Da repubblica del 26 novembre 1967 <<UN SONDAGGIO MOSTRA
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Da repubblica del 26 novembre 1967 <<UN SONDAGGIO MOSTRA
A000164, 1 A000164 FONDAZIONE INSIEME onlus. Da repubblica del 26 novembre 1967 <<UN SONDAGGIO MOSTRA UN'OPINIONE PUBBLICA DIVISA.CHI VUOLE IL DIVORZIO>> di Nello Ajello, giornalista. Per la lettura completa del pezzo si rinvia al quotidiano citato. Prevalgono ancora i contrari, ma non di molto. E soprattutto lo scenario sembra diverso rispetto a qualche anno fa. ROMA – «L'Italia, la vera Italia, l'umile Italia che lavora non vuole il divorzio». Il grido di dolore è partito all'1.30 del pomeriggio di venerdì scorso dai palazzi apostolici, s'è trasformato in due colonne di piombo dell'Osservatore Romano, ha percorso i corridoi di Montecitorio, è suonato come un crudele rimprovero per i capi della Dc, ha scosso dal loro letargo le truppe d'assalto dell'Italia confessionale, ha mobilitato i dubbiosi, ha reso più attivi gli intransigenti. Appena mezz'ora prima, il segretario della Commissione giustizia della Camera aveva letto i risultati della votazione sul primo articolo del progetto di legge di Loris Fortuna, e aveva comunicato ai presenti che per la prima volta un organo legislativo dello Stato italiano si dichiarava favorevole all'introduzione del divorzio tra i normali diritti dei cittadini. Per un sol voto di maggioranza, 21 contro 20, l'indissolubilità del matrimonio era stata messa in discussione, un edificio vecchio di alcuni secoli a cui avevano lavorato schiere di pontefici subiva una prima visibile lesione. La reazione del giornale vaticano, breve, chiara, drammatica, diceva che non c'era tempo da perdere, che bisognava denunciare lo scandalo, chiamare a raccolta il “paese vero” perché smascherasse i suoi rappresentanti legali, vittime della follia laica. D'un colpo, tra venerdì e sabato, il clima politico romano s'è oscurato, tutto è sembrato scivolare indietro di quindici anni, all'epoca delle crociate di Pio XII, di padre Lombardi e di Luigi Gedda. È stato lo stesso Gedda, un uomo che molti italiani sembravano aver dimenticato, a dettare il primo bollettino di guerra, in nome degli sposi cristiani e dei credenti. La nuova crociata. Da una dichiarazione del presidente dei Comitati civici, si è capito subito quale sarà il piano degli antidivorzisti. Non è più il caso d'intrattenersi in dispute teologiche, ha fatto capire Gedda, di ripetere argomenti teorici, di spulciare statistiche sulla dissoluzione morale dei paesi divorziati, di lanciare scomuniche. Le direttive ora sono diverse, più aggiornate, rientrano nel nuovo clima della Chiesa postconciliare. Bisogna far appello al popolo, lanciandolo contro poche decine di uomini politici di estrazione borghese, che vogliono imporre al paese una libertà impopolare. Se si facesse tra gli italiani un referendum basato su un “sì” o su un “no”, percorrendo la A000164, 2 penisola, casa per casa, fabbrica per fabbrica, parrocchia per parrocchia, incalzava l'Osservatore Romano, solo allora la verità trionferebbe. Tra le sante nozze indissolubili predicate dalle encicliche e le fantasie blasfeme dell'onorevole Fortuna, gli italiani non esiterebbero a scegliere. La vittoria della fede sarebbe certa, completa. Ma è proprio sicuro che gli italiani, interrogati uno per uno, si dichiarerebbero contrari all'introduzione del divorzio? Ecco una domanda che lascia perplessi molti uomini politici italiani, anche tra quelli che militano in partiti di massa, e che quindi dovrebbero essere gli interpreti più sensibili degli umori della “base”. Gli stessi leader della Dc, a cominciare da Aldo Moro, hanno sempre usato l'argomento del referendum con notevole cautela, come una minaccia da lasciare sospesa sul capo dei laici, come un'arma tutt'altro che infallibile, cui semmai si può ricorrere quando tutto è perduto. Perfino nei giorni scorsi, sotto lo choc della votazione a loro sfavorevole e spaventati dalla violenza delle accuse vaticane, i democristiani si sono mostrati divisi sull'opportunità di trasformare una battaglia parlamentare in una crociata di popolo. La loro incertezza, anzi, s'è fatta più grave di prima, s'è frantumata in una serie più lunga di quesiti cui non è facile trovare risposta. Chi può escludere, si sono chiesti durante l'ultimo drammatico weekend Mariano Rumor e i suoi collaboratori, che i cardinali di Curia, Gedda, il direttore dell'Osservatore Romano, s'illudano? E se il referendum, anche dandoci una vittoria apparente, dimostrasse che in Italia esiste una massa imprevista e compatta di divorzisti, due, tre, cinque, otto milioni d'italiani intransigenti, disposti ad unirsi tra loro per questa precisa battaglia al di sopra dei partiti, magari anche del nostro? Che interesse abbiamo a contarli? E poi, dopo uno scossone del genere, chi riuscirebbe a rimettere insieme il paese, chi potrebbe parlare più di pace religiosa, di trattative fra Stato e Chiesa, di centro-sinistra, di “alleanza storica” tra Moro e Nenni? Intanto, proprio mentre la polemica rimbalzava tra Montecitorio, le sedi dei partiti e i palazzi vaticani, per la prima volta un certo numero d'italiani veniva invitato ad esprimere il proprio parere sul divorzio. Non era, evidentemente, il miracoloso referendum popolare proposto dagli attivisti cattolici, ma una consultazione molto più limitata: una specie di sondaggio tecnico, di assaggio iniziale, di discreta presa di contatto con “l'umile Italia che lavora” per sapere come la pensa su questo argomento. Il tema veniva introdotto con naturalezza, senza drammaticità, anche per evitare quelle reazioni di conformismo o di vanità che sono tipiche in casi del genere. Appunto per la loro maggiore delicatezza, domande sul divorzio figurano, infatti, verso la fine del questionario preparato dalla società Demoskopea a Milano, e sottoposto la settimana scorsa a un A000164, 3 campione di 1900 persone, maschi e femmine, scelti col sistema del “campione rappresentativo”. A un certo momento, dopo che gli incaricati della società milanese avevano indagato sulle loro preferenze politiche e su un'altra serie di argomenti d'attualità, i 1900 si sono sentiti porre una richiesta precisa: se domani venisse indetta una votazione per il divorzio, lei voterebbe a favore o contro? Man mano che le risposte si allineavano sui taccuini degli intervistatori e venivano sommate, la proporzione si spostava sempre più decisamente a favore degli oppositori del divorzio, i “no” soverchiavano i “sì”, la stessa parola divorzio sembrava infastidire buona parte degli interlocutori. Alla fine, fatti tutti i conti, i “no” sono stati più del doppio dei “sì”: percentuale il 60,6 per cento contro il 27,8 per cento, con una frangia di “indifferenti”. Il risultato, in fondo, sembra fatto apposta per confortare l'ala cattolica più intrattabile sul tema del divorzio, e non si distacca poi molto da quello che ottenne, circa cinque anni fa, un'analoga indagine compiuta dalla Doxa. È vero che allora la proporzione fra contrari e favorevoli fu di 7 contro 3, ma quella volta non vennero messi nel conto gli “indifferenti”, che ora sono l'11,6 per cento. Dato che essere a favore del divorzio, in un clima come quello italiano, significa prendere una posizione netta, vivace, polemica, è lecito presumere che chi si dichiara agnostico penda più verso il “no” che verso il “sì”. In sostanza, il responso del 1962 è quasi identico a quello del 1967. E allora, si potrebbe chiedere a un laico divorzista, a che cosa sono serviti cinque anni di lotta e di propaganda? E soprattutto, a che cosa sono serviti, negli ultimi anni, quelli dal 1964 in poi, i discorsi alla Camera, i convegni, i comizi in piazza, le firme sotto gli appelli, le dichiarazioni di solidarietà con l'onorevole Fortuna, le votazioni a sorpresa, come quella di venerdì scorso, nelle commissioni parlamentari? Provando a seguire con lo sguardo le varie tabelle analitiche che accompagnano le risposte, il senso di delusione aumenta. Si apprendono una serie di notizie che ognuno conosceva già o che erano facilmente immaginabili: le donne odiano o temono il divorzio in maniera molto più decisa degli uomini; nelle campagne o nei piccoli centri di provincia esso viene considerato come una imperdonabile offesa alla tradizione o come un attentato alla fede (mentre le grandi città sono più moderne e tolleranti), il Veneto e il Meridione sono tra i più ostinati nel rifiuto, gli scapoli sono percentualmente meno contrari degli sposati, gli intervistati di 16 o di 18 anni considerano l'indissolubilità del matrimonio con molto maggiore scetticismo degli anziani. Il marito ergastolano. Dopo una lettura come questa, insomma, riesce difficile sottrarsi al sospetto che le indagini sociologiche servano a fornire un alibi scientifico al luogo comune: ci si chiede anzi se A000164, 4 sia lecito sbrigarsi di un argomento dell'importanza del divorzio chiedendo a bruciapelo alla gente di rispondere sì o no. Non è troppo semplice? Ma, in fondo, questa obiezione se la devono essere posta, per primi, gli stessi ideatori dell'indagine-campione. Se ne ha una prova continuando a sfogliare il fascicolo a ciclostile preparato dalla Demoskopea. Dopo la domanda generale (divorzio o non divorzio), ce ne sono delle altre più sottili, più precise, che corrispondono ad altrettanti paragrafi previsti dall'on. Fortuna nel suo disegno di legge. Il divorzio cessa insomma di essere presentato come un'entità astratta nel buio, e assume contorni limitati e definiti. La moglie di un ergastolano può dividere il proprio destino da quello di suo marito? Il marito di una donna pazza può ottenere l'annullamento? E chi ha sposato una ragazza che ha l'abitudine di scappare di casa dovrà tenersela per tutta la vita? E cosa ne dice di un uomo che resta “legalmente coniugato” con una donna che è riuscita ad ottenere per suo conto il divorzio all'estero? Un uomo può essere marito di una donna che non è più sua moglie? Di fronte a queste domande la microscopica rappresentanza dell'Italia contenuta nel campione Demoskopea si comporta in maniera abbastanza ragionevole. Le percentuali delle persone che si dichiarano favorevoli all'istituzione del divorzio in queste precise condizioni (cioè del “piccolo divorzio”, del divorzio assolutamente indispensabile), sale notevolmente. Nel caso del coniuge ergastolano, solo il 25 per cento degli interrogati si pronunciano a favore del matrimonio indissolubile e il 60 per cento sono favorevoli all'annullamento. Se la moglie è scappata di casa, quasi cinque interrogati su dieci pensano che bisogna punirla divorziando da lei. E così di seguito, gli antidivorzisti messi di fronte ai casi concreti vacillano, diventano più riflessivi, meno sicuri di sé. L'immagine tradizionale degli italiani come di un blocco unitario e granitico, pronto a difendere il matrimonio in ogni caso ad ogni costo e per sempre, subisce una sostanziale modifica, accoglie delle ombre rivelatrici. Gallismo latino. Qual è il tipo di referendum cui il Vaticano e i Comitati civici sognano di sottoporci, qual è la domanda che ci vogliono rivolgere: quella secca, tagliente, a scatola chiusa o quella più lunga, motivata, con le “indicazioni per l'uso”? Nessuno ancora s'è pronunciato ufficialmente, ma forse non è neppure il caso di perdere tempo in congetture. La battaglia per il divorzio è ancora lunga, attraverserà varie vicende parlamentari e di governo, produrrà delle lacerazioni nella vita politica italiana: questo rientra nel campo delle A000164, 5 previsioni più ovvie. Ma pensare che la democrazia italiana, per quanto dominata da un partito confessionale, finisca per indire un referendum sul divorzio, percorrendo l'Italia parrocchia per parrocchia, cascinale per cascinale, a chiedere un “sì” o un “no”, è un pronostico troppo pessimistico. Per quanto nascosta sotto un'apparenza di democraticità e protetta dal mito del “suffragio universale”, una consultazione di questo tipo equivarrebbe infatti a squalificare l'Italia di fronte al mondo molto più di quanto non sia squalificata già oggi per l'assenza del divorzio. Se si eccettuano i fascisti, nessun partito italiano, neppure la Dc, potrebbe approvare una decisione come questa. «Gli italiani non vogliono il divorzio», continueranno tuttavia a dire, ancora per un imprecisato numero di anni, gli organizzatori dei Comitati civici, e ripeteranno le loro accuse contro i laici borghesi, in nome del popolo cattolico. Accuseranno i divorzisti di “prepotenza”, denunzieranno lo spirito di sopraffazione di una minoranza che vuole imporre la sua volontà alla maggioranza: come se l'istituzione del divorzio, anziché essere un provvedimento a tutela della libertà di quattro o cinque milioni di infelici, comportasse automaticamente, per tutti, l'obbligo di sfasciare la propria famiglia. Si continuerà a usare questa parola, divorzio, che secoli di arretratezza economica e di ignoranza hanno trasformato in un tabù quasi sacrilego, senza cercare di spiegarne il contenuto. Ci si aggrapperà alle condizioni della donna italiana che spesso non vede per sé altro mestiere che quello di moglie, si sfrutterà il proverbiale gallismo dell'uomo latino. Ma, in questo programma, si intravede ormai qualche smagliatura, qualche ombra preoccupante. Il sondaggio di cui abbiamo parlato può esserne un sintomo, ma la prova più evidente è l'ordine di mobilitazione generale, partito venerdì scorso dal recinto della Santa Sede. E le crociate hanno un senso soltanto in momenti di estremo pericolo.