Gli stati falliti ei dilemmi della governance in Africa
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Gli stati falliti ei dilemmi della governance in Africa
Gli stati falliti e i dilemmi della governance in Africa Gli stati falliti in Africa: dove, come e perché Le amministrazioni coloniali, sulle cui basi sono stati costruiti gli stati africani postcoloniali, hanno lasciato in eredità infrastrutture molto leggere, capaci di un controllo del territorio e della società inferiore a quello che si associa in Europa alle istituzioni dello stato moderno. In molte aree distanti dalla capitale, la mancanza di strade, linee di comunicazioni e uffici pubblici rende tale controllo solo nominale. Ancora oggi, nonostante la forte espansione dell’impiego pubblico avvenuta dopo l’indipendenza, gli stati africani gestiscono in media il 20% del PIL dei rispettivi paesi, a fronte del 40% degli stati del mondo occidentale. Nei primi decenni, l’espansione dello stato è finanziata attraverso lo sfruttamento delle risorse naturali e, soprattutto, gli aiuti finanziari legati alla guerra fredda. Non stupisce quindi che la fine del confronto bipolare abbia gettato molti stati africani in una grave crisi finanziaria e funzionale, culminata in una serie di clamorosi “collassi”. Nella maggior parte dei casi, è un’insurrezione armata partita da un’area periferica che conduce prima alla guerra civile e poi alla dissoluzione dell’ordine costituito. Talvolta, la situazione di stallo spesso conduce alla stabilizzazione del controllo da parte degli insorti su certe aree del paese. Il principio della santità dei confini coloniali, tuttora difeso dalla comunità internazionale, impedisce però che a queste situazioni di fatto sia concessa la sanzione giuridica della sovranità (l’unica eccezione finora è stata l’Eritrea). In nord della Somalia, il più celebre degli “stati falliti”, due entità territoriali (Somaliland e Puntland) ambiscono oggi al riconoscimento internazionale. 1989: L’insurrezione contro il governo centrale guidata da Charles Taylor getta la Liberia in una situazione di guerra civile che si protrae, a più riprese, fino al 2003. 1991: Una rivolta contro il governo della Sierra Leone, partita dalla Liberia, scatena una guerra civile che si protrae per un decennio nonostante diversi tentativi di pacificazione. 1991: Con la fuga del presidente Siad Barre, la Somalia cade preda della lotta endemica tra warlords e fazioni a base clanica, che si spartiscono il controllo del suo territorio. 1997: La cacciata del presidente Mobutu dallo Zaire (Congo-Kinshasa) da parte dei ribelli di Laurent Kabila sostenuti dai governi rwandese e ugandese, conduce ad una guerra regionale (1998-2003) e al crollo dello stato La transizione verso la democrazia in Africa: gli attori politici e sociali L’introduzione o la reintroduzione delle procedure elettorali negli anni Novanta ha condotto alla formazione di allineamenti e coalizioni elettorali, talvolta in continuità talvolta in discontinuità con quelli su cui si reggevano i precedenti regimi a partito unico. Le opposizioni (cleavages) che attraversano l’elettorato hanno fornito le basi per la formazione di partiti, alleanze e, talvolta, movimenti insurrezionali. I cleavages della politica africana Fratture etnico-linguistico-regionali: Svolgono un ruolo cruciale in quasi tutti i paesi subsahariani; la forte concentrazione regionale dei gruppi etnici e linguistici, soprattutto nelle aree rurali, rende poco rilevante la scelta tra sistemi elettorali basati su collegi uninominali e sistemi proporzionali. Città-campagna: Legata al divario e alla difficili comunicazioni tra le aree urbane (più esposte alle influenze esterne e all’economia globalizzata) e le aree periferiche, questa frattura ha permesso la sopravvivenza di alcuni partiti e leader privi di credenziali democratiche durante la transizione. Religione: Poco rilevante in passato, questa linea di frattura sta iniziando a manifestarsi nella polarizzazione tra musulmani e cristiani nei paesi a sud del Sahara (Nigeria, Costa d’Avorio, Ghana, Sudan). Classe: nell’area subsahariana partiti o coalizioni basati sull’opposizione tra classe operaia e classe media non hanno mai svolto un ruolo rilevante. La frattura etnico-regionale non rappresenta quasi mai l’unica dimensione degli allineamenti di partito, che di regola comprendono più di un gruppo etnico. Secondo alcuni, la vulnerabilità dell’apparato pubblico a pratiche neopatrimonialistiche e clientelari e il ruolo ancora preponderante dello stato nell’economia africana rappresentano il vero anello di congiunzione tra etnicità e politica in Africa. Sebbene i modelli istituzionali basati sul power-sharing non abbiano trovato applicazione nell’area dopo il 1990, alcuni partiti dominanti tendono a svolgere funzioni di mediazione tra i gruppi etnici compresi al loro interno. Tuttavia, l’esclusione di altri gruppi e regioni dalla coalizione dominante e dalla ripartizione delle risorse pubbliche alimenta inevitabilmente il senso di alienazione nelle minoranze, favorendo il perpetuarsi delle contrapposizioni a base etnica. Elezioni e frammentazione etnica Da alcuni anni, la comparsa del fenomeno degli “stati falliti” ha richiamato l’attenzione sull’importanza della “capacità” delle strutture statali come precondizione per il consolidamento della democrazia. Secondo alcuni osservatori, molte delle difficoltà che si riscontano nel continente possono essere ricondotte alla debolezza dello stato, tanto nella sua capacità regolativa e potestativa, quanto in quella di fornitore di servizi e beni pubblici. Un problema è la mancanza di identità nazionali condivise associate allo stato, che rendano pacifica la competizione partitica e accettabile l’alternanza al potere (nation-building). Altri problemi rimandano all’efficienza delle strutture amministrative e al complesso rapporto tra le regole dello stato moderno e sistemi normativi e concezioni culturali di matrice non occidentale: è il caso della “corruzione” e del clientelismo e del conflitto tra alcune modalità di legittimazione “tradizionale” dell’autorità e i principi della democrazia liberale. La frammentazione della mappa linguistica in Nigeria, 1979 – Fonte: CIA Il tasso di diversità etnica eccezionalmente alto che caratterizza l’area subsahariana si riflette nell’alto grado di frammentazione linguistica all’interno dei paesi. Per superarla, tutti i paesi dell’area hanno fatto ricorso alle lingue coloniali, che tuttavia sono comuni a più stati e contribuiscono a scavare un solco tra elite istruite e le masse legate alle lingue africane. A ciò si aggiunge l’arbitrarietà dei confini ereditati dal colonialismo e riconfermati dopo il 1964, che in molti casi tagliano i gruppi linguistici. I tentativi di nazionalizzazione culturale tentati negli anni Sessanta e Settanta sono stati abbandonati, lasciando intatta una situazione che, insieme alla debolezza della comunicazioni tra centro e periferia, non favorisce la nascita di uno spazio pubblico in cui tutti i cittadini possano partecipare su un piede di parità e con cui tutti possano identificarsi. Lo stato e le autorità tradizionali La debolezza dell’amministrazione periferica dello stato postcoloniale ha creato lo spazio per la sopravvivenza di autorità di tipo “tradizionale” a livello locale. Legittimate e, spesso, create dalle amministrazioni coloniali, questi centri di potere si basano di regola sul’autorità riconosciuta agli uomini anziani, tipico delle società decentralizzate organizzate a base clanica, e sono considerati depositari del diritto consuetudinario locale. Le autorità tradizionali tendono ad entrare in competizione con i governi locali elettivi. In alcuni contesti, tuttavia, esse hanno assicurato una funzione regolativa basata sul diritto, alternativa al potere dei warlords o ad altre forme di ordine basate solo sul monopolio della violenza. Zimbabwe: il fallimento dello stato? Tra tutti i paesi dell’Africa subsahariana, lo Zimbabwe è quello che negli ultimi anni ha ricevuto la copertura più estesa sulla stampa internazionale. Il controverso secondo turno delle elezioni presidenziali del giugno del 2008 ha riconfermato al suo posto del presidente Robert Mugabe, che tuttavia, cedendo alle pressioni internazionali, tre mesi dopo ha nominato primo ministro il suo avversario, il leader del Movement for Democratic Change (Mdc) Morgan Tsvangirai. Il compromesso ha segnato una tregua in un braccio di ferro iniziato nel 2000, quando il governo di Mugabe, dopo un’inattesa sconfitta in un referendum costituzionale, diede il via ad una campagna di espropri ai danni dei circa 2.000 agricoltori di origine europea, appoggiata da intimidazioni e uccisioni ad opera dei veterani della guerra di liberazione. Il Mdc, sorto sulla base del movimento sindacale, ha trovato il sostegno delle Ong, della comunità imprenditoriale e della comunità internazionale, che vedono in Tsvangirai l’unica speranza per la democratizzazione dello Zimbabwe, ma non è riuscito finora a scuotere l’appoggio che il regime continua a trovare nelle campagne. Secondo i sostenitori di Mugabe, una campagna d’opinione orchestrata da Washington, dal governo laburista britannico e dalla Ue nasconderebbe la vera causa della crisi, ossia i profondi squilibri nella ripartizione della proprietà fondiaria e della ricchezza, tuttora in larga parte nelle mani dei bianchi e di capitale straniero. Nel contesto africano, la preoccupazione esclusiva per la protezione dei diritti civili e per la correttezza democratica farebbe il gioco del capitalismo internazionale, reso più aggressivo dall’”egemonia neoliberista” e dalla globalizzazione dell’economia. I partiti in Parlamento (2008-2009) Tiranno o eroe anti-coloniale? Nato nel 1924 da genitori shona (l’etnia maggioritaria nel paese), educato dai gesuiti e in Sudafrica, Robert Mugabe è un leader duro e spietato, che si è reso colpevole di sanguinosi eccidi contro l’etnia ndebele durante gli anni Ottanta. Tuttavia, si differenzia per diversi aspetti dagli altri dittatori africani. Colto e intellettualmente aperto, è stato a lungo stimato come interlocutore e amico dalla sinistra anticolonialista britannica. La svolta del 1999, che lo ha riportato su posizioni marxiste radicali, è stata vissuta come un tradimento personale da molti dei bianchi progressisti che lo avevano sostenuto per decenni, nello Zimbabwe e in Gran Bretagna. 9 Zanu- PF: erede dello storico movimento di liberazione che, sotto la guida dello stesso Mugabe, aveva condotto la lotta armata contro il governo bianco tra il 1976 e il 1980. Dal 1981 al 2000 ha vinto agevolmente tutte le elezioni. Voto: 46%; Seggi: 99. Leader: Robert Mugabe (Primo Ministro 1980-87, Presidente dal 1987) 9 Mdc: fondato nel 1999, ha il sostegno delle aree urbane, degli operai e della comunità imprenditoriale bianca e nera Seggi: Voto: 43%; Seggi: 100. Leader: Morgan Tsvangirai (Primo Ministro dal 2008) 9 Mdc-Mutambara: è formato da una fazione staccatasi dal Mdc, favorevole ad un rapporto meno conflittuale con lo ZANU-PF. Voto: 8%; Seggi: 10. Leader: Arthur Mutambara Nato nel 1980 sulle ceneri della Rhodesia, lo stato segregazionista fondato nel 1965 dalla minoranza bianca, lo Zimbabwe ereditò un’economia tra le più avanzate dell’Africa e una macchina statale efficiente. Nei primi dieci anni, il governo ZANU-PF si dedicò ad espandere il settore pubblico e la spesa per l’istruzione, senza tuttavia ostacolare l’economia privata né incidere su una distribuzione molto polarizzata in cui il 3% più ricco riceve il 30% del reddito nazionale. Negli anni Novanta, la crisi finanziaria portò il governo ad accettare un piano di aggiustamento strutturale suggerito dal Fondo monetario. Pochi anni dopo, tuttavia, la svolta anti-liberista di Mugabe ha innescato una profonda crisi dell’economia, aggravata dalle sanzioni internazionali causate dalla repressione delle opposizioni. Come governare il boom petrolifero L’Africa, secondo la BP Statistical Review of World Energy del 2009, comprende il 10% delle riserve mondiali di petrolio e produce l’11% dei barili a livello globale. Il boom di produzione e entrate petrolifere preoccupa gli osservatori. Si teme che ancora una volta l’abbondanza di risorse localizzate in Africa in realtà rappresenti per i paesi del continente una maledizione. Secondo alcuni studiosi, i Paesi in via di sviluppo senza risorse negli anni sono cresciuti di più dei PVS ricchi di risorse. Fonte: R.M. Auty (2007), Aid and Rent-Driven Growth, UNU-Wider Research Paper No. 2007/35: 2 Le risorse possono rappresentare una maledizione per le economie africane: - possono stimolare squilibri di carattere macroeconomico, tra cui volatilità dei prezzi e della domanda, le ragioni di scambio decrescenti, con conseguenze sulla capacità di intervento riequilibratore della politica economica; - rischiano di creare economie poco diversificate, che esportano quasi solo un prodotto primario, e quindi sono molto fragili perché dipendenti dalla domanda e dai prezzi internazionali; - vi sono poi problemi di governance. La concentrazione di potere legata all’esistenza di una fonte di reddito nazionale può spingere le élites ad assumere comportamenti rent-seeking e di appropriazione indebita dei profitti derivanti dalle risorse petrolifere. Siccome i profitti derivano da una risorsa naturale il cui controllo è concentrato nelle mani di pochi, vi è minore spinta dei cittadini ad attuare politiche ridistributive. La concessione delle licenze per lo sfruttamento dei giacimenti petroliferi è spesso occasione di tentativi di corruzione. In generale, la disponibilità di risorse petrolifere (e minerarie) comporta uno stato degli indicatori di governance più basso rispetto a quello di Paesi meno ricchi di risorse naturali. L’uovo o la gallina: viene prima la buona governance o lo sviluppo? Le istituzioni finanziarie internazionali e i grandi donatori a partire dalla caduta del Muro di Berlino hanno spinto affinché i Paesi in via di sviluppo che beneficiano della loro assistenza, in maggioranza Paesi africani, adottassero politiche che migliorassero la qualità della governance, nella convinzione che questo potesse stimolare anche la crescita del prodotto nazionale. La causalità della relazione tra tassi di crescita e qualità della governance di un Paese non è chiara. Se da un lato, infatti, come è evidente anche dalla figura, i Paesi industrializzati hanno un livello di governance alto e tassi di crescita stabili e più elevati della maggioranza dei Paesi in via di sviluppo, non è facile capire se un livello di sviluppo più avanzato implichi un miglioramento nella governance, oppure se miglioramenti nella governance abbiano come effetto di favorire la crescita del prodotto nazionale. Fonte: M. Khan (2002), State Failure in Developing Countries and Strategies of Institutional Reform