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A
cinquant’anni dal suo inizio, il Concilio Vaticano II si colloca all’interno della storia di fede della Chiesa
cattolica, in continuità con i Concili che
l’hanno preceduto, come un anello di una
catena che contribuisce a sviluppare la vita
e la dottrina cristiana verso quella meta
che solo il Signore della storia e del tempo
Il Concilio
Vaticano II
L'ermeneutica della riforma
nella continuità
S. E. Mons. Guido Pozzo1
Elemosiniere di Sua Santità Benedetto XVI
[1] Al momento della
stesura di questo articolo S. E. Mons. Pozzo era
Segretario della Pontificia Commissione “Ecclesia Dei”.
[2] Benedetto XVI, Ad
Romanam Curiam ob
omina natalicia, 22 dicembre 2005, in AAS 98
[2006], pp. 40-53.
conosce. A motivo dell’Anno della Fede,
proclamato da Papa Benedetto XVI, non
può mancare l’esigenza di approfondire la
chiave ermeneutica del Concilio Vaticano
II, considerato che la sua recezione in questi cinquant’anni si è svolta sotto l’influsso
di una vulgata, determinata più dal cosiddetto “spirito” del Concilio, che da una
attenta lettura e comprensione dei testi
conciliari. Lo “spirito” del Concilio è appunto una certa chiave di lettura, che non
si fonda sull’intentio docendi del Magistero
conciliare, ma sulle posizioni ideologiche
di una certa teologia e di una certa precomprensione culturale e filosofica che ha
accompagnato il contesto dell’assise conciliare e che ha orientato la recezione dei
suoi documenti nell’epoca postconciliare,
segnata dal clima della secolarizzazione e
del pensiero antropocentrico e storicista.
Ecco perché oggi non si può parlare del
Concilio Vaticano II e dei suoi insegnamenti senza porre nel medesimo tempo il
problema dell’interpretazione, ovvero della
giusta e corretta interpretazione del pensiero del Concilio stesso. Merita pertanto
una menzione del tutto particolare il Discorso alla Curia Romana pronunciato dal
Santo Padre nel dicembre 2005, nel quale,
tra gli altri motivi, il Papa ha scelto di approfondire l’interpretazione del Concilio
Vaticano II, in occasione del 40o anniversario della sua conclusione2.
N. 2 anno VIII
Ermeneutica della discontinuità
ed ermeneutica della riforma
nella continuità
La chiave di comprensione di questo discorso sta nella seguente domanda che il Papa
stesso si è posto e ha posto: «Perché la recezione del Concilio, in grandi parti della Chiesa,
finora si è svolta in modo così difficile?»; «Che
cosa è stato buono, che cosa insufficiente o
sbagliato?». Il Papa prosegue offrendo anche
la risposta a tale quesito: «Ebbene, tutto dipende dalla giusta interpretazione del Concilio o dalla sua giusta ermeneutica, dalla giusta
chiave di lettura e di applicazione». Il motivo
della difficoltà nella recezione del Concilio è
quindi individuato dal Papa nel fatto che due
ermeneutiche o interpretazioni del Concilio si sono trovate a confronto, e anzi hanno
convissuto insieme in modo contrapposto.
Secondo il Papa, l’una ha causato confusione, l’altra – silenziosamente, ma sempre più
visibilmente – ha portato frutti. Come capire
e spiegare queste due interpretazioni? Da una
parte esiste una interpretazione che il Papa
chiama «ermeneutica della discontinuità e
della rottura»; dall’altra parte esiste una interpretazione che il Papa chiama «ermeneutica
del rinnovamento e della riforma nella continuità». Queste idee erano già presenti nel
suo famoso libro Rapporto sulla fede del 1985,
scritto da Cardinale Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, ma sono ora
riprese e maggiormente articolate nella sua
riflessione da Sommo Pontefice.
L’ermeneutica della discontinuità rischia di
finire in una rottura tra Chiesa preconciliare e
Chiesa postconciliare e presuppone che i testi
del Concilio come tali non sarebbero la vera
espressione del Concilio, ma il risultato di un
compromesso. Occorrerebbe pertanto recuperare lo “spirito” del Concilio, andando avanti,
e facendo spazio alle novità. La domanda che
però subito sorge è: come definire questo “spirito” del Concilio e quali sono i confini da tratteggiare per sapere quale è la vera intenzionalità del
Concilio? In realtà questa ermeneutica presuppone che il Concilio Vaticano II sia stato una
specie di Costituente della Chiesa, che avrebbe
dovuto rifondare la Chiesa stessa. Al contrario,
dice il Papa, secondo la dottrina di fede cattolica, un Concilio è tale soltanto se rimane nel
solco della Tradizione e deve essere letto alla
luce dell’intera Tradizione. Anche il Vaticano II
è parte della totalità della Tradizione viva della
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Chiesa. Esso non è una specie di superdogma
che toglie importanza a tutto ciò che viene prima ma è sempre ed essenzialmente una realtà
che sta dentro la Tradizione, non accanto né
tanto meno sopra la Tradizione. Si deve anche
aggiungere che tale ermeneutica della rottura è
stata sostenuta e agevolata dai gruppi di pressione ideologica dei mass media e da una parte
della teologia e degli intellettuali modernisti interni ed esterni al mondo cattolico.
All’ermeneutica della discontinuità si oppone l’ermeneutica della riforma o del rinnovamento nella continuità. Certamente il Concilio Vaticano II non ha voluto semplicemente
ripetere materialmente quanto insegnato dalla
Tradizione precedente, ma ha segnato uno sviluppo, un approfondimento e una esplicitazione sempre più ampia del patrimonio di fede
della Chiesa. Il Concilio rappresenta quindi un
momento provvidenziale di crescita dell’intera
coscienza della Chiesa, facendo maturare frutti nuovi, in perfetta continuità e fedeltà con la
Tradizione. Il Papa riprende testualmente le
parole di Giovanni XXIII nell’Allocuzione
ben nota in occasione dell’apertura del Vaticano II: «È necessario che questa dottrina certa
e immutabile, che deve essere fedelmente rispettata, sia approfondita e presentata in modo
che corrisponda alle esigenze del nostro tempo. Una cosa infatti è il deposito della fede, altra cosa è il modo col quale vengono enunciate
le verità, conservando tuttavia lo stesso senso e
la stessa portata»3. Benedetto XVI commenta
così queste parole: «È chiaro che questo impegno di esprimere in modo nuovo una determinata verità esige nuova riflessione su di
essa e un nuovo rapporto vitale con essa […]
il programma proposto da Giovanni XXIII
era estremamente esigente, come appunto
esigente è la sintesi tra fedeltà e dinamica».
Ma questo programma «presuppone sempre
la trasmissione integra e pura della dottrina,
senza attenuazioni né travisamenti».
[3] Sanctum Oecumenicum Concilium Vaticanum II, Consitutiones
Decreta Declarationes,
1974, p. 865.
I nodi fondamentali del Concilio
nelle circostanze attuali
Il Papa indica alcuni nodi cruciali che il Concilio ha ritenuto di affrontare e che ancor oggi si
ripresentano in varianti diverse, ma impellenti.
Il primo nodo si riferisce al rapporto tra
Chiesa e modernità. Qui si incontra il grande
dramma del divorzio tra fede cristiana e cultura moderna. Il Concilio eredita lo scontro tra
la fede della Chiesa con il liberalismo ideolo-
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gico e con le scienze positive che pretendevano di abbracciare con le loro conoscenze tutta
la realtà, proponendo di ritenere ormai superflua “l’ipotesi Dio”. Nell’Ottocento sembrava
che non fosse possibile nessun accordo tra la
fede religiosa e la ragione, laica e scientifica.
In questo contesto la reazione negativa della
Chiesa alla cultura moderna era comprensibile. Nel frattempo però anche nell’età moderna
vi furono interessanti sviluppi. Nel campo politico la Rivoluzione americana aveva offerto
un modello di stato moderno e liberale ben
diverso da quello fortemente ideologico delle
tendenze emerse nella Rivoluzione francese. Nel campo scientifico, le scienze naturali
cominciavano a riflettere sempre più chiaramente sui loro limiti conoscitivi, riconoscendo di non poter comprendere la totalità della
realtà. Nel campo sociale, la Dottrina sociale
della Chiesa, che si è progressivamente sviluppata, era diventata un modello importante distante sia dal liberalismo radicale sia
dal marxismo. Si potrebbe dire che si erano
formati tre cerchi di domande, che ora attendevano una risposta: innanzitutto occorreva
ridefinire in modo nuovo il rapporto tra fede
e scienze moderne, in secondo luogo era da
definire in modo nuovo il rapporto tra Chiesa e Stato moderno e in terzo luogo era da
chiarire il problema della tolleranza religiosa
e della libertà religiosa.
Non potendo in questo breve scritto trattare tutti e tre questi singoli aspetti, ci si limita a richiamare la chiave essenziale di lettura
che Benedetto XVI propone. Il Concilio ha
affrontato questi problemi nella continuità
dei principi con la Tradizione della Chiesa,
ma in una certa discontinuità nel giudizio
sulle situazioni contingenti, proprio perché
queste situazioni si erano evolute e quindi
non erano più le stesse dei secoli precedenti.
È proprio in questo insieme di continuità e
novità a livelli differenti che consiste la riforma del Concilio Vaticano II. Bisognava
riconoscere che nelle decisioni assunte in
passato dalla Chiesa nei confronti dei diversi fenomeni della civiltà moderna, soltanto
i principi esprimono l’aspetto permanente.
Non sono invece ugualmente permanenti le
forme concrete che dipendono dalla situazione storica e possono quindi essere soggette a mutamenti. Le decisioni storiche della
Chiesa su situazioni contingenti sono a loro
volta esse stesse contingenti.
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Tra gli esempi, merita particolare menzione il tema della libertà religiosa, che costituisce un secondo nodo essenziale, anche per le
ben note reazioni dei tradizionalisti seguaci
di Monsignor Lefebvre. Non corrisponde al
vero, e sarebbe un segno di quella ermeneutica della rottura che il Papa respinge, pensare
che il Vaticano II con la Dichiarazione sulla
libertà religiosa Dignitatis humanae (DH)
abbia voluto rinnegare la dottrina del Syllabus di Pio IX. Se infatti la libertà religiosa
viene considerata come espressione dell’incapacità dell’uomo di conoscere la Verità e
come strumento per canonizzare il relativismo e l’indifferentismo religioso, che sostengono erroneamente che tutte le religioni si
equivalgono, poiché ciò che conta sarebbe la
credenza soggettiva degli uomini, allora ne
consegue che la dottrina sulla libertà religiosa intesa in questo senso è inaccettabile
ieri, oggi e sempre. Una cosa totalmente diversa è invece considerare la libertà religiosa
come una necessità derivante dalla dignità
della persona, anzi come una conseguenza
intrinseca della verità che non può essere
mai imposta all’uomo dall’esterno, ma deve
essere fatta propria dall’uomo con l’esercizio
della sua libertà. Il Vaticano II, riconoscendo
e facendo suo un principio essenziale dello
Stato laico moderno (ma non laicista), ha
ripreso un aspetto fondamentale del patrimonio della fede della Chiesa fin dal Vangelo e dall’antichità cristiana: la professione
di fede può essere fatta propria solo con la
grazia di Dio nella libertà della coscienza, e
mai imposta dallo Stato o dalla società civile.
Lo Stato deve invece garantire a tutti la professione della fede e la sua manifestazione
pubblica. Allo stesso tempo però il Vaticano
II nella Dignitatis humanae riconferma che
l’unica vera Religione sussiste nella Chiesa
cattolica e apostolica, alla quale il Signore Gesù affida la missione di comunicarla
a tutti gli uomini (DH, 1), e con ciò nega
il relativismo e l’indifferentismo religioso,
condannato pure dal Syllabus di Pio IX. Ciò
che è cambiato è il giudizio sulle decisioni
storiche del passato (non sui principi), anche
perché la situazione storica contingente delle
società del passato si è evoluta e non è più la
stessa dei secoli precedenti. Ciò che DH difende non è la licenza di aderire all’errore né
tanto meno il diritto morale di scegliere l’errore in materia religiosa, ma il diritto civile
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della persona all’immunità dalla coercizione
o dall’impedimento in tale materia, entro i
debiti limiti stabiliti dall’ordine morale oggettivo e dal bene comune (cfr. Catechismo
della Chiesa Cattolica, 2108-2109). Orbene,
tale diritto civile della persona non è il diritto condannato dal Syllabus di Pio IX, che invece aveva come oggetto di giudizio il diritto
della libertà religiosa inteso dalla Dichiarazione dei Diritti dell’uomo e del cittadino
del 1789, nell’epoca della Rivoluzione francese, e che implica una approvazione della
diversità delle opzioni religiose in quanto
tali. Non c’è quindi alcuna contraddizione a
livello dottrinale tra le condanne della libertà religiosa fatte precedentemente dal Magistero e l’affermazione della libertà religiosa
fatta dal Vaticano II. Per comprendere tali
affermazioni, occorre tenere presente che il
significato dell’espressione “libertà religiosa”
nell’insegnamento del Magistero prima del
Vaticano II è diverso dal significato della
medesima espressione usata nei documenti
del Vaticano II e del Magistero successivo.
Certamente esiste una novità nel Vaticano II rispetto alle affermazioni precedenti
del Magistero, in quanto la libertà religiosa
dichiarata da DH non era stata prima insegnata espressamente dal Magistero. Questa
novità non elimina la continuità dottrinale,
perché si tratta di una esplicitazione del contenuto del diritto naturale. La progressiva
esplicitazione del contenuto della Rivelazione e della legge naturale (in realtà, questa è
anche rivelata, in parte esplicitamente e in
parte implicitamente) è funzione propria
del Magistero in ogni tempo. La suddetta
continuità dottrinale esige la riaffermazione
del quadro integrale della dottrina cattolica
sul dovere sociale della religione e sul diritto
alla libertà religiosa. Ciò significa quindi che
l’insegnamento di DH sulla libertà religiosa deve essere integrato sempre nel contesto
globale della dottrina cattolica insegnata dal
Magistero costante della Chiesa. Altrimenti
si rischia di cadere in una visione parziale e
unilaterale, inaccettabile e contraria all’insegnamento cattolico.
In particolare l’affermazione sulla libertà
religiosa, insegnata da DH, cioè il diritto
all’immunità da coercizione esteriore, entro i
giusti limiti, in materia religiosa da parte del
potere politico, deve essere accolta insieme
alla Dottrina del Magistero della Chiesa che
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[4] Pio IX, Sillabus, 15:
Denz-Sch 2915.
[5] Sacra Congregtatio pro Doctrina Fidei,
Epistula ad Venerabiles
Praesules Conferentiarum Episcopalium, in
AAS 58 (1966), pp. 659661.
condanna il diritto alla libertà religiosa intesa come licenza morale di aderire all’errore
(cfr. Leone XIII, Lettera enciclica Libertas)
o intesa come un implicito diritto all’errore
(cfr. Pio XII, Discorso ai Giuristi Cattolici Italiani, 6 dicembre 1953), o a una libertà civile
illimitata in materia religiosa o limitata soltanto da un ordine pubblico inteso in senso
naturalistico, o a una libertà religiosa senza
distinzione. Va anche notato che questa condanna enunciata dal Magistero della Chiesa,
specialmente con l’Enciclica Quanta cura e
con il Syllabus, si riferiva anche alla concezione presupposta nell’affermazione di quei
diritti, cioè il nuovo ordine civile e sociale,
fondato sull’indifferentismo e sul relativismo.
Il Syllabus condanna pure la proposizione secondo la quale «ogni uomo è libero di abbracciare e di professare la religione che avrà
giudicato vera alla luce della sua ragione»4.
L’approccio soggettivistico alla religione è il
fondamento di questa rivendicazione della
libertà religiosa, per cui la Chiesa reagisce
allo snaturamento e al dissolvimento della vera religione che è quella cristiana. La
prospettiva del Concilio Vaticano II nel
trattare il diritto alla libertà religiosa è differente. Nel Vaticano II il fondamento della
libertà religiosa, come anche della libertà di
coscienza, nell’ordine civile e giuridico non
è la concezione soggettivistica, agnostica o
relativista delle ideologie moderniste, ma è
la dignità della persona umana, in quanto essere creato ad immagine di Dio e dotato di
intelligenza e volontà. Ciò però deve essere
sostenuto insieme con la dottrina cattolica
tradizionale secondo cui la ragione non è arbitra del bene e del male, del vero e del falso,
e la coscienza non determina la norma morale, ma al contrario la coscienza deve essere
rettamente formata dalla verità. Allo stesso
modo la nuova prospettiva del Concilio Vaticano II considera una sana laicità dello Stato, intesa non come indifferenza nei confronti
della religione, ma come non ingerenza nella
sfera delle coscienze e come garanzia dei diritti civili soggettivi delle persone in materia
religiosa, entro giusti limiti. Ciò però deve
essere sostenuto insieme con l’affermazione
della dottrina cattolica tradizionale secondo
cui non c’è uguaglianza tra i diritti della vera
religione e del vero culto reso a Dio rispetto ai
diritti delle altre religioni e degli altri culti. Una
cosa è l’affermazione dell’uguaglianza dei di-
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ritti delle persone (tesi sostenuta da DH),
tutt’altra cosa è l’affermazione dell’uguaglianza dei diritti delle religioni come tali
(tesi condannata dal Magistero precedente).
Quest’ultimo aspetto invero è taciuto (non
negato) nella DH, e quindi dovrebbe essere
ripreso ed espressamente riproposto, poiché
la stessa DH afferma che essa presuppone la
dottrina cattolica insegnata dalla Tradizione
e non intende riesporla nella sua interezza.
Questa disamina circa il tema concreto
della libertà religiosa conferma quanto sia
indispensabile e impellente procedere ad una
ermeneutica corretta dei documenti del Concilio Vaticano II per aiutare a comprendere il
significato dei loro contenuti nella linea del
rinnovamento nella continuità con la Tradizione. Così, conclude il Papa nel suo Discorso alla Curia Romana nel dicembre 2005:
«Possiamo oggi con gratitudine volgere il
nostro sguardo sul Concilio Vaticano II: se
lo leggiamo e recepiamo guidati da una giusta ermeneutica, esso può essere o diventare
sempre di più una grande forza per il sempre
necessario rinnovamento della Chiesa». Che
interpretare il Concilio e il suo programma
di aggiornamento e di rinnovamento ecclesiale secondo una giusta ermeneutica non sia
un fatto scontato, anzi costituisca piuttosto
un problema cruciale per il mondo cattolico di oggi, ne è prova la situazione piuttosto
confusa in cui si trova la teologia, la predicazione e la formazione culturale della coscienza cattolica odierna. A questo riguardo
è di interessante rilievo che immediatamente
dopo la conclusione del Concilio (1965), la
Congregazione per la Dottrina della Fede ritenne opportuno inviare una lettera circolare
ai Presidenti delle Conferenze Episcopali5
circa alcune sentenze ed errori insorgenti
sull’interpretazione dei decreti del Concilio Vaticano II, in merito a temi dottrinali
fondamentali: la Scrittura e la Tradizione
in rapporto alla Rivelazione, l’identità della
persona di Cristo, la presenza reale di Cristo nell’Eucaristia e la dottrina della transustanziazione, il valore sacrificale della Messa,
la dottrina sul sacramento della penitenza
e alcune interpretazioni erronee e ambigue
dell’ecumenismo che favoriscono «un pernicioso irenismo e un indifferentismo del tutto
alieno dalla mente del Concilio». Possiamo
quindi concludere affermando che è necessario stabilire la distinzione netta e decisa tra la
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mens autentica del Concilio Vaticano II e la
sua recezione nel modo di presentare, esporre
interpretare i documenti conciliari da parte
di una certa vulgata, diffusa da teologi, mezzi
di informazione, pubblicistica cattolica ecc.,
all’insegna di una frattura e rottura con la
Tradizione e gli insegnamenti del Magistero
precedente. Altrimenti, non sarebbero stati
necessari i reiterati interventi del Magistero
dei Pontefici a denuncia di tale operazione di
rottura, per riaffermare invece il principio del
rinnovamento nella continuità.
[6] J. Ratzinger, Unità
nella Tradizione della
fede, Allocuzione ai Vescovi del Cile, 13 luglio
1988, in «Cuaderno Humanitas» 20 (dicembre
2008), p. 38.
Il Concilio Vaticano II: Concilio
pastorale?
In una conferenza tenuta all’episcopato
cileno nel 1988, l’allora Cardinale Joseph
Ratzinger si esprimeva così a proposito del
Concilio Vaticano II, della sua natura e della sua recezione: «Da alcune descrizioni, si ha
l’impressione che dopo il Vaticano II tutto sia
cambiato e che tutto lo sia solo alla luce del
Vaticano II. Il Vaticano II non viene trattato
come parte di tutta una tradizione vivente della Chiesa, ma quasi come fine della tradizione
e come un inizio totalmente nuovo. Sebbene
esso non abbia emanato alcun dogma e abbia
voluto considerarsi più modestamente al rango
di un Concilio pastorale, alcuni lo rappresentano come se fosse per così dire il super-dogma,
che rende irrilevante tutto il resto. Questa impressione è rafforzata specialmente dalle procedure adottate. Quello che prima era quanto
di più sacro, la forma tramandata della liturgia,
appare improvvisamente come quanto di più
proibito, quanto di certo va respinto. La critica ai provvedimenti moderni dell’epoca postconciliare non è tollerata, ma laddove sono in
gioco le antiche, grandi verità della fede, come
ad esempio la verginità corporale della Vergine Maria, la Resurrezione corporale di Gesù,
l’immortalità dell’anima e così via, le reazioni
o non vi sono affatto o sono estremamente attenuate […]. Di fronte a tutto questo ci domandiamo se poi la Chiesa di oggi sia ancora
la Chiesa di ieri, oppure se sotto di essa non
sia stata fatta scivolare un’altra Chiesa, senza
nemmeno chiederglielo. Possiamo rendere il
Vaticano II davvero degno di fede, soltanto
se lo rappresentiamo con molta chiarezza così
come è: una parte di un tutto e una tradizione
della Chiesa e della sua fede»6.
La questione della natura e finalità del
Concilio Vaticano II si pose già all’interno
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dell’assise conciliare, eppure sembra ancora
non essere stata del tutto risolta, anche perché nei documenti del Concilio non si trova
una definizione precisa del termine “pastorale”. Possiamo comunque constatare che anche
dopo questi cinquant’anni la discussione sul
carattere pastorale e/o dottrinale del Concilio
Vaticano II lascia ancora delle ombre da dissipare. Possiamo, con il rischio di semplificare
troppo, distinguere due posizioni, entrambe
unilaterali e sostanzialmente fuorvianti:
a) La posizione massimalista, che fa del
Concilio Vaticano II una specie di metaconcilio o superdogma pastorale, secondo
cui la pastoralità sarebbe il principio che sostituisce e relativizza la dottrina e il dogma
cattolico della Tradizione. In questo modo,
la strada verso il pluralismo indiscriminato
e il relativismo e soggettivismo dottrinale è
inevitabile e comporta l’autodissoluzione e
l’autodemolizione della Chiesa stessa.
b) La posizione minimalista, che sostiene
che il Vaticano II è soltanto un Concilio pastorale, non distinguendo la finalità ultima,
che è pastorale, e la materia trattata nei singoli Documenti, nei quali vi sono sia testi di
carattere dottrinale sia testi di carattere pratico-pastorale. Separando il Magistero passato,
che sarebbe dottrinale, dal Magistero presente, che sarebbe pastorale, si introduce di fatto
una spaccatura e una divisione nel Magistero
stesso, e rimane irrisolta la domanda su quale
sia l’istanza che può decidere se l’attuale insegnamento del Magistero è coerente o meno
con il precedente insegnamento del Magistero; in altri termini: qual è l’istanza che giudica
in modo decisivo sulla continuità del Magistero vivente (presente) con il Magistero passato, non solo dal punto di vista del soggetto,
ma anche dal punto di vista dell’oggetto, cioè
della res de fide et moribus?
Rifiutando entrambe le posizioni, cerchiamo di presentare una riflessione che sia coerente con il dato oggettivo del Concilio Vaticano II. Esso espressamente non ha voluto
proporre nuove definizioni dogmatiche, ma
un magistero a carattere prevalentemente pastorale (cfr. Discorso del Santo Padre Giovanni
XXIII per la solenne apertura del Concilio, 1962);
ciò però non significa che nei suoi documenti
non vi sia anche un’esposizione dottrinale in
materia di fede e morale. Nei documenti del
Concilio Vaticano II vi sono numerosi testi
dottrinali, che richiedono l’ossequio interiore
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dell’intelletto e della volontà (cfr. Lumen gentium, 25), e testi di carattere pratico-pastorale, che
richiedono un’adesione rispettosa e anche dal
punto di vista disciplinare vincolante, ma non
necessariamente un ossequio interiore dell’intelletto e della volontà. Da queste premesse
derivano alcune conseguenze fondamentali:
a) “Pastorale” nella coscienza acquisita
della Chiesa significa applicazione della dottrina all’azione pratica della Chiesa. La pastorale riguarda l’applicazione della dottrina alla
prassi conformemente alle esigenze dei tempi e delle circostanze storiche contingenti.
b) La differenza tra le affermazioni dottrinali e le affermazioni orientate all’agire concreto conforme ai tempi è sostanziale, poiché le
seconde si fondano sulle prime e non possono mai
mettersi in contrasto con queste, se realmente si
vuole edificare una pastorale cattolica. La pastorale presuppone la dottrina e deve rimanere fedele alla dottrina. La pastorale non
può inventare la dottrina. La pastorale, però,
può indicare un rinnovamento della prassi
cattolica, adattando i modi di presentazione
della medesima dottrina alle nuove circostanze storiche (eodem sensu et eademque sententia). In tal senso il Concilio propone una
rinnovata prassi pastorale, a motivo del cambiamento delle circostanze storiche e temporali. I principi dottrinali rimangono immutati e permanenti (pur con le esplicitazioni
e gli approfondimenti dovuti allo sviluppo
omogeneo della dottrina cattolica), ma le applicazioni pastorali sono contingenti, poiché
contingente è sempre la situazione storica in
cui si incarna il messaggio cristiano.
c) La pastorale può legittimamente porre
nuove domande o nuove istanze alla dottrina,
ma non può mutare la dottrina. Il rovesciamento dell’ordine per cui una nuova pastorale diventa criterio e misura di una nuova
dottrina è inaccettabile.
In conclusione, possiamo indicare sommariamente i seguenti principi di interpretazione
dei documenti del Concilio Vaticano II:
1) Nelle Costituzioni dogmatiche (Lumen gentium e Dei verbum) viene esposta la
dottrina della Chiesa cattolica, sia (a) riproponendo definizioni dogmatiche che erano state
già precedentemente enunciate dal magistero
infallibile, sia (b) insegnando dottrine certe, e
quindi non più oggetto di discussione teo-
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logica (come ad esempio quando si afferma
esplicitamente la sacramentalità dell’episcopato come pienezza del sacramento dell’Ordine), sia (c) proponendo insegnamenti autentici che richiedono l’ossequio dell’intelletto e della
volontà, anche se non si esige un’adesione di
fede o un assenso incondizionato, dato che
non si tratta di dottrine proposte come divinamente rivelate né con atto definitivo.
2) Nella Costituzione pastorale Gaudium
et spes, nei Decreti e nelle Dichiarazioni talvolta sono presenti insegnamenti dottrinali, ma per lo più sono proposte indicazioni,
orientamenti sull’agire pratico, cioè indicazioni, esortazioni e direttive pastorali come
applicazione della dottrina, tenendo presenti
le circostanze del momento odierno. Nei riguardi di questi orientamenti o indicazioni
pastorali, occorre manifestare una adesione
sincera, una rispettosa accoglienza, ma non
si può escludere che il linguaggio usato, a
motivo del fatto che non è dogmatico né definitorio, ma piuttosto esplicativo, didattico,
espositivo e argomentativo, possa esporsi a
interpretazioni unilaterali o parziali o riduttive del messaggio espresso. In questo contesto
è legittimo che tali insegnamenti o direttive
possano essere oggetto di ulteriore studio o
discussione critica in vista di una precisazione o di un chiarimento o di una spiegazione
più completa, ma significa che tali insegnamenti debbono essere rettamente interpretati sub ductu Magisterii, per evitare ambiguità
o malintesi che si possono verificare, e di
fatto si sono verificati, nell’epoca conciliare
e fino ai nostri giorni. Occorrerà comunque
in tale studio o discussione, applicare alcuni
criteri ermeneutici basilari del pensiero cattolico, e cioè che (a) le singole affermazioni
devono essere considerate nell’unità globale
dell’insegnamento del Concilio; (b) gli insegnamenti del Concilio devono essere letti
nella luce della intera Tradizione e del Magistero costante della Chiesa; (c) le singole
affermazioni devono essere sempre comprese nel legame interiore con l’integrità e la
globalità della dottrina della fede cattolica,
nel presupposto che gli insegnamenti del
Concilio Vaticano II, così come di ogni altro
Concilio, non sono il tutto, ma sono parte di
un tutto, cioè della totalità indivisibile della
fede cattolica.