→ Lo spazio

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I SAPERI DEI SENTIMENTI NELLE RELAZIONI DI CURA
Percorso formativo
Incontro n. 5
Organizzazione dei servizi: gli spazi e i tempi della cura
Prof. ssa Elisabetta Musi, Università Cattolica (sede di Piacenza)
Torino, 16 gennaio 2009
I parte
Obiettivi e argomenti
•
•
Decodificare il paradigma operativo sotteso alle istituzioni sanitarie: partire dagli
spazi e dai tempi dell’organizzazione o partire dalla persona?
Da una comprensione ingenua dell’organizzazione ad una più critica: tempi e spazi
soggettivi e oggettivi.
Introduzione in slide
Æ Lo spazio
Vorrei che esistessero luoghi
stabili, immobili, intangibili,
mai toccati e quasi intoccabili,
immutabili, radicati;
luoghi che sarebbero punti di
riferimento e di partenza, delle
fonti:
Il mio paese natale, la culla della
mia famiglia,
la casa dove sarei nato, l’albero che
avrei visto crescere
(che mio padre avrebbe piantato il
giorno della mia nascita),
la soffitta della mia infanzia, gremita
di ricordi intatti…
Tali luoghi non esistono, ed è
perché non esistono
che lo spazio diventa problematico,
cessa di essere evidenza,
cessa di essere incorporato, cessa di
essere appropriato.
Lo spazio è un dubbio: devo
continuamente individuarlo,
designarlo.
Non è mai mio, ma mi viene dato,
devo conquistarlo
Georges Perec, Specie di spazi
Rappresentazioni dello spazio: per progettare, per partire, per prevedere, per
imparare, per ritrovarsi, per
esplorare, … per ritornare
2
Æ Il tempo
Per l’uomo tribale
Lo spazio era il mistero incontrollabile.
Per l’uomo tecnologico il mistero incontrollabile
è il tempo.
(Marshall McLuhan, La sposa meccanica)
Misure del tempo: per iniziare, per terminare, per incontrare, per sapere, per
prevedere, per pianificare, per progettare… per salutare
3
Tappe concettuali del percorso
Una scienza senza soggetto
“Come evidenzia efficacemente Husserl ne La crisi delle
scienze europee e la fenomenologia trascendentale, la
visione fisico-matematizzante o meccanicistica del
mondo ha distrutto l’idea di un mondo ‘per’ l’uomo, ed ha
condotto il soggetto alla estraneità dal suo mondo,
ridotto a mero ricettacolo. Il dominio della tecnica ha
rivelato la sua violenza nei confronti degli investimenti
affettivi sullo spazio umanizzato ed ha estromesso
l’uomo dal suo mondo, de-centrandolo progressivamente
e riducendolo a cosa nel meccanismo produzionetrasformazione-consumo-rifiuti.
Lo spazio umanizzato non ha tuttavia cessato di esistere
nel pensiero e nella coscienza degli uomini. Prima di ogni
astrazione e meccani zzazione c’è l’originario essere-nelmondo dell’esistenza umana che, come afferma
Heidegger, è da sempre ‘aperta al mondo’ in quanto è
‘presso il mondo’ abitandolo nella dimensione essenziale
della spazialità” (V. Iori, Lo spazio vissuto, La Nuova
Italia, Firenze, 1996, pp. 3-4).
Una conoscenza che invece considera il vissuto soggettivo
“Con la fenomenologia si apre la strada ad un modo di concepire lo spazio che non si
fonda sulla astrazione o sulla razionalizzazione e non lo concepisce come in oggetto
altro da sé, incontaminato, da osservare, misurare, contemplare; lo spazio è
fenomenologicamente una struttura fondamentale dell’esistenza umana comprensibile
attraverso il mio corpo, i miei sensi, standoci dentro, essendone penetrati,
condizionati. Lo spazio fenomenologica è lo spazio abitato del vivere, del vedere,
dell’immaginare, dell’udire, del toccare, dell’allontanarsi e dell’avvicinarsi, della
contaminazione e del coinvolgimento con le cose e con gli oggetti in quell’incessante
movimento che è il fluire della vita” (Ibidem, pp. 13-14).
Lo stesso si deve dire riguardo al tempo: il tempo anonimo ed omogeneo del calendario,
lo scorrere sempre uguale delle lancette dell’orologio non dicono niente dell’intensità
delle esperienze che nel suo scorrere si compiono, al punto che si dovrebbe più
correttamente pensare che non esiste un tempo in cui sono racchiuse le esistenze, da
assumere come misura universale per collocarvi fatti ed eventi, ma che ogni vita si
consuma in virtù delle esperienze che compie e non perché trascorre il tempo.
Questo consentirebbe di cogliere meglio come l’attesa di una bella notizia o la
comunicazione di una diagnosi amplifichi la percezione del disorientamento, dello
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smarrimento, metta in moto una giostra di ipotesi e possibili condizioni successive. In
un’espressione: renda lento lo scorrere del tempo, lungo l’intervallo tra l’inizio
dell’attendere e il messaggio: sperato o temuto. Ci si trova calati in un vissuto di
sospensione rispetto al quale tutte le consuete misure con cui ci si “regola”
nell’esistenza (fra una settimana si saprà, una settimana non è tanto, basta attendere:
non c’è nient’altro da fare…) non valgono più. Si annebbia la vista, si paralizzano gli
arti, i movimenti perdono finalità e lucida tensione: “si gira a vuoto”, si dice. Senza
riferimenti, stranieri dentro la pianificazione di un quotidiano giusto per “altri tempi”,
organizzato quando tutto sembrava prevedibile e sotto controllo. Basta un incontro, un
malessere, una parola, un imprevisto… e il tempo - che verrebbe da dire “di sempre” –
non è più lo stesso: improvvisamente ostile, irritante, non più nostro. O al contrario:
tiranno, ingeneroso, troppo veloce, avido della nostra stessa vita.
In sostanza: “Lo spazio [così come il tempo] è certamente lo spazio fisico e naturale,
omogeneo, geometrizzabile e misurabile secondo le metodologie, i caratteri e le
nozioni forniti dalle scienze esatte (matematiche, fisiche e naturalistiche); esso è
però anche lo spazio vitale, intrinsecamente legato alle possibilità dell’esistenza, e
dunque parcellizzato in una molteplicità di micro-spazi dell’esperienza quotidiana in cui
il soggetto vive ed agisce, cioè spazi di possesso e di dominio, che sono, in definitiva,
la pluralità dei luoghi reali e simbolici entro cui si espandono le reti delle relazioni
organizzate e strutturate” (Ibidem, p. 23).
Comprendere spazio e tempo vissuti a partire dal senso
“La fenomenologia husserliana, sulle orme di Brentano, propone un superamento di
oggettivismo e soggettivismo attraverso il concetto di intenzionalità della coscienza
che dà senso al mondo già presente in essa come apoditticamente evidente. Per
Husserl non si tratta di indagare il mondo come oggetto in sé, come realtà esterna,
nella sua datiti ed ovvietà, quanto l’atto intenzionale della coscienza come atto che
pone in relazione continua la coscienza e il mondo. Io e mondo sono realtà distinte ma
non separate. La coscienza è infatti sempre coscienza ‘in-tenzionale’, in quanto
‘coscienza di…’ e il mondo è sempre in-tenzionato, cioè ‘mondo per’ una coscienza (…).
Il mondo circostante di cui faccio esperienza non è, secondo Husserl, un mondo objectum, di fronte a me, ‘in sé’, ma un mondo ‘per me’, è un mondo ‘spazio-temporale, in
cui ogni cosa ha la sua estensione corporea e la sua durata, e rispetto al quale ogni
cosa ha un suo posto nello spazio e nel tempo universale’ “ (Ibidem, p. 15).
Soggetto umano, spazio e tempo sono in una relazione di reciproca intenzionalità, li
lega un "patto segreto" per cui l'uno fornisce un senso all'altro e viceversa.
Lo
spazio è pieno o vuoto così come l'esistenza di chi lo abita è piena o vuota.
“La posizione degli oggetti viene conosciuta in relazione alla posizione del corpo proteso verso il mondo, es-posto, aperto al mondo in-tenzionalmente. Il corpo si dirige
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sempre e si progetta verso un mondo da toccare, vedere, odorare, udire, un mondo
offerto alla nostra conoscenza in termini non oggettivo-oppositivi come il formalismo
del razionalismo scientista postulerebbe, bensì in termini sensoriali” (ibidem, pp. 5253)
Così la comunicazione e la comprensione dell’altro, specie se in difficoltà, non avviene
attraverso il tentativo di “soppesare” oggettivamente la gravità e meno delle sue
condizioni rimandandogli una valutazione “matematica” di ciò che sta vivendo, ma nel
guadagnare la ringhiera di significati, di esperienze pregresse, di umori ed emozioni
attraverso le quali filtra ciò che gli accade. E l’efficacia di un’azione di conforto non
consiste nel ricondurre la sua attenzione ad un “principio – neutro - di realtà”, ad una
spiegazione razionale o ad una dimostrazione “oggettiva” delle possibili soluzioni, ma
nell’accogliere l’espressione del suo vissuto così com’è, ritenendolo fonte legittima di
verità (la sua verità, l’unica di cui dispone), presso la quale restare in ascolto per
cogliere nella possibile varietà delle tonalità emotive e nei significati che potranno
emergere dai suoi racconti ciò che lascia intravedere possibilità di evoluzione, e
trasformazione. Da investire di attenzione, su cui posare la speranza, da potenziare ..
per produrre un cambiamento.
Non appellandosi a una misura spazio-temporale univoca ma promuovendo una
consonanza di vissuti è possibile avvicinarsi all’altro
“L’esperienza vissuta dello spazio [così come quella del tempo], trovandosi sullo sfondo
di altre esperienze umane vissute nel mondo comune, si apre alla comunicazione con le
esperienze vissute altrui.
(…) Essere-nel-mondo significa per Heidegger primariamente anche essere in
relazione con gli altri uomini secondo le modalità dell’aver cura (Fürsorge), mentre il
rapporto con le cose è caratterizzato dal prendersi cura incurante (Besorgen)”
(Ibidem, p. 19).
Le tonalità emotive della gioia o della paura, rendono attraenti o minacciose le
presenze che popolano lo spazio circostante. Lo spazio emotivo binswangeriano,
riprendendo la "tonalità emotiva" heideggeriana, disvela una dimensione fondamentale
della presenza umana: non lo spazio delle scienze esatte, muto, assoluto,
omogeneo, oggettivo, ma quello dell'esistenza, colorato, ricco di voci, di suoni, e
legato alle esperienze vissute nell'esistenza di ogni soggetto. Il mondo è "pieno"
o "vuoto" in relazione al soggetto ed alla sua Stimmung, lo stato d'animo che
accompagna le modificazioni della spazializzazione.
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Esercitazioni: come sempre si parte da sé
1) Luoghi (professionali) non comuni
Cavalieri alla caccia di beni terreni
fanti inseguendo chimere… di entrambi
tracce ho trovato dentro me stesso:
pagliuzze d’oro a volte
e più spesso fili di ferro,
turbamenti, voglia di perdersi
e una stella polare ferma inchiodata a
capo del letto.
Alberto Bellocchio
In molti modi possiamo dire di noi: a noi stessi e agli altri; scoprire risorse custodite
nel passato o scorgere appena piccoli grandi fardelli che l’occhio del cuore fatica a
vedere per non doverle affrontare.
Decentrare il punto di vista aiuta a riguadagnarsi con maggiore consapevolezza. E per
decentrare il punto di vista è utile raccontarsi in altri modi. Ad esempio a partire dai
luoghi.
Un ritratto si può fare in molto modi:
così
oppure così
Per fare il suo ritratto, Arman
scelse oggetti che gli somigliano
:
- un tridenti
- una maschera
- un apparecchio foto
- dischi
- libri
- oggetti africani
- fotografie di amici e di amiche,
dei suoi bambini
- ecc ...
Tutti gli "oggetti" del suo
desiderio, cose che significarono
di più nella sua vita, cose che
fecero la sua vita.
E naturalmente, è una
accumulazione...
Utilizzando le suggestioni fornite dalle immagini o disegnando direttamente, oppure
indicando semplicemente con le parole comporre una versione di un possibile ritratto
professionale di sé, della propria storia, attraverso la rievocazione dei propri luoghi
lavorativi: gli spazi fisici impressi nella memoria, quelli che sono risultati più formativi,
ma anche i luoghi simbolici, gli angoli più significativi, gli oggetti su cui si sono
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concentrati pensieri e preoccupazioni, le parole che hanno fatto casa, le porte aperte
o chiuse, le relazioni con cui è stato costruito un nido per sé e per gli altri…
2) Analogamente riguardo ai tempi…
Pochi fan questa via; non perché il buio
li spaventi, ma solamente vengono
qui riluttanti perché hanno paura
di trovare, infittendosi la tenebra,
ciò che si sono lasciati dietro a casa,
a succhiarsi le guance al focolare,
quella paralizzante Indecisione
dalla cui testa danzante si sono
precipitosamente dileguati,
solo per ritornare ad incontrarla,
afferrandosi con la fredda mano
al polso dell’Azzardo, per cadere con
lui,
compagno della vecchia e nuova sorte.
Edna St. Vincent Millay
“Osserviamo una clessidra: nel cavo superiore la sabbia rappresenta il
futuro non ancora venuto. Nel cavo inferiore la sabbia rappresenta il
passato già venuto. Il centro è costituito da uno stretto passaggio attraverso
il quale fluisce la sabbia del cavo superiore a quello inferiore. Tale punto di
transito puntualizza il momento presente: ciò che avviene ora. Se un
esistenzialista osserva tale clessidra il suo interesse non sarà destato dal
cavo superiore, avvolto nelle nebbie del futuro, e neppure dal cavo
inferiore, che non ha alcun aggancio con la realtà storica del momento.
Piuttosto egli osserva il momento di passaggio, il presente, attraverso cui
viene puntualizzato il trascorrere della sabbia tra i due cavi”. (M.Buber).
Nel quadrante sottostante sapresti segnare senza pensarci troppo, quasi in scrittura
automatica, i tempi in cui è scandita la tua vita professionale provando a nominare le diverse
qualità di tempo che investi (es. tempo per gli altri, tempo per sé, tempo per imparare, tempo
per insegnare…; oppure secondo le tonalità emotive: tempo quieto, tempo d’ansia, tempo per la
funzionalità e l’efficienza del servizio, tempo per le relazioni coi pazienti…)…
È indubbio che la rappresentazione non esaurirà tutte le possibili letture, che si
presenteranno ogni volta diverse non appena verranno suggeriti o emergeranno alla memoria
altre possibilità di comprensione e decodifica. È ugualmente significativa la prima scansione
dei tempi che emerge, quella evidentemente più “sentita” in questo momento.
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.
Completando poi le seguenti frasi, scrivi alcuni pensieri…
E’ troppo presto per…
…………………………………………………………………………………………
………………………………………………………………………………………….
E’ troppo tardi per…
…………………………………………………………………………………………
………………………………………………………………………………………….
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E’ il tempo giusto per…
…………………………………………………………………………………………
………………………………………………………………………………………….
Ho bisogno di tempo per…
…………………………………………………………………………………………
………………………………………………………………………………………….
Obiettivi e argomenti
•
•
II parte
Problematizzare i limiti e le risorse di una logica aziendalistica applicata all’umano
Analizzare le possibilità di declinare l’organizzazione secondo un esercizio di
professionalità che integri le competenze del curare (prestazione) col prendersi cura
(relazione)
Quando il cielo è sereno
come è bella la vita
poi una nuvola di colpo
ripristina che il tradimento c’è
C. Zavattini
O mia città nella pioggia, o mia città
nell’autunno,
è forse il tempo di tornare a te se il vento
torce il fumo sui tetti, verso i monti
schiarisce
un istante, il giorno ci lascia.
Questo era il luogo assegnatoci e la stagione,
questa l’ora che il marciapiede grigio
asciuga, l’occhio ringrazia smarrito
un riflesso del cielo che abbuiando s’illumina.
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A. Bertolucci
Spazi e tempi di cura, tra logiche di prestazione e logiche di
relazione
Aver cura dell’altro a partire dalla cura degli spazi e dei tempi che lo accolgono
Spazi e tempi nelle professioni di cura non sono semplici condizioni neutre entro cui
sono contenuti i vissuti, ma essendo investiti dei vissuti di chi li abita, vi transita, vi
sosta…, essi possono essere assunti come intenzionalmente educativi, in grado cioè di
sostenere e promuovere relazioni di cura, tese a realizzare il poter essere psicofisico
dell’altro.
Lo spazio e il tempo vissuti rappresentano la relazione del soggetto con il mondo che si
estende o si contrae, si allontana, si avvicina, è profondo o superficiale, è infinito o è
"alla mano", è interno o esterno, pieno o vuoto, non solo in relazione alla vista, al
tatto, all'udito, ma sulla base delle modalità dell'esistenza.
Ciò che differenzia gli spazi [ma lo stesso si può dire per i tempi] occasionalmente
educativi ha a che vedere con i messaggi – comunicazione non verbale affidata a luoghi
e tempi – che si intende inviare al paziente e ai suoi familiari. Nel poco tempo che il più
delle volte si ha a disposizione è importante trovare il paziente ben disposto anche in
virtù della cura degli ambienti che riferisce dell’accoglienza, dei pensieri premurosi –
seppur non finalizzati a quella particolare persona – delle attenzioni a chi arriva…, che
la caratterizzano. Al contrario un ambiente squallido, trascurato, uno stile
comunicativo generale frettoloso e superficiale mal dispone e rischia di riflettersi
nelle relazioni più ristrette, creando una distanza e una diffidenza di base non solo
non facili da estirpare, ma che spesso avviano un circolo vizioso (chiusura,
incomprensioni e fraintendimenti, scarsa collaborazione, reticenza a tornare…).
Spazi e tempi costituiscono il “medium” della comunicazione, lo sfondo, una sorta di
punteggiatura delle interazioni personale sanitario – pazienti.
L’umanizzazione non è un processo neutro, né si risolve in un intervento esteticoarchitettonico, anche se quest’ultimo aspetto può rivestire grande importanza per
determinare un clima favorevole all’interazione umana, ma è piuttosto un complesso
processo che interessa la specifica cultura organizzativa, la cultura di quel sistema
organizzativo.
Parlare di umanizzazione significa allora interrogarsi sulla cultura organizzativa e su
come modificarla per incrementare tale processo.
“… vi sono luoghi identificati e riconosciuti come ‘educativi’ perché creati e strutturati
intenzionalmente in funzione di uno scopo educativo”, V. Iori, Lo spazio vissuto, cit., p.
62 (anche se a volte rimane potenzialmente educativo)
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“La ‘patria’ dell’educazione sarà quello spazio educativo dove poter vivere l’esperienza
di ‘abitare’, il luogo della piena espressione di sé, dell’autentico progetto di sé,
dell’accoglienza, della ‘cura’” (ibidem, p. 79)
Saper creare spazi e tempi del “noi” pur nella distinzione dei ruoli
“Lo spazio educativo, dove si ha autentico incontro educativo, è ‘mio’ e al tempo stesso
‘nostro’ nella reciprocità della relazione. (…)
‘Là dove sei tu, si apre un mondo per me’, dice un verso di Rilke ripreso da Binswanger.
(…)
L’utilizzabilità (Zuhandenheit) e la strumentalità dell’indifferenza cosale (Besorgen)
contraddistinguono le relazioni quotidiane in autentiche e si esprimono secondo i modi
del porsi di fronte, dell’affrontarsi, della ‘presa’, dell’ ‘aggressività’, delle
strumentalizzazioni e del commercio: modi che Binswanger descrive secondo i vari
‘prendere per…’ (‘per la gola’, ‘per le orecchie’, ‘per il verso giusto’, ecc.). Questi modi
(interessati, sollecitati, preoccupati) si contrappongono alle modalità relazionali
autentiche, ma spesso si mescolano a queste e ne fanno parte” (Ibidem, p. 81).
La possibile continua richiesta di una struttura di prestazioni efficienti e
standardizzate può portare a una sopravvalutazione della dimensione tecnicostrumentale del lavoro di cura e quindi a spersonalizzarlo, arrivando a ciò che è stato
definito “esaurimento emotivo” (Maslach, 1982).
Per evitare che si verifichi questo è necessario lavorare sulle motivazioni, sulle
condizioni di lavoro, sul metodo di lavoro.
Mettersi in un’ottica di umanizzazione di un sistema organizzativo richiede
innanzitutto di riflettere sulle procedure, sulle modalità comunicative, sulla
distribuzione del potere, sull’interazione fra i diversi attori e il loro modo di lavorare,
sulla divisione del lavoro.
Il processo di umanizzazione, infatti, oltre che riguardare l’ambiente e i suoi ospiti (gli
“utenti”) riguarda le condizioni di lavoro, la capacità di autonomia e di flessibilità
dell’organizzazione e, all’interno dell’organizzazione, il carico di lavoro, il sostegno
psichico derivante dalla formazione, il metodo di lavoro.
Il processo di umanizzazione consiste sostanzialmente nel porre al centro la persona
con i suoi vissuti. Ma non solo la persona-cliente.
a) La prima domanda è dunque: quale attenzione viene riservata ai vissuti del personale
operativo?
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Riguardo poi al rapporto con gli ospiti della struttura, i fattori che concorrono
all’umanizzazione delle strutture socio-sanitarie sono sostanzialmente questi:
- continuità con l’ambiente familiare e con l’ambiente di vita pregresso
- buone condizioni e modalità di accoglienza e alberghiere
- personalizzazione dei rapporti umani.
Tutte le strutture socio-sanitarie hanno fondato la loro organizzazione sulla
discontinuità: discontinuità tra il tempo familiare e quello della struttura, fra lo spazio
quotidiano e quello della cura, fra il sapere profano e quello scientifico, fra il sapere
di sé e il sapere posseduto da altri, fra la conoscenza del corpo dall’esterno (in virtù di
interventi specialistici) e la conoscenza prodotta dall’interno, dal proprio vissuto.
Cercare di superare
all’umanizzazione.
questa
discontinuità
è
un
obiettivo
che
concorre
b) La seconda questione è quindi: come è possibile strutturare un’organizzazione di un
servizio, far crescere una cultura organizzativa, ponendo al centro i vissuti personali
dei pazienti?
Esercitazione: cura, premura, trascuratezza, incuranza…
Analizzare le condizioni (spazi e tempi fisici e simbolici) dell’aver cura autentico e del
prendersi cura incurante
Come in un domino: vengono distribuite grandi fogli
di cartoncino che dovrebbero rappresentare le
tessere di un domino. Ognuno è invitato a individuare
2 voci che indichino i modi più comuni (ma anche meno
visti, più sottili, e non per questo poco incisivi) con cui
è possibile “riscaldare” o “raffreddare” di umanità un
luogo e un tempo di cura (1 voce positiva e 1 negativa).
La domanda a cui rispondere potrebbe essere: si propongono spazi e tempi senza cura
quando…/si propongono spazi e tempi di cura quando…
Si invita ad andare oltre le considerazioni più ovvie e comuni, per affinare sensibilità e
sguardo.
Individuate le voci (che possono essere accompagnate da disegni o immagini incollate) i
partecipanti proveranno ad esporre le proprie carte cercando di collegarle: per
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associazione, per contrasto, in modo da costruire un percorso depositando tutte le
carte sul tavolo.
Problematizzare spazi e tempi a partire dai vissuti
Un punto di convergenza degli intenti – a), b), - può essere assunto nel rivisitare i
tempi e gli spazi di vita a partire dal vissuto che suscitano piuttosto che dalla loro
valenza funzionale.
Lo spazio del "qui e ora" è sempre anche spazio del possibile, del trascendimento
volto a provocare le possibilità celate e latenti nei s oggetti.
A fronte di una riflessione pedagogica sugli spazi e i tempi vissuti, in particolare su
spazi e tempi, “intrisi” di emozioni e sentimenti (i paesaggi esteriori riflettono, ma
anche condizionano, i paesaggi interiori. L’analisi o l’eventuale ristrutturazione di spazi
e tempi “esterni” ha a che fare prima con le mappe mentali ed emozionali che con la
realtà “oggettiva”), riprogettare spazi e tempi a partire dal desiderio di
personalizzare, dare voce, lasciare traccia, visibilizzare … i vissuti.
Quali spazi e tempi di umanizzazione sono possibili in un servizio fortemente
strutturato? Cosa è irrinunciabile nell’attuale organizzazione e cosa è modificabile?
Quali sono gli spazi e i tempi di routine e ripetitività e quelli di creatività? Di
anonimato e personalizzazione?
E’ possibile riattraversare spazi e tempi “repertorizzando” i sentimenti e le emozioni
che suscitano?
E ancora: è possibile ridisegnare gli spazi e i tempi a partire dalle emozioni e dai
sentimenti che si desidera provare o suscitare in quei contesti spazio-temporali (il
tentativo è di invertire la logica imperante: dalla definizione di spazi e tempi
funzionali all’organizzazione – impersonale e “neutra” – alla espressione di spazi e
tempi interiori).
Esercitazione: le carte parlanti
Ripercorrere con il pensiero gli spazi del proprio reparto (gli spazi comuni, le stanze
degli ospiti, gli spazi esterni, gli spazi dedicati al personale…) e disegnarne la piantina
su un foglio.
1. E’ possibile associare ai diversi spazi le tonalità emotive che caratterizzano
l’attività lavorativa degli operatori?
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2. E, corrispondentemente, è possibile provare a intuire il vissuto degli ospiti?
Si possono utilizzare su una stessa cartina più colori diversi, con cui indicare i diversi
vissuti.
3. Cambia la percezione dei “soliti spazi” alla luce delle connessioni emerse nella
realizzazione delle “carte parlanti”? E’ possibile intervenire sugli spazi con idee,
suggerimenti, ipotesi di piccoli cambiamenti (limitatamente agli arredi e al loro
utilizzo) scaturiti dalla “ricognizione emotiva” degli spazi?
(Molto è già stato fatto in questa direzione: è possibile prevedere ulteriori sviluppi?)
Esercitazione: il tempo delle maree
L’organizzazione di un servizio altamente complesso implica l’impossibilità di
disattendere alcuni compiti fondamentali, così come il buon funzionamento della
stessa organizzazione si regge sul rispetto di alcuni tempi rigidamente strutturati,
prevedibili, regolari.
Durante le giornate di lavoro si è travolti dall’alta marea per i numerosi incarichi e
consegne da espletare, quasi vi fosse l’acqua alla gola nel sottostare ai ritmi frenetici
ed incessanti; altre volte, per fortuna, si ha bassa marea che concede tregua e ci si
dedica maggiormente a rapporti più significativi con gli utenti, ma anche con se stessi
nel silenzio che parla dentro noi; altre volte ancora si ha calma piatta, cosa concedere
all’altro o concedersi?
Ripensare alle azioni che compongono il tempo di lavoro e individualmente interrogarsi
mediante queste provocazioni:
1. . Quali sono i tempi/compiti ”rigidi”, irrinunciabili (di alta e bassa marea), e i tempi
“teneri”, modificabili, diversamente interpretabili (di alta e bassa marea)? Quale
sensazione o emozione scaturiscono?
2. Vi sono, nella scansione della giornata, dei momenti che possono essere rivisitati,
modificati, re-interpretati, lasciati all’iniziativa personale dell’operatore – che intenda
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ricavarsi spazi significativi di interazione con i pazienti e i suoi familiari… – in vista di
un miglioramento della qualità di cura?
3. Cosa si potrebbe fare per rendere gli eventuali tempi teneri più significativi?
4. E’ utile perseguire un intenerimento dei tempi o la loro strutturazione rigida
garantisce l’efficacia prestazionale?
Prendere nota di quanto emerge: per un confronto collettivo e la valutazione della sua
realizzabilità.
Riferimenti bibliografici
Organizzazione dei servizi
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Milano, 1972
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