La tempesta - Cantook.net

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La tempesta - Cantook.net
^ William ^
La tempesta
Noi siamo fatti della medesima
sostanza di cui sono fatti
i sogni, e la nostra vita breve
è circondata dal sonno.
CD
Cura e introduzione
di Gabriele Baldini
Con un testo
di Harold Bloom
Estratto della pubblicazione
^ William ^
Opere
Estratto della pubblicazione
L’Avvertimento che qui si riproduce è apparso nella prima edizione
in tre volumi dei drammi shakespeariani edita nei Classici Rizzoli nel 1963. In esso Baldini spiega l’inserimento nell’in folio 1623
delle opere del Bardo in un ordine che non rispecchiava la sequenza
cronologica della loro genesi. Inoltre, egli motiva la propria decisione di adottare la prosa, fluida ed elegante, invece del verso, e le particolarità che differenziano la propria versione da altre che l’hanno
preceduta, dichiarando il debito verso traduttori come Hugo, Gide
e Montale.
Alla Tempesta, considerata la più alta forma poetica del teatro shakespeariano, Baldini affida anche l’Introduzione generale all’opera
che confluirà nel famoso Manualetto shakespeariano. Ai miti e alle
leggende sorte sulla figura di Shakespeare, egli affianca una spiegazione critica e filologica della nascita e dell’evoluzione del genio
shakespeariano, la problematicità dei testi originali e corrotti e delle
loro numerose varianti.
Gabriele Baldini (Roma, 1919-1969), saggista, traduttore, critico
letterario e cinematografico, è stato direttore dell’Istituto Italiano di
Cultura a Londra e docente di Letteratura inglese a Roma.
La sua fama, in Italia e all’estero, è legata ai suoi meriti accademici
in anglistica e americanistica: dai suoi studi sono nati saggi di rilievo, come Poeti Americani 1662-1945, Melville o le ambiguità, John
Webster e il linguaggio della tragedia. È stato il primo curatore di
una rigorosa edizione dell’intero corpo degli scritti di Shakespeare,
in tre volumi: Opere Complete nuovamente tradotte e annotate
(Classici Rizzoli, 1963). Fanno ancora scuola la sua storia del teatro
inglese – Teatro inglese della Restaurazione e del ’700, La tradizione letteraria dell’Inghilterra medioevale, Il dramma elisabettiano –,
le sue lezioni su Le tragedie di Shakespeare e il fortunatissimo Manualetto shakespeariano.
^ William ^
La tempesta
CD
Cura e introduzione
di Gabriele Baldini
Con un testo
di Harold Bloom
Estratto della pubblicazione
WILLIAM SHAKESPEARE - OPERE
4 – La tempesta
Edizione speciale su licenza per Corriere della Sera
© 2012 RCS MediaGroup S.p.A. Divisione Quotidiani, Milano
via Solferino 28, 20121 Milano
Sede Legale via Rizzoli 8, 20132 Milano
Direttore responsabile Ferruccio de Bortoli
ISBN 9788861261419
Proprietà letteraria riservata
© 1963-2012 RCS Libri S.p.A., Milano
Titolo originale dell’opera:
The Tempest
Traduzione di Gabriele Baldini
Per il testo di Harold Bloom tratto da Shakespeare. L’invenzione dell’uomo
© 2001 RCS Libri S.p.A.
Titolo originale dell’opera:
Shakespeare: the Invention of the Human
© 1998 by Harold Bloom
Traduzione di Roberta Zuppet
Prima edizione digitale 2012 da edizione WILLIAM SHAKESPEARE - OPERE 2012
Quest'opera è protetta dalla Legge sul diritto d'autore.
È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.
PRESENTAZIONE
di Harold Bloom
Nella produzione shakespeariana, le due commedie visionarie (Sogno di una notte di mezza estate e La tempesta) detengono il triste primato dei drammi peggio recitati e interpretati.
L’erotomania ossessiona i critici e i registi del Sogno, mentre
i demolitori della Tempesta si lasciano guidare dall’ideologia.
Caliban, una codarda creatura semiumana (il padre è un demone marino, non sappiamo se pesce o anfibio) dagli istinti
violenti e omicidi, è diventato un eroico difensore afrocaraibico della libertà. Questa non è semplicemente un’interpretazione poco corretta; chiunque giunga a tale conclusione
non è affatto interessato a leggere il testo. I marxisti, i sostenitori del multiculturalismo, le femministe e i nuovi storicisti
(i soliti sospetti) conoscono bene la propria causa ma non i
drammi di Shakespeare.
Essendo l’ultima opera teatrale scritta dal drammaturgo
senza la collaborazione di John Fletcher e avendo probabilmente riscosso grande successo al Globe, La tempesta (1611)
apre il primo in folio, dove è stampata al primo posto tra
le commedie. Sappiamo che fu rappresentata alla corte di
Giacomo I, il che spiega probabilmente la presenza di elementi tipici della masque. Il dramma è essenzialmente privo
di intreccio; il suo unico avvenimento esteriore è la magica
tempesta della prima scena, che ispira, strano a dirsi, il titolo
del testo. Se mai esiste una fonte, deve trattarsi del saggio di
Montaigne sui cannibali, che riecheggia nel nome di Caliban, anche se non nella sua natura. Come nel caso di Amleto,
Montaigne fu tuttavia più una provocazione che una fonte, e
Estratto della pubblicazione
Caliban è tutto fuorché una celebrazione dell’uomo naturale.
La tempesta non è un trattato sul colonialismo né un testamento mistico. È una commedia teatrale profondamente
sperimentale, ispirata soprattutto, credo, al Dottor Faust di
Marlowe. Il nome di Prospero, lo stregone di Shakespeare,
è la traduzione italiana di Faustus («il favorito»), il cognome
latino che lo gnostico Simon Mago assunse quando si recò a
Roma. Insieme ad Ariel, uno spirito o un angelo (in ebraico
il suo nome significa «il leone di dio») che lavora al suo servizio al posto del Mefistofele marlowiano, Prospero diventa
l’anti-Faust di Shakespeare e il definitivo superamento di
Marlowe da parte del drammaturgo.
Poiché, sebbene pronunci solo cento versi, oggi Caliban
rappresenta per molti il fulcro del dramma, partirò dall’analisi di questo personaggio. Il suo successo nella storia del
teatro è illuminante e mi consola per il brutto momento che
La tempesta attraversa di questi tempi. All’inizio dell’Isola
incantata di Davenant e Dryden, una rivisitazione musicale
che tra il 1667 e il 1787 fu più volte riproposta sui palcoscenici londinesi, Caliban si ubriaca tanto da non tramare alcun
complotto alle spalle di Prospero. Per oltre un secolo, questo
Caliban (una parodia diversa dall’attuale nobile ribelle) regalò un ruolo centrale agli attori comici con una bella voce.
Nel primo periodo romantico, il bruto che cantava e saltellava fu sostituito dal caustico «schiavo selvaggio e deforme» di
Shakespeare. Come suggerisce il testo, Caliban veniva ancora
rappresentato come una creatura per metà anfibia, ma poi si
susseguirono le trasformazioni più singolari: un lumacone a
quattro zampe, un gorilla, un uomo scimmia e infine (nella
Londra nel 1951) un uomo di Neanderthal. In un’orribile
versione di Peter Brook degli anni Sessanta, che mi ha lasciato a bocca aperta, Caliban era un uomo di Giava, un feroce
essere primitivo che violentava Miranda, conquistava l’isola
e celebrava il proprio trionfo sodomizzando Prospero. Un
altro filone della tradizione moderna (che ora è, inutile dirlo,
Estratto della pubblicazione
quello prevalente) ha ingaggiato attori di colore per il ruolo
del mostro: Canada Lee, Earle Hyman e James Earl Jones
sono stati i primi che ho visto. Nel 1970, Jonathan Miller
ebbe l’idea di ambientare il dramma al tempo di Cortés e
Pizzarro e di trasformare Caliban in un bracciante indiano
sudamericano e Ariel in un colto servo indiano. Era un’idea
tanto bizzarra da essere divertente, a differenza del recente
ed esasperante successo di George C. Wolfe, in cui Caliban
e Ariel, entrambi schiavi neri, fanno a gara nell’odiare Prospero. Le mode vengono a noia; forse i primi anni del XXI
secolo vedranno ancora finti studiosi lamentarsi del neocolonialismo, ma credo che per allora Caliban e Ariel si saranno
tramutati in extraterrestri (se non lo sono già).
Per quanto riguarda il ruolo di Caliban, finora la tradizione
critica è stata molto più percettiva di quella registica. Secondo
la corretta osservazione di Dryden, Shakespeare «creò una
persona che non esisteva in natura». Un personaggio umano
solo per metà non può essere un uomo naturale, sia esso
nero, indiano o berbero (il probabile popolo d’origine della
strega algerina Sycorax, madre di Caliban). Il dottor Johnson, che non era un sentimentalista, parlò «della tetraggine
del suo temperamento e della malvagità dei suoi propositi»,
liquidando l’idea secondo cui Caliban usava un linguaggio
proprio. Nel Novecento, il poeta Auden espresse l’opinione
semplicistica secondo cui Prospero avrebbe corrotto Caliban.
Com’è sua abitudine quando parla di Shakespeare, Auden ci
regala tuttavia una geniale intuizione, in questo caso con il
meraviglioso testo in prosa «Caliban al pubblico», tratto dal
Mare e lo specchio. Forse perché Shelley si era identificato con
Ariel, Auden scorse se stesso in Caliban:
E da questo incubo di pubblica solitudine, da questo eterno
Non ancora, quale sollievo ricavate oltre a un galoppo collettivo ancor più sfrenato, con occhi da bisonte e traiettoria
obliqua, verso il grigio orizzonte della visione più cupa; quali
punti di riferimento oltre ai quattro fiumi morti, l’Infelice, il
Estratto della pubblicazione
Fluente, il Dolente e la Palude delle lacrime, quale obiettivo
oltre alla pietra nera su cui si spaccano le ossa? Solo nel suo
pianto d’agonia la vostra esistenza può infatti finalmente
trovare un significato chiaro e il vostro rifiuto di essere voi
stessi diviene un’autentica disperazione, l’amore per nulla, la
paura di tutto.
Qui sentiamo soprattutto Auden che parla di Auden, fortemente influenzato da Kierkegaard, ma le sue parole colgono
il dilemma di Caliban: «L’amore per nulla, la paura di tutto».
Tra Johnson e Auden, il terzo grande personaggio che si è
espresso su Caliban è Browning, autore del sorprendente
monologo drammatico «Caliban on Setebos». Qui la tremenda sofferenza psichica causata dal rifiuto di Prospero di
adottare Caliban si manifesta in maniera ancor più esplicita
di quanto accada nel testo shakespeariano:
Svegliatosi tardi, guardò Prospero i suoi libri
incurante e superbo, ormai signore dell’isola:
infuriato, cucì un libro di larghe foglie a forma di dardo,
vi scrisse sopra chissà quali prodigiose parole;
ha sbucciato una bacchetta e l’ha chiamata per nome;
indossa talvolta come mantello da mago
l’occhiuta pelle di un agile gattopardo;
e ha un leopardo delle nevi più liscio della giovane talpa,
un serpente a quattro zampe che fa accovacciare e sdraiare,
ora ringhiare, ora trattenere il respiro e seguire il suo sguardo,
e dice che è Miranda e mia moglie:
tiene per il suo Ariel un’alta gru color geranio
cui ordina di sguazzare alla ricerca di pesci e di vomitarli
subito;
anche una bestia marina, grande e grossa, che prese al laccio,
accecò e in qualche modo addomesticò,
spaccandole le membrane delle zampe, e ora rinchiude lo
schiavo
in un anfratto tra le rocce e lo chiama Caliban;
un cuor amaro che attende il momento opportuno e morde.
Gioca così a esser Prospero,
accetta la sua gioia con finzioni: come lui.
Estratto della pubblicazione
Come avviene nella poesia di Browning, Caliban parla di se
stesso in terza persona. L’unica eccezione è il pronome finale,
che si riferisce a Setebos, il dio della strega Sycorax. Il grosso
mostro marino, «un cuor amaro che attende il momento
opportuno e morde», è il giocattolo torturato di un bimbo
malato. Cacciato da Prospero, Caliban aspetta il momento
opportuno ma è troppo pauroso e sciocco per mordere. Ciò
di cui Browning si rende conto è l’essenziale immaturità di
Caliban, una sensibilità debole e lamentosa che non riesce
ad accettare di aver perso la paradisiaca condizione di figlio
adottivo di Prospero. Il tentato stupro di Miranda da parte
di Caliban viene liquidato in tutta fretta dagli attuali ammiratori accademici del personaggio, ma a volte mi domando
perché i critici femministi si schierino dalla parte del mostro.
Per quanto riguarda questo episodio, la prospettiva del pubblico deve essere quella di Prospero e Miranda, e non quella
del folle Caliban che, se nessuno glielo impedisse, popolerebbe l’intera isola di suoi discendenti. Per metà selvaggio e per
metà mostro marino, Caliban ha il suo pathos, ma non può
essere oggetto di ammirazione.
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Un dramma quasi privo di trama deve concentrare la propria
attenzione su qualcos’altro, ma nella Tempesta Shakespeare
sembra più interessato a quanto Prospero può suggerire che
alla freddezza di questa personalità antifaustiana. Anche Ariel
è più una figura profondamente allusiva che un personaggio
dotato di un’interiorità riconoscibile; infatti riusciamo tutt’al
più a intravedere la sua natura. L’eterno fascino che La tempesta esercita su lettori e spettatori di numerose culture deriva dall’accostamento tra un mago vendicativo che impara a
perdonare, uno spirito del fuoco e dell’aria e una creatura semiumana dell’acqua e della terra. Prospero sembra incarnare
un quinto elemento, analogo a quello dei sufiti, come lui di-
Estratto della pubblicazione
scendenti degli antichi ermetici. L’arte di Prospero controlla
la natura, almeno in senso esteriore. Benché la sua arte abbia
anche lo scopo di insegnargli un assoluto autocontrollo, il
protagonista non raggiunge tale obiettivo nemmeno alla fine
del dramma. Il platonismo di Prospero è a dir poco enigmatico; nella tradizione neoplatonica, la conoscenza di se stessi
non dovrebbe condurre alla disperazione, eppure Prospero
giunge al termine del dramma in uno stato d’animo cupo,
che emerge soprattutto nell’Epilogo da lui pronunciato.
Che cosa cercò di fare Shakespeare per se stesso come
drammaturgo, se non come persona, componendo La tempesta? Possiamo affermare con discreta certezza che non intendeva scrivere il suo ultimo dramma. Nel 1611 aveva solo
quarantasette anni e compose parti considerevoli di almeno
altri tre testi: Enrico VIII, il perduto Cardenio e I due nobili
congiunti, opere forse prodotte con la collaborazione di John
Fletcher. Prospero non è una rappresentazione di Shakespeare più di quanto il dottor Faust sia un autoritratto di
Christopher Marlowe. I lettori e gli spettatori romantici
avevano tuttavia una concezione diversa, e io sono ancora
abbastanza tardoromantico da cercare di capire che cosa li
abbia spinti a maturare questa idea bizzarra.
La tempesta ha un carattere ellittico che suggerisce un
dramma più simbolico di quello effettivamente scritto da
Shakespeare. A differenza di Amleto, Prospero non conclude
affermando di avere qualcos’altro da raccontarci, ma dice
di dover lasciare «che sia». Abbiamo la giusta impressione
che, se ne avesse avuto il tempo e la voglia, Amleto avrebbe
potuto dirci qualcosa di fondamentale sul suo significato
e che avrebbe potuto mostrarci il cuore del suo mistero.
Prospero sembra una storia dell’io completamente diversa:
Amleto muore nella verità, mentre Prospero vive in quello
che può essere definito uno smarrimento o quantomeno una
confusione. Poiché la sua storia non è tragica ma, secondo
la vecchia definizione del lieto fine (o perlomeno del finale
Estratto della pubblicazione
fortunato), è per certi aspetti comica, Prospero sembra perdere la propria autorità spirituale persino quando riconquista
il potere politico. Ciò non significa che Prospero perda il
prestigio di solito attribuito alla tragedia, e ad Amleto in particolare. Piuttosto, viene abbandonato dall’autorità dell’antiFaust, che potrebbe comprare la conoscenza senza pagare
alcun prezzo spirituale. Lasciare l’isola incantata non è di per
sé una grande perdita per Prospero, ma gesti quali spezzare la
bacchetta e gettare in acqua il libro sono senza dubbio una
riduzione dell’io. Questi simboli della magia purificata sono
anche i segni dell’esilio: il ritorno a Milano equivale a una
restaurazione del potere pagata a caro prezzo. Quando dice
addio alla sua arte, Prospero ci racconta di aver resuscitato i
morti, un ruolo che il cristianesimo riserva a Dio e a Gesù.
Essere il duca di Milano equivale a essere solo uno dei tanti
regnanti; l’arte perduta era così potente che al confronto la
politica pare assurda.
La tempesta è più il dramma di Ariel che di Caliban,
e ancor più quello di Prospero. In effetti, Prospero sarebbe un titolo molto più azzeccato della Tempesta, il che
mi conduce a quello che sembra essere il vero mistero
dell’opera: perché il testo allude con tanta sottigliezza alla
storia di Faust, per poi trasformarne la leggenda fino a
renderla irriconoscibile? Secondo le fonti cristiane (non
ci sono pervenuti documenti gnostici), Simon Mago
subì l’ironia di non essere affatto «il favorito» quando si
recò a Roma. Durante una gara con i cristiani, questo
primo Faust tentò la levitazione e morì schiantandosi al
suolo. I Faust successivi si vendono al demonio pagando
con l’anima. L’eccezione più famosa è quella di Goethe,
perché l’anima del suo Faust viene portata in paradiso da
angioletti le cui natiche paffute riempiono Mefistofele di
lussuria omosessuale al punto di fargli notare solo troppo
tardi il furto del suo premio legittimo.
L’anti-Faust Prospero, con l’angelo Ariel al suo servizio, ha
Estratto della pubblicazione
stretto un patto per ottenere solo una profonda conoscenza di
tipo ermetico. Poiché, paragonato a Prospero, il dottor Faust
di Marlowe è uno studioso fallito, Shakespeare sfrutta un
contrasto ironico tra il mago della Tempesta e il protagonista
del rivale ormai defunto. Come Gesù il Mago, Simon Mago
era un discepolo di Giovanni Battista e si risentì per non
essere stato preferito a Gesù, ma ancora una volta ci sono pervenuti solo resoconti cristiani. Senza dubbio il mago Prospero
non è in competizione con Gesù; Shakespeare fa infatti tutto
il possibile per escludere i riferimenti cristiani dalla Tempesta. Quando, nel finale, un Caliban punito si sottomette a
Prospero, l’impiego della parola «grazia» ci coglie di sorpresa:
Farò come dici, e d’ora innanzi voglio metter testa a partito,
e riguadagnarmi la tua grazia. Oh, qual triplice somaro
non son stato a scambiar quest’ubriaco per un dio,
e ad adorare questo stupidissimo idiota!
[V.i.24-27]
Ma che cosa possono significare queste parole se non che
Caliban, dopo aver adorato Stephano al posto di Setebos, si
rivolge ora al dio Prospero? Solo dopo la fine del dramma
l’attore che ha impersonato Prospero torna sul palcoscenico
per parlare in termini cristiani, anche se ancora lontani da
quelli della rivelazione:
E disperata sarà la mia fine,
a meno ch’io non sia soccorso da una preghiera
così penetrante da commuovere
la stessa pietà, e liberare da ogni colpa.
E così come voi vorreste essere perdonati dei vostri peccati,
fate che la vostra indulgenza mi rimetta in libertà.
[Epilogo 15-20]
Questi versi si rivolgono al pubblico, che viene esortato ad
applaudire:
Ma scioglietemi da ogni legame
con l’aiuto delle vostre mani caritatevoli.
[Epilogo, 9-10]
La parola «indulgenza» esprime pertanto un’audace arguzia:
la Chiesa perdona, il pubblico applaude e l’attore viene liberato solo quando la sua abilità viene riconosciuta. All’interno
dei visionari confini della Tempesta, il ruolo di Prospero
è quasi divino; perfino la rabbia e gli scatti impazienti del
mago parodiano, a distanza di sicurezza, l’irascibile Yahweh
del Libro dei Numeri. La tempesta è un dramma elegante e
sottile e, come avviene con molti altri capolavori shakespeariani, è difficile farsene un’opinione chiara. Nessun pubblico
ha mai amato Prospero; contrariamente a quanto pensa il
regista Wolfe, Ariel nutre un cauto affetto per il mago, e Miranda gli vuole bene, anche se per la figlia lui è stato sia una
madre benevola sia un padre severo. Perché Shakespeare fa
in modo che Prospero sia così freddo? L’ethos dell’opera non
sembra richiederlo, e il pubblico rimane perplesso di fronte
a un protagonista che è nel giusto ma che non suscita alcuna
comprensione. Ex duca negligente di Milano, Prospero, che
è abile solo in veste di mago e genitore single, torna nella
città, dove ha scarsissime probabilità di distinguersi per le
sue doti di amministratore. Una volta, Northrop Frye ha
identificato Prospero con Shakespeare, ma solo su un piano
molto ironico, scorgendo nel personaggio anche:
un attore-impresario tormentato e sovraffaticato che rimprovera gli attori pigri, elogiando quelli laboriosi con un
linguaggio da esperto, inventandosi lavori per gli oziosi,
sempre consapevole del poco tempo disponibile prima che
lo spettacolo vada in scena, con i nervi tesi e attento agli imprevisti durante la rappresentazione, che sogna un tranquillo
pensionamento, ma che nel frattempo deve uscire sul palco e
supplicare il pubblico perché applauda.
Estratto della pubblicazione
È una descrizione abbastanza affascinante da sembrare corretta, e magari il torturato drammaturgo-regista (aveva lasciato la recitazione poco prima di scrivere Otello) si accorse
che anche lui stava diventando più freddo, che non era più
la «natura libera e aperta» lodata da Ben Jonson. Non vi è
molta genialità nella Tempesta e nei successivi drammi shakespeariani, ad eccezione del ruolo di Autolico nel Racconto
d’inverno. Come osserva Frye, Prospero, nonostante tutti
i suoi contatti con gli spiriti, non ha inclinazioni trascendentali. Oltre alla vendetta cui poi rinuncerà, che cosa cerca
Prospero nei suoi studi ermetici, che in ogni caso sono cominciati a Milano, molto prima che il mago avesse qualcosa
di cui vendicarsi? L’ermetico rinascimentale, per esempio
Giordano Bruno o il dottor John Dee, andava alla ricerca
della conoscenza di Dio, l’obiettivo di tutta la gnosi. Ciò
non vale per Prospero, che non accenna mai al fatto di essere
incuriosito dai misteri eterni. A differenza di Bruno, l’antiFaust Prospero non è eretico; è indifferente nei confronti
della rivelazione cristiana, anche se studia un’arcana saggezza
che altri maghi hanno preferito al cristianesimo (nei casi
in cui, insieme a Bruno, sono arrivati a tanto) oppure, più
spesso, hanno sperato di trasformare in propositi cristiani.
Ancora una volta, ci troviamo di fronte a un enigma: l’arte
di Prospero, come quella di Shakespeare, è più estetica che
mistica? Se così fosse, Prospero sarebbe solo l’ingrandimento
di metafora mancata e smentirebbe la nostra esperienza del
dramma. Benché organizzi dei festeggiamenti, Prospero non
è, con sua grande frustrazione, Ben Jonson, e nemmeno
Shakespeare.
Com’è evidente, Prospero è un vero studioso, che persegue la saggezza fine a se stessa. Eppure, questa è solo di rado
un’attività drammatica, mentre Prospero è un’efficace rappresentazione drammatica. Ma di che cosa? La sua ricerca è
intellettuale, potremmo addirittura dire scientifica, sebbene
la sua scienza sia personale e singolare quanto quella del
Estratto della pubblicazione
dottor Freud. Parlando con i suoi discepoli, Freud amava
parlare di se stesso come di un conquistatore, definizione
che a mio avviso si adatta alla perfezione a Prospero. Come
Freud, egli è davvero il favorito: è destinato a vincere. Il
trionfo di Freud si è rivelato equivoco; è in gran parte tramontato insieme al XX secolo. Prospero esulta man mano
che si avvicina alla sua vittoria totale, e poi si rattrista all’improvviso. Ad eccezione del re Enrico V, nella produzione
shakespeariana nessuno consegue un trionfo come il suo.
Il capovolgimento ironico del figlio cattivo di Falstaff ha
luogo solo nella storia, al di fuori dei confini del dramma,
e in Enrico VI, dove il giovane Shakespeare esordisce con il
funerale di Enrico V, le sommosse francesi contro gli inglesi
e i presagi della guerra civile in Inghilterra.
Prospero non attende di rientrare nella storia; la perdita ironica è quasi immediata, anche se i nemici perdonati
(compreso Caliban) riconoscono la supremazia temporale
e mistica del mago. Il matrimonio dinastico tra Miranda e
il principe di Napoli riunirà i due regni e impedirà ulteriori
sconvolgimenti politici dall’esterno. Ma dopo aver spezzato
la bacchetta e gettato in mare il libro, quali poteri occulti
possiede ancora Prospero? Credo che la parola «libro» usata
al singolare sia in netto contrasto con il grido lanciato dal
Faust di Marlowe («Brucerò i miei libri») quando Mefistofele
e gli altri diavoli lo portano via per sempre. Faust possiede
solo la sua biblioteca, composta dai volumi di Cornelio
Agrippa e di altri autori, ma Prospero ha «il mio libro», che
lui stesso ha scritto, il coronamento delle sue lunghe fatiche
di lettura, meditazione e pratica nel controllo degli spiriti.
Ciò chiarisce parte dell’enigma e accresce l’intensità del
momento in cui il conquistatore getta in mare il lavoro di
una vita. È come se un Freud inedito buttasse nel mare dello
spazio e del tempo l’edizione standard delle sue opere.
Se tra Shakespeare e Prospero vi è un parallelo, quest’ultimo consiste nella loro posizione di preminenza: l’uno è
il primo tra i poeti-drammaturghi, l’altro è il primo tra gli
stregoni della magia bianca o ermetici. Ben Jonson raccolse i
propri scritti, compresi i testi teatrali, e li pubblicò nel 1616,
l’anno della morte di Shakespeare. Fu necessario attendere
fino al 1623 perché gli amici e i collaboratori pubblicassero il
suo libro, il primo in folio, che conteneva per la prima volta
diciotto drammi, con La tempesta al posto d’onore. Contribuì all’iniziativa un Ben Jonson meno invidioso, particolare
che dopo tutto spiega perché il rivale di Shakespeare si sia
rifiutato di gettare via il proprio volume. Prospero compie
quel gesto suicida, un gesto che occorre spiegare se vogliamo
vedere La tempesta per quello che è e non per ciò in cui l’ha
trasformata l’aura leggendaria che l’ha avvolta a poco a poco.
3
Ariel è il nostro maggiore indizio per comprendere Prospero,
anche se nulla ci aiuta a conoscere questo superbo spirito,
che, nonostante le affermazioni di molti critici, ha poche
caratteristiche in comune con Puck. Citato solo di sfuggita
nella Bibbia, Ariel sembra essere stato scelto da Shakespeare
non per l’irrilevante significato ebraico del suo nome (nel
dramma non è un «leone di dio», bensì uno spirito degli elementi aria e fuoco), ma con ogni probabilità per l’assonanza
tra Ariel e aireal. Ariel, che è l’esatto contrario di Caliban,
tutto terra e acqua, entra in scena prima del mostro e alla fine
viene rimesso in libertà (le sue ultime parole rivolte a Prospero sono: «Fu fatto bene?», un attore che parla con un regista).
Evidentemente lo spirito continuerà per sempre a giocare nel
fuoco e nell’aria. Nonostante quanto dicono i suoi moderni
sostenitori, Caliban viene riadottato a malincuore da un riluttante Prospero («Questa cosa del buio la riconosco mia») e
si reca a Milano con il padre adottivo (non il padrone) per riprendere l’istruzione interrotta. Sembra davvero un progetto
visionario, ma non dovrebbe farci rabbrividire più del futuro
Estratto della pubblicazione
di molti matrimoni shakespeariani: Beatrice e Benedick che
si picchiano a vicenda una volta superata la mezza età non
sono certo una bella prospettiva. Il futuro di Ariel è molto
roseo, anche se va al di là della comprensione di Shakespeare
e della nostra. Shelley associò Ariel alla libertà dell’immaginazione poetica romantica, che non è affatto antishakespeariana, ma che ora è fuori moda. Tutto ciò che accade
nella Tempesta è opera di Ariel, che agisce sotto la direzione
di Prospero, ma, a differenza di come viene presentato sui
nostri palcoscenici, il suo lavoro è tutt’altro che solitario. Lo
spirito è a capo di una schiera di angeli («al tuo severo ordine
Ariel e tutti i simili suoi»), che sono suoi subordinati e spiriti
dell’aria come lui. Probabilmente anche loro lavorano per
conquistarsi la libertà e, se vogliamo credere a Caliban, non
ne sono felici.
Ariel e Prospero sostengono un bizzarro dialogo comico
(mirabilmente parodiato da Hamm e Clov nel Finale di
partita di Beckett) in cui i sentimenti confusi del mago e le
preoccupazioni dello spirito a proposito dei termini della
propria liberazione dal servizio ermetico si sovrappongono per tenere un po’ in sospeso il pubblico, in attesa di
un’esplosione che non avrà mai luogo (se non sui palcoscenici politicamente corretti). Frank Kermode ci ricorda
giustamente che La tempesta è «senza dubbio la commedia
più sofisticata di un poeta il cui lavoro nel campo della
commedia viene frainteso in misura sconcertante». Senza
dubbio è difficile superare la raffinatezza della Dodicesima
notte, di Misura per misura e del Racconto d’inverno, ma
Shakespeare risolve il problema in modo così brillante
che, come sottintende Kermode, non riusciamo ancora a
comprendere appieno il suo esito comico. Solo di rado ho
sentito qualcuno ridere di fronte a una rappresentazione
della Tempesta, ma ciò dipende dai registi, la cui sensibilità
morale non va oltre le idee politiche. Come molte altre
parti del dramma, il rapporto tra Prospero e Ariel è un
Estratto della pubblicazione
delizioso esempio di commedia, cosa che spero di riuscire a
dimostrare. Quello che non è affatto comico è la reciproca
tortura della mancata adozione tra Prospero e Caliban, che
prenderò di nuovo in considerazione parlando della Tempesta in maniera più approfondita.
4
La deliberata assenza di immagini nella Tempesta fu forse
l’elemento che indusse Auden a intitolare il proprio commentario Il mare e lo specchio. Il Prospero di Auden dice ad
Ariel di voler cedere la sua biblioteca ermetica «alla silente
dissoluzione del mare che non maltratta nulla perché non
apprezza nulla». Aprendosi con la burrasca e chiudendosi
con la promessa di «mare tranquillo, venti favorevoli» da
parte di Prospero, La tempesta ci consente di lavare via le
immagini, una delle grandi doti della commedia. Noi siamo
Miranda, cui viene ordinato: «Tu, quieta, riposa e ascolta la
fine della nostra odissea». Se non apprezza nulla e inghiotte
tutto, il mare non trattiene però nulla e ci risospinge a riva. Il
canto più bello e famoso di Ariel tramuta in corallo le nostre
ossa affondate e trasforma in perle quelli che Hart Crane
chiama i nostri «perduti occhi del mattino».
Ariel subisce una metamorfosi più radicale di quella
di tutte le altre figure del dramma. Nessuno svanisce, ma
nessun personaggio, nemmeno Prospero, viene sottoposto
a «una metamorfosi marina in qualche cosa di ricco e di
strano». Forse solo l’opera omnia di Shakespeare considerata
nel suo insieme è in grado di sostenere questa metafora. Mi
domando di nuovo se La tempesta sia stato uno dei suoi titoli
usa e getta, un altro «come vi piace» o «quel che volete». La
burrasca è una creazione di Ariel (per ordine di Prospero), e
quel che conta è che si tratta di una finzione, uno scroscio
di pioggia che lascia asciutti tutti quanti. Nessuno rimane
ferito, e, in reazione al momento di massima umanità di
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Ariel, Prospero estende a tutti il suo perdono. Nella Tempesta, tutto si dissolve ad eccezione del mare. Da un certo
punto di vista, il mare è la dissoluzione, ma è ovvio che
tale affermazione non vale per questo dramma unico. Nella
Tempesta non vi è alcun Imogene o Autolico; la personalità
non sembra più essere una delle preoccupazioni principali
di Shakespeare e, in ogni caso, non è applicabile ad Ariel,
una creatura non umana, né a Caliban, una creatura umana
solo per metà. La commedia visionaria non era un genere
nuovo per Shakespeare; Sogno di una notte di mezza estate è
il dramma di Bottom, ma anche quello di Puck. Eppure, a
differenza di Cymbeline e del Racconto d’inverno, La tempesta
non è affatto un riepilogo. Sembra piuttosto un’opera inaugurale, una diversa forma di commedia, che Beckett cercò di
imitare in Finale di partita, testo che è una miscela di Amleto
e della Tempesta.
Le allegorie non erano un tipico strumento shakespeariano, e non ne trovo molte nella Tempesta. W.B.C. Watkins,
un illustre critico, nota la presenza di elementi spenceriani
nella scena in cui Ariel appare in veste di Arpia e nella mascherata di Cerere, nessuna delle quali è il fiore all’occhiello
del testo. La tempesta invita alla speculazione, in parte perché da Prospero ci attendiamo una saggezza esoterica che in
realtà non riceviamo. La sua terribile arte è sproporzionata
rispetto ai suoi fini; i suoi avversari sono un gruppo di
malcapitati e potrebbero essere sconfitti dalla sola Sycorax
anziché dal più potente dei maghi. Ritengo che l’antifaustianismo sia ancora una volta l’indizio migliore per comprendere Prospero; la magia mal sopporta la rappresentazione
drammatica a meno che non entri in gioco un elemento
erosivo. Shakespeare era interessato a tutto, ma si preoccupava più dell’interiorità che della magia. Quando, dopo gli
straordinari quattordici mesi in cui aveva composto Re Lear,
Macbeth e Antonio e Cleopatra, la sua potente arte si scostò
dall’interiorità, Coriolano e Timone d’Atene furono pervasi
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