295 1. La psicoanalisi e la guerra Gli interessi della psicoanalisi per

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295 1. La psicoanalisi e la guerra Gli interessi della psicoanalisi per
PATRIZIA BRUNORI
E
MARIA CHIARA RISOLDI
TRAUMI PSICHICI IN CONTESTI
DI VIOLENZA SOCIALE
Il problema della formazione psicologica
per l’operatore umanitario
1. La psicoanalisi e la guerra
Gli interessi della psicoanalisi per la guerra risalgono
agli inizi del Novecento. La ricerca e la riflessione seguono fin dall’inizio due aree: quella più vicina alle esplorazioni filosofiche ed antropologiche riguardanti i modelli
interpretativi del fenomeno guerra e quella più vicina alla
psichiatria, relativa alla comprensione dei traumi psichici
nelle situazioni estreme e alla loro cura. Entrambe queste
aree di studio e d’applicazione alternano periodi d’intensa proliferazione a periodi più silenti. Questo appare collegato alle situazioni storiche e politiche che attraversano
il Novecento, fino ai giorni nostri.
Il tema nell’area più vicina alla filosofia e all’antropologia è complesso e appassionante per gli studiosi della
mente. Il problema che pone è quanto la scienza psicologica come scienza dell’individuo possa contribuire alla
spiegazione di fenomeni sociali e politici.
Freud, estendendo l’investigazione psicoanalitica ad
ogni settore delle scienze umane, si pose all’origine di
queste riflessioni avviando fin dall’inizio un intenso dibattito all’interno del mondo psicoanalitico, sui temi dell’aggressività, della distruttività, dell’istinto di morte e dell’origine del trauma. Gli scritti in cui Freud affronta il
tema della guerra sono essenzialmente tre: Considerazioni
attuali sulla guerra e la morte e Caducità del 1915 e Perché la guerra? del 1932.
È noto che alla notizia dello scoppio della Prima
guerra mondiale la reazione di Freud fu improntata all’entusiasmo patriottico. Scrive Jones «si sarebbe suppo295
sto che un pacifico sapiente di 58 anni dovesse salutarla
semplicemente con orrore, come fecero molti, mentre la
sua prima reazione fu quasi di giovanile entusiasmo, qualcosa di simile ad un risveglio degli ardori militari della
fanciullezza»1. Ma fu un entusiasmo di breve durata.
Il 28 dicembre del 1915 scrive una lettera all’amico
psichiatra olandese Frederik Van Eeden:
Egregio collega, sotto l’influsso di questa guerra, mi permetto di rammentarLe due asserzioni che la psicoanalisi ha
avanzato e che certamente hanno contribuito a renderla impopolare preso il pubblico. Dallo studio dei sogni e delle azioni
mancate delle persone sane, oltreché dei sintomi nevrotici, la
psicoanalisi ha tratto la conclusione che gli impulsi primitivi,
selvaggi e malvagi dell’umanità non sono affatto scomparsi, ma
continuano a vivere, seppure rimossi, nell’inconscio d’ogni singolo individuo (così c’esprimiamo nel nostro gergo), aspettando
l’occasione di potersi riattivare. La psicoanalisi ci ha inoltre insegnato che il nostro intelletto è qualche cosa di fragile e dipendente, gingillo e strumento delle nostre pulsioni e dei nostri
affetti, e che siamo costretti ad agire ora con intelligenza ora
con stoltezza a seconda del volere dei nostri intimi atteggiamenti e delle nostre intime resistenze. Ebbene, guardi cosa sta
accadendo in questa guerra, guardi la crudeltà e le ingiustizie
di cui si rendono responsabili le nazioni più civili, la malafede
con cui si atteggiano di fronte alle proprie menzogne e iniquità
a petto di quella dei nemici; e guardi infine come tutti hanno
perso la capacità di giudicare con rettitudine: dovrà ammettere
che entrambe le asserzioni della psicoanalisi erano esatte. È
probabile che esse non fossero del tutto originali: molti pensatori e conoscitori del genere umano hanno detto cose analoghe.
Tuttavia la nostra scienza ha portato entrambe queste tesi fino
alle loro estreme conseguenze e le ha utilizzate per chiarire numerosi enigmi di natura psicologica2.
Le iniziali riflessioni di questa lettera trovano la loro
prima sistematizzazione in Considerazioni attuali sulla
guerra e la morte, in cui Freud affronta il problema della
1
2
E. Jones, Vita e opere di Freud, Milano, 1962, vol. 2, p. 217.
S. Freud, Considerazioni attuali sulla guerra e sulla morte (1915),
in Opere, Torino, 1976, vol. 8, p. 122.
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perdita dell’illusione che l’attitudine alla civiltà sia qualchecosa di connaturato alla natura umana.
Effettivamente questi nostri concittadini del mondo non
sono per nulla caduti tanto in basso quanto supponevamo, e
ciò per il semplice fatto che non si trovavano prima alle altezze
che avevamo immaginato3.
Freud, che ha già affrontato dentro di sé il passaggio
dall’adesione entusiastica alla guerra all’orrore per le sue
manifestazioni, si pone in questo saggio anche il problema di fornire minime indicazioni che aiutino l’essere
umano ad orientarsi e a lottare contro la miseria spirituale in cui la guerra precipita tutti.
Il singolo, se non è egli stesso un combattente e non è
quindi diventato un semplice ingranaggio della gigantesca macchina bellica, ha smarrito ogni orientamento e si sente inibito
nelle sue potenzialità. Penso perciò che accoglierà con favore
ogni minima indicazione che lo aiuti a sentirsi a proprio agio,
almeno nel suo intimo4.
Non è ancora compiuta però la sua teoria che interpreta il fenomeno guerra. Ciò sarà possibile solo con lo
scritto Perché la guerra5, in risposta ad una lettera di Albert Einstein6, poiché nel frattempo egli ha introdotto il
concetto, complesso, d’istinto di morte, che costituisce
l’estrema minaccia alla convivenza pacifica.
Tuttavia vorrei indugiare ancora un attimo sulla nostra pulsione distruttiva, meno nota, di quanto richiederebbe la sua im3
4
5
Ibidem, p. 132.
Ibidem, p. 123.
In questo testo Freud riprende problemi che aveva affrontato in
Al di là del principio di piacere (1920), Psicologia delle masse e analisi
dell’Io (1921) e Il disagio della civiltà (1930).
6 Nel 1931 l’Istituto internazionale per la cooperazione intellettuale
fu invitato dal Comitato permanente delle lettere e delle arti della Società delle Nazioni a promuovere e organizzare un dibattito epistolare
su temi di universale interesse: la prima persona avvicinata fu Einstein,
il quale fece il nome di Freud.
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portanza. Con un po’ di speculazione ci siamo in effetti persuasi che essa opera in ogni essere vivente e che la sua aspirazione
è di portarlo alla rovina, di ricondurre la vita allo stato della
materia inanimata. Con tutta serietà le si addice il nome di pulsione di morte, mentre le pulsioni erotiche stanno a rappresentare gli sforzi verso la vita7.
Tale concetto è definito da tutta la letteratura psicoanalitica molto complesso, perché la sua introduzione nella
metapsicologia freudiana ha comportato il crearsi di diverse correnti – non tutti gli autori postfreudiani condivisero tale teorizzazione – e l’avvio di un intenso dibattito,
tuttora articolato e forte, attorno alla questione dell’esistenza nella psiche umana di una pulsione di morte.
Dagli anni Trenta in poi gli psicoanalisti che affrontano il tema della guerra possono essere suddivisi sostanzialmente tra coloro che si soffermano sull’innatismo della distruttività e coloro che invece, non soddisfatti di una
teoria che considera le pulsioni distruttive innate, indagano nei conflitti, durante la prima infanzia, tra genitori e
bambini, accentuando piuttosto le determinanti socioculturali dell’aggressività8.
Il dibattito, assai intenso durante la Seconda guerra
mondiale e successivamente ad essa, quando l’umanità inizia, sconvolta, a confrontarsi con l’Olocausto, trova sempre
meno momenti di silenzio. La guerra fredda, la corsa agli
armamenti nucleari, i colpi di stato e le dittature militari in
paesi dell’America meridionale quali il Cile e l’Argentina –
dove la comunità scientifica psicoanalitica era tradizionalmente molto viva e creativa nella ricerca e nella pratica
psicoterapeutica – stimolano il mondo psicoanalitico a confrontarsi sia al suo interno sia con altri saperi e dottrine,
così come fecero Freud ed Einstein, alla ricerca di possibili
spiegazioni della distruttività umana, con lo scopo ideale di
7 S. Freud, Perché la guerra? (1932), in Opere, Torino, 1979, vol.
11, p. 299.
8 Per un approfondimento di questi temi si rimanda a F. Fornari,
Psicoanalisi della guerra, Milano, 1966 e C. Battaglia, Psicologia e guerra nel Novecento, Firenze, 1994.
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poterla prevenire ed evitare. Franco Fornari nel suo libro
Psicoanalisi della guerra segnala già nel 1966 l’esistenza di
alcune centinaia di lavori di psicoanalisti attinenti alla
guerra. Abbiamo ritenuto opportuno perciò in questo
scritto limitarci a segnalare come ad essa si avvicinò Freud.
Sommariamente così descritto il dibattito psicoanalitico più legato all’area filosofica e antropologica, vediamo
ora come parallelamente si svolse quello più legato alla
psichiatria, alle questioni più direttamente connesse all’individuazione delle sofferenze individuali, collegate alla
guerra e alla cura delle stesse.
Il concetto di disturbi mentali causati dall’esposizione
a gravi eventi traumatici9 fu introdotto in psichiatria alla
fine dell’Ottocento. Fu con la Prima guerra mondiale che
le migliaia di soldati sotto shock divennero un problema
medico importante che contribuì agli studi e alle ricerche
sulla comprensione degli effetti degli stress traumatici a
rischio di vita e sull’adattamento psicologico. Molti studiosi evidenziano come la Grande Guerra fu soprattutto
una guerra di trincea che esponeva ufficiali e soldati a
gravi pericoli e incidenti, bloccati nelle trincee sotto il
fuoco nemico. È introdotto il termine «shock da granata»,
che è concepito all’inizio in termini puramente fisici,
come un danno organico al sistema nervoso, poi identificato anche come una reazione puramente psicologica, anche se spesso questi soldati in stato di stress erano accusati di vigliaccheria o insubordinazione, se si rifiutavano di
combattere. Contemporaneamente è interessante notare
che nel 1918 il libro di Simmel10 sulle nevrosi di guerra e
l’attività di psicoanalisti quali Ferenczi e Abraham, in
questo campo, suscitano un notevole interesse nei paesi
dell’Europa Centrale, tanto che durante il quinto congresso internazionale di psicoanalisi a Budapest, nel settembre
1918, si tiene un simposio sul tema. Nota Freud come
9 Per un approfondimento si rimanda a W. Yule, Disturbo posttraumatico da stress, Milano, 2000.
10 E. Simmel, Kriegsneurosen und psychisches Trauma, München,
1918.
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il promettente risultato di questo primo incontro fu l’impegno
ad istituire dei centri psicoanalitici dove medici opportunamente addestrati avrebbero avuto i mezzi e l’opportunità di studiare la natura di questi enigmatici disturbi e la possibilità di influenzarli terapeuticamente mediante la psicoanalisi. Ancor prima che questi propositi potessero essere messi in atto la guerra
finì e le organizzazioni statali crollarono e l’interesse per le nevrosi di guerra lasciò il posto ad altre preoccupazioni11.
Negli stessi anni in Inghilterra è fondata da Crichton
Miller e da suoi colleghi la Tavistock Clinic proprio attorno alla cura dei traumi di guerra, sia dei soldati sia dei
civili12.
Con la Seconda guerra mondiale i propositi di Freud
ritrovano voci e interessi. Riprende l’attenzione ai traumi
di guerra e alla loro cura, sia in ambito psichiatrico che
in ambito psicoanalitico. In particolare in Inghilterra13 ci
sono molteplici esperienze e riflessioni: le competenze acquisite dalla Tavistock Clinic in questo tipo di lavoro fin
dagli anni Venti, che trovarono un ulteriore approfondimento ed interesse nel momento in cui il personale si occupava principalmente di psichiatria militare; le osservazioni di Anna Freud e Dorothy Burlingham14 sul trauma
dei bambini istituzionalizzati, sottratti alle famiglie, in un
programma di protezione dai rischi di bombardamento
nella città di Londra; le osservazioni di Winnicott sulla
funzione della protezione genitoriale nelle situazioni traumatiche15; gli studi sulle nevrosi di guerra di Fairbairn16,
11 S. Freud, Introduzione al libro «Psicoanalisi delle nevrosi di guerra», in Opere, Torino, 1977, vol. 9, p. 71.
12 Per la storia della Tavistock Clinic vedi C. Garland (a cura di),
Comprendere il trauma, Milano, 2001.
13 È importante ricordare che con l’avvento del nazismo Freud e
tutta la sua famiglia sono costretti a fuggire da Vienna e si rifugiano a
Londra nel giugno del 1938.
14 A. Freud e D. Burlingham, Bambini senza famiglia. Tesi pro e
contro gli asili residenziali, in Opere, Torino, 1978, vol. 1.
15 D. Winnicott, Il bambino deprivato, Milano, 1986.
16 W.R.D. Fairbairn, Studi psicoanalitici sulla personalità, Torino,
1977.
300
psicoanalista, che nel 1939 è consulente psichiatra presso
un ospedale militare, nel servizio medico di emergenza
per il dipartimento di igiene; le esperienze sui gruppi,
sempre durante la Seconda guerra mondiale, in alcuni
ospedali militari, di Bion, anche lui psicoanalista e medico nell’esercito inglese. Solo per citarne alcuni.
Nel corso degli anni si assiste allo svilupparsi sempre
più vasto, rapido e articolato delle concettualizzazioni sui
traumi e sulla loro cura. Così come abbiamo visto che la
Prima e la Seconda guerra mondiale avevano dato impulso a studi e ricerche, anche in seguito sono molti i fenomeni sia di catastrofi naturali, sia di traumi collettivi per
disastri civili, sia di traumi collettivi per violenza sociale,
che trovano immediata attenzione nella comunità scientifica. In particolare negli Stati Uniti a partire dai problemi
psichici dei reduci dalla guerra del Vietnam, nei paesi del
America meridionale per la devastante violenza sociale
delle dittature e in alcuni stati dell’Europa per una profonda attenzione ai profughi che chiedevano asilo politico
e che provenivano da paesi dove erano stati torturati. In
seguito alla guerra dei Balcani e all’attacco terrorista alle
Twin Towers tutta l’Europa vede un crescendo di attività, ricerche, studi sui traumi. La guerra nella ex Jugoslavia vede per la prima volta uno sforzo massiccio delle
agenzie internazionale, (Unhcr, Who, Echo/ Ectf) a essere presenti con progetti psicosociali, volti quindi ad occuparsi dei traumi psichici che la guerra comporta17.
2. L’apparato psichico e il suo funzionamento
Profondi coinvolgimenti emotivi attraversano in ogni
istante ogni relazione umana.
Quanto più la relazione si situa nell’ambito di ciò che
17 Si stima che nel 1994 fossero presenti in Croazia ed in BosniaHerzegovina 185 progetti psicosociali gestiti da 117 organizzazioni
non governative. Per una descrizione degli stessi confronta I. Agger,
Psychosocial Projects under War condition, Zagreb, 1995.
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è definito relazione di aiuto, ovvero quando una persona
ritiene di avere qualche cosa da pensare, da dire, da fare
per l’altra, tanto più sono complessi i coinvolgimenti
emotivi da prendere in considerazione. La dimensione
dell’asimmetria e quella della reciprocità necessitano di
essere continuamente elaborate.
Quanto più questo avviene in contesti di emergenza,
violenza, pericolo e miseria tanto più si è esposti a profonde tempeste emotive. Così come una tempesta in mare
richiede al marinaio strumenti, conoscenze e accortezze
per poterla attraversare, analogamente l’operatore è più
adeguatamente attrezzato, se tra i suoi strumenti e conoscenze può ricorrere anche ad una formazione di base
delle vicissitudini emotive: un giubbotto protettivo della
psiche.
Un giubbotto che, dal nostro vertice di osservazione,
quello psicodinamico, per essere tessuto richiede l’approfondimento di alcuni concetti.
Sono tre i punti di vista fondamentali della teoria psicoanalitica. Quello topico, e cioè il considerare la nostra
mente suddivisa in tre aree: quella inconscia, quella preconscia e quella conscia. Quello strutturale che descrive
gli oggetti interni. Quello economico che descrive gli impegni energetici – energia psichica – necessari a mantenere un’armonia tra tutti gli accadimenti psichici e affettivi
che avvengono tra gli oggetti interni e tra essi e il mondo
esterno. Lo specifico di questo vertice di osservazione è
lo sguardo rivolto contemporaneamente sia alla realtà
esterna sia a quella interna.
La riflessione specifica della psicoanalisi riguarda
come si costituisce il soggetto e come il soggetto entra in
relazione con il mondo.
La complessità che Freud ha introdotto nel mondo
della psicologia fu la consapevolezza che ciò che gli individui descrivono a proposito delle proprie esperienze, potrebbe non essere confermato da un osservatore esterno.
La teoria del transfert che ne è derivata rese possibile
presupporre che gli oggetti di cui gli individui parlano,
non corrispondano necessariamente, in maniera univoca,
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alle persone reali del mondo esterno. Ciò che si vuole
dire è che le esperienze di ogni momento della vita sono
influenzate in modo decisivo da un modello relazionale
che si forma fin dalla vita intrauterina. La plasticità o la
fissità, la forza o la debolezza di questo modello relazionale iniziale varia da individuo ad individuo, ma la sua
presenza e la sua attività sono universali.
Ai fini di una corretta concettualizzazione ci sembra
utile dire che il tema della formazione di rappresentazioni
interne pone problemi critici per qualsiasi teoria dinamica
della mente, infatti tali immagini sono descritte nella letteratura psicoanalitica con vari nomi: oggetti interni, altri
illusori, introietti, personificazioni e i costituenti del mondo rappresentazionale. In genere si è d’accordo su un
punto, che le immagini interne costituiscono un residuo
all’interno della apparato psichico, di relazioni con persone importanti nella vita di ciascun individuo. Tali relazioni lasciano il loro segno, sono internalizzate, si trasferiscono (transfert) nel presente e quindi modellano i successivi atteggiamenti, relazioni, percezioni e così via.
Ecco come Freud descrive l’Apparato Psichico secondo il punto di vista strutturale:
Chiamiamo Es la più antica di queste province o istanze
della psiche: suo contenuto è tutto ciò che è ereditato, presente
fin dalla nascita, stabilito per costituzione, innanzitutto dunque
le pulsioni, che traggono origine dall’organizzazione corporea, e
che trovano qui, in forme che non conosciamo, una prima
espressione psichica. Sotto l’influsso del mondo esterno reale
che ci circonda, una parte dell’Es, ha subito un’evoluzione particolare. Da quello che era in origine lo strato corticale munito degli organi per la recezione degli stimoli, nonché dei dispositivi che fungono da scudo protettivo contro gli stimoli, si
è sviluppata una particolare organizzazione che media da allora
in poi fra Es e mondo esterno. Questa regione della nostra vita
psichica l’abbiamo chiamata Io. [...] Suo compito è l’autoconservazione che è assolto per quel che riguarda l’esterno imparando a conoscere gli stimoli, accumulando (nella memoria)
esperienze su di essi, evitando (con la fuga) gli stimoli di intensità eccessiva e andando incontro (con l’adattamento) a quelli
di intensità moderata, apprendendo infine a modificare (con
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l’attività) in modo adeguato e in vista di un proprio vantaggio,
il mondo esterno; per quel che riguarda l’interno nei confronti
dell’Es, il compito è assolto acquistando il controllo sulle richieste pulsionali. [...] L’Io aspira al piacere e si sforza di eludere il dispiacere. A un incremento atteso e previsto di dispiacere risponde con un segnale di angoscia; ciò che può dar luogo a questo aumento di dispiacere è detto pericolo, e non importa se esso incombe dall’esterno o dall’interno. [...] Come sedimento del lungo protrarsi dell’età infantile, durante la quale
l’essere umano in formazione vive in uno stato di dipendenza
dai suoi genitori, si struttura nel suo Io una speciale istanza in
cui tale influsso viene perpetuato. Ad essa è stato dato il nome
di Super-io. Nella misura in cui questo Super-io si differenzia
dall’Io e gli si contrappone, esso rappresenta un terzo potere di
cui L’Io deve tenere conto18.
Una metafora utile per illustrare ulteriormente questi
concetti è quella del teatro. Ci possiamo immaginare il
nostro mondo interno come una scena teatrale sulla quale
recitano vari personaggi. E sulla quale ogni personaggio
può recitare diverse sceneggiature. I personaggi si formano durante tutta la vita e naturalmente i personaggi principali si formano nei primi anni di vita. Ci siamo noi da
piccoli e noi nelle varie fasi della nostra crescita (Es e
Io), ci sono i genitori, con la loro storia, e tutte le persone significative (Super-io), ci sono gli ideali ammirati dalla propria famiglia e dalla propria generazione (Ideale
dell’Io e Io Ideale), ci sono gli eventi importanti, le emozioni e gli affetti, c’è la tradizione della famiglia, la cultura del paese, lo spirito dell’epoca ... insomma questo teatro interno è come la vita esterna: popolata, disordinata,
ora in conflitto, ora in armonia, si litiga e si fa pace. Ci
sono benefici e costi. E come nel mondo esterno, anche
nel mondo interno questa attività richiede energia ed è
regolata dall’economia. Ma come in un vero teatro non
c’è il rigore temporale del mondo esterno, non c’è il limite della vita reale esterna, non c’è il problema della con18 S. Freud, Compendio di Psicoanalisi (1938), in Opere, Torino,
1979, vol. 11, pp. 572-574.
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traddizione, gli opposti possono convivere e la freccia del
tempo non è unidirezionale. Io, Es, Super-io, Ideale dell’Io e Io Ideale, sono gli attori in questo teatro.
All’interno di questo teatro si hanno le risonanze di
ogni esperienza e pertanto ogni coinvolgimento emotivo è
da prendere in considerazione a vari e diversi livelli. A livello intrapsichico, nel senso delle relazioni oggettuali tra
l’Io e gli altri oggetti interni; intersoggettivo nel senso
della relazione tra due soggetti presenti entrambi nella
realtà esterna; trans-soggettivo nel senso della relazione
del soggetto con il suo ambito sociale, culturale. Senza
mai dimenticare la suddivisone in conscio, preconscio e
inconscio.
3. Il trauma psichico
Il termine trauma proviene dal greco «trauma»: ferita,
che deriva dal verbo «titrosco»: perforare, ferire. Designa
quindi una specie di ferita.
Freud in Introduzione alla Psicoanalisi così definisce
l’esperienza traumatica
con essa noi designiamo una esperienza che nei limiti di un
breve lasso di tempo apporta alla vita psichica un incremento
di stimoli così forte che la sua liquidazione o elaborazione nel
modo usuale non riesce, donde è giocoforza che ne discendano
disturbi permanenti nella economia energetica della psiche19.
Successivamente in Al di là del principio del piacere
ha utilizzato il termine in senso metaforico per esprimere
come anche la mente, che può essere pensata come racchiusa da una sorte di pelle o scudo protettivo, può essere trafitta, ferita e lacerata dagli eventi. La psicoanalisi ha
quindi ripreso il termine medico trasponendo sul piano
psichico i suoi tre significati fondamentali: quello di
19 S. Freud, Introduzione alla psicoanalisi (1915-1917), in Opere,
Torino 1976, vol. 8, p. 437.
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shock violento, quello di lacerazione e quello di conseguenze sull’insieme dell’organismo20.
Quando irrompe il trauma nella scena dell’individuo,
succede che si fa esperienza di forti emozioni: paura, collera, odio, dolore. Ci riferiamo qui ad emozioni legate alla
consapevolezza di un evento, che viene percepito come
concretamente e oggettivamente traumatico. Queste emozioni pongono in una condizione di allerta, attivano il sistema sensoriale e percettivo, che si rivolge esclusivamente
al pericolo e dispone al pensiero e quindi all’azione efficace. Nello stesso tempo si attivano mutamenti neurofisiologici, tramite la secrezione di ormoni surrenali e aumento
del tasso di zucchero del sangue, delle pulsazioni, della respirazione e della pressione sanguigna utili sia all’attacco
sia alla fuga.
Nell’investigazione clinica il trauma generalmente viene descritto attraverso tre prospettive.
La distanza: ovvero quanto la persona sia distante
dall’evento traumatico.
Si parla di traumatizzazione primaria, quando il soggetto è vittima esso stesso dell’aggressione; di traumatizzazione secondaria, quando gli eventi traumatici, le aggressioni
in senso lato del termine, riguardano persone a lui molto
vicine, per esempio familiari; di traumatizzazione terziaria,
quando si è in relazione con persone che sono vittime di
traumatizzazione primaria o secondaria, per esempio si è
testimoni di atrocità, o si appartiene a gruppi perseguitati,
o si è operatori e professionisti in relazione con le vittime.
La frequenza: ovvero quanti traumi si subiscono e
quante volte si è coinvolti in situazioni traumatiche. Si
parla di traumi multipli, ripetitivi e cumulativi.
Il contesto: ovvero l’ambiente sociale, culturale, relazionale, fisico in cui la persona si trova. È in questa area
che generalmente vengono anche sottolineate le risorse
personali, come elementi facilitanti o aggravanti, per affrontare il trauma.
20 J. Laplanche e J.B. Pontalis, Enciclopedia della psicoanalisi,
Roma-Bari, 1981.
306
È alla fine degli anni Settanta che viene identificata la
sindrome di disturbo post-traumatico da stress, DPTS, e
si elaborano diverse tecniche di cura, oggi molto utilizzate nei contesti di emergenza sia per le vittime che per
équipe di operatori (counselling, debriefing e defusing).
4. L’operatore umanitario, l’angoscia e i meccanismi di difesa
Tornando ad un approccio psicodinamico diciamo
che quando l’Io fallisce nella sua possibilità di contenere
ed elaborare le emozioni compare l’angoscia. L’economia
psichica dell’individuo è al collasso.
Con l’angoscia ci riferiamo ad uno stato affettivo che
allaga l’Io, ponendolo in una condizione di perdita di
controllo, in balia di impulsi intollerabili. L’angoscia evoca meccanismi di difesa. Il termine si riferisce a diverse
modalità psichiche che si attivano in modo automatico,
involontario, inizialmente inconsapevole (inconscio), con
le quali il soggetto tenta di eludere, evitare, impulsi inaccettabili, stimolati da eventi esterni, in cui esso si trova
coinvolto.
Le emozioni e l’angoscia partecipano della medesima
origine biologica. All’origine per un neonato tutto è angoscia. Sarà il lavoro paziente, amoroso, soccorrevole dell’ambiente genitoriale e parentale a permettere la modulazione degli stati affettivi ed emozionali, nella molteplice
interazione tra il corredo genetico e quello ambientale.
La presenza dei genitori protegge il bambino dalle forme
estreme di inquietudine e di paura dei pericoli esterni,
anche nel caso in cui i genitori non possano offrire alcuna concreta protezione dal pericolo.
A questo proposito citiamo due esempi. Uno tratto
dal lavoro clinico di Anna Freud e Dorothy Burlingham,
che notarono il comportamento dei bambini londinesi
durante i bombardamenti subiti dalla città nella Seconda
guerra mondiale: se si trovavano a fianco dei genitori, capaci di protezione, non mostravano segnali di angoscia
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durante i bombardamenti. Viceversa i bambini allontanati
dai genitori e portati in campagna perché fossero più al
sicuro, mostravano grandi segnali di angoscia per la separazione dai genitori.
L’altro esempio lo traiamo dal film di Roberto Benigni, La vita è bella, la cui idea centrale è che anche quando il genitore non sia in grado di sottrarre il bambino ad
una esperienza traumatica, può cercare di proteggerlo
psicologicamente.
Quello che vediamo all’opera nel film è uno dei meccanismi di difesa più primitivi. Il bambino proietta sul
padre un suo bisogno di onnipotenza. Lui è piccolo e
spaventato, ma il padre, immaginato come onnipotente,
no: il padre sa quello che succede e le sue parole sono
una verità assoluta. Ciò che dice il padre è vero, non ciò
che il bambino vede. Le parole del padre prendono il
posto della realtà concreta.
La proiezione, indica l’attribuzione di propri atteggiamenti, desideri, bisogni, ideali, impulsi ad altri. Questo
può avvenire sia lungo la traiettoria delle buone proiezioni, che lungo la traiettoria delle cattive proiezioni, sul
versante dell’amore e sul versante dell’odio. Spesso si
tratta di un meccanismo sottile, ma dirompente in termini sociali, che si manifesta nella frequente attitudine ad
attribuire proprie doti, competenze, illusorie qualità o viceversa errori, mancanze, debolezze, impotenze e ambivalenze agli altri. Molti limiti, errori e problemi attribuiti all’istituzione o all’organizzazione da parte degli operatori
può essere un esempio frequente di ciò. O anche l’opposto: una fede cieca e assoluta nella istituzione, a cui sono
state attribuite tutte le proprie pulsioni riparative. Tanto
più una situazione è violenta, crudele e collettiva, tanto
più è attivo il meccanismo della proiezione. Vediamo
come può agire in una relazione di aiuto: sono i genitori
in carne ed ossa a proteggere un bambino in carne ed
ossa. Quando si è divenuti adulti le vicende protettive
che avvengono esternamente a noi sono profondamente
influenzate da quelle del passato, che vivono ancora al
nostro interno.
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Se il soggetto ha internalizzato delle buone, protettive, forti e sicure figure genitoriali (Super-io e Ideale dell’Io), nel momento del trauma, quando l’angoscia, proveniente dall’Es dilaga nell’Io, saranno le figure interiorizzate a proteggere e soccorrere. È l’individuo stesso a parlare a se stesso, a farsi coraggio, a consolarsi. Ancora: se
nel momento del trauma, avendo internalizzato buone figure genitoriali, ci troviamo di fronte un soccorritore fragile, insicuro, non particolarmente protettivo, saremo noi,
nel momento del massimo bisogno, a trasferire inconsciamente sul nostro soccorritore, qualità possedute dai nostri genitori, internalizzate e dunque proiettate sul soccorritore nel presente. Talvolta queste qualità possono non
essere state realmente presenti nei genitori del passato.
La fragilità e la debolezza dell’ambiente familiare possono
essere troppo spaventosi per un bambino, cosicché il
bambino idealizzerà il suo ambiente. Nell’infanzia prevale
il pensiero magico che attribuisce poteri soprannaturali –
onnipotenza – alle figure genitoriali. Quello che viene internalizzato sarà dunque l’ambiente trasformato dalla proiezione operata dal bambino stesso. Al momento del bisogno, in una analoga situazione, si ripeterà il meccanismo e si proietteranno doti speciali anche a chi non le
ha. Un esempio è quello delle giovani portate via con la
forza dal paese di origine e costrette alla prostituzione.
Accade spesso che a dare loro un primo aiuto per uscire
dalla situazione bestiale in cui si trovano sia un cliente. E
altrettanto spesso accade che si innamorino del salvatore.
Solo successivamente, finalmente tratte in salvo ed elaborato il trauma, si accorgeranno di non amarlo. In situazioni molto drammatiche gli operatori umanitari possono
apparire come salvatori, dotati di poteri speciali, alle vittime e può facilmente innescarsi un circuito di sentimenti,
che possono però in seguito dare vita a dolorose e penose delusioni e sofferenze.
Naturalmente al nostro interno si attivano molti altri
meccanismi di difesa. Come si è visto per la proiezione,
restano attivi fin quando alla salute psichica ciò sia necessario e fin quando non sia possibile attivare quel dialogo
309
interiore, cosciente, tra Io, Es, Super-io e Ideale dell’Io,
quel che comunemente si descrive ed è noto come il parlare a se stessi, tra sé e sé, che consente di fronteggiare,
contenere ed elaborare le emozioni connesse al trauma e
affrontare la realtà esterna. Può ovviamente accadere
l’opposto. Che questo dialogo tra sé e sé, e tra sé e la
realtà esterna non possa avviarsi. Accade allora che il
meccanismo di difesa rimanga attivo, per proteggere
l’equilibrio psichico, cronicizzandosi, non consentendo
l’evoluzione del processo e l’elaborazione del trauma. Diventa in un certo senso antieconomico: per mantenere
l’equilibrio psichico si blocca l’elaborazione del trauma a
spese dell’evoluzione e della crescita del soggetto. L’energia psichica si mette tutta al servizio del meccanismo di
difesa. È in questi casi che si parla di una patologia dei
meccanismi di difesa, delle quali molto conosciuta è la
sindrome da burn-out (bruciato, esaurito, scoppiato).
Un altro fondamentale e primitivo meccanismo di difesa è la rimozione, che esclude dalla coscienza un impulso interno insopportabile e il pensiero, la fantasia, l’emozione, il ricordo ad esso associato. Molte somatizzazioni
che possono affliggere operatori esposti a situazioni stressanti, quali mal di testa, mal di schiena, contratture muscolari, disturbi gastrici e cardiovascolari sono la conseguenza di rimozioni. Il corpo esprime ciò che la coscienza ha escluso, cioè l’angoscia non simbolizzata e quindi
non elaborata derivante dal contatto con situazioni emotive troppo forti. Una bambina bosniaca, profuga in Germania durante la guerra all’età di sette anni, al rientro in
Bosnia alla fine della guerra, non sapeva più parlare il
bosniaco.
Quando la rimozione comincia a cedere o non è sufficiente, vengono attivati altri meccanismi di difesa. Elenchiamo i più significativi per le situazioni di trauma.
La conversione implica che l’impulso rimosso viene
simultaneamente tenuto fuori dalla coscienza ed espresso
in modo dissimulato con un disturbo del sistema sensoriale o volontario. Durante le ore successive al crollo delle Twin Towers alcuni poliziotti furono ricoverati al
310
pronto soccorso con sintomi di paralisi alla mano destra.
Di fronte al pericolo il poliziotto automaticamente usa
l’arma. In quel caso essendo essi del tutto impotenti di
fronte a quanto stava accadendo, hanno convertito l’inaccettabile, soprattutto per un poliziotto, stato di impotenza
in una paralisi della mano. Al posto del riconoscimento
di quanto fosse inutile sparare si ha il dato di fatto che è
la mano che non riesce a sparare. Un esempio più drammatico raccontato da uno psicoanalista21 è il caso di una
bambina che avendo assistito all’aggressione mortale dei
propri genitori da parte della squadre di torturatori della
dittatura argentina, aveva sviluppato una cecità totale,
non organica: la mamma mentre veniva torturata, le urlava di non guardare.
L’inibizione descrive la perdita della motivazione necessaria per una certa attività, che per altri versi potrebbe
essere sia utile che piacevole. L’attività viene evitata in
quanto troppo vicina a impulsi angoscianti. Rientrano in
questa dinamica le inibizioni all’apprendimento che spessissimo si trovano nei bambini che hanno subito traumi.
Nel lungo lavoro di counselling che abbiamo fatto in Bosnia molti erano i casi di bambini che, all’indomani della
pace e del ritorno ad una certa normalità, manifestavano
problemi di apprendimento o di fobie scolari. Probabilmente collegati ad angosce catastrofiche, «non posso tornare alla normalità perché non posso rendermi conto di
quello che è successo» o ad angosce persecutorie, «cosa
succede se mi diverto e sto bene?» o ancora ad angosce
di separazione «cosa succede mentre io sono a scuola e
sto bene?». Queste angosce possono spesso essere provate anche dagli operatori e l’inibizione può manifestarsi
con apparentemente inspiegabili demotivazioni al lavoro.
Il senso di colpa di essere vivi e di non essere direttamente coinvolti nel trauma può scatenare una forte angoscia persecutoria.
Lo spostamento è quel processo attraverso cui l’ango21 P. Gros, La paura nel trattamento psicoanalitico. Un caso di cecità
infantile, in «Psicoterapia e Scienze Umane», 1991, vol. 3, pp. 49-85.
311
scia suscitata da una specifica situazione viene spostata e
collegata ad un’altra situazione che non è più chiaramente connessa con la precedente. Un esempio lo traiamo ancora dalla nostra esperienza in Bosnia. Una bambina cui
scappava la pipì aveva chiesto alla mamma di potersi fermare a farla. Stavano fuggendo con una colonna di profughi. La mamma si era allontanata dalla colonna per far
fare la pipì alla bimba ed era stata colpita a morte da una
granata. La bambina di cinque anni si era sentita colpevole della morte della mamma, e da allora non si poteva
più allontanare in alcun modo dalla sorellina maggiore. E
aveva sviluppato una forte fobia scolare.
La razionalizzazione è il più familiare tra i meccanismi di difesa. È il tentativo di dare spiegazioni razionali
di situazioni irrazionali e cariche di angoscia. In un campo profughi era d’uso che gli operatori volontari appena
arrivati scambiassero i propri vestiti con quelli laceri e rovinati dei profughi, con la motivazione razionale che i
profughi ne avevano bisogno e che loro, al loro rientro, a
casa avevano altri vestiti. Non coglievano con ciò né l’origine né le conseguenze di un tal gesto. L’origine sta nella
non tolleranza dell’angoscia causata dal senso di impotenza. Tale intolleranza da vita al senso di colpa (che è l’altra faccia della fantasia illusoria di onnipotenza), per
fronteggiare il quale cedevano i propri vestiti e le conseguenze erano una dannosa confusione di ruoli e perdita
di distanza nella relazione di aiuto. Possiamo pensare che
anche la complessa rete di protocolli e burocrazia, che
spesso affossa il lavoro nei progetti umanitari, sia effetto
di spostamento e razionalizzazione.
L’isolamento affettivo è tra i più importanti meccanismi di difesa che possiamo vedere in atto nelle situazioni
traumatiche di guerra o di grandi catastrofi. Si tratta di
un meccanismo per cui un evento o un’idea viene riconosciuta dalla coscienza, ma slegata dalle emozioni corrispondenti. Si pensi, come esempio, a quelle persone gravemente traumatizzate, che mentre parlano di ciò che è
accaduto, non sono in contatto con le emozioni adeguate.
Appaiono fredde, insensibili, razionali.
312
La regressione indica un ritorno a modelli di funzionamento psicologico che sono caratteristici degli anni infantili. Nei bambini è molto frequente che in seguito ad
una situazione traumatica si perda il controllo degli sfinteri. Negli adulti molti comportamenti legati al controllo
dell’oralità: mangiare molto o al contrario sentirsi inappetenti, fumare molto o abusare di alcolici.
Il diniego si riferisce all’esclusione della consapevolezza di un certo aspetto disturbante della realtà oppure alla
incapacità di riconoscerne il suo vero significato. Esemplare è la drammatica impossibilità di riconoscere la morte di una persona scomparsa, il cui cadavere non è mai
stato ritrovato. Spesso negli operatori umanitari in luoghi
di guerra si verifica un diniego di grandi pericoli, gli
eventi della guerra diventano un’ abitudine, si dismettono
tutte le precauzioni necessarie e si compiono atti di grande incoscienza, magari mettendo a repentaglio la collettività di cui si fa parte.
Il rivolgimento contro il Sé è il processo attraverso il
quale si rivolgono verso se stessi l’odio e la rabbia, che
interiormente vengono vissuti come distruttivi, non affrontabili, e pertanto non possono essere espressi né con
pensieri né con parole. Tutti i comportamenti autolesivi,
dai più semplici come mangiarsi le unghie, ai più pericolosi come la tendenza agli incidenti, più frequente di
quello che non si creda tra operatori in missione, ai più
estremi come il suicidio, appartengono a questa dimensione.
La dissociazione è un processo attraverso il quale la
persona non sperimenta come proprie le esperienze affettive e cognitive di azioni compiute o subite. Come esempio estremo si può ricordare l’atroce esperienza della tortura, che può indurre la vittima in uno stato di dissociazione permanente o temporanea, per cui la tortura subita
non riguarda lei.
313
5. La paura di morire
Tutti i meccanismi di difesa sopra descritti tengono il
soggetto sostanzialmente al riparo dal mettersi in contatto
con la più drammatica delle esperienze emotive per un
essere umano: la paura di morire.
E sul tema del dramma che sconvolge l’individuo a
contatto con tale riconoscimento il breve scritto Caducità
di Freud è straordinariamente evocativo.
Non molto tempo fa, in compagnia di un amico silenzioso
e di un poeta già famoso nonostante la sua giovane età, feci
una passeggiata in una contrada estiva in piena fioritura. Il
poeta ammirava la bellezza della natura intorno a noi ma non
ne traeva gioia. Lo turbava il pensiero che tutta quella bellezza
era destinata a perire, che col sopraggiungere dell’inverno sarebbe scomparsa: come del resto ogni bellezza umana, come
tutto ciò che di bello e nobile gli uomini hanno creato o potranno creare. Tutto ciò che egli avrebbe altrimenti amato e
ammirato gli sembrava svilito dalla caducità cui era destinato.
Da un simile precipitare nella transitorietà di tutto ciò, che è
bello e perfetto sappiamo che possono derivare due diversi
moti dell’animo. L’uno porta al doloroso tedio universale del
giovane poeta, l’altro alla rivolta contro il presunto dato di fatto. [...] non riuscivo a vedere come la bellezza e la perfezione
dell’opera d’arte o della creazione intellettuale dovessero essere
svilite dalla loro limitazione temporale. [...] Mi pareva che queste considerazioni fossero incontestabili, ma mi accorsi che non
avevo fatto alcuna impressione né sul poeta né sull’amico. Questo insuccesso mi portò a ritenere che un forte fattore affettivo
intervenisse a turbare il loro giudizio; e più tardi credetti di
aver individuato questo fattore. Doveva essere stata la ribellione psichica contro il lutto a svilire ai loro occhi il godimento
del bello. L’idea che tutta questa bellezza fosse effimera faceva
presentire a queste due anime sensibili il lutto per la sua fine;
e, poiché l’animo umano rifugge istintivamente da tutto ciò che
è doloroso, essi avvertivano nel loro godimento del bello l’interferenza perturbatrice del pensiero della caducità22.
22
173.
314
S. Freud, Caducità (1915), in Opere, Torino, 1976, vol. 8, p.
Freud scrive questo breve testo nel 1915, dopo oltre un
anno di guerra. La guerra, più di qualunque altra catastrofe, mette a contatto con la precarietà del vivere, con la concretezza della morte, con la paura di morire. Rifuggendo da
questa dolorosissima emozione si può precipitare nella patologia, cioè nel cronicizzarsi dei meccanismi di difesa sopra descritti. I due diversi moti dell’animo che Freud descrive sono il rifugio della mente dell’individuo che non riesce a instaurare alcun dialogo consolatorio, né tra sé e sé,
né tra sé e gli altri. Sono due facce della stessa medaglia.
Da una parte la depressione: la rinuncia, il tedio, l’inazione, la passività caratterizzano lo stato melanconico. Dall’altra la maniacalità: il diniego, la rivolta, l’azione, il rifiuto,
l’euforia e l’iperattività caratterizzano lo stato maniacale.
Ci sembra utile, a questo punto, richiamare un concetto sviluppato da Melanie Klein23, che sostituì alla scansione verticale dello sviluppo psichico in fasi (fase orale, fase
anale, fase genitale)24, com’era quella teorizzata da Freud,
una scansione orizzontale in posizioni. Teorizzò una prima posizione schizoparanoidea ed una successiva depressiva. Entrambe descritte come permanente modalità di
funzionamento dell’apparato psichico nell’età adulta. Per
trattare le questioni connesse alla violenza sociale e catastrofica il modello di funzionamento della mente della
Klein ci appare più utile a descrivere la complessità del
fenomeno. Pertanto i due stati d’animo descritti da Freud,
secondo il punto di vista della Klein, possono essere descritti come appartenenti alla posizione schizoparanoidea,
fondata sulla fantasia di onnipotenza. Questo concetto nasce per descrivere il funzionamento dell’apparato psichico
nelle prime fasi della vita dell’essere umano. Per mettersi
nelle condizioni di capire il mondo ed affrontarne la complessità il bambino piccolo percepisce sé e le figure parentali come onnipotenti e divide il percepito dicotomicamente in buono e cattivo, bene e male, amico e nemico,
23
24
M. Klein, Scritti 1921-1958, Torino, 1978.
S. Freud, Tre saggi sulla teoria sessuale (1905), in Opere, Torino
1974, vol. 4.
315
attribuendo a sé e al suo ambiente le qualità positive e al
resto del mondo quelle negative. La psicoanalisi dunque
descrive la nascita del funzionamento mentale a partire
dal diniego dell’impotenza e da una scissione. Questa modalità, adattiva all’inizio della vita, rimane potenzialmente
sempre attiva, pronta a manifestarsi come modalità di difesa funzionale, pur se arcaica, alla salute psichica.
La paura di morire è ciò che sta nascosto dietro molte angosce. Abbiamo già descritto che cosa succede quando un evento esterno, sufficientemente estremo va a urtare contro la mente: il suo effetto è di annientare tutte le
difese dall’angoscia, l’angoscia dilaga e allaga l’Io del soggetto. A quel punto essa sembra provenire dall’interno,
anche se l’evento è concretamente accaduto all’esterno.
Sono molti gli eventi che si possono definire universali e potenzialmente traumatici per tutti: la nascita; la angoscia di annichilimento, di schiacciamento, di negazione,
di repressione della autenticità e dell’unicità dell’individuo; la perdita dell’oggetto amato; la perdita dell’amore
dell’oggetto e infine, in modo schiacciante, l’angoscia di
morire. Questi eventi hanno un’unica fondamentale caratteristica in comune: mettono in contatto l’individuo con il
riconoscimento psichico della morte. Nelle situazioni di
tragedia e di violenza sociale la popolazione per sopravvivere regredisce alla posizione schizoparanoidea.
La guerra, uno dei cavalieri dell’Apocalisse, che ha sempre
accompagnato l’umanità e che sembra destinata, almeno per un
po’, ad accompagnarla ancora, suscita negli individui e nei
gruppi intense paure reali per i loro beni, per la loro libertà e
per la loro stessa sopravvivenza. Tali paure sollevano anche severe angosce catastrofiche e spingono gli individui e i gruppi
alla ricerca di un assetto mentale che sia il più adatto a fronteggiare sia le paure e i pericoli esterni che le angosce interne.
Sembrerebbe che l’evoluzione abbia selezionato nell’uomo lo
schema di un tale assetto, un assetto di guerra, costituito dalla
posizione schizoparanoide25.
25 P. Fonda, La paura dell’immagine di sé dopo la guerra, in «Psiche», 2000, VIII, 1, p. 129.
316
È usuale sentirsi chiedere, nel corso del trattamento
clinico di persone drammaticamente traumatizzate, che
senso abbia la vita, che senso abbia nascere, crescere, faticare.
Giacomo Leopardi, nel Canto notturno di un pastore
errante dell’Asia, descrive in pochi versi questa dolorosa
consapevolezza dell’essere umano:
Nasce l’uomo a fatica,
Ed è rischio di morte il nascimento.
Prova pena e tormento
Per prima cosa; e in sul principio stesso
La madre e il genitore
Il prende a consolar dell’esser nato26
Nel corso dei primi anni di vita la funzione dell’ambiente, a partire dalle figure parentali è quella di accompagnare l’essere umano verso quella che la psicoanalisi definisce la posizione depressiva. Di consolarlo, letteralmente. Di dialogare con lui e accompagnarlo verso la sopportazione della frustrazione, di trasmettere e condividere il
contenimento del dolore e l’elaborazione del lutto. Solo
così l’essere umano può accogliere il pensiero del limite,
della compresenza del bene e del male, della potenza e
dell’impotenza, dell’amore e dell’odio, sia in lui stesso che
nel suo ambiente. Può interiorizzare quell’attitudine di
funzionamento psichico, che consente di comprendere la
complessità dell’esperienza affettive modulate nelle varie
tonalità emotive. Questo fanno le figure genitoriali con i
bambini, questo fanno gli adulti in generale. Questo è anche un aspetto del lavoro degli operatori umanitari.
Lavorare in contesti traumatici ed entrare in contatto
con persone che hanno subito gravi traumi, vuol dire entrare in contatto con individui e gruppi che funzionano
prevalentemente con una modalità schizoparanoidea. In
questi contesti e da questa modalità si può venire travolti
a funzionare nello stesso modo, attraverso un meccani26
G. Leopardi, Poesie e prose, Milano, 1987, vol. 1, p. 85.
317
smo che la psicoanalisi ha definito identificazione proiettiva. Tale concetto è stato introdotto, ancora da Melanie
Klein, sia per descrivere un funzionamento necessario allo
sviluppo della mente sia per descrivere un meccanismo di
difesa. Il lattante fa sentire alla mamma i propri stati
d’animo angosciosi o eccitati, per lui intollerabili e che
necessitano di essere pensati, elaborati dalla mente materna, che può così restituirli bonificati. Analogamente, tanto più una situazione è concretamente drammatica, angosciosa, intollerabile, tanto più la mente usa questo meccanismo di difesa. La metafora del teatro aiuta a comprendere il concetto. Dal teatro interno dell’individuo traumatizzato escono precipitosamente quei personaggi intollerabili dal soggetto, che senza chiedere permesso, entrano e
alloggiano dentro il teatro interno dell’altro.
È per questo che frequentemente agli operatori accade di reagire, agire, sentirsi in un modo per loro perturbante. Sentirsi depressi senza sapere perché. O al contrario insolitamente eccitati ed euforici. Angosciati oltre misura. Intolleranti, senza possibilità di autocontrollo, a stare in situazioni di attesa o di passività. In colpa di non
fare mai abbastanza o di non riuscire a sopportare di potere solo ascoltare.
Osservare, ascoltare, rispettare, a prescindere dal
compito specifico dell’operatore e dell’azione all’interno
della quale è coinvolto, sono le modalità di un azione
pensata, indispensabile, tanto quanto difficile.
Ecco cosa ci disse una delle colleghe psicologhe bosniache appena la conoscemmo:
Che mai si sarebbero aspettate di trovarsi in guerra. Non
avevano nulla, neanche cibo ed elettricità: erano sotto assedio
dei serbi. Non avevano una bibliografia a cui fare riferimento,
non potevano credere d’avere qualchecosa da dare, non avendo
nulla. Non potendo dare cose che non avevano, hanno dato
ascolto e una parola calda27.
27 P. Brunori, G. Candolo, M. Donà dalle Rose e M.C. Risoldi,
Traumi di guerra, un’esperienza psicoanalitica in Bosnia-Erzegovina,
Lecce, 2003, pp. 51-52.
318
Durante i sei anni di lavoro con colleghi e colleghe
bosniache abbiamo sperimentato quanto sia importante
avere rispetto per i bisogni e le richieste provenienti dalle
persone che vivono e lavorano nell’aree colpite; sapere
accogliere e valorizzare le risorse e le competenze delle
professionalità locali; costruire legami di fiducia; mantenere e approfondire un dialogo continuo sulle proprie
motivazioni all’aiuto umanitario in modo che esso possa
trasformarsi in un incontro umanitario.
Non sempre infatti la percezione del bisogno da parte
di operatori, stranieri al paese in cui si opera, corrisponde alle reali possibilità di accogliere la risposta pensata ed
organizzata fuori dal contesto. Nella drammatica realtà
dello stupro delle donne in Bosnia, stupro etnico usato
come arma di guerra nel conflitto balcanico, ogni progetto psicosociale, pensato nella direzione di centri di accoglienza per le donne stuprate, è fallito quando era
costruito senza confrontarsi all’interno di reti relazionali e
istituzionali, con i professionisti del luogo. È solo da questo confronto che possono emergere gli elementi utili alle
necessarie modifiche. Purtroppo però l’esperienza della
storia di questi progetti in Bosnia si riproponeva con gli
stessi errori, anni dopo, in Kossovo. «Nessuno ha pensato
di chiederci quale fosse stata la nostra esperienza», commenta una psichiatra di Tuzla, «Noi avremmo potuto aiutare ad evitare gli errori fatti in Bosnia».
6. L’incontro umanitario
Torniamo alla immagine del giubbotto protettivo della
psiche. Indossando un giubbotto antiproiettile non si diventa magicamente esperti militari, né soldati, né si possono affrontare con sicurezza bombardamenti o mine. In
fondo il giubbotto serve soprattutto a rendere immediatamente consapevole chi lo indossa, che sta operando in
una situazione molto pericolosa. Così l’immagine del
giubbotto protettivo della psiche vuole evocare analoga
funzione. Con una formazione psicologica di base e di
319
breve durata non si diventa psicologi né ci si mette al riparo dalle complesse conseguenze del contatto e del contagio con il perturbante. Non si elimina l’attivarsi inconsapevole dei complessi meccanismi di difesa che abbiamo
sopra descritto. L’inconscio è inconscio per definizione.
Solo il dialogo continuo, al proprio interno, con i colleghi, con i supervisori, può consentire di trasformare i
comportamenti conseguenti ai meccanismi di difesa in
pensieri e rappresentazioni mentali e in seguito in azioni
pensate e sottratte al dominio incontrastato dell’inconscio.
Vogliamo contrastare con questa affermazione il rischio del diffondersi di fantasie illusorie, che i master di
psicologia dell’emergenza, sempre più numerosi, possono,
inconsapevolmente alimentare: che si possa, cioè, divenire
«psicologicamente» esperti dell’emergenza. Non vogliamo
negare che fare numerose esperienze in questo ambito accresca molto la capacità emotiva del singolo individuo,
ma sottolineare che, per quanta esperienza sul campo si
sia fatta, andare incontro alle conseguenze della violenza
sociale e delle catastrofi, significa andare incontro ad un
perturbante ignoto, ad un impensabile della mente. Ogni
volta sarà comunque e sempre anche una prima volta.
Una formazione di base e di breve durata permette di
diventare un po’ più consapevoli della complessità del lavoro umanitario. Tale consapevolezza serve ad attivare il
senso dei propri limiti psichici e dunque a meglio conoscere e utilizzare le proprie risorse. E soprattutto a rendere manifesta la necessità di lavorare in gruppo, di essere
sostenuti da formazioni e supervisioni permanenti. Infatti
nelle realtà di violenza sociale e catastrofi ciò che più
profondamente si frammenta ed è minacciato è il sentimento individuale e collettivo di coesione, di fiducia, di
senso di continuità delle proprie relazioni interne e di
quelle esterne gruppali. Questo specularmente contagia
l’operatore, che come abbiamo visto, può sentirsi intensamente attivato ad entrare in una dimensione illusoria di
onnipotenza, per esempio con atteggiamenti di estremo
coinvolgimento, dedizione e operatività, senza risparmio
di energie fisiche e psichiche. Sappiamo come proprio
320
questa esperienza possa però portare ad un esaurimento,
con la conseguente impossibilità di lavorare creativamente. In questo senso è importante costruire il gruppo di lavoro28, che ha una funzione profondamente protettiva. Il
gruppo di lavoro infatti attiva, indirettamente, anche fattori terapeutici, quali sentimenti di appartenenza, di fiducia, di continuità, di vitalità, di speranza.
Supervisione e formazione in gruppo e di gruppo,
sono assetti che hanno la loro origine e la loro elaborazione, nel mondo psicologico e psicoanalitico, fin dagli
anni Quaranta. Abbiamo già ricordato la Tavistock Clinic di Londra, in cui trovarono spazio le prime riflessioni teoriche sulle esperienze con i gruppi e in cui c’è
sempre stata molta attenzione «per quei gruppi che si
confrontavano con rigore e con passione con il pensiero
e la prassi psicoanalitica, cercando di farla fruttificare
anche in situazioni limite, non protette dalle sicure transenne di setting acquisiti e di contesti consolidati»29.
Possiamo dire che l’obiettivo di un lavoro di gruppo e
di una supervisione, in un’ottica psicodinamica, in contesti di emergenza psichica e di emergenza sociale è
quello di offrire uno spazio protetto che permetta
l’esperienza della condivisione dei pensieri e delle emozioni, di rendere più sensibili ed acute le percezioni, di
potenziare l’esercizio dell’immaginario, così che né possa scaturire una più ricca comprensione di sé, dell’altro
e delle relazioni.
In questi ultimi anni sono proliferati gli interventi
umanitari nelle zone colpite dalla violenza sociale e dalle
calamità naturali, (peace bulding, peace keeping, progetti
28 Wilfred Bion usa questo termine per indicare un funzionamento
del gruppo, che non è spontaneo, ma risultato di una costruzione, un
gruppo che tollera il dolore, la fatica emotiva, il senso del tempo, in
grado di modulare emozioni per renderle pensabili e non è travolto da
quelli che lui chiama assunti di base, cioè correnti emotive primitive
ed inconsce sempre presenti in un gruppo. Cfr. W.R. Bion, Esperienze
nei gruppi, Roma, 1972.
29 R. Parlani, Un omaggio a Martha Harris, in «Quaderni di psicoterapia infantile», 1989, vol. 18, p. 8.
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psicosociali) sono altrettanto proliferati i corsi di formazione, anche in sede universitarie, ma ancora troppo permane una immagine dell’operatore umanitario eroica, onnipotente, che può usare indiscriminatamente le proprie
risorse psichiche, senza danno.
Con questo lavoro abbiamo voluto sottolineare l’importanza di una formazione che avvii processi di consapevolezza che permettano di porre al centro della relazione
umanitaria il rispetto della persona, sia di colui che porta
aiuto, nelle più variegate forme, sia di coloro che di questo aiuto possono partecipare.
È con questo rispetto che si può contenere e coniugare la dimensione dell’aiuto umanitario con quella dell’incontro umanitario. Infatti il termine aiuto suggerisce una
relazione basata su qualcuno che dà e qualcuno che riceve. L’incontro è uno scambio di doni, presuppone un rispetto reciproco, una sospensione delle risposte, un’attesa
perché da situazioni di sofferenza ci sia una risposta che
non appartiene né a chi dà né a chi riceve, ma è il prodotto stesso della relazione e dell’incontro.
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