi per conseguenza ancora degli effetti, che da esse vengon prodotti. Di questi, e
di quelle additar si deve la causa, e i varj fenomeni spiegare, che a loro appartengono.
Né il saggio Filosofo si arresta a considerare soltanto quelle proprietà che si scorgono
in ciascun corpo separatamente dagli altri, ma si avvanza e spinge ancora le saggie sue
ricerche sino ad indagare la cagione di quei fenomeni, e di quei varj accidenti che
osservansi nelle diverse unioni incontri, o affinità di più corpi. Frutti di siffatte esperienze dir si possono senza alcun dubbio quei dogmi, e quelle dottrine, che dai Fisici
vengonci enunciate intorno all’urto, o conflitto dei corpi. La verità di quanto affermasi
intorno a ciò vien dimostrata dalla comune esperienza, ed ognuno potrà facilmente
farne la prova. Frequentissime sono alcerto quelle occasioni, nelle quali evidentemente appalesansi quegli effetti, e quegl’incontri, de’ quali hanno già da gran tempo
parlato i Filosofi intorno all’urto de’ corpi. Noi dunque ad esaminarli c’interterremo,
ed assegnar le cagioni di tutto ciò che si offrirà ai nostri sguardi, riguardando come il
più stabil sostegno, e la più ferma prova di quanto verrà da noi esposto, e dimostrato,
la comune universale esperienza.
Se due corpi s’incontrino insieme, e si urtino venendo come a combatter fra loro
diversi saranno gli effetti di quest’incontro secondo le diverse circostanze, nelle quali
il medesimo accade. Dobbiamo noi adunque per stabilirne la causa, e le leggi considerar prima di ogni altro le diverse specie dei corpi, che produr possono quegli effetti
de’ quali ora a ragionar ci accingiamo. Sono i corpi duri, molli, o elastici. Duri son
quelli, che non cedono all’urto degli altri corpi qualunque sia la forza con cui vengono urtati. L’esperienza ci dimostra, che non esiste in natura corpo alcuno a noi noto,
che possa chiamarsi perfettamente duro, poiché niun corpo, è tale che non ceda in
conto alcuno ad una forza sufficiente. Appellasi corpo molle quello che resiste all’urto de’ corpi ed alla mutazione della figura, ossia a quell’affondamento, che in lui
producesi dall’impeto degli altri corpi co’ quali incontrasi; ma che ricevuto in se
stesso il predetto affondamento non si sforza in alcun modo di ricuperare il pristino
suo stato. Elastici diconsi finalmente quei corpi, i quali, e resistono alla forza contraria degli altri corpi che l’urtano, e procurano quindi di riacquistare la perduta figura.
I corpi elastici o hanno un perfetto elaterio cioè ritornano alla primitiva posizione
con la stessa forza, con la quale in lor si produsse l’accennato affondamento, o ciò
non fanno, che con forza minore. Posto tutto ciò noi passeremo a considerare i
diversi effetti dell’urto de’ corpi, e allorché il corpo urtato non può essere smosso, e
allorché il medesimo può ed abbandona infatti lo stato di quiete, accennando quei
principali fenomeni che osservansi in tali incontri. Noi distingueremo i corpi in
elastici, e non elastici, intendendo per corpi non elastici quelli solamente, che già
dicemmo appellarsi corpi molli poiché non conoscendosi in natura corpo alcuno
perfettamente duro noi ci asterremo dal trattarne.
Suppongasi per cagion d’esempio una palla di ferro la quale scagliata
orizontalmente urti in un muro immobile. Nel primo istante il globo pone in opera
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DISSERTAZIONE SOPRA L’URTO DEI CORPI
tutta la forza che ella possiede in proporzione della sua massa, e della sua velocità
contro pochissime parti del muro. A questa compressione esse si arretrano cedendo
alla forza contraria, e rinculando sopra le parti del muro a loro più prossime fanno,
che queste altresì vadano di mano in mano sopra le altre producendo in tal modo un
leggiero affondamento alla superficie del muro. Da ciò ne siegue che il globo sarà nel
secondo istante ritardato del suo moto poiché penetrando egli nell’affondamento
prodotto nel primo istante sarà a contatto di più parti del muro, e per conseguenza
avrà più parti da rispingere, oltrediché essendo esse nel secondo istante più condensate che nel primo sono in grado di fare una maggior resistenza, volendo ancora
tacere dello schiacciamento sofferto nell’incontro anche dal globo percuziente.
Se il corpo urtato sia sensibilmente molle il globo sieguirà a muoversi secondo la
sua direzione finchè la forza impressa sia affatto svanita, ed allora non trovando corpo alcuno capace di opporgli una vigorosa reazione, o si fermerà nel prodotto
affondamento, o ricadrà per il proprio peso. Se poi il corpo percosso sia di sufficiente
durezza il corpo percuziente dovrà ritornare indietro trovando egli nel corpo urtato
una reazione trionfante, e capace di respingerlo per una direzione contraria a quella,
per la quale egli era venuto. Avviene talora, che il corpo percuziente cada dopo l’urto
descrivendo una linea curva. La cagione di un tal fenomeno spiegasi per mezzo della
forza di gravità né è qui del nostro proposito il dimostrarla.
L’urto, di cui trattiamo può accadere ancora tra i corpi elastici. Se il corpo
percuziente, e il corpo percosso siano di uno stesso elaterio il corpo percuziente dovrà dopo l’urto necessariamente tornare per la direzione contraria a quella per cui fu
lanciato poiché ambedue i corpi cedono nell’incontro, e producono in se stessi
un’affondamento uguale ciascuno a quello dell’altro corpo. Quindi sforzandosi ambedue di ricuperare il pristino stato con la forza medesima vengono a combattere in
modo, che immobile essendo il corpo percosso, il corpo percuziente e per la propria
elasticità e per quella dell’altro dovrà necessariamente rimbalzare indietro. La forza
impiegata in tali incontri tanto dal corpo mobile quanto da quello immobile sarà
sempre in proporzione della velocità, e della massa del corpo percuziente, poiché è
chiaro che egli non può nell’urto avere altra forza, che quella, che acquista per mezzo
dell’impulsione, e della quantità della sua materia, e che l’urto, e tutto ciò che accade
dopo di esso non è che un prodotto della forza soprindicata, e deve per conseguenza
essere in proporzione della medesima: e in quanto al corpo percosso egli è dimostrato che la reazione esser deve uguale all’azione onde essendo quest’ultima proporzionale alla forza accennata dovrà essere alla medesima proporzionale ancora la prima.
Dai varj incontri, e dai varj dogmi che abbiam finora proposto potranno dedursi
quelle dottrine che spettano alle diverse altre circostanze nelle quali avenir può l’urto
fra i corpi mobili, ed immobili, di cui finora parlammo. Dobbiamo ora adunque
passare ad esaminare que’ varj fenomeni ed effetti che produconsi per mezzo dell’incontro de’ corpi mobili onde compire in qualche modo la breve nozione del conflitto
de’ corpi che a trattare intraprendemmo.
Dovendo un corpo mobile avvicinarsi ad un altro corpo sia egli in istato di
moto, o di quiete è necessario che l’uno, o l’altro dei corpi percorra lo spazio, od
intervallo, che passa tra di essi ciò che non può farsi, che in tempo finito, il quale
misuri la velocità del corpo mobile. Ciò posto supponiamo due globi non elastici
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DISSERTAZIONE SOPRA L’URTO DEI CORPI
sopra qualsivoglia superficie. Pongasi che ambedue si muovano in una stessa direzione l’uno innanzi all’altro in modo, che il corpo, che è innanzi debba dall’altro esser
raggiunto: si vedrà che dopo l’urto continueranno ambedue a muoversi nella medesima direzione senza declinare né a dritta né a sinistra dividendosi il moto, e la velocità del corpo, che urta tra ambedue secondo il rapporto delle masse, ciò, che è
abbastanza chiaro per se medesimo. Così ancora avverrà se il corpo urtanto sia in
istato di quiete; cioè la velocità del corpo, che urta verrà divisa fra esso, e il corpo
urtato secondo la quantità della materia dell’uno, o dell’altro, e quest’ultimo si moverà, e scorrerà sopra la superficie nella direzione istessa del corpo, che urta. Se poi
questi due corpi si muovano in una medesima linea ma in direzioni contrarie allorché
essi vengano ad urtarsi se ritrovinsi avere una stessa velocità non potendo l’uno vincere l’altro dovranno necessariamente ridursi alla quiete; ma se l’uno dei corpi sia di
massa maggiore dell’altro, o sia stato avanti l’urto di maggior velocità la forza che
resta ancora dopo l’urto si dividerà fra ambedue i corpi in proporzione della massa,
ed i medesimi si muoveranno l’uno nella stessa direzione dell’altro. Noi non ci tratterremo ad esporre alcune leggi spettanti agl’indicati dogmi, ed a quelli, che ancora
ci restano a spiegare, sì perché queste non posson dirsi necessarie alla perfetta nozione delle presenti dottrine sì perché mi sembra appartener esse piuttosto al moto, che
all’urto de’ corpi.
«Si vede, come si esprime il Sig.r Brisson [7], da quel, che abbiamo detto dell’urto
de’ corpi non elastici:
1. Che quando dopo l’urto le direzioni de’ moti de’ corpi, che si urtano sono nell’istesso
senso; esiste allora ne’ due corpi riuniti una quantità di moto eguale a quella che
susisteva nell’uno de’ due, o in ambedue avanti l’urto.
2. Che quando le direzioni de’ moti di questi corpi sono in senso contrario perisce, se
non tutto, almeno una parte del moto, e che se ve ne resta dopo l’urto la quantità,
che vi rimane, è eguale alla differenza delle due quantità avanti l’urto».
Nell’urto de’ corpi elastici mobili distinguer si possono due specie di moto l’uno
cioè primitivo, il quale viene da un corpo all’altro communicato e l’altro di elaterio
prodotto dalla reazione de’ corpi elastici. Ambedue queste specie di moto si osservano nei susseguenti fenomeni. Se di due corpi di ugual massa perfettamente elastici
posti sopra una superficie qualunque l’uno sia in istato di moto, e l’altro di quiete
urtando il mobile in quest’ultimo verrà a communicargli una parte del suo moto in
proporzione delle masse. Ambedue i corpi soffriranno allora uno schiacciamento
secondo il rapporto della velocità, con la quale venne a formarsi il loro urto. Il corpo
in quiete ricupererà la sua prima figura per mezzo della sua elasticità, ed essendo la
reazione uguale all’azione egli verrà in tal modo ad acquistare una velocità uguale a
quella, che gli è stata communicata, e per conseguenza egli avrà una quantità di
moto dupla di quella, che in uguali circostanze avrebbe acquistato un corpo non
elastico. Quello poi, il quale communicagli il suo moto, o resterà perfettamente in
istato di quiete, o dovrà moversi in senso contrario se il suo moto di elaterio eccede il
restante della sua prima velocità.
Se poi questi due corpi si muovano ambedue per una medesima linea, ma in
direzioni contrarie ambedue si separeranno per mezzo della loro elasticità, e la loro
velocità respettiva sarà uguale a quella, che essi avevano prima dell’urto poiché, come
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DISSERTAZIONE SOPRA L’URTO DEI CORPI
si esprime il sopracitato Sig.r Brisson «Se questi due corpi fossero senza elaterio, o si
fermerebbero reciprocamente, o l’un de’ due trasporterebbe l’altro, come abbiamo detto di
sopra. Si separano dunque in virtù della loro reazione, ma questa reazione, è eguale alla
compressione cagionata dall’urto, e la compressione è come la velocità respettiva avanti
l’urto; la velocità, che ne risulta dopo l’urto deve dunque essere simile».
Da ciò, che finora abbiam detto intorno all’urto de’ corpi elastici potranno dedursi quelle varie dottrine, e potranno conoscersi quei varj effetti che risultano dalle
altre circostanze nelle quali può accadere l’urto de’ corpi sopraddetti. Tutto quello
che da noi fu esposto circa il conflitto dei corpi essendo come dicemmo fondato
principalmente sopra la quotidiana, volgare esperienza, e venendo approvato da tutti
i più colti, e sensati Filosofi, non può non essere ammesso, che da quelli, i quali
sembrano aver dalla natura sortito un odiosissimo spirito di perpetua contradizione
direttamente opposto alle regole della società, ed alle leggi del buon costume. Da
avversarj di tal fatta io credo però esenti le accennate proposizioni intorno all’urto, o
conflitto de’ corpi poiché nulla vi è in esse, per mio avviso, che possa in qualche
modo oppugnarsi nemmeno dai più sagaci, ed ostinati nemici delle patenti verità.
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DISSERTAZIONE SOPRA L’ESTENSIONE
Varie sono quelle proprietà spettanti alla materia, che appartengono, e dipendono ancora dall’estensione comune generalmente a tutti i corpi. Noi intendiamo per
estensione lo spazio, che corre tra i limiti di un corpo qualunque non eccettuato
neppure quello, che si scorge tra più corpi, il quale non è occupato, che dall’aria. A
questo punto di Fisica appartiene la celebre questione intorno al vuoto, di cui l’esistenza vien dai Peripatetici negata, e la possibilità dai Cartesiani [9]. Il Jacquier [15]
francamente afferma la sua esistenza, la quale vien dal medesimo dimostrata con
ragioni da lui chiamate validissime, ma che in effetto possono senza gran difficoltà
essere ribattute. Nondimeno dai fautori di questa proposizione apportasi un argomento, il quale può non poco contribuire a determinarne la verità. Lo spazio essi
dicono non occupato dai corpi visibili verrà occupato dall’aria, ma l’aria ha i suoi
pori, i quali non potranno essere riempiuti, che da un etere più sottile, ma ancor egli
poroso poiché ciascun corpo in natura ha siffatta proprietà. Onde l’etere avrà sempre
i suoi pori, e quantunque essi siano riempiuti da altri Fluidi questi altresì saranno
similmente porosi, e così anderebbesi in infinito, il che essendo evidentemente inammissibile deve necessariamente affermarsi l’esistenza del vacuo. A ciò vien risposto
dagli avversarj del presente sistema con alcune ragioni, che a dire il vero non soddisfanno perfettamente, per mio avviso, alla proposta obbjezione onde io reputo più
sano consiglio il restare indeciso fra gli opposti pareri circa il vacuo, di quello, che
intrigarsi in siffatte questioni, da cui non si potrà finalmente ritrarre il piede, che
incerti, e confusi ancor più di quando alle medesime si dette principio poiché per
confessione di ambedue le parti nulla vi è, che possa decidere di siffatta questione in
riguardo ai sensi onde sempre dubbiosa sarà qualsivoglia dottrina vertente sopra un
tal punto. Non credo poi, che alcun sensato Filosofo ammetter possa, che il vacuo sia
intrinsecamente impossibile poiché nulla certamente ripugna, né implica
contradizione nell’esistenza del vuoto, ed il medesimo è per conseguenza possibile.
Lasciate adunque simili questioni noi passeremo ad esaminare le proprietà dell’estensione dei corpi con tutto ciò, che ad essa appartiene, il che è cone dicemmo di
moltiplice argomento. In tutto ciò, che da noi verrà esposto si avrà sempre per guida
il senso comune, e l’opinion dei Filosofi.
Dal modo, nel quale l’estensione vien definita egli è chiaro, che ciascun corpo è
esteso. L’estensione è composta di tre dimensioni lunghezza, cioè, larghezza, ed altezza, o profondità; ciascuna delle quali vien contenuta tra i limiti determinati, e lo
spazio, che passa tra di essi è quello, che propriamente appellasi estensione. Queste
tre dimensioni sono comuni universalmente a tutti i corpi poiché, al dir di Brisson
[7], «ciascun corpo per quanto piccolo esso sia ha sempre un di sotto, e un di sopra una
parte anteriore, e una parte posteriore, un lato sinistro, ed un lato destro, e tutto ciò preso
insieme forma una lunghezza, una larghezza, ed una grossezza… È vero che non vediamo queste dimensioni in tutti i corpi; ve ne son di così piccioli, che i nostri occhi non
possono scorgerli ne’ la nostra mano distinguerli, ma siccome in tutti i corpi che cadono
21
DISSERTAZIONE SOPRA L’ESTENSIONE
sotto i nostri sensi troviamo quest’estensione possiamo affermare, che ella e’ propria di tutti
i corpi in generale».
Varie sono come dicemmo quelle proprietà dei corpi, che appartengono alla
loro estensione. Di questo numero sono l’impenetrabilità, e penetrabilità dei corpi.
Ambedue spettano a qualsivoglia ente materiale, e debbono annoverarsi fra quelle,
che formano il carattere della sostanza corporea. La pentrabilità è quella, per mezzo
di cui un corpo dà libero accesso in se medesimo ad altro corpo di lui più sottile. Ciò
avviene con l’ajuto dei pori ossia di alcuni tenuissimi forami, che in minima distanza
l’uno dall’altro si ritrovano nei corpi ancor più compatti. Il chiarissimo Dufai nei
Monumenti parigini accenna una specie di liquore, col quale se venga delineata alcuna immagine sopra la superficie ancora de’ marmi più duri potrà la medesima distinguersi fino sull’altra superficie del marmo, il che non potrebbe avvenire se per mezzo
dei pori non fosse il liquore disceso per i diversi strati del medesimo. Questo, ed altri
moltissimi esperimenti ci dimostrano, che in ciascun corpo si ritrovano siffatti pori,
e che per conseguenza tutti i corpi sono penetrabili. Questi pori son quelli, per mezzo de’ quali accade negli animali la traspirazione chiamata Santoriana perché prima
di ogni altro conosciuta dal celebre Santorio [27]. I medesimi osservati da
Leeuwenhoek[18] sotto le picciole squamme dell’epiderma occupano secondo il suo
computo in numero di 125.000 lo spazio soltanto di un picciolo granello di arena.
Moltissime esperienze apportar si potrebbero per consolidare la verità della nostra
proposizione cioè che ciascun corpo è penetrabile, ma a tal uopo io credo sufficienti
le già indicate osservazioni essendo omai la generale penetrabilità, e porosità dei
corpi universalmente ammessa, ed approvata.
Altra proprietà generale dei corpi spettante alla loro estensione ell’è come dicemmo l’impenetrabilità detta ancora solidità dai Fisici. Questa proprietà è quella,
per mezzo di cui un corpo si sforza di rimanere nel luogo, che egli occupa, il quale
non può essere occupato da un altro, se egli non ha forza sufficiente a spingere il
primo, e toglierlo dal luogo ove egli si ritrovava. Un corpo resiste ancora a quello, che
vuole impedirgli di rimanere nella sua posizione. L’aria medesima, l’acqua, e
qualsivoglia fluido sono impenetrabili, e egli è evidente che se vuolsi por nell’acqua
alcun corpo, o passare a tramezzo dell’aria circostante, tutto ciò non potrà farsi che
obbligando l’aria, e l’acqua ad abbandonare quel luogo, che vuolsi occupare, e costringendole a ritirarsi, e lasciar libero lo spazio in questione; esse però resisteranno
per quanto è in loro potere alla forza contraria. «Vi sono, al dir del sopracitato Scrittore, certi corpi che sembrano lasciarsi penetrare, ma non è che una penetrazione apparente, e non reale. Per esempio una spugna riceve, e ritiene interiormente una gran quantità d’acqua, ma quest’acqua, va a posarsi ne’ vuoti che si trovano fra le parti della spugna, e non occupa niente affattto il luogo delle parti proprie della spugna. Si può dire lo
stesso di un pezzo di zucchero, di una pietra tenera ec. La pietra delle cave di Bourè
vicino a Montrichard nove leghe distanti da Tours ritiene più di venticinque libbre di
acqua per piede cubico. Ma quest’acqua va ad occupare gli spazj, che le parti della pietra,
o dello zucchero lasciano vuoti della loro propria sostanza ne’ mai il luogo che occupano
quelle medesime parti». La dottrina dell’impenetrabilità dei corpi spetta in gran parte
alla forza d’inerzia essendo la resistenza, che fa il corpo a chi vuol toglierlo dal proprio luogo un prodotto della medesima.
22
DISSERTAZIONE SOPRA L’ESTENSIONE
Viene altresì annoverata tra le proprietà dei corpi appartenenti alla loro estensione la divisibilità . Ciascun corpo è formato da particelle, e di molecole unite insieme
per mezzo dell’affinità d’aggregazione, di cui sono dotate. Essi sono dunque divisibili,
cioè le sue particelle possono essere slegate, e scomposte, le quali particelle essendo
formate di altre molecole ancor più sottili possono anch’esse per conseguenza esser
divise. Infatti noi non possiamo immaginarci un corpo sebben minimo, nel quale
non supponiamo due metà , e per conseguenza può senza dubbio affermarsi esser la
materia divisibile in infinito numero di parti infinitamente picciole. Deve avvertirsi,
che noi non intendiamo di dire che un corpo sia divisibile in infinito fisicamente, ma
soltanto geometricamente, e per mezzo de’ voli astratti dell’umana immaginazione. In
conseguenza di ciò un corpo ancor sottilissimo può esser diviso in infinite superficie
d’infinita sottigliezza. Moltissimi sono quegli esperimenti, con i quali vollero i Fisici
dimostrare la divisibilità dei corpi in modo evidentissimo. Tra questi ell’è utilissima
l’osservazione riportata dal celebre Poli [25] circa i raggi della luce, poiché «quantunque, com’egli si esprime, siffatti lumi non decidano se il campo assegnato alla rapportata
divisione si estenda all’infinito, nulladimeno ci mostrano ad evidenza, che la materia è
capace di esser divisa in un numero di parti così immenso, che giunge fino a stancare la
più vivace immaginazione.
Se in una notte serena, segue il mentovato Scrittore, pongasi a cielo aperto una
candela accesa, diffonderà questa tanta luce, che si potrà agevolmente scorgere fino alla
distanza di due miglia ossìa di 10 mila piedi tutt’all’intorno. È noto presso de’ Matematici, che uno spazio sferico, che abbia il semidiametro di 10 mila piedi in se contiene 4
bilioni 190 mila 40 e più milioni di piedi cubici. Pervia di un agevol sperimento si può
rilevar di leggeri, che una candela di sego di sei a libbra può continuare a bruciare per lo
spazio di cinque ore, e quindi che nello spazio di un secondo viene a consumarsi 1/14
parte di un grano di sego, che però egli è chiaro che le particelle di luce sviluppate da 1/14
di un granello di sego illuminano uno spazio sferico che in se contiene 4 bilioni 90 mila
40 e più milioni di piedi cubici per lo continuato intervallo di un secondo. Ciocchè a dir
vero ci fà rilevare, che la picciolezza delle particelle della materia è immensa a segno tale
che supera di molto la forza della nostra immaginazione, la quale resterà vie maggiormente imbarazzata, e confusa dal riflettere, che essendo la luce lanciata dai corpi luminosi con indicibile celerità, l’anzidetto spazio sferico viene ad essere riempiuto più migliaja
di volte nell’intervallo di un secondo da quella luce che si sviluppa da 1/14 di un granello
di sego. (I principj della moderna Chimica dimostrano che la luce, e la fiamma non si
sviluppano dal corpo che brucia ma bensì dall’aria vitale allorché l’ossigeno passa nel
combustibile insieme con il calorico, e con la luce, con cui era unito, e che abbandonando
l’aria vitale, si svolgono, e formano il fuoco)».
A dimostrare la divisibilità della materia può servire la nota esperienza, la quale
prova che una piccola porzione di sale può ammettere in se stesso un oceano di
acqua, la quale penetrando fra le intime molecole del sale le discioglie, e le separa in
altre ancor più picciole, e queste in altre maggiormente sottili, e così andando in
infinito in modo, che l’accennata porzione di sale resta distribuita per tutta l’acqua
dissolvente, ed accrescendo ancora quest’ultima essa resterà salata in tutte le sue parti, ciò che può vedersi per mezzo di un agevole esperimento. È noto ancora presso i
Chimici che un piccola parte di aria può occupare un vastissimo spazio, ed essere
23
DISSERTAZIONE SOPRA L’ESTENSIONE
sempre più dilatata per mezzo del calorico, il quale penetrandola per ogni parte ne
separa le più minute particelle e la mette in istato di occupare uno spazio sempre
maggiore a misura che accrescendosi il calorico si accresce la forza, e l’attività del
medesimo a separare disciogliere, e dividere le molecole di quella piccola porzione di
aria. Viene ancora riferito dal chiarissimo Abbate Nollet [22] un esperimento, nel
quale ponendosi una qualsivoglia sottilissima moneta nel mezzo di una fiamma di
zolfo sublimato essa si divide in due laminette secondo il suo piano, e talvolta una
delle due laminette essendo più sottile dell’altra lascia in quest’ultima l’impressione
del conio in modo che la moneta non sembra sensibilmente diminuita. Ciò avvene
perché al dir del mentovato Scrittore «la parte più sottile dello zolfo che si sviluppa
nell’ardere, e che s’insinua quinci, e quindi tra le parti del metallo dilatato dal fuoco
forma nell’interiore della moneta, e secondo il suo piano un suolo di materia straniera al
metallo, che cagiona la divisione, e che si ravvisa quando le parti sono separate».
Da ciò, che si è detto della divisibilità dei corpi egli è evidente che ciascuna
particella per picciola che ella sia deve sempre terminare in superficie; diversamente
ella non potrebbe esser divisibile poiché il punto geometrico è affatto indivisibile. Ciò
serve a spiegare in qualche modo la natura della figurabililtà dei corpi, la quale viene
pure riconosciuta come un atttributo della materia spettante alla di lei estensione.
Noi intendiamo per figurabilità quella proprietà, che hanno i corpi di possedere una
qualche figura. Questa figura deve sempre terminare in superficie per l’anzidetta
ragione, e non essendovi corpo alcuno che non abbia qualche superficie egli è chiaro,
che non vi sarà neppure corpo alcuno, che non sia figurato. Ed infatti non possiamo
noi concepir la materia se non dandogli qualche figura, la quale sarà sempre determinata da alcuna benché minima superficie. Da ciò si comprende, che la figurabilità è
un necessario attributo della materia, il quale l’accompagna in qualunque stato ed in
qualunque circostanza. Quei corpi ancora di cui la picciolezza impedisce all’occhio
di conoscerne la figura debbono nondimeno averne alcuna per l’enunciate ragioni
come facilmente può scorgersi per mezzo d’istrumenti, che soccorrano la debolezza
dei nostri sensi.
Tali sono i pensieri del saggio Filosofo circa l’estensione, pensieri dalla moderna
Fisica dilucidati, e ripuliti dalle macchie degli antichi errori, di cui non erano certamente scevri. L’enunciate dottrine intorno all’estensione, ed alle proprietà dei corpi
ad essa spettanti sono al presente ammessi dalla maggior parte dei savj Fisici, i quali
se ne resero certi con raddoppiate osservazioni, e ripetute esperienze.
24
DISSERTAZIONE SOPRA L’IDRODINAMICA
È l’Idrodinamica quella parte di Fisica, che considera le generali proprietà dei
fluidi, e ne apporta le cause, e le leggi. Noi chiamiamo fluidi quei corpi, le di cui
particelle non hanno fra loro alcun’aderenza sensibile, e per conseguenza si separano
facilmente le une dall’altre, e cedono a qualsivoglia urto, o forza, sebben leggerissima. L’Idrostatica, e l’Idraulica sono quelle parti, in cui l’Idrodinamica vien divisa.
L’Idrostatica accenna, e dimostra quei varj dogmi, e quelle diverse leggi circa la gravità, e l’equilibrio dei fluidi, che dalla moderna Fisica al presente conosconsi. Deriva
la denominazione di questa scienza dalla greca voce «υδωρ» cioè acqua, e dal vocabolo Statica, per conseguenza Idrostatica vale Statica dell’acqua, ossia dei fluidi. Per
mezzo di questa scienza giunse Archimede [2] a discuoprire il furto di quegli che
fabbricata avea la corona di Gerione Re di Siracusa, per il che narrasi, che egli preso da
improvvisa gioja uscendo dal bagno esclamasse gridando di aver ritrovato quanto
bramava. L’Idraulica, che all’Idrostatica succede trae il suo nome dalle Greche voci
«υδωρ» cioè acqua e «αυλοσ» cioè tromba. Ella tratta del moto dei fluidi, e delle
leggi osservate da questi nella loro progressione. Queste due scienze, che insieme
unite presentano una perfetta generale Teoria del fluidi formano ora il soggetto del
nostro discorso. Noi dunque consideremo in prima la natura, e la causa della fluidità
dei corpi, passeremo quindi ad esaminare la gravità, ed equilibrio de’ fluidi, e le leggi
apporterem finalmente, e le proprietà del moto dei medesimi.
Gli antichi ammettevano come causa della fluidità, la figura sferica delle particelle fluide, e la forza ripulsiva esistente in date distanze tra le medesime. Egli è
provato dalla moderna Fisica, che l’idea, che gli antichi formavansi della ripulsione è
totalmente chimerica, e che questa non è che una forza puramente passiva. Quella
sostanza ora perfettamente conosciuta, che forma in gran parte il fondamento della
moderna Chimica è quella, per mezzo di cui spiegasi evidentemente la causa della
fluidità dei corpi. Io intendo parlar del calorico. Questa sostanza sussiste nei corpi in
diversi stati, vale a dire in istato di libertà, e di combinazione. Allorché egli è in un
corpo in istato di libertà noi facilmente ce ne avvediamo per il senso, che eccita nei
nostri organi, ma non così ci vien fatto di conoscere la sua presenza allorché egli è in
un corpo in istato soltanto di combinazione, poiché esso non è allora, che un calorico
latente, il quale accresciuto a qualsivoglia grado non potrà giammai esserci sensibile.
Questo medesimo si sviluppa bene spesso nella decomposizione di alcun corpo, ed
allora ponendosi in istato di libertà eccita in noi il senso del calore. Se egli è un corpo
ad una data quantità in istato di combinazione, il medesimo soffre una continua
rarefazione delle sue parti, ed è per conseguenza fluido. A misura, che si accresce, o
sminuisce il calorico di un corpo, il che avviene in proporzione dell’affinità, che ha
quest’ultimo con il primo egli diverrà successivamente aeriforme, liquido, o solido, e
la densità delle sue parti sarà in ragione inversa del calorico esistente fra le medesime.
Un esempio evidentissimo di tutti gli accennati effetti del calorico ci vien somministrato dall’acqua. Se la medesima venga in un vaso qualunque esposta al fuoco in un
dato tempo ponendosi il calorico, sostanza d’impercettibil sottigliezza, tra le mole25
DISSERTAZIONE SOPRA L’IDRODINAMICA
cole dell’acqua, e queste medesime dividendo, e riducendo in minime particelle, egli
renderà il liquore invisibile, ed aeriforme sollevandolo in istato di vapore. Questo
medesimo perdendo per un cangiamento di temperatura una parte del suo calorico,
si condensa ad un dato punto, e forma le nubi. Sminuendosi il suo calorico egli torna
allo stato di liquidità, e cade per il proprio peso sulla terra. Quivi abbassandosi la
temperatura al grado di gelo, egli perde il calorico necessario a mantenerlo nello
stato di liquore, il quale si manifesta rarefacendo l’aria tenuta dall’acqua con se combinata in istato di somma densità, e superando tutti gli ostacoli, che si oppongono
alla dilatazione della medesima. L’acqua rimane allora in istato di solidità. In tal
modo chiaramente spiegasi la causa della fluidità, e dimostrasi, che ogni fluido è
composto di particelle solide, e non è in effetto, che un corpo solido rarefatto.
Egli è dimostrato, che i fluidi gravitano verso il centro del globo, sebbene diversamente dai corpi solidi, poiché le di loro molecole esercitano la loro gravità indipendentemente le une dalle altre, per non aver fra se medesime veruna sensibile
coesione. Fuvvi un tempo, in cui credeasi, che i fluidi non gravitassero dentro al
proprio elemento, cioè, per cagion d’esempio, che l’aria non fosse grave nel seno
dell’atmosfera, l’acqua non esercitasse pressione alcuna sopra gli strati inferiori della
propria sostanza, e così di qualsivoglia fluido. La falsità di questa proposizione vien
dimostrata da un agevole esperimento. Appendasi al braccio di una bilancia un’ampolla otturata, ed immersa in qualsivolgia liquore, equilibrandola con un peso qualunque, posto all’altra parte della bilancia. Ciò fatto disturisi l’ampolla in modo, che
il liquore, in cui è immersa, entri liberamente nella medesima. Si vedrà, che l’ampolla prepondera scendendo al fondo del vaso, e che non può alla bilancia restituirsi
l’equilibrio, se non aggiungendo all’altra parte della medesima un peso equivalente a
quello del liquore contenuto nell’ampolla, il che fatto tornerà il tutto al primo suo
stato. Da un tale esperimento dimostrasi la falsità dell’accennato principio, il quale
non è al presente ammesso da alcun sensato Filosofo.
I Fluidi esercitano la loro pressione in ogni senso, e in qualunque direzione
poiché, al dir del celebre Saverio Poli [25] «La gravità, onde i fluidi sono dotati fa sì che
le loro parti superiori premano contro le inferiori, e la loro somma mobilità, procedente
forse dall’esser elleno di figura sferica, o d’altra, che alla sferica s’accosta, cagiona, che una
tal pressione si faccia parimenti verso i lati, e in direzioni obblique. Per virtù della forza
d’inerzia le parti inferiori premute, debbono riagire contro le superiori quelle di diritta
contro quelle di sinistra, e quelle che sono in direzione obbliqua contro le loro opposte. Per
conseguenza la pressione non solamente succederà in essi per ogni verso ma sarà eziandio
uguale verso tutte le parti, ed ecco il principio del loro equilibrio. Qualunque cagione, che
lo distrugge, mette il fluido in movimento, né questo cessa fino a che non si restituisca di
bel nuovo la pressione uguale dappertutto». A ciò aggiunge il chiarissimo Sig.r Dandolo
[8] nelle sue note ad un tal passo, che «Se una particella non fosse premuta egualmente
per ogni direzione, essendo per ipotesi priva d’ogni tenacità, si moverebbe per la seconda
legge del moto da quella parte, verso cui la forza è minore, contro l’ipotesi. Dunque nei
fluidi per aver l’equilibrio bisogna, che ogni particella sia premuta egualmente per ogni
direqione. Così vicendevolmente se v’ha equilibrio sarà premuta ogni particella egualmente
per ogni direzione. Se dunque verrà diminuita la pressione in qualche luogo da qualunque causa si sia il fluido si moverà finché la pressione d’ogni particella riesca eguale per
26
DISSERTAZIONE SOPRA L’IDRODINAMICA
ogni direzione cioè finché si restituisca l’equilibrio». Essendo il livello dei fluidi un
effetto della gravità delle loro molecole, la qual forza li spinge costantemente verso il
centro della terra, avviene, che le superficie dei fluidi sieno concentriche alla medesima. Ciò facilmente si scorge in un vasto tratto di mare, nel quale una nave in data
distanza, o del tutto si nasconde ai nostri sguardi, o non lascia scuoprirci, che la
sommità del suo albero interrotto essendo il raggio visuale dalla convessità della
terra, o del mare. Dalla enunziata dottrina circa l’equilibrio dei fluidi deriva, che un
corpo immerso in un fluido, il quale sia di gravità specifica minore di quest’ultimo,
deve necessariamente restare a galla del medesimo, laddove un corpo di maggior
gravità specifica non può mantenersi in tale stato, ma cade al fondo del recipiente del
fluido, e che un corpo di gravità specifica uguale a quella di quest’ultimo può
mantenervisi in qualunque luogo. Ed infatti, come esprimesi il sopralodato Sig.r Poli
«Una palla di sughero qualora fosse immersa nell’acqua fino ad una certa profondità,
costituirebbe parte della colonna di fluido, che gli sovrasta, e quindi premerebbe in giù col
suo peso unito al peso di quella contro una egual colonna dello stesso fluido. Questa
riagendo premerebbe il sughero, e ‘l fluido sovrastante verso su, e siccome questa pressione
deriva dalla forza d’inerzia, dev’essere proporzionale alla quantità della materia, ond’è
che sarà maggiore nella colonna sottoposta al sughero, che in quella, che vien formata dal
sughero stesso, e dalla colonna sovrastante per essere il sughero specificamente più leggero
dell’acqua. Per la qual cosa ne dovrà necessariamente seguire, che pressione di siffatta
colonna verso giù sarà vinta dalla pressione opposta della colonna che le resiste e quindi
verrà il sughero rispinto in su coll’eccesso di quest’ultima ossia colla differenza che v’ha tra
la pressione delle due indicate colonne». Egli è dimostrato per mezzo di esperimenti,
che se si renda nulla la pressione della colonna inferiore un corpo, benché specificamente più leggiero della medesima, può nondimeno mantenersi nel fondo del suo
recipiente. In quanto a quei corpi che hanno una maggior gravità specifica di quella
del fluido, in cui sono immersi egli è chiaro, che la sua pressione unita a quella della
colonna superiore vincerà la resistenza della colonna inferiore, e che egli per conseguenza scenderà al fondo del vaso. Quei corpi finalmente, che sono dello stesso peso
specifico del fluido, in cui son posti si manterranno in qualunque luogo del vaso per
quella stessa ragione, per cui vi si mantengono le differenti particelle del fluido medesimo. Ogni corpo, e per la pressione, che soffre in tutte le sue parti da quelle del
fluido, e per la forza che fa la colonna inferiore dello stesso per rispingerlo in alto,
perde nel medesimo tanto del suo peso, quanto è quello del volume di fluido, che
egli ha tolto dal suo luogo. E poiché la pressione, e reazione del fluido è in ragione
diretta della sua densità perciò il peso perduto dal corpo nell’immersione è anch’egli
in ragione diretta della densità del fluido, in cui è posto. Tutto ciò vien dimostrato
dal seguente esperimento. Appendansi alle braccia di una bilancia due corpi qualunque atti a mantenerla in equilibrio. Quindi uno di questi corpi s’immerga in
qualsivoglia liquore restando l’altro nel primo suo stato. Nel momento dell’immersione quest’ultimo prepondererà al corpo immerso ritornando poi al suo luogo se
all’altra parte della bilancia si aggiunga il peso del volume di fluido tolto dal corpo
immerso dal suo luogo, il che fatto si restituirà l’equilibrio.
Noi non potremmo parlando dell’Idrostatica passare sotto silenzio i fenomeni
dei tubi capillari. È noto che se i medesimi s’immergano in un vaso ripieno di liquo-
27
DISSERTAZIONE SOPRA L’IDRODINAMICA
re, quest’ultimo ascende immediatamente nel tubo ad un’altezza, che è in ragione
inversa del diametro del tubo: che all’opposto il mercurio discende nel medesimo, e
la sua discesa è così in ragione inversa del diametro di quest’ultimo, e che finalmente
i liquori nell’ascendere non osservano alcuna legge nota rispetto alla diversa loro
natura. Questi fenomeni possono spiegarsi per mezzo dell’etere Cartesiano, poiché
in questo sistema non si dà ragione alcuna, per cui i fluidi più gravi ascendono
talvolta ad un’altezza maggiore di quella dei più leggeri. Quelli che spiegano i surriferiti
esperimenti per mezzo della pressione dell’aria non avvertono, che nel vuoto
boyliano[5] si osservano i medesimi fenomeni con maggiore evidenza. Resta dunque
soltanto, che gli enunziati effetti si attribuiscano ad una forza attraente. Egli è chiaro,
che alcuni liquori hanno con altri corpi maggiore affinità che colle proprie parti,
poiché se una goccia d’acqua, per cagion d’esempio, sia costretta dal proprio peso a
separarsi da uno di questi corpi, ella non si distacca dalla superficie del medesimo,
ma lascia appesa ad essa una parte di se. Superando adunque l’attrazione del tubo
quella delle parti stesse del liquore, egli dovrà ascendere nel medesimo ad una data
altezza, e questa in ragione inversa del suo diametro poiché quanto egli è maggiore
tanto si accresce la forza di gravità del liquore ascendente, la quale equilibrandosi con
la forza di attrazione contraria lo mantiene sospeso in un dato punto, e si oppone alla
sua maggiore elevazione. Quanto più il liquore è affine alla materia del tubo tanto
maggior peso si richiederà a superare l’attrazione del medesimo e conseguentemente
dovrà ascendere ad una maggiore altezza. Allorché poi l’attrazione delle molecole del
fluido supera quella del tubo, come avviene nel mercurio il medesimo dovrà discendere nel tubo in ragione inversa della sua massa, il che è totalmente consentaneo agli
esperimenti. Noi non ci fermeremo a contendere se la forza di attrazione venga esercitata successivamente dai diversi anelli del tubo o dall’intera sua superficie, non
potendo ciò venir determinato in alcun modo ad onta di tutti gli sforzi, e di tutte le
ragioni apportate dai fautori di ambi i sistemi.
Ciò che finora dicemmo esser può sufficiente a spiegare le varie dottrine
dell’Idrostatica. Noi non considererem, che di volo le proprietà del moto dei fluidi
per non mancare alla brevità che ci siamo prefissa. Un fluido sperimenta nel suo
moto tutti gli ostacoli, che i solidi sperimentano, i quali son capaci di arrestare il suo
corso. Così un fiume verrebbe a fermarsi nel suo letto se la forza comprimente dell’acqua, che non cessa di scaturire dalla sua sorgente con una continua impulsione
non lo ponesse in perpetuo moto. Egli può in tal modo ascendere ancora per una
direzione verticale, come sperimentò il Sig.r Pitot [24] socio dell’Accademia parigina
il quale ponendo in un fiume un tubo piegato rettangolarmente vide, che l’acqua
riempiendo subitamente il canaletto orizzontale si elevò nel canaletto verticale sino
ad una convenevole altezza, la quale, com’egli ragionevolmente asserisce, esser deve
in proporzione della velocità del fiume. I fluidi resistono a qualunque forza, che
voglia metterli in moto, o cangiare in loro la direzione del medesimo, il che è un
prodotto della Forza d’inerzia, che opera in essi non meno che nei solidi. In quanto
poi alle leggi del loro moto esse sono in gran parte quelle medesime, che vengono
osservate dai solidi nel loro movimento. Noi ci asterremo dunque dal parlarne, non
essendo ciò necessario a stabilire una perfetta Teoria dell’Idrodinamica, i di cui dogmi procurammo finaddora di porre nel suo maggior lume possibile.
28
DISSERTAZIONE SOPRA I FLUIDI ELASTICI
I Fluidi si appellano elastici allorché si sforzano di ricuperare lo stato, in cui
erano prima, che da una forza estranea venisser costretti ad abbandonarlo. I Fisici
ricercano da gran tempo la causa di questa proprietà, e diversi sistemi propongono
per dimostrarla. Quelli di Cartesio [9], di Malebranche [20], di Newton [21] sono
soggetti a grandissime difficoltà che li rendono, o del tutto assurdi, o sommamente
difficili ad ammettersi. Afferma il primo che la elasticità di un corpo non provenga,
che dalla materia sottile, la quale, ristringendosi i pori in cui essa era contenuta,
come avviene nella superficie concava di una verga elastica piegata in modo di arco,
si sforza di uscirne, e rende in tal modo il corpo elastico alla sua prima figura. Oltreché
la materia sottile cotanto decantata dai Cartesiani è al presente annoverata tra quelle
ipotesi Filosofiche, che dalla moderna Fisica vengono totalmente proscritte, è da
osservarsi, che allorché si comprime una verga elastica i pori della superficie convessa
si dilatano onde la materia sottile può senza alcun impedimento occuparli abbandonando il corpo che essa riempie allo stato, in cui si ritrova. Inoltre questa materia
sottile essendo per ipotesi in tutti i corpi, elastici per conseguenza esser dovrebbero i
corpi tutti, il che è evidentemente falso. Il medesimo principio vale ad abbattere il
sistema di Malebranche, il quale suppone, che un vortice della sopraddetta materia
sottile sia in perpetuo moto entro tutti i corpi, e venga in tal modo a restituirli al loro
pristino stato. Il sistema di Newton, che ammette l’attrazione delle molecole di un
corpo come causa della sua elasticità non è similmente ammissibile poiché in esso
non si rende ragione perché alcuni corpi perdono, o in parte, o tutta la loro elasticità
col mezzo di una compressione di lunga durata. Noi vedremo in progresso qual sia la
causa dell’elasticità dell’aria, e degli altri fluidi aeriformi ne’ quali mai vien meno
questa proprietà. Riguardo all’elasticità degli altri corpi noi non ci faremo alcuna
difficoltà a confessare, che la cagione ce ne è peranco ignota. I Filosofi commetterebbero assai meno errori se si contentassero di esaminare gli effetti di una proprietà
senza volerne inutilmente indagar la cagione. Noi passeremo pertanto a parlare dei
Fluidi elastici, e prenderemo con piacere l’occasione di trattare dell’aria, e delle sue
proprietà non meno che del suono, di cui essa è il principale instrumento.
I Fluidi elastici sono composti ciascuno di una sostanza combinata con il calorico
in istato aeriforme. Di essi altri chiamansi permanenti, ed altri non permanenti. I
Fluidi elastici permanenti son quelli, che a qualsivoglia temperatura, o pressione
conservano sempre il loro stato aeriforme al contrario de’ Fluidi elastici non permanenti, i quali non lo conservano, che ad un certo grado di pressione; tali sono i
vapori. Tutti i fluidi permanenti appellansi gas, e si distinguono dal nome di quella
sostanza, che forma la loro base. Per cagion d’esempio l’idrogeno combinato con il
calorico forma un fluido elastico chiamato gas idrogeno. Un gas acido vien composto da una sostanza combinata con il calorico, e con l’unico principio acidificante
cioè l’ossigeno. I Gas dividonsi in vivificanti, e soffoganti. I Gas vivificanti son quelli,
che servono alla respirazione degli animali, e alla combustione dei corpi. Questi si
riducono a due, che appellansi arie, e sono l’aria atmosferica, e l’aria vitale. I Gas
29
DISSERTAZIONE SOPRA I FLUIDI ELASTICI
soffoganti son quelli, che non servono né alla respirazione né alla combustione. Di
questi altri hanno sapore e sono dissolubili nell’acqua ed altri non soffrono nella
medesima verun discioglimento, e non presentano sapore alcuno. I Fluidi aeriformi
della prima specie sono sette cioè il gas acido fluorico, il gas acido muriatico, il gas acido
muriatico osssigenato, il gas acido nitroso, il gas acido solforoso, il gas acido carbonico, ed
il gas ammoniacale. Quelli della seconda specie son tre vale a dire il gas ossido nitroso,
il gas idrogeno, e il gas azoto.
L’aria il più importante di tutti i Fluidi elastici per il soccorso, che ella presta
all’animale nelle sue maggiori indigenze è composta di 27 parti di ossigeno e di 73 di
azoto, ambedue disciolti dal calorico, ed in istato di gas. Il gas ossigeno chiamato
ancora aria vitale è il solo che serve alla respirazione, e combustione essendo il gas
azoto del tutto indifferente a tali operazioni. I gas acido carbonico, ed idrogeno, che
entrano nella composizione dell’aria atmosferica non giungono a formare un sol centesimo della medesima. Le principali proprietà dell’aria sono la fluidità, l’elasticità, e
il peso. La fluidità dell’aria, la quale è cagione della di lei cedevolezza, vien causata dal
calorico, col quale ella ha sì grande affinità, che non lo abbandona giammai a
qualsivoglia temperatura, o pressione. È noto presso i moderni Fisici, e Chimici, che
il calorico è l’unica causa della fluidità essendo egli di tal sottigliezza da insinuarsi tra
le più picciole particelle de’ corpi dilatarle, e renderle perfino invisibili. Ciò appunto
succede nell’aria; il calorico è la causa della sua fluidità, e cedevolezza non meno che
della sua elasticità. L’aria allorché vien compressa abbandona, o tutto, o in parte il
calorico di sopraccomposizione ossia quello, che è superfluo a conservarla nello stato
aeriforme ritenendo sempre a qualunque pressione il calorico di composizione, il
quale, è necessario a mantenerla nello stato invisibile. Per cagion d’esempio se si
comprima una palla di cuojo ripiena d’aria la medesima si ristringerà sino ad un dato
punto abbandonando una parte del suo calorico, la quale ricupererà immediatemente
se si tolga la compressione alla palla. Venendo essa a ricuperare il calorico perduto si
dilata e rende alla palla la sua prima figura. Così se venga posta entro la campana
pneumatica una bottiglia ripiena d’aria, ed otturata togliendosi a questa il peso comprimente dell’aria esterna, ella eserciterà la sua affinità sopra il calorico esistente ne’
corpi circostanti il quale la dilaterà in modo, che l’aria ridurrà in pezzi la bottiglia. A
questa dottrina circa l’elasticità dell’aria potrà opporsi, che ammessi gli enunciati
principj gli strati superiori dell’aria non soffrendo quasi alcuna pressione dovrebbero
alzarsi dando agio di sollevarsi ancora agli strati inferiori, e rendendo per conseguenza la densità dell’aria infinitamente minore. A ciò rispondo con il Sig.r Dandolo [8]
per mezzo di alcuni principj stabiliti dalla moderna Fisico-Chimica cioè «I. Che la
dilatazione dell’aria non può seguire, che mercè la sua combinazione col calorico; II. che
la dilatabilità dell’aria ossia la sua affinità, o delle sue basi pel calorico è infinita; III. che
quindi la mancanza di calorico bastante in un dato punto dell’atmosfera diventa la
cagione perché l’aria non si possa ulteriormente dilatare quantunque si ritrovino sopra di
essa notabilmente minorati i pesi comprimenti; IV. che appunto perciò nell’alto dell’atmosfera la temperatura è sempre freddissima; V. che appunto perciò le colonne dell’aria
equatoriale sono tanto più lunghe delle colonne dell’aria polare sebbene pesino egualmente;
VI. che appunto perciò finalmente la densità dell’aria a date altezze varia nel medesimo
paese in proporzione della quantità di calorico, che somministra il sole nelle differenti
30
DISSERTAZIONE SOPRA I FLUIDI ELASTICI
stagioni». Ciò, che si è detto circa l’elasticità dell’aria può applicarsi a quella degli
altri fluidi aeriformi.
L’aria è pesante, ed il suo peso è tale, che se non venga controbbilanciata, come
avviene nella macchina pneumatica, dall’aria interna, ella preme con tal violenza
sopra la campana, che una validissima forza non è capace di distaccarla dal luogo ove
ella è posta. Sedici cavalli non furono capaci in Magdeburgo di separare l’uno dall’altro due emisferi entro de’ quali erasi fatto il vuoto. Il peso dell’aria è a un dipresso di
un’oncia, e 2/5 per piede cubico. Credevasi una volta, che l’aria liberata da tutti i
vapori, ed esalazioni, e ridotta alla sua massima purezza non avesse, che un picciolo
peso. Ora è noto, che ella è anzi di un peso assai maggiore di quello dell’aria impura,
poiché la medesima alla pressione di 28 pollici del barometro, e a 10 gradi del termometro di Reaumur pesa 795 grani per ciascun piede cubico. Il modo, con cui l’aria
agisce sopra i corpi non è difficle a spiegarsi «qualora si addotti, al dir del sopracitato
Sig.r Dandolo, che un corpo qualunque non agisce sopra di un altro, che per forza
meccanica, o di affinità, e che l’aria è pur anche dessa fra il numero dei corpi, che seguono
questa legge universale… Vuolsi dunque riflettere, che se l’aria non ha alcuna affinità
con un corpo essa non agisce, che in forza del suo peso, cedevolezza divisibilità non empie
per conseguenza che tutti i pori di questo corpo sino al punto, in cui può essa penetrare.
Fatto questo uffizio ella cessa affatto di agire sopra il corpo, rimane equilibrata coll’aria
esterna, e perciò non può essa farsi mai strada entro ad un corpo qualora non vi abbia
affinità, e qualora la sua forza meccanica non sia tale da squarciarne le parti».
Parlando dell’aria non sembra alieno dal nostro proposito il trattare del suono. Il
suono, o si considera nel corpo sonoro, o nel mezzo, che lo trasmette, o nell’organo,
che lo percepisce. Allorché si percuote un corpo sonoro egli riceve due diversi movimenti l’uno cioè di tutte le sue parti insieme unite chiamato moto totale, e l’altro di
un certo tremito ossia oscillazione chiamata moto parziale, perché le sue parti vengono per mezzo di esso ad urtarsi, e come a combatter fra loro. Per mezzo di questo
moto il corpo sonoro mette l’aria eziandio in movimento, la quale per la sua elasticità
concepisce anch’essa un moto di oscillazione, il quale communicandosi all’organo
dell’udito eccita nell’anima la sensazione del suono. Se l’aria messa in movimento dal
corpo sonoro s’abbatte in un ostacolo invincibile, che gl’impedisce di passar oltre
rimbalza, e forma ciò, che chiamasi eco. Egli è dimostrato dall’esperienza che i tuoni
non possono esser variati, che dalla diversa durata delle vibrazioni concepite dall’aria. Ella non è però, come sembra potersi affermare, il solo mezzo per cui il suono
vien trasmesso. L’acqua ne può essere anch’ella il veicolo, come esperimentarono
alcuni, i quali immersi nella medesima sino alla profondità di 12 piedi udirono sensibilmente lo sparo di un cannone. I varj instrumenti per mezzo de’ quali può eccitarsi il moto di oscillazione nell’aria, e la sensazione del suono nell’udito si riducono
a due generi, vale a dire a quei corpi, che producono il suono per mezzo di percussione, e a quelli, che lo rendono per mezzo d’inspirazione. Riguardo a quelli del primo
genere egli è chiaro dai sopraccennati principj, che il suono da essi prodotto non
nasce, che dal tremito, e agitazione delle sue parti, ossia dal suo moto parziale. Il
modo poi, in cui il suono vien generato dagl’instrumenti del secondo genere spiegasi
anch’esso facilmente per mezzo delle enunciate dottrine. «La colonna d’aria,
esempigrazia racchiusa in un flauto, per servirmi delle parole del celebre Saverio Poli[25],
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DISSERTAZIONE SOPRA I FLUIDI ELASTICI
concepisce delle vibrazioni per forza del soffio che tende a condensarla, e son queste più
frequenti a misura, che si scema la lunghezza di una tal colonna. Ora siffatta lunghezza
vien determinata dall’intervallo, che v’ha tra il becco del flauto, ed uno de’ suoi fori, che
tiensi aperto conciossiacché la colonna di aria racchiusa nel flauto non produce alcun
suono se non quando le vibrazioni in essa eccitate si communicano all’aria esteriore. Ma
queste si communicano per via del foro aperto, dunque tutto il resto della colonna ch’è
aldisotto di quel foro non ha veruna influenza per produrre il suono. E siccome una
colonna più corta, e più addensata concepisce vibrazioni più frequenti, ciascun vede la
cagione, per cui un flauto, o altro simile strumento produce un suono più acuto a proporzione, che i fori aperti son più vicini alla bocca. Per la qual cosa il muover le dita in tali
strumenti ad altro non serve se non a determinare la lunghezza della colonna di aria».
Dalle dottrine finquì stabilite circa gl’instrumenti di ambedue i generi deducesi il
modo in cui il suono vien prodotto dall’organo della voce. Egli consiste in un canale
di forma cilindrica, che dal fondo della bocca entra, e termina nei polmoni. Ella è il
veicolo dell’aria nella respirazione, e vien chiamata Trachearteria ovvero Asperarteria.
Se voglionsi esprimere i tuoni acuti è necessario alzar la Laringe, la quale non è che
un’unione di cartilagini situate nell’estremità della Trachea, che comunica con la
bocca. Esse vengono in tal modo a tender le corde vocali, da cui son coperti i loro
lembi superiori, e queste agitate dall’aria, che uscendo dai polmoni passa per la glottide
ossia l’apertura della Trachea producono un suono tanto più acuto tanto più la Laringe è sollevata. Abbassandosi la medesima le corde vocali si allentano, e percosse
dall’aria cacciata fuori dai polmoni, rendono un suono tanto più grave quanto maggiore è il loro allentamento. Questo è quello di cui con replicate esperienze accertossi
il Sig.r Ferrein [10].
L’aria agitata per mezzo di tutti questi corpi sonori eccita nell’anima la sensazione dell’udito nel modo, che segue. L’aria commossa come dicemmo entra per l’orecchio nel meato uditorio, che ad esso immediatamente comunica, e quindi scuotendo
il timpano, ossia la membrana, che chiude il meato uditorio communica il moto al
martello, il quale è un ossicino contenuto nella cavità detta cassa del timpano perché
è posta immediatamente dietro al medesimo. Il martello, che con la sua estremità è
attaccato al timpano essendo scosso allenta, o tende questa membrana a seconda de’
tuoni gravi, o acuti, e con l’altra sua estremità communica il moto al secondo ossicino
contenuto nella cassa del timpano, chiamato incudine, e da questo vien comunicato
al terzo ossicino detto staffa, il quale trasfondendolo alla membrana, che chiude il
foro posto nel labirinto, ossia in quel condotto, che è composto di tre canali
semicircolari, e di uno in forma conica detto vestibolo, che va a terminar nella chiocciola lo communica altresì all’acqua di cui son ripiene le cavità del labirinto e per
mezzo di questa vengon commosse le papille, e ramificazioni nervose specialmente
quelle della lama spirale ed in tal modo viene la sensazione dell’udito portata al cerebro,
e per conseguenza all’anima, di cui questo è la sede. Egli è dimostrato, che si ode
ancor per la bocca allorché le vibrazioni dell’aria esteriore vengon portate alla cassa
del timpano per mezzo della Tromba eustachiana, la qual prendendo la sua origine da
un foro situato nella cavità sopraddetta va a terminar nelle fauci. L’aria contenuta in
questa cavità vien porata alla medesima dall’accennato canaletto.
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DISSERTAZIONE SOPRA I FLUIDI ELASTICI
Esposta la dottrina del suono non ci resta che l’esaminare la cagione di due
fenomeni che tuttogiorno ci son visibili. Perché mai, si dirà, noi non ascoltiamo, che
una sol volta il suono prodotto dai corpi sonori mentre il medesimo va a percuotere
in noi due organi diversi? Di più come possiamo noi udire distintamente nel tempo
stesso de’ suoni di diversa specie, e come le vibrazioni eccitate nell’aria non si riuniscono, e confondono prima di arrivare al nostro orecchio? In quanto alla prima di
queste difficoltà io rispondo con il Paulian, che quei nervi, che formano l’organo
dell’udito non partendo, che da un sol punto del cerebro non debbono determinare
l’anima, che a percepire una sola sensazione, e perciò noi non ascoltiamo che una
sola volta quei suoni, che percuotono in noi nello stesso tempo due diversi organi. In
quanto alla seconda delle enunciate questioni non essendo sufficiente a spiegarla
l’opinione del Sig.r de Mairan [19], la quale è tra tutte le ipotesi proposte circa un tal
punto la più ammissibile, noi non avremo alcuna difficoltà a confessare, che fino ad
ora ci è affatto ignota la causa dell’accennato fenomeno. E ciò basti circa i Fluidi
elastici. Confrontando gli esposti moderni principj con le antiche massime potrà
chiaramente discernersi da quante assurdità, che una volta riguardavansi come stabili dogmi, sia esente la nuova Fisica, e qual lume ella abbia apportato alle umane
cognizioni.
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DISSERTAZIONE SOPRA LA LUCE
La luce è una delle trentatré sostanze semplici note, la quale per la sua affinità
con l’ossigeno agisce in modo particolare sopra i corpi. La di lei natura è stato finaddora
il soggetto delle più importanti Filosofiche dispute. Pretende Cartesio [9] che il sole
circondato per ogni parte dalla materia globosa premendola efficacemente risvegli in
noi il senso della vista. Sembra che il Cartesio non sappia in alcuna occasione dimenticare il frivolo sistema del chimerico suo vortice. Per mezzo di esso egli ha preteso
dimostrare l’impossibilità del vuoto; esso ha supposto esser la cagione della gravità
dei corpi, senza darsi in modo alcuno la briga di esaminare la grandissima difficoltà,
che incontrasi nell’ultimo di questi sistemi, il quale si oppone diametralmente alla
prima universalissima, ed evidentissima legge della gravità, la di cui causa cercasi in
esso di spiegare. Conoscendo adunque l’Abbate Nollet [22] l’assurdità dell’ipotesi
Cartesiana, per l’insussitenza di questo vortice, e di questa materia globosa, cercò di
supplirvi ammettendo esser la luce un fuoco elementare, il quale benché sia sempre
presente nondimeno per eccitare in noi il senso della vista ha bisogno di esser messo
in moto dai corpi luminosi. Ma oltre l’esser questo sistema soggetto a gravissime
difficoltà che non è ora del mio instituto l’esporre convien confessare, che il modo,
con cui spiegansi in esso gli effetti della luce è sopra modo difficile ad intendersi
poiché per qual ragione un corpo, che è per ipotesi mobilissimo di sua natura, ed
elastico non può esser messo in moto, che dai corpi luminosi? Egli è questo un
fenomeno ancor più difficile a spiegarsi di quello, la di cui cagione cercasi di conoscere. A porre in chiaro delle sì intrigate questioni sorse in Inghilterra il Cav. Isacco
Newton [21], e prendendo a dilucidare gli antichi principj di Democrito, e di Epicuro
propose l’unico vero sistema circa la luce affermando esser ella una reale continua
emanazione de’ corpi luminosi. L’obbjezione più comune, e solita ad opporsi a così
fatta proposizione ell’è che il sole per cagion d’esempio verrebbe appoco appoco a
distruggersi dovendo ad ogni momento scagliare una quantità immensa di luce. Questa
obbjezione però facilmente vien resa inutile se si osservi che non soffrendo alcuna
sensibile diminuzione di peso un picciolissimo corpo odoroso quantunque sparga
per mesi, ed anni una grandissima quantità di effluvj, molto meno dovrà soffrirla un
corpo, il quale è 1.400.000 volte più grande del globo, che noi abitiamo; oltrediché
la luce, che egli diffonde è di una tal sottigliezza, che la nostra immaginazione non
può in alcun modo percepirla. Ammessa adunque l’ipotesi Newtoniana noi passeremo a conoscere, e spiegare le proprietà, e gli effetti della luce dividendo quanto siam
per dire nelle tre parti, in cui l’Ottica vien divisa vale a dire l’Ottica così detta, la
quale considera la luce ne’ corpi luminosi, la Diottrica, che n’esamina gli effetti ne’
corpi diafani, e la Catottrica, che la riguarda ne’ corpi opachi. Noi daremo infine una
breve nozione del fuoco, la quale non sembra lontana dal nostro instituto.
I raggi della luce si propagano in linea retta per ogni verso illuminando uno
spazio sferico, nel cui centro è posto ciascun punto del corpo luminoso. Da ciò si
rileva, che i raggi emanati dai varj punti del corpo luminoso debbono necessariamente intersecarsi tra loro, e decrescere in densità a misura che si allontanano dal
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DISSERTAZIONE SOPRA LA LUCE
proprio centro. Credevasi una volta, che la propagazione della luce fosse instantanea,
ma si conobbe la falsità di questo principio per mezzo di una osservazione, la quale
vien riferita dal Paulian nel modo, che segue. Ogni qual volta Giove si pone tra la
terra, e il suo satellite principale questo ne viene a nostro riguardo eclissato, e noi
non possiamo vederlo, che dopo seguita la sua emersione la quale ci è visibile 14
minuti prima allorché Giove è apogeo, e 14 minuti dopo quando egli è perigeo. La
propagazione della luce non è dunque istantanea. Da questa medesima osservazione
vien determinata la velocità della luce, poiché essendo riguardo a noi la diversità
della distanza di Giove apogeo e Giove perigeo di circa 66.000.000 di leghe, ne
segue, che la luce scorre 66.000.000 di leghe nel solo spazio di 14 minuti. «Dalla
forza indicibile onde abbiam veduto esser lanciata la luce da’ corpi luminosi sembra
derivare, a dir del Sig.r Saverio Poli [25], la proprietà cui ella costantemente serba di
propagarsi per sentieri rettilinei conciossiaché la veemenza di quell’impulso fa sì, che le
sue particelle si dispongano in serie l’una dopo l’altra, e quindi costituiscano de’ raggi
emuli di altretante linee rette; non potendo la loro gravità distorli da quel retto sentiere
per esser ella infinitamente picciola in corrispondenza della loro prodigiosa sottigliezza.
In prova di ciò si può far entrare un raggio di sole entro una camera buja per un foro
praticato in una finestra. Vedrassi ella seguire immancabilmente il mentovato retto sentiere,
talché facendosi un altro foro nella parte opposta del muro, fino a cui si sporge il detto
raggio propagherassi egli al di fuori, e scomparità dell’intutto quella sua porzione, che
attraversa la stanza senza diffondere in quella la menoma quantità di luce. Lo provano
similmente le ombre de’ corpi, i cui perimetri sono tali, che scorgonsi limitati da’ raggi
sporgenti in linea retta dal corpo illuminato sino ai diversi loro punti. Che anzi neppur
elleno esisterebbero se la luce si propagasse per curvi sentieri, giacché le ombre vengono
cagionate siccome ognun sa da una semplice privazione di luce oppur dall’esser ella debole
all’eccesso». Ed infatti se si ponga d’innanzi a dell’acqua corrente un corpo immobile
si vedrà ella ripiegarsi verso i suoi lati e quindi piegandosi di nuovo, e riunendosi
seguire come prima il suo corso, il che non accadendo nella luce è necessario il dire,
che ella non si propaga, che per sentieri rettilinei.
La luce allorché passa per i corpi diafani soffre un certo deviamento, il quale
chiamasi rifrazione. Egli è tanto maggiore quanto maggiore è la densità del mezzo,
per cui la luce è costretta a passare. Per la rifrazione ella si accosta tanto più alla linea
perpendicolare alla superficie del mezzo quanto egli è più denso del corpo, in cui ella
era prima della rifrazione, e tanto più se ne allontana quanto il primo è meno denso
del secondo. I vetri convessi sono quelli, i quali riuniscono i raggi, che cadono sopra
di essi in un punto tanto meno distante dal proprio foco quanto maggiore è la loro
convessità. Così quanto ella è maggiore tanto maggiori appariscono gli oggetti guardati attraverso del vetro, perché in tal modo questo riunisce i raggi emanati da ciascun punto dell’oggetto più presto, e per conseguenza in un angolo maggiore. Egli è
dimostrato dalle leggi dell’Ottica, che quanto maggiore è l’angolo sotto cui ci si
presentano gli oggetti tanto maggiore ci apparisce la loro grandezza. Per ciò i vetri
concavi ci mostrano più piccioli gli oggetti guardati a traverso di essi giacché aumentando la divergenza de’ raggi, che partono da questi oggetti ne ritardano la congiunzione, e ce li rappresentano conseguentemente sotto un angolo minore. La cagione
per cui i vetri convessi ci mostrano ad una data distanza gli oggetti rovesciati è che i
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DISSERTAZIONE SOPRA LA LUCE
raggi da essi rifratti dopo essersi riuniti progrediscono per la loro direzione in modo
che quelli, i quali son rifratti nella parte destra del vetro dopo la loro riunione vanno
alla parte sinistra, quelli di alto in basso, e così viceversa, dal che ne segue che essi ci
mostrano l’oggetto in una situazione contraria a quella dove egli realmente si trova.
Sembra appartenere specialmente a questa parte di Ottica la descrizione della
struttura dell’occhio, e del modo, in cui egli percepisce, e vede gli oggetti. I raggi
scagliati dai varj punti dell’oggetto entrano per la tonaca detta cornea nell’umore
lenticolare, e convesso chiamato acqueo, il quale riempie le due prime camere, o
cavità dell’occhio. Quivi rifratti, e resi gli uni più vicini agli altri secondo le leggi
della Diottrica passano, e sono successivamente, e maggiormente rifratti dall’umor
cristallino, e dall’umor vitreo, dopo di che giungono alla membrana detta retina, e
dipingendovi l’oggetto ammuovono il nervo ottico, da cui viene la sensazione della
vista portata al cerebro. La visione è distinta allorché i raggi giungono alla retina
perfettamente riuniti, confusa allorché eglino si riuniscono prima, o dopo di esservi
giunti. Un cristallino troppo convesso riunisce assai presto, e più in qua della retina
i raggi emanati dagli oggetti lontani per esser eglino paralleli, e rappresenta distintamente gli oggetti vicini perché i raggi emanati da questi sono divergenti, e per conseguenza più tardi vengon raccolti. Perciò un cristallino poco convesso li riunisce più
in là della retina, e non congiunge nel suo foco, che i raggi paralleli. Quelli, il di cui
cristallino è della prima specie appellansi miopi, e presbiti quelli, che lo hanno della
seconda. Si vede da quanto abbiam detto, che per i primi è necessaria una lente
concava, la quale renda divergenti i raggi paralleli, ed una lente convessa per i secondi, la quale renda convergenti i raggi divergenti. Nelle persone di perfetta vista il
cristallino per mezzo di alcuni filamenti detti ligamenti cigliari si rende più, o meno
convesso secondo la maggiore, o minore distanza degli oggetti da osservarsi. Egli è
dimostrato, che gli oggetti vengono nella retina dipinti rovesciati, poiché i raggi
emanati dai varj punti dell’oggetto s’incrocicchiano nella pupilla, ossia in quel foro,
che è nella membrana detta uvea la quale è tra l’umor acqueo, e l’umore cristallino,
ma l’anima per la propria esperienza riferisce il raggio, che va a terminare nella parte
superiore della retina alla parte inferiore dell’oggetto, e viceversa. Di ciò parla il celebre Algarotti [1] nel suo non men saggio, che elegante Dialogo detto Caritèa posto in
appendice agli altri suoi dialoghi sopra l’Ottica Newtoniana.
Abbiamo di già parlato delle due prime parti dell’Ottica parleremo ora della
Catottrica colla massima brevità. La luce incontrandosi in un corpo il quale gli neghi
il passaggo rimbalza, e questo rimbalzar, che ella fa chiamasi riflessione. Ecco per
qual cagione noi vediamo la nostra immagine allorché ci presentiamo innanzi ad
uno specchio poiché i raggi, che partono dai varj punti del nostro corpo riflettendo
sullo specchio son costretti a tornare ai nostri occhi. Questo effetto non può venir
prodotto, che dai corpi assai levigati poiché se un oggetto si presenti ad altri corpi
essi ne sparpagliano, e confondono quasi tutti i raggi. Essendo la riflessione un effetto della reazione, ed elasticità non men della luce, che de’ corpi, su cui ella cade egli
è evidente, che gli specchi concavi debbono rendere i raggi convergenti, e divergenti
gli specchi convessi, e che per conseguenza i primi debbono ingrandir l’oggetto, ed
impiccolirlo i secondi. Alla Catrottica appartiene la dottrina dei colori. Quelli che
diconsi primitivi sono sette vale a dire il rosso, il rancio, il giallo, il verde, il turchino,
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DISSERTAZIONE SOPRA LA LUCE
l’indaco, ed il violetto. Questi sono più rifrangibili a misura, che si avvicinano al
violetto, e meno secondo, che si accostano al rosso, il quale è di tutti i colori il meno
rifrangibile. La diversa rifrangibilità della luce provenendo secondo il Newton dalla
diversa massa, e velocità delle particelle di luce egli è facile comprendere come l’anima percepisca le diverse sensazioni dei colori poiché le particelle, che hanno maggior
velocità, e maggior mole commuovendo più fortemente la retina eccitano nell’anima
la sensazione di un colore più vivo quale è il rosso, e così viceversa. Un corpo poi
apparisce di un tal colore allorché, secondo il sistema Newtoniano le sue parti sono
disposte in modo da riflettere solamente quelle molecole di luce, che lo compongono, ed assorbire le altre. Se egli rifletta delle particelle di luce di due, o più specie
apparisce di color misto. Se le rifletta di tutte le specie egli sembra bianco, e nero se
non ne rifletta alcuna. Ed ecco spiegato secondo il sistema Newtoniano la natura, gli
effetti, e le proprietà della luce. Altro ora non ci resta che l’esaminare brevemente la
natura, e le proprietà del fuoco.
Il fuoco non è, che un composto di calorico, e di luce. La combustione non
viene in realtà prodotta da alcuna di queste sostanze, ma solamente dalla combinazione del combustibile con l’ossigeno. Ed infatti «essendo l’aria vitale, al dir del Sig.r
Dandolo [8], un composto di ossigeno di calorico, e di luce ne segue, che non può l’ossigeno base di questo gas andare a combinarsi in istato di solidità co’ corpi combustibili, che
si bruciano senza perdere il calorico, e la luce, che lo tenevano sotto forma aeriforme.
Questa luce, e calorico, che si svolgono in questa decomposizione dell’aria vitale formano
ciò, che chiamiamo volgarmente fiamma fuoco ec. La diversa rapidità, con cui i corpi
combustibili assorbono quest’ossigeno in istato di solidità, la quantità diversa, che ne
assorbono, e lo stato diverso, di solidità con cui lo ricevono in combinazione formano le
differenze ch’esistono fra’ corpi combustibili, e rendono ragione perché siano così variate le
quantità di calorico, e di luce, che dalle diverse combustioni si svolgono. Ecco dunque
perché le combustioni non hanno luogo, che dove esista aria vitale ossia gas ossigeno, e
cessano all’istante qualore vi manchi quest’elemento... Il fine di ogni combustione è sempre quello di convertire il combustibile, che si brucia in un ossido, o in un acido, cioè in
un corpo incombustibile ossia bruciato. Quest’ossido, od acido torna per conseguenza
combustibile perdendo, in qualsivoglia modo l’ossigeno, con cui si è combinato bruciando». Vedesi chiaramente, che il fuoco non manifesta alcun peso sensibile perché peso
sensibile non hanno né il calorico né la luce di cui egli è composto. E ciò può esser
bastante a formare una breve Teoria del fuoco, ed a confutare i sistemi, che a spiegare
la causa della combustione de’ corpi publicarono Becher, Macquer, Bergman, Sage,
Kirvan, e Stahl.
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DISSERTAZIONE SOPRA L’ASTRONOMIA
Secondo alcuni autori l’astronomia ebbe la sua origine presso i Babilonesi forse
perché questi popoli possedevano a preferenza delle altre nazioni un’eccellente specola
nel Tempio di Belo, ossia torre di Babel. Da quest’eminente edificio eglino cominciarono a considerare l’altezza degli astri, a definirne i movimenti, e ad indagarne le
mutazioni. Talete Milesio, il quale viene annoverato tra i sette sapienti della Grecia fu
uno de’ più savj Astronomi dell’antichità, se savio astronomo può chiamarsi colui, il
quale calcolò la grandezza del sole esser solo 720 volte maggiore di quella della luna.
Narrasi, che una vecchia vedendolo caduto in una fossa mentre attentamente contemplava il moto degli astri gli dicesse «Eh come potrete voi conoscere ciò, che è
tanto lungi dal vostro capo se non vedete neppure ciò, che è sì vicino ai vostri piedi?».
Dopo Talete Pitagora, Platone Aristarco, Anassimandro, Anassimene, Aristotele,
Filolao Metone, Ipparco, e molti altri diedero un gran lume all’astronomia. Claudio
Ptolommeo [28] nativo di Pleusio può dirsi il primo, che dasse una forma regolare al
sistema dell’universo, e che ponesse in qualche lume i principj universalmente ammessi circa l’Astronomia. Il suo sistema non è di poco debitore ad Alfonso IX Re di
Leone, e di Castiglia sopranominato il savio, e l’Astronomo il quale due cieli cristallini
aggiunse a quelli che supponevansi nel sistema di Ptolommeo. Questi regnò con
assoluto dominio sopra tutti i letterati fino a che dalla nativa sua Thorn sorse l’immortal
Copernico [17], il quale gli tolse lo scettro ingiustamente usurpato, e seguace facendosi di Pitagora, e di Aristarco diede alla luce il più celebre di tutti i sistemi del
mondo dopo un continuato studio di anni trenta impiegati nel fare le più profonde
osservazioni per un oggetto sì importante. Né poco contribuì ad illustrare, e maggiormente confermare la verità di un tal sistema il celebre Galileo Galilei [11] nobile
Fiorentino genio veramente sublime, e nato per arrecar luce alle tenebre della Filosofia di quel tempo, nel quale il maggior pregio de’ sapienti era il non essere intesi.
Prima di esso Ticone Brahè [6] Signore di Knud-Strup in Danimarca rivendicò alla
terra il centro perduto, e diede alla luce un sistema il quale avrebbe forse avuto un
numero di partigiani anche maggiore di quelli del sistema di Ptolommeo se nata
ancora non fosse quella ipotesi che sopra d’ogni altra dovea venuta appena alla luce
ottenere la palma. L’astronomia che già cominciato aveva a risorgere per le cure di
Copernico, di Keplero, e di Galileo, e per l’invenzione del Telescopio fatta da quest’ultimo fu posta finalmente in tutto il suo lume dal celebre Isacco Newton [21], il
quale giunse per mezzo del suo sistema dell’attrazione a spiegare moltissimi fenomeni celesti di cui ignota era peranche la causa. Ed ecco in breve la Storia dell’Astronomia. Dopo averne indicate le epoche principali noi passeremo a parlare con la possibile brevità delle sue più importanti dottrine. Esporremo pertanto brevemente i diversi sistemi celesti, esamineremo la causa de’ moti supposti ne’ medesimi sistemi, e
de’ fenomeni de’ corpi celesti non meno, che la sostanza, di cui questi sono composti, e passeremo infine a ricercar la cagione del flusso, e riflusso del mare.
Il più antico di tutti i sistemi del mondo è quello, che dal suo principale illustratore
Ptolommeo trasse il nome di Ptolemaico. In questo sistema la terra, è collocata im38
DISSERTAZIONE SOPRA L’ASTRONOMIA
mobile nel centro dell’universo, e intorno ad essa si aggirano in cerchi alla medesima
eccentrici la luna, Mercurio, Venere, il Sole, Marte, Giove, e Saturno. Le orbite di
questi corpi celesti chiamansi sfere, l’ottava delle quali è il firmamento ossia cielo
stellato, che vien dopo l’orbita di Saturno. Seguono la sfera nona, e la decima composte di sodo cristallo, e l’undecima chiamata primo mobile, che aggirandosi intorno
al suo asse nello spazio di ore 24 trae seco tutte le altre sfere inferiori. A tutte coteste
sfere aggiungono alcuni la duodecima nella quale suppongono l’abitazione de’ Beati,
ed Alfonso Re di Leone, e di Castiglia ne suppose ancora due altre, all’una delle quali
si attribuiva il moto di librazione per spiegare il modo in cui avviene, che le stelle fisse
nello spazio di anni 70 sembrino avvanzar quasi di un grado verso l’oriente, ed all’altra attribuivasi il moto di trepidazione col quale spiegavasi quella specie di moto
oscillatorio, con cui la sfera celeste sembra andar dall’un polo all’altro. Ma dovendosi
in ogni sistema celeste spiegar la cagione, per cui i pianeti ci appariscono ora diretti
ora stazionarj, ed ora retrogradi Ptolommeo fu costretto giusta l’espressione del Sig.r
Brisson [7] ad imbarazzare i cieli di diversi epicicli, e deferenti, che rendon questo
sistema tanto difficile ad intendersi quanto appunto è difficile il sostituire il falso al
vero. E diffatto mille assurdità manifestissime s’incontrano ad ogni passo in questo
sistema, giacché le comete, che senza esser trattenute dai cieli cristallini s’innalzano a’
più sublimi spazj celesti infranti avrebbono facilmente, e ridotti in pezzi ben presto
questi chimerici cieli. Inoltre è dimostrato da varie osservazioni Astronomiche, che
Venere, e Mercurio girano realmente intorno al Sole, e che Marte perigeo è più vicino
alla terra del Sole medesimo, il che avvenir non potrebbe se si ammettesse il sistema
Ptolemaico, nel quale l’orbita di Marte comprende quella del Sole. La velocità poi
colla quale le stelle fisse in questo sistema percorrono la loro orbita nello spazio di
sole ore 24 è affatto inammissibile giacché per scorrere in sì poco tempo uno spazio
sì grande, e quasi immensurabile vi abbisognerebbe la velocità maggiore migliaja di
millioni di quella di una palla di cannone, la qual velocità è assolutamente incomprensibile ad umano intelletto.
Questa stessa ragione oltre molte altre di gran peso vale a dimostrare la falsità del
sistema di Ticone, nel quale la terra vien posta immobile nel centro dell’universo, e
vicino ad essa è l’orbita della luna compresa da quella del sole, il quale si muove in
giro alla terra concentrico, ed è egli medesimo il centro de’ movimenti degli altri
pianeti in modo però, che l’orbita di Marte intersechi quella del sole per ispiegare il
modo, in cui avviene, che il primo sia talvolta più vicino alla terra del secondo. Ma
rimanendo ancora a spiegare in questo sistema la cagione per cui i pianeti appariscono ora diretti ora stazionarj, ed ora retrogradi Giovanni Keplero [16] attribuì ai pianeti una specie di moto spirale il quale sebbene spieghi a sufficienza la cagione di
tutti questi fenomeni nondimeno da quasi tutti gli Astronomi è rigettata come contraria alle Fisiche leggi.
Il più ammissibile fra tutti i sistemi celesti è quello, che dal suo illustratore Copernico prese il nome di Copernicano. In questo sistema Mercurio, Venere, la Terra,
Marte, Giove, e Saturno cui vien dopo Urano pianeta recentemente scuoperto da
Herschel [13], si aggirano all’intorno del Sole, il quale occupando il centro dell’universo si avvolge intorno al proprio asse, e trae in virtù di forze centrali tutti i pianeti
a percorrere le loro orbite intorno a lui. Egli è assai chiaro in questo sistema come
39
DISSERTAZIONE SOPRA L’ASTRONOMIA
avvenga, che un pianeta ci apparisca ora diretto ora stazionario, ed ora retrogrado,
giacché allorquando il pianeta scorre con velocità maggiore di quella della terra egli
apparir deve diretto, stazionario allorquando il pianeta, e la terra camminano quasi
con ugual velocità, e retrogrado quando la terra lo avvanza nel corso, in quel modo
appunto, nel quale allorquando noi siam trasportati in un cocchio retrogradi ci sembrano quei corpi, che ci seguono stazionarj quelli che ci uguaglian nel corso, diretti
finalmente quelli che nel corso ci avvanzano. Il pianeta Mercurio, il quale è più
vicino d’ogni altro al sole si aggira intorno al medesimo nello spazio di giorni 88
circa. Venere compie il suo giro nel corso di giorni 224 e ore 17. Marte nello spazio
di un anno, e 322 giorni circa. Giove impiega per terminare la sua rivoluzione anni
11 e giorni 317. Saturno anni 29 e giorni 177. Urano anni 83 e mezzo. La luna
compie il suo corso intorno alla terra nello spazio di 27 giorni 7 ore, e 43 minuti, e la
terra medesima gira intorno al sole nel corso di giorni 365, ore 5 e minuti 49. Oltre
il moto annuo ha la terra altri due moti l’uno diurno, ossia vertiginoso col quale si
aggira intorno al proprio asse nello spazio di 24 ore andando da occidente in Oriente, e l’altro chiamato di trepidazione, col quale nello spazio di mesi 6 si muove dall’un tropico all’altro a maniera di oscillazione. Quest’ultimo serve a spiegare la causa
del variar delle stagioni giacché allorquando la parte da noi abitata del globo terracqueo
viene per questo moto ad alzarsi noi abbiam necessariamente il verno per essere
allora i raggi del sole meno a noi perpendicolari, e per la cagion contraria abbiam la
state allorquando questa parte del globo viene ad abbassarsi. Il moto vertiginoso serve
a spiegare la non mai interrotta succesione del giorno alla notte, e della notte al
giorno poiché quando l’emisfero da noi abitato viene a volgersi, e come presentarsi
in faccia al sole noi abbiam giorno, e notte quando quest’emisfero viene trasportato
dal moto centrifugo nella parte inferiore del globo rispetto al sole. Ecco in accorcio il
Sistema Copernicano, a cui se si opponga esser egli contrario alle parole della Sacra
Biblia noi risponderemo, che se bene non manchino dottissimi Interpreti, che dimostrar proccurino non esser questo sistema opposto in modo alcuno al reale sentimento delle sacre lettere noi nondimeno non lo ammettiamo, che come una ipotesi più
di ogni altra idonea a spiegare i celesti fenomeni, il che dalla S. Romana Chiesa non
venne giammai vietato.
Esposti brevemente i diversi sistemi Astronomici passiamo ora a dimostrare la
cagione de’ moti, e de’ fenomeni de’ corpi celesti. Sembra universalmente ammesso
dai Fisici altra non esser la cagione de’ moti celesti, che le forze centripeta, e tangenziale unite a quella d’inerzia, giacché avendo i pianeti sino dalla lor creazione acquistato quel moto, che hanno al presente essi debbono necessariamente sforzarsi di
conservarlo, e conservarlo diffatto quando non vi sia alcun ostacolo sufficiente ad
impedirneli. Riguardo ai fenomeni celesti sembra potersi questi ridurre agli ecclissi,
alle comete, a quelli delle macchie solari, a quelli finalmente del Pianeta Saturno. Ne
parleremo colla possibile brevità.
La causa degli ecclissi è assai nota. Essendo la luna, e tutti gli altri pianeti de’
corpi opachi, i quali non risplendono per propria luce, ma per quella, che ricevon dal
sole egli è assai chiaro, che allorquando la terra s’interpone tra la luna, ed il sole deve
la prima restare oscurata dall’ombra della terra, e questa dall’ombra della luna allorché
questo pianeta s’interpone tra la terra, ed il sole. Da ciò vedesi che impropriamente si
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DISSERTAZIONE SOPRA L’ASTRONOMIA
dà a quest’ultima ecclissi il nome di ecclissi del sole dovendo piuttosto chiamarsi
ecclissi della terra, la quale realmente è la sola che resti oscurata in questo passaggio
della luna, non soffrendone il sole veruna alterazione.
Le comete sono corpi opachi, come gli altri pianeti, i quali girano intorno al sole
con orbite di forma ellittica, ossia bistonda, in modo che passando vicino al medesimo concepiscono un calor così fatto, che Newton calcolò la cometa del 1680 aver
concepito un calore 28000 volte maggiore di quello che sperimentasi nel più gran
fervor della state.
Riguardo alla cagione per cui le comete ci appariscono ora circondate ora precedute, ed ora seguite da una chioma, o barba, o coda lucida, bisogna confessare che
questa ci è peranco ignota. Fra tutti i sistemi, che proposti furono per ispiegarla
quello del Sig.r de Mairan [19] è, per mio avviso, il più ammissibile. «Egli è impossibile, dice questo celebre Astronomo presso il Paulian, che le comete passino tanto
vicino al globo solare siccome fanno senza, che si carichino di una parte dell’atmosfera
solare, cui attraversano. È lo stesso come se una gagliarda calamita si strascinasse per
mezzo alle limature di ferro. Infatti se ogni cometa è un pianeta come non si può metter
in dubbio, e se vi han luogo le leggi dell’attrazione come abbiam noi diritto di supporlo
non è egli duopo, che la parte dell’atmosfera solare, la qual trovasi rinchiusa nella sfera di
attività del peso particolare, che opera verso il centro della cometa, ragunisi intorno al suo
globo a quel modo, che le particole elastiche dell’aria nostra si ragunano intorno alla
terra, e vi formi un’atmosfera luminosa, ovver aggrandisca quella che avesser già? Ciò
supposto, ecco, soggiunge il Paulian, come noi discorriamo collo stesso Fisico. La cometa
va ella dietro al sole? dee comparirci codata; e perché? perché i raggi di luce, che sono
trasmessi con una celerità impercettibile han forza che basta per gittar dietro la cometa la
maggior parte dell’atmosfera che trovasi tra lei, ed il sole. Per lo contrario la cometa
precede ella il sole? dee comparirci allora barbuta; e perché? perché gli stessi raggi di luce
trasmessi sulla cometa scacciano la maggior parte dell’atmosfera interposta tra essa, e il
sole, le quali particelle scacciate a quel modo devono necessariamente precedere la cometa
nella sua marcia; e rappresentarcela con una spezie di barba luminosa. Finalmente la
cometa è ella situata in guisa, che l’occhio dell’osservatore trovisi tra essa, e il sole? Allora
dee parergli intorniata da un’atmosfera luminosa, o per parlare co’ termini dell’arte dee
parergli crinita». È però da avvertirsi che questo sistema non è certamente esente da
molti difetti tra quali deve annoverarsi quella supposta forza per cui la luce rispinge
le particelle dell’atmosfera solare dietro, o avanti la Cometa.
Egli è dimostrato, che nel sole vi sono alcune macchie, le quali nel periodo di 27
giorni compiono il lor giro dalla parte orientale del sole alla parte occidentale. Dal
che sembra potersi dedurre, che il sole, nel quale ritrovansi queste macchie si avvolga
intorno al suo asse nello spazio di giorni 27. Di qual sostanza precisamente sieno
queste macchie, e qual sia la cagione, per cui d’intorno al sole appariscono questo è
ciò che dalle osservazioni astronomiche non si è ancora potuto ritrarre. I fenomeni
delle fascie di Giove, le quali altro non sono, che macchie, che per ogni parte circondano questo pianeta, molto somigliano a quelli delle macchie solari.
I fenomeni del Pianeta Saturno sono assai singolari. Un anello molto di lui maggiore, che lo circonda, in quel modo appunto in cui l’orizonte fascia le nostre sfere,
ne è la cagione. Galileo a cui ignota era del tutto l’esistenza di quest’anello chiamava
41
DISSERTAZIONE SOPRA L’ASTRONOMIA
il pianeta Saturno triforme, ed Hevelk lo chiamò monosphoericum, trisphoericum,
sphoerico-cuspidatum, sphoerico-ansatum, elliptico-ansatum diminutum, ellipticoansatum plenum. Noi siamo debitori ad Huygens [14] della scoperta dell’anello di
Saturno.
La sostanza del sole, non meno che quella delle altre stelle, sembra ignea stanteché
la sua luce non è immobile, e ferma ma bensì scintillante, e quasi ondeggiante come
appunto scorgiamo nel nostro fuoco. In quanto poi alla sostanza de’ pianeti, e de’
loro satelliti sembra potersi affermare esser ella simile almeno in parte a quella della
terra per vedersi specialmente nella luna de’ monti, de’ fiumi, de’ mari, e de’ vulcani.
Ma egli è ormai tempo di parlare della cagione del flusso, e riflusso del mare, su
cui tante questioni furono mosse dagli antichi Filosofi. Plinio il Vecchio nel secondo
suo libro di Storia Naturale afferma, che questo fenomeno non è originato, che dall’azione attraente del sole, e della luna, e Newton dilucidò, e dimostrò quest’ipotesi
in modo, che sembra non potersi essa porre più in dubbio. E difatto essendo l’attrazione in ragione diretta della distanza egli è evidente che le onde marine debbono
piuttosto deferire all’azione della luna, che a quella del sole, e si scorge in effetto, che
allorquando la luna è perigea è maggiore il flusso e riflusso di quello [che] è quando
la medesima è apogea. Da ciò principalmente dimostrasi l’azione della luna sul mare.
Quella poi del sole chiaramente si appalesa vedendosi che la marea è maggiore
allorquando la luna si ritrova in congiunzione col sole ossia nelle sigizie, che quando
essa è nelle quadrature. Di più la marea è maggiore similmente nel solstizio d’inverno vale a dire allorché il sole è nella sua massima vicinanza alla terra, che in quello
d’estate, in cui egli ne è assai lontano. Da tutto ciò meritamente deducesi, che il
flusso, e riflusso del mare proviene dall’azione attraente del sole, e della luna. Posto
ciò evidentemente si scorge, che allorquando l’attrazione è maggiore, cioè quando la
luna si trova sul meridiano debbono i flutti scostarsi dal lido, e ritornarvi quando
sono abbandonati dall’attrazione.
Ed ecco in brevissime parole compendiata quella scienza che dalle osservazioni
degli astri ritrae le più sublimi matematiche dottrine, le più certe nautiche leggi, le
più utili regole di agricoltura. Noi non possiamo bastantemente esortare i moderni
Filosofi ad impiegarsi con ogni studio nell’indagare ciò che ancora ci è ignoto nell’Astronomia riducendola così ad una delle scienze più perfette, che note siano all’umano intelletto.
42
DISSERTAZIONE SOPRA L’ELETTRICISMO
Gli antichi Filosofi d’altro in ordine all’attrazione discorrer non sapeano, che del
magnetismo. Né i singolari suoi fenomeni indegni erano alcerto di esser sottoposti al
critico esame de’ Fisici. Vedesi difatto, che ogni calamita ha due poli, chiamati l’uno
polo Artico, e l’altro polo Antartico, e talvolta ancor più di due, ne’ quali consiste
tutta la forza della sua attrazione. Separata la calamita in più parti ciascuna di queste
parti acquista i suoi poli. Sospesa la calamita ad un filo essa va tostamente a collocarsi
in modo che il suo polo Artico sia rivolto verso settentrione, e il suo polo Antartico
verso mezzodì. Avvicinate l’una all’altra due calamite i due poli di diverso nome si
attraggono scambievolmente quelli di nome medesimo scambievolmente si fuggono. La meravigliosa affinità della calamita col ferro, la sua quasi dissi prodigiosa
tendenza al polo, nella quale puranco si osservano benespesso delle mutazioni tener
doveano giustamente occupati gli antichi Filosofi nell’indagarne la cagione. Ma disperati omai i Fisici moderni di potere spiegare in modo soddifacente così ammirabili
effetti hanno a miglior senno rivolte le loro cure agli elettrici fenomeni, i quali sebbene grande analogia abbiano con gli effetti magnetici non sono nondimeno sì impenetrabili, e nascosti all’umano sguardo indagatore. Noi riporterem qui brevemente il
frutto delle osservazioni de’ Filosofi intorno a quest’importante oggetto, e parleremo
in prima delle proprietà particolari dell’elettricità, e la causa quindi assegneremo dei
fenomeni spettanti all’elettricità.
Tutti i fenomeni dell’elettricità son prodotti da un fluido, il quale vien chiamato
elettrico per la sua speciale proprietà di attrarre i corpi, la qual proprietà osservasi
particolarmente nell’ambra chiamata da’ greci ηλεκτρον. Noi parlando delle proprietà dell’elettricismo non intendiamo di parlare che di quelle del fluido elettrico il
quale è il principale autore di tutti i fenomeni spettanti all’elettricità. Questo fluido
viene dai Chimici annoverato fra di quelle trentatrè sostanze semplici, di cui tutto
l’orbe terracqueo è composto. Egli ha una grandissima tendenza all’equilibrio, ed
un’affinità grandissima con il calorico. L’aria calda, ed umida, gli è similmente affine,
ma il contrario avviene dell’aria fredda, e secca. Egli si trova d’ordinario combinato
con il calorico, e con la luce, e resta come imprigionato da queste sostanze, ma
allorquando egli è costretto a passare attraverso di corpi, a lui non affini chiamati
non conduttori egli se ne sprigiona per potere più liberamente aprirsi il passaggio, ed
in tal modo dà luogo a quei fenomeni, che frequentemente si osservano specialmente nella macchina elettrica. Quivi il fluido elettrico sprigionato per il fregamento del
disco dai corpi circostanti, e costretto a passare attraverso di un corpo non conduttore quale è il cristallo si libera eziandio dal calorico, e dalla luce, che seco lo tenean
combinato, e produce quei fenomeni, che costantemente in questa macchina
appalesansi. Per costringere il fluido elettrico a sprigionarsi, e produrre gli accennati
fenomeni conviene isolare un corpo al medesimo affine, il quale vien chiamato conduttore, vale a dire porlo per ogni parte a contatto di corpi non conduttori come
appunto avviene nelle nubi, le quali essendo corpi conduttori, e ritrovandosi isolate
nel mezzo dell’atmosfera, la quale è d’ordinario corpo non conduttore dan luogo a
43
DISSERTAZIONE SOPRA L’ELETTRICISMO
tutte le spaventose meteore elettriche. Il fluido elettrico ha una grandissima affinità
con i metalli e comunica loro benespesso una singolare forza attrattiva, colla quale
traggono a se quasi violentemente in ispezialità gli altri metalli. Questa stessa forza
egli comunica alla cera lacca allo zolfo alle resine alle gomme etcetera i quali corpi
fregati con cottone lana, o altre simili cose concepiscono una forza elettrica capace di
attrarre qualsivoglia corpo di sufficiente leggerezza, ma questa forza non è che di
breve durata. Le proprietà principali del fluido elettrico possono adunque ridursi a
tre vale a dire alla sua meravigliosa tendenza all’equilibrio alla sua particolare affinità
con i corpi conduttori ed in ispecie con il calorico, e alla sua quasi dissi avversione
con i corpi non conduttori. Non è però da supporsi a spiegare quest’avversione quella chimerica forza ripulsiva su cui tanto fantasticarono gli antichi Filosofi, giacché se
un fulmine per cagion d’esempio si accosti al vetro ad una certa distanza egli sembra
fuggirlo, ma ciò non avviene per forza alcuna rispingente del vetro, ma bensì per
l’attrazione di altri corpi circostanti, i quali avendo con il fluido elettrico affinità
maggiore di quella ne abbia il vetro facilmente da questo l’allontanano per trarlo a se.
Poste adunque queste tre più importanti proprietà del fluido elettrico passiamo ora
ad esaminare e spiegare la causa di quei fenomeni, i quali da queste proprietà vengono principalmente occasionati.
Tutti i fenomeni spettanti all’elettricità possono ridursi a cinque cioè il fulmine,
la pioggia, la grandine, il tremuoto, e la tromba. Parleremo succintamente di tutte
queste meteore.
Suppongasi nel fervor della state una nuvola sovraccaricata di fluido elettrico nel
mezzo dell’atmosfera, e vicino a questa un’altra nube meno carica di elettricismo. Il
fluido elettrico per la sua natural tendenza ad equilibrarsi deve necessariamente lanciarsi dalla nube, che ne ha maggior quantità all’altra, che è vicina ad essa facendo in
modo, che restino tra loro uguagliate, ed equilibrate le due quantità. Ma dovendo il
fluido elettrico per passare all’altra nube vincere la resistenza dell’atmosfera la quale
è corpo idioelettrico ossia non conduttore è costretto ad abbandonar quella luce, con
cui era combinato, la quale svolgendosi in quel momento forma il lampo seguito dal
tuono, che vien formato dall’oscillazione delle nubi, e dell’aria circostante. Da ciò si
vede, che tanto maggiore sarà il tuono quanto maggiore è la quantità e l’impeto del
fluido elettrico nel suo passaggio dall’una nube all’altra. Se questo passaggio invece
di farsi dall’una nube all’altra si faccia dalla nube alla terra si avrà allora il fulmine il
quale sarà tanto più terribile quanto maggiore è la distanza della nuvola dalla terra, e
quanto è più secca l’atmosfera tra la nuvola, e la terra interposta. A preservarsi da un
sì tremendo fenomeno sogliono esporsi sulla cima de’ più alti edificj delle verghe di
ferro, che vanno a terminare in un’acutissima punta per attrarre più facilmente la
sottilissima colonna di fluido elettrico, che per la sua affinità con i metalli discende
quietamente sul ferro, e da questo per una non interrotta successione di fili dello
stesso metallo vien pacificamente nella terra deposto, e con essa equilibrato. Avviene
talora che il medesimo ufficio delle verghe di ferro venga esercitato dalle nubi stesse,
le quali ridotte per una improvvisa mancanza di calorico dallo stato di fluido aeriforme
a quello di liquido traggon seco combinato il fuido elettrico, e tranquillamente in tal
modo l’equilibrano con la terra. Può eziandio accadere talvolta, che sovraccaricandosi la terra medesima di fluido elettrico ella dal suo seno lo scagli in grembo alle
44
DISSERTAZIONE SOPRA L’ELETTRICISMO
nuvole per la stessa cagione per cui le nuvole lo lanciano in seno alla terra. L’osservazione di questo fenomeno diede luogo a Maffei di credere, che tutti i fulmini non
provenissero, che dalla terra, ed a molti altri Scrittori di sostenere con interi volumi
una siffatta proposizione, ma la sua falsità vien facilmente dimostrata dai finquì esposti
principj.
Dall’elettriche esplosioni viene talvolta occasionata la pioggia giacché conducendo seco il fluido elettrico per traversar più facilmente l’atmosfera una parte del
calorico necessario per mantenere in istato aeriforme i vapori, che formano la nube
questi condensandosi e riducendosi allo stato di liquidità vengono costretti a cadere
per essere di gravità specifica maggiore di quella dell’aria. Se per l’esplosione del
fluido elettrico venga a togliersi ai vapori aeriformi quel calorico eziandio, che è lor
necessario per porsi in istato di liquidità questi passano immantinente dallo stato di
vapori aeriformi a quello di solidi, e si ha conseguentemente la grandine. Altre cagioni possono contribuire a ridurre la nuvola allo stato di liquidità, le quali però non
appartengono in modo alcuno all’elettricismo, laonde ci asterremo dal parlarne.
Da quanto si è detto intorno alla formazione del fulmine facilmente si deduce la
cagione del tremuoto giacché sopraccaricandosi di fluido elettrico nelle viscere della
terra qualche corpo conduttore isolato per la sua tendenza all’equilibrio dovrà il
fluido elettrico scagliarsi da questo in altri corpi, che ne abbiano in minore quantità
e per tal modo scuotere impetuosamente la terra, e cagionare tutti quei lacrimevoli
effetti che sogliono essere le funeste conseguenze del tremuoto. A riparare una siffatta
sciagura saviamente propose un vivente Scrittore di porre sotterra ad una conveniente profondità delle verghe di ferro, le quali per la loro affinità con il fluido elettrico lo
attraggano a se, e lo equilibrino con gli altri corpi circostanti in quel modo appunto,
in cui i nostri conduttori, e la pioggia medesima equilibrano senza alcun disordine il
fluido elettrico contenuto nelle nubi con quello, che si contien nella terra.
Altro ora non ci rimane intorno ai fenomeni dell’elettricità, che il parlar delle
trombe. Abbiam già detto, che dovendo il fluido elettrico contenuto nelle nubi equilibrarsi con quello, che nella terra ritrovasi si apre il passaggio nell’atmosfera per
mezzo di un sottilissimo solco da lui fatto nell’aria. Ciò avviene però solamente
allorché l’atmosfera circostante essendo assai secca, e per conseguenza corpo non
conduttore gli impedisce di aprirsi per mezzo ad essa una strada più ampia. Se poi
venga nell’atmosfera medesima ad occasionarsi un poco di umidità, e la nuvola possa
in qualche modo avvicinarsi alla superficie della terra, o del mare il fluido elettrico,
che si contiene nella nube potrà allora aprirsi per l’aria una strada assai maggiore di
quella del fulmine, e strascinando seco una parte de’ vapori chiamati vescicolari, che
compongono la nuvola dovrà necessariamente formare un cono occasionato dalla
pressione dell’aria esterna, la qual pressione è in ragione inversa dell’altezza dell’atmosfera. Riguardo agli effetti cagionati da questo terribil fenomeno noi farem qui,
che riportare le parole del celebre Sig.r Dandolo [8] poste nel suo Dizionario Filosofico-Chimico all’articolo Tromba. Si vede, egli dice, «che aprendosi come votando un
liquido per un imbuto un vuoto nel mezzo del vortice spirale occasionato dalla forza
sunnominata1 i corpi tutti dal basso sian solidi o liquidi per la pressione laterale debbono
ascendere nel vortice determinato da questo vuoto; che quei corpi, che potranno essere
trasportati nel vortice saranno tanto più grandi quanto più grande sarà il diametro infe-
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DISSERTAZIONE SOPRA L’ELETTRICISMO
riore del cono: che quindi questi corpi chiudendo più o meno il voto della colonna verticale debbono essere al vertice del cono lanciati stracciati ec. in mille modi: che questi
effetti debbono esser tanto più grandi lunghi, e terribili quanto maggiore è la quantità di
fluido elettrico, e di vapore vescicolare, che si ritrovano nella nuvola, e quanto più è in
giusta proporzione l’umidità onde il diametro del cono non sia né soverchiamente grande,
né troppo piccolo: che appunto per questa cagione, e per queste circostanze debbono le
cannonate tirate contro queste trombe distruggerne gli effetti, avvegnaché squarciandole
si fa strada entro ad esse l’aria esterna con cui l’equilibrio si ristabilisce (1. La forza di
reazione dell’aria esterna, e la forza di pressione, e di espansione del fluido discendente)».
Potrà qui forse richiedersi perché la maggior parte de’ finquì esposti fenomeni
non abbia luogo d’ordinario che nell’estate. La soluzione di un tal quesito è assai
facile. Vedesi difatto assai chiaramente, che nella fredda stagione non può il fluido
elettrico superare la resistenza dell’atmosfera, e sollevarsi dalla terra alle nubi per
mancanza di calorico il quale seco combinato lo trasporti unito ai vapori acquei, che
s’innalzano nell’atmosfera, e se talvolta si hanno nell’inverno de’ tuoni, e de’ fulmini
ciò avviene per una qualche straordinaria sopravvenienza di calorico. In tal modo
non fa a noi di mestieri di ricorrere al chimerico sotterfugio de’ passati Fisici, i quali
voleano ad ogni patto ingombrar la fredda stagione di tuoni, e fulmini, ed altre
spaventose meteore elettriche per non esser costretti a spiegar la cagione, per cui
questi fenomeni esser sogliono nel verno assai rari.
Tutto ciò, che abbiam detto contiene in brevi parole l’intera Teoria dell’elettricità. Non possiamo alcerto bastantemente encomiare quei Fisici, i quali impiegar seppero i loro lumi nel discuoprire la cagione, e l’origine di sì spaventosi fenomeni per
poi dar campo alle ricerche intorno al modo di preservarsi da’ loro terribili effetti.
Non si scorgerebbe certamente nelle Fisiche dottrine un sì gran numero d’inutili
questioni se tutti i Filosofi impiegar sapessero la loro scienza nella ricerca soltanto di
quelle cose, che ridondar possono in qualche modo a pro del genere umano.
46
NOTE
[1]
Algarotti, Francesco (1712 – 1764). La sua educazione letteraria e scientifica è legata soprattutto agli anni trascorsi a Bologna, ove impostò il Neutonianismo per le dame. Trasferitosi a
Parigi nel 1733, si impose a quella società con il suo vivissimo ingegno e condusse a termine la
sua opera di cui mutò il titolo in Dialoghi sopra l’ottica neutoniana. Scrittore abbondantissimo
rappresenta la vastità di interessi, la prontezza nell’assimilare le più vive conquiste del pensiero, soprattutto l’ansia di divulgazione educativa che caratterizzano la civiltà illuministica.
[2]
Archimede (287 – 212 a.C.). Filosofo, matematico e fisico greco. Frequentò la scuola di Alessandria d’Egitto e fu uno dei maggiori scienziati dell’antichità. Costruì numerose macchine da
guerra per organizzare la difesa contro i romani durante l’assedio di Siracusa. Tra le sue numerose invenzioni è famosa la «vite di Archimede». Compì studi nel campo della geometria e
calcolò il valore di π; sviluppò i concetti della numerazione di grandi quantità, introducendo
l’idea di continuità; pose i fondamenti della statica e dell’idrostatica: a lui si deve la legge sul
galleggiamento dei corpi.
[3]
Bernier, François (1620 – 1688). Medico, viaggiatore, filosofo. Fu medico presso la corte di
Delhi e filosofo gassendista, contribuendo alla diffusione del pensiero di Gassend.
[4]
Bouguer, Pierre (1698 – 1758). Fisico e geodeta. Membro dell’Academie des sciences di Parigi,
partecipò ad una spedizione in Perù per la misura di un arco di meridiano, al fine di definire
l’esatta forma della Terra.
[5]
Boyle, Robert (1627 – 1691). Scienziato e filosofo irlandese. Conosciuto come il padre della
chimica, svolse un ruolo importante nel dissociare la chimica da quella miscela di scienza e di
magia che caratterizzò l’alchimia. Stabilì il peso dell’aria e fece numerose ricerche sul calore,
sull’ottica e sull’elettricità. Nel 1663 pubblicò la verifica sperimentale della «legge di Boyle»
dimostrando che, a temperatura costante, il volume di una massa di gas è inversamente proporzionale alla sua pressione.
[6]
Brahe, Tycho (1546 – 1601). Astronomo danese. Inventò e perfezionò strumenti astronomici
ed effettuò accurate osservazioni; a lui si deve la scoperta della stella Cassiopea. Propose un
modello planetario, al tempo stesso eliocentrico e geocentrico, in cui la Terra era immobile al
centro dell’Universo, i pianeti ruotavano intorno al Sole, mentre quest’ultimo ruotava intorno
alla Terra. Alla sua opera si ispirò Keplero per la formulazione delle leggi sul moto dei pianeti.
[7]
Brisson, Mathurin-Jacques (1723 – 1806). Zoologo e fisico. Eseguì importanti studi di ornitologia e ricerche sui pesi specifici di varie sostanze.
[8]
Dandolo, Vincenzo (1758 – 1819). Scienziato e patriota. Studiò chimica all’Università di
Pavia. Sostenne e diffuse le teorie di Lavoisier nei suoi Fondamenti della scienza chimico-fisica
(1793). Dello stesso autore curò la prima traduzione italiana del Traité élémentaire de chimie
(1791).
[9]
Descartes, René (1596 – 1650). Filosofo e matematico, fu l’iniziatore del razionalismo moderno. Educato dai gesuiti, partecipò alla guerra dei Trent’anni. Nel 1620 lasciò la vita militare per dedicarsi completamente agli studi. Il sistema di Descartes muove dal problema di
come giungere correttamente alla verità e di come questa sia strettamente collegata al corretto
funzionamento del pensiero umano; postula il dualismo tra pensiero e materia e il processo
circolare pensiero-natura-Dio-pensiero che influenzerà a lungo la filosofia. Su tali basi e ricercando una spiegazione meccanicistica della natura, Descartes formulò un rigoroso metodo
scientifico che cercò di applicare a tutte le discipline investigate; fondò la geometria analitica,
si interessò a problemi di ottica e di idrostatica, fu sostenitore delle idee copernicane.
[10]
Ferrein, Antoine (1693 – 1769). Medico e anatomista. Fu professore di medicina e chirurgia
al Royal College e membro dell’Academie des sciences di Parigi.
47
NOTE
[11]
Galilei, Galileo (1564 – 1642). Fisico, matematico e astronomo. Compì studi di medicina,
che abbandonò presto per dedicarsi alla matematica e alla fisica, divenendo docente di matematica a Pisa e Padova. Si dedicò con continuità alla ricerca scientifica, attraverso uno studio
rigoroso e sistematico senza tralasciarne le applicazioni pratiche. Scoprì l’isocronismo del pendolo, costruì la bilancia idrostatica per la misura del peso specifico dei solidi, condusse numerose esperienze sul moto dei gravi discontandosi sin dai primi studi dalle teorie aristoteliche
sulla concezione del moto; mise a punto il primo canocchiale, che gli permise importanti
osservazioni astronomiche e inventò un microscopio. A Firenze dal 1610, sotto la protezione
del granduca Cosimo II, si dedicò con maggiore impegno alla ricerca, pose le basi del metodo
sperimentale, fondamentale per lo sviluppo della scienza, che associa all’osservazione diretta e
agli esperimenti di laboratorio l’uso rigoroso di relazioni matematiche. Nel 1632 espose le
teorie della dinamica e del pricipio d’inerzia che segnarono l’inizio della nuova fisica. Sostenitore della teoria eliocentrica copernicana e dell’indipendenza della scienza dalla fede, fu condannato all’ergastolo e le sue teorie furono messe al bando dai «revisori ecclesiastici». La
condanna venne poi trasformata in isolamento per permettere la collaborazione con Viviani e
Torricelli, suoi discepoli, con cui continuò le ricerche sui problemi della cinematica e della
dinamica, evidenziando per primo la relatività della velocità rispetto ai sistemi di riferimento.
[12]
Gassend, Pierre (1592 – 1655). Professore di filosofia e di matematica, prevosto della cattedrale di Digne. È tra i massimi rappresentanti della nuova scienza e in generale della nuova
cultura che si andava affermando nel Seicento: in lui la tradizione storico-erudita di origine
umanistica si fonde con precisi interessi scientifici, nella comune prospettiva di edificare una
scienza – della natura e degli uomini – condotta historico stylo.
[13]
Herschel, Frederick William (1738 – 1822). Astronomo tedesco. Insegnante di musica, preso
da passione per l’astronomia si accinse, ormai trentacinquenne, alla costruzione di un telescopio riflettore, con cui effettuò la sua prima osservazione della nebulosa di Orione. Pochi anni
dopo, la notte del 13 marzo 1781, scoprì il pianeta Urano, scoperta che gli meritò fama
improvvisa e un assegno del re Giorgio III per continuare le ricerche.
Esplorando il cielo con riflettori sempre più potenti da lui stesso costruiti, mostrò l’esistenza
di stelle doppie, la cui scoperta costituì un’ulteriore conferma della generale validità della legge
di gravitazione universale. La sua ricerca più importante è quella che lo condusse ad un primo
approssimativo modello del sistema stellare costituente la Via Lattea. Studiò le nebulose e gli
ammassi stellari; scoprì due satelliti di Saturno e due di Urano.
[14]
Huygens, Christiaan (1629 – 1695). Fisico, astronomo e matematico olandese. Dopo studi
umanistici, si dedicò alla scienza, seguendo la concezione cartesiana e sviluppandone il metodo sperimentale. Conosciuto nel mondo scientifico per un trattato sulla quadratura delle
sezioni coniche e per uno studio sulla teoria delle evolute e delle evolventi, espose sistematicamente la teoria delle probabilità, a partire dalle problematiche del gioco d’azzardo. Compì
anche numerose osservazioni astronomiche, scoprì il satellite di Saturno, Titano, e rivelò la
presenza della nebulosa di Orione. Fece numerosi studi sulla meccanica e introdusse il concetto di momento d’inerzia; espose i principi di conservazione dell’energia cinetica e della quantità di moto. Scrisse anche una teoria sul pendolo composto avvalendosi della sua esperienza
di costruttori di orologi, ma soprattutto formulò la teoria ondulatoria della luce, in antitesi
con le idee di Newton, che permetteva di giustificare i fenomeni di diffrazione e di rifrazione
e che rimase in auge sino alla formulazione della teoria elettromagnetica di Maxwell.
[15]
Jacquier, François (1711 – 1788). Matematico. Trasferitosi in Italia, fu titolare di un corso di
fisica sperimentale. Successivamente divenne professore di matematica presso il Collegio Romano.
[16]
Kepler, Johannes (1571 – 1630). Astronomo. Studiò filosofia, matematica e astronomia a
Tubinga. Allievo ed erede di Tycho Brahe, effettuò numerose osservazioni astronomiche, tra
cui le macchie solari, e arrivò successivamente a formulare le tre leggi sul moto dei pianeti, che
contribuirono all’affermazione del modello eliocentrico e alle quali Newton si ispirò per formulare la teoria della gravitazione universale.
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NOTE
[17]
Kopernik, Nikolaj (1473 – 1543). Astronomo polacco, studiò matematica a Cracovia e legge,
astronomia, medicina e diritto canonico a Bologna, Ferrara e Padova; nel 1506 tornò
definitivamente in Polonia dove fu canonico. Riprendendo il pernsiero di Aristarco di Samo,
affermò la validità del modello eliocentrico in cui la Terra ed i pianeti ruotano intorno al Sole
su orbite circolari non complanari, la Terra ruota su se stessa e la Luna intorno alla Terra.
Sostenuta, tra gli altri, da Giordano Bruno, la sua teoria non venne ritenuta valida dagli scienziati suoi contemporanei perché l’ipotesi delle orbite circolari forniva risultati discordanti dalle osservazioni quanto quelli basati sul sistema tolemaico. Messa inizialmente all’indice, la sua
opera fu accettata solo un secolo più tardi grazie alle osservazioni di Galileo e alle teorie di
Keplero e di Newton.
[18]
Leeuwenhoek, Antony van (1632 – 1723).Uno dei principali fondatori della microscopia
(costruiva da sé le lenti), fu autore di numerose scoperte tra cui i globuli rossi e gli spermatozoi.
[19]
Mairan, Jean-Jacques Dortous de (1678 – 1771). Fisico e matematico. Fu membro dell’Accademia di Bordeaux, dell’Academie des sciences di Parigi, di quella di San Pietroburgo e della
Royal Society di Londra e di Edimburgo. Valente scrittore, riuscì ad esporre con chiarezza
teorie scientifiche astratte. Pubblicò memorie su questioni di geometria, astronomia, fisica e
storia naturale. Si interrogò sull’origine dell’aurora boreale e sulla natura della coda delle comete, senza tuttavia darne una spiegazione soddisfacente.
[20]
Malebranche, Nicolas de (1638 – 1715). Filosofo, membro onorario dell’Academie des sciences
di Parigi. Nell’ultimo periodo della sua vita coltivò in modo particolare il calcolo infinitesimale
e propose una teoria che spiegava la differenza dei colori in base alla frequenza delle vibrazioni.
[21]
Newton, Isaac (1643-1727). Fisico, matematico e astronomo, fu presidente della Royal Society
di Londra e deputato al Parlamento. È la figura centrale della scienza del XVIII; è considerato
il fondatore del calcolo infinitesimale, del quale gli fu attribuita la priorità nei confronti dell’opera di Leibniz. In fisica, accettando il concetto cartesiano di moto inerziale, giunse a definire le leggi della dinamica che, basata sul fondamentale concetto di inerzia, mantiene tuttora
la propria validità, nei limiti dettati dalla meccamica quantistica e relativistica. Diede inoltre
impulso all’astronomia sperimentale risolvendo il problema della aberrazione cromatica, mediante l’introduzione di telescopi a specchi concavi. In ottica individuò la natura dei colori
come componenti della luce bianca, studiò il fenomeno della rifrazione e, senza escludere la
teoria ondulatoria, espose la teoria corpuscolare circa la natura della luce.
[22]
Nollet, Jean Antoine (1700 – 1770). Fisico, sacerdote, professore di fisica a Parigi, Torino,
Bordeaux, membro dell’Academie des sciences di Parigi e della Royal Society di Londra. Fu uno
dei primi cultori sistematici della fisica sperimentale in Francia. Oltre alla scoperta del fenomeno dell’endosmosi, eseguì notevoli ricerche di elettrologia che lo portarono a enunciare
una teoria del «fluido elettrico».
[23]
Para du Phanjas, François (1724 – 1797). Filosofo e matematico. Rinomato insegnante di
matematica e di fisica sotto l’ordine dei Gesuiti, si trasferì successivamente a Parigi e, sotto la
protezione dell’arcivescovo, si dedicò completamente alla ricerca scientifica.
[24]
Pitot, Henri (1695 – 1771). Ingegnere idraulico e fisico. Inventò lo strumento noto come
«tubo di Pitot» per misurare la portata di un corso d’acqua.
[25]
Poli, Giuseppe Saverio (1746 – 1825). Medico e naturalista. Pubblicò varie memorie di fisica,
meteorologia, geologia e zoologia.
[26]
Richer, Jean ( ? – 1696). Matematico, membro dell’Academie des sciences di Parigi. Conosciuto
soprattutto per un viaggio scientifico alla Caienna, durante il quale riportò la scoperta inattesa
e importante che un pendolo a secondi non ha la stessa lunghezza d’onda a tutte le latitudini.
Tale osservazione fornì a Newton e a Huygens un argomento per ipotizzare l’appiattimento
del globo.
Santorio, Santorio (1561 – 1636). Addottoratosi a Padova nel 1582, effettuò ricerche
quantitative sul metabolismo. Convinto della stretta dipendenza della traspirazione insensibi-
[27]
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le dal calore, dall’umidità e dai venti, utilizzò nelle sue esperienze un termometro (fu il primo
a controllare la temperatura corporea con il termometro), un igrometro ed un anemometro.
Fu uno degli iniziatori della cosiddetta iatromeccanica, dottrina medica che cercava di interpretare i fenomeni fisiologici e patologici alla luce delle leggi della meccanica e della statica.
[28]
Tolomeo, Claudio (II secolo d.C.). Astronomo, geografo e matematico. Attivo ad Alessandria
d’Egitto, sostenne il modello geocentrico dell’Universo, che perfezionò introducendo la teoria
degli epicicli. Tale modello fu accettato nel mondo occidentale sino al secolo XVI, quando,
nonostante gli ostacoli posti dalla Chiesa, venne sostituito dal modello eliocentrico di Copernico. Importante fu l’opera di Tolomeo geografo in cui egli tracciò uno schema completo delle
conoscenze del tempo su Europa, Asia e Africa, usando i concetti di longitudine e latitudine.
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