Leggi l - Responsabile Civile

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Leggi l - Responsabile Civile
I parenti della defunta sig.ra A. M. portavano alla nostra attenzione il caso della loro
congiunta scomparsa, dopo aver intentato il procedimento penale verso la Struttura
responsabile, rigettato per le seguenti conclusioni tratte dai consulenti tecnici del PM:
I NOSTRI ESPERTI VALUTAVANO QUINDI LA DOCUMENTAZIONE
FORNITA DAI PARENTI CHE PERMETTEVA DI RICOSTRUIRE QUANTO
SEGUE:
In data 02.02.2006, la sig.ra A. M. veniva accompagnata dai propri figli presso
l’ambulatorio di Ortopedia con la seguente documentazione attestante: RMN del
rachide lombo-sacrale: “Evidente stenosi del canale vertebrale L3-L4, spondilolistesi
di L4 su L5, plurimi angiomi vertebrali a carico dei corpi D11 ed L3”;
Elettroneurografia che mostrava sui nervi tibiali onde F di riproducibilità ridotta;
EMG che indicava segni di modesta sofferenza neurogena cronica sui muscoli
gemelli mediali di destra e sinistra senza in atto segni di denervazione.
Veniva posta diagnosi di lombalgia con irradiazione di sciatalgia, spondilolisi con
spondilolistesi di L4 su L5 e stenosi del canale vertebrale; le veniva proposto di
sottoporsi ad intervento chirurgico di decompressione L3-L5 e fissazione di L4-L5
che la sig.ra accettava.
Al fine di espletare tale intervento la paziente eseguiva accertamenti pre-operatori,
quali: RX torace: reperto pleuro-polmonare negativo; ECG: negativo; Esami di
laboratorio: nella norma; Ecocolordoppler dei tronchi sovraortici: “Succlavie
ipoelastiche e normoperfuse e diffuso ispessimento medio-intimale carotideo
bilaterale. Normale flussimetria”; RX colonna lombosacrale: “Modesti segni di
spondilosi diffusa con produzioni di osteofitosi margino-somatiche antero-laterali.
Regolari in ampiezza le rime intersomatiche. Osteopenia diffusa. Pseudoanterolistesi
su base degenerativa di L4 su L5. Non presenti segni di lisi degli istmi interapofisari.
Non segni di instabilità nelle prove dinamiche di flesso – estensione”; Visita
anestesiologica, alla fine della quale la paziente veniva dichiarata operabile, con
rischio anestesiologico ASA II (in presenza di una lieve malattia sistematica senza
nessuna limitazione funzionale).
In data 27.03.2006 si ricoverava presso l’U. O. di Ortopedia per essere sottoposta al
suddetto intervento.
In data 28.03.2006 la paziente veniva sottoposta alla procedura chirurgica, previo
consenso informato per l’anestesia e firma del consenso informato per l’atto
operatorio il quale, alla voce delle complicanze potenziali intra- e post-operatorie,
recita: “[...] anemizzazione, infezioni, lesioni midollari, tromboflebite, embolia [...]”.
Alle ore 09:15 della stessa data aveva inizio la procedura anestesiologica.
Un emogasanalisi effettuato alle ore 09:42 descrive: Hb: 13,4 g/dl; Hct: 40%; BE: 1,3.
Dalla descrizione dell’intervento chirurgico si evince che veniva eseguita una
laminectomia L3-L4-L5, artrectomia parziale L3-L4 ed L4-L5 cominciando dal lato
destro, dove la compressione radicolare era maggiore. Si realizzava la stessa
procedura dal lato opposto. L’emostasi era subito difficile e veniva eseguita con cura,
utilizzando anche il Tabotamp, che venne asportato alla fine. Successivamente venne
attuata la preparazione dei peduncoli L4 ed L5 bilaterale, controllati con esame RX.
Veniva quindi eseguito avvitamento peduncolare e bloccaggio con barre. Si
realizzava in tal modo l’artodesi L4-L5 con l’osso precedentemente asportato.
Alle ore 12:08 veniva effettuato un EGA dal quale risultava: PH 7,28; Hb: 9,1 g/dl;
Hct: 27%; BE: -7,7 (perdita di 4 gr di Hb!!!).
I valori della frequenza cardiaca, della saturazione, della pressione arteriosa così
come registrati in cartella clinica, risultavano sostanzialmente nella norma.
Venivano infusi circa 2000 cc di liquidi.
Per quanto attiene al periodo postoperatorio, dal diario clinico (INFERMIERISTICO)
registrato in cartella risulta:
- Ore 13: la paziente veniva trasferita in TIP;
- Ore 13:05 la registrazione dei parametri vitali riportava: PA 86/52 mmHg, FC
106 bpm, SaO2: 98%;
- Ore 13:30 veniva descritto discreto sanguinamento dal drenaggio chirurgico e
venivano avvisati i chirurghi, che somministravano Ugurol 2 fl ev;
- Ore 14:00 veniva reinfuso il sangue recuperato (1000 cc);
- Ore 14:30 veniva incannulata la succlavia destra;
- Ore 16:00 venivano somministrate 4 fiale di bicarbonato di sodio (non vi sono
dati circa un EGA recente che inducesse al trattamento di un’acidosi o motivo
clinico esplicato nella cartella clinica);
- Ore 16:05 venivano somministrate ulteriori 2 fiale di Ugurol in SF 500 cc
(evidentemente continuavano le perdite ematiche, ma non vi è traccia di tale
dato né una motivazione clinica esplicata per continuare la terapia
antifibrinolitica);
- Ore 16:15 i parametri vitali erano: PA 103/77 mmHg, FC 99 bpm, SaO2: 98%.
Venivano infuse 5 fiale di bicarbonato in 50 cc di SF (anche in questo caso non
vi sono dati circa un EGA recente che inducesse al trattamento di un’acidosi o
motivo clinico esplicato nella cartella clinica);
- Ore 17:00 veniva somministrato Lasix ½ fiala e Voluven 1 flacone (non vi
sono dati circa la PA);
- Ore 17:56 veniva eseguito EGA: pH: 7,23; Hb: 8,4 g/dl (1 g circa malgrado la
reinfusione di 1000 cc di sangue recuperato. La paziente di conseguenza
presentava un’emorragia capace di indurre la perdita di 5 grammi di
emoglobina dall’inizio dell’intervento malgrado la reinfusione e dunque la
perdita effettiva dal torrente ematico era stimabile a circa 7 g totali);
- Ore 18:00 veniva infuso Ringer 500 cc;
- Ore 18:30 gli esami ematici indicavano: Hb: 6 g/dl; GR: 2.000.000/microl;
piastrine: 55.000/microl; Htc: 14%; i test di coagulazione dimostravano una
non coagulabilità ematica con indosabilità del fibrinogeno e dei tempi
coagulativi, D-Dimero 18,8 mg/dl (v. max 0,3);
Il quadro clinico e laboratoristico era suggestivo per una CID (Coagulazione
Intravascolare Disseminata) emorragica. Iniziava quindi l’infusione di Revivan
1 fl in SF 250 cc a 5 ml/h (NON VI E’ TRACCIA DELLA PA ed una
esplicazione del motivo per il quale è stato iniziato un farmaco vasopressorio.
Forse uno shock?);
- Ore 18:40 l’EGA indicava: pH: 7.33; Hb: < 5 gr/dl (indosabile) (in circa un’ora
la perdita era stata di oltre 3 g di emoglobina, con una grave accelerazione
della perdita ematica oraria rispetto alle ore precedenti);
- Ore 19:00 veniva reinfuso sangue recuperato (500cc), ma si osservava anche
l’insorgenza di rettorragia;
- Ore 19:10 la paziente manifestava arresto di circolo. Veniva effettuata IOT e
somministrata Adrenalina e dopo tali manovre ricompariva il polso omerale;
- Ore 19:30: gli esami ematici indicavano: Hb: 5 g/dl (dopo reinfusione del
sangue recuperato); GR: 1.650.000/microl; piastrine: 50.000/microl; Htc: 13%;
- Ore 19:45: perveniva al Centro Trasfusionale la richiesta di 2 unità di emazie
concentrate e di 2 unità di Plasma fresco congelato, consegnate alle ore 20:20 e
pertanto la trasfusione iniziava necessariamente oltre tale ora;
- Ore 20:00: vi era ripresa dello stato di coscienza da parte della paziente (appare
difficile concepire la ripresa di coscienza come scritto nell’unico diario clinico
in cartella, cioè quello infermieristico, in quanto una paziente intubata è
sedata!);
- Ore 20:15: veniva predisposto il trasferimento presso altra struttura sanitaria;
- Dopo le ore 20:20, senza orario specifico, venivano, infuse 2 unità di emazie
concentrate e di 2 unità di plasma fresco congelato;
- Ore 21:50: l’emogasanalisi indicava ancora Hb: <5g/dl e pH: 7,13, così
venivano somministrate 100 mEq di HCO3-;
- Ore 22:30: trasferimento presso altra struttura.
Dalla cartella clinica relativa al ricovero presso la struttura di destinazione risulta che
la signora A. M. veniva ricoverata in data 28.03.2006 alle ore 23:30 con diagnosi di:
“Shock emorragico in paziente in stato di CID” con GCS pari a 8, anuria e
marezzature agli arti inferiori.
Venivano messe in atto tutte le manovre di assistenza cardiorespiratoria e di
monitoraggio. Venivano chiamati in consulenza lo specialista ematologo che
prescriveva 4 unità di plasma fresco congelato, antitrombina III e 2 unità di emazie
concentrate e lo specialista chirurgo che consigliava correzione dello shock
emorragico, correzione della CID e controllo della ferita chirurgica da parte
dell’ortopedico.
29.03.2006:
- Ore 00:30: (Hb delle ore 00:53 = 3,8 g/dl) la paziente andava in arresto
cardiorespiratorio che veniva trattato con massaggio cardiaco esterno e
somministrazione di Adrenalina a dosi scalari; si presentava un ritmo di
fibrillazione ad alta frequenza e si eseguiva cardioversione elettrica con
ripristino del ritmo autonomo. Si trasfondevano plasma fresco congelato ed
emazie concentrate.
Nelle ore successive si verifica enterorragia di cospicua entità con comparsa di
petecchie diffuse e sanguinamento profuso dei drenaggi.
- Ore 09:45: su richiesta dei chirurghi, la paziente veniva sottoposta ad una
Angio-TC prima e dopo somministrazione di mezzo di contrasto; l’esame
documentava una “Marcata raccolta a densità ematica in sede retroperitoneale
sinistra, nel cui contesto in corrispondenza del pregresso intervento chirurgico,
in sede paravertebrale omolaterale, si identifica sottile stria di iperdensità
ematica, riferibile a spandimento di mdc a tale livello. E’ sospettabile una
lesione dell’arteria lombare sinistra a livello di L4. Coesiste moderata falda
fluida periepatica, perisplenica e nello scavo del Douglas. Versamento pleurico
bilaterale a cui si associa atelectasia passiva del parenchima polmonare attiguo.
Si associa marcata distensione delle anse intestinali. Si segnala diffusa
ipodensità del parenchima epatico correlabile ad uno stato di instabilità
emodinamica”.
Veniva allertata la sala operatoria dopodiché, in anestesia generale, si procedeva
all’esplorazione del retroperitoneo.
Nella descrizione dell’intervento chirurgico si legge: “L’arteria lombare a livello di
L5 presenta uno spandimento emorragico a livello della sua avventizia.
L’esplorazione della vena iliaca di sinistra permette di evidenziare una perdita
ematica che viene controllata con un punto di prolene 4/0. Si osserva a carico del
periostio del corpo vertebrale di L5 uno spandimento emorragico che viene
controllato con applicazione di cera ossea e di Tabotamp. Controllo accurato
dell’emostasi. Non si rilevano altri punti di sanguinamento significativi. Applicazione
di drenaggio in regola pluritubulare e chiusura a strati della parete addominale”.
- Ore 17:20: la paziente rientrava in terapia intensiva con condizioni
emodinamiche estremamente scadenti. L’anuria veniva trattata con
ultrafiltrazione, si praticava terapia con Protromplex 1 fl alle ore 19:50 e
Novoseven 4 fl alle ore 19:40 e alle ore 24:00 e si trasfondevano 4 unità di
plasma fresco congelato e 4 unità di emazie concentrate;
30.03.2006:
- Ore 07:40: si verificava un arresto cardiaco e le manovre rianimatorie messe in
atto risultavano del tutto inefficaci;
Alle ore 8:20 si costatava il decesso della paziente.
Si riteneva procedibile il caso della sig.ra A. M. per i seguenti motivi:
La disamina della documentazione sanitaria mette in evidenza che la condotta dei
sanitari di entrambe le strutture è connotata da elementi di colpa grave in tutto
l’iter diagnostico e terapeutico relativo alla patologia rachidea della sig.ra A. M..
La malpractice, che si evidenzia sia in fase preoperatoria che peri- e postoperatoria, è causa della morte della paziente.
Appare evidente come la malpractice dei sanitari della I struttura sia
preponderante nella causazione dell’evento morte, mentre quella dei sanitari del II
Ospedale abbia solamente inciso sulle poche chance quoad vitam residue della
sig.ra A. al momento del ricovero del 28.03.2006.
Ricovero presso la I Struttura:
- FASE PRE-OPERATORIA:
1. Preparazione all’intervento: Informazione inadeguata, inadempimento
contrattuale e imprudente omissione di presidi terapeutici atti ad evitare gli
esiti di eventuale evento avverso.
Da quanto si desume dallo scarno e preconfezionato foglio di consenso
informato allegato in cartella, redatto da un medico apparentemente diverso
dal chirurgo operatore, si può riassumere che la sopravvenienza di una CID
o una lesione vascolare arteriosa non fossero considerate, mentre potevano
sopraggiungere un’anemizzazione, un’infezione, una lesione midollare, una
tromboflebite, un’embolia. Tale aspetto non solo è importante in quanto
evidenzia un “consenso disinformato”, ma lo è soprattutto perché dimostra,
al contrario di ciò che hanno dichiarato i CC.TT del PM, che una lesione
vascolare non è poi evento così facile da verificarsi!
Insomma, sembra che tale foglio di consenso sia stato solo un atto formale
(il ché equivale ad inadempienza), e comunque evidenzia come la possibile
anemizzazione indicata sia prevedibile e quindi evitabile nelle sue
conseguenze, tanto da far pensare anche alla potenziale presentazione di una
CID e dunque al potenziale rischio di mortalità.
Trattandosi di intervento in elezione ed in cui è prevedibile la perdita
ematica, anche copiosa, dovuta alla descheletrizzazione della colonna,
malgrado le possibili procedure emostatiche, sarebbe stato certamente
prudente (quindi necessario) predisporre dei pre-depositi da reinfondere
durante l’intervento, proprio per garantire uno stato emoglobinico adeguato
anche in presenza di una grave emorragia, che nella realtà dei fatti è
avvenuta, ed atta ad evitare l’arresto cardiorespiratorio per shock
ipovolemico e ad evitare una procedura di re-infusione che è stata la causa
principale della CID.
E’ comunque normale e prudente prassi clinica-anestesiologica e
chirurgica che, per un intervento in cui è prevista una perdita ematica
cospicua tanto da contemplarla negli eventi avversi, vi siano già a
disposizione per la paziente almeno 2 unità di emazie concentrate e 4 unità
di plasma già compatibilizzate in frigo-emoteca (La frigo-emoteca è un
locale presente in ogni clinica che non possiede un centro trasfusionale
interno, in cui sono presenti un frigorifero a +4° C per il sangue ed uno a 20° C per il plasma: tale dispositivo di sicurezza consente di fronteggiare
un’emergenza emorragica avendo disponibili entro dieci minuti il sangue ed
entro 35-40 minuti, tempo necessario per lo scongelamento, il plasma NdA).
E’ gravemente colposo per una clinica non avere tale struttura ed aver
operato senza disporre di una scorta di sangue in loco. Il ritardo dalle ore
17:56 (ora in cui finalmente si comprende l’urgenza) alle ore 20:20 (ora in
cui giunge la richiesta al centro trasfusionale) è stato determinante per il
verificarsi del 1° arresto cardiaco, sopraggiunto alle ore 19:10. Inoltre la
possibilità di reinfondere sangue autologo in nessun modo esime dall’avere
sangue e plasma di scorta poiché problematiche tecniche del filtro (come in
questo caso 1500 cc di recupero ortopedico difficilmente potevano essere
adeguatamente filtrate fuori da un centro trasfusionale) oppure
l’irrecuperabilità della perdita per cause anatomiche (versamenti saccati),
rendono obbligatorio comunque le emotrasfusioni di scorta in loco. Ma
fatto ancora più negligente è non aver informato la paziente che la clinica
non avesse a disposizione un Reparto di Rianimazione per fronteggiare al
meglio eventuali eventi avversi! Tale evenienza mette in luce come i
sanitari ortopedici abbiano accettato un rischio senza avere il consenso della
paziente.
Ma allora si può parlare di avvenuta informazione o di consenso
disinformato?
2. Per rifarsi alle affermazioni dei CC.TT. del PM, mai dimostrate né
logicamente né scientificamente, e ricostruendo la storia clinica della
paziente, la signora A. non presentava alcun fattore di rischio evidente per
una patologia coagulativa o emorragica post-operatoria (sarebbe stata
ancora più grave la responsabilità dei sanitari!!!), per cui non si può
immotivatamente presumere fosse presente una coagulopatia già ad inizio
dell’atto operatorio, non solo perché la CID è sindrome secondaria, ma
perché, nella triste storia della sig.ra A., si possono identificare i momenti
del suo inizio, tanto da potersi effettuare una diagnosi e dunque mettere in
atto tempestivamente una terapia che l’avrebbe verosimilmente (in termini
di probabilità logiche) salvata dalla morte.
- FASE PERI- E POST-OPERATORIA:
1. Dalla descrizione dell’intervento emerge una difficoltà all’emostasi tale che
il chirurgo appose del Tambotamp, poi rimosso. Considerando la
descrizione dell’Angio-TC postoperatoria di “Marcata raccolta a densità
ematica in sede retroperitoneale sinistra, nel cui contesto in corrispondenza
del pregresso intervento chirurgico, in sede paravertebrale omolaterale, si
identifica sottile stria di iperdensità ematica, riferibile a spandimento di
mdc a tale livello. E’ sospettabile una lesione dell’arteria lombare sinistra
a livello di L4” e del secondo intervento chirurgico dal quale è refertato
che “L’arteria lombare a livello L5 presenta uno spandimento emorragico
a livello della sua avventizia” è evidente che durante l’intervento
chirurgico sia stata provocata, da manovre imperite del chirurgo
(verosimilmente nella preparazione dei peduncoli), una lesione dell’arteria
lombare sinistra spiegando così il cospicuo sanguinamento intra - e
immediatamente post-operatorio di 1000 cc.
Infatti analizzando i dati dell’emogasanalisi all’inizio dell’intervento (ore
09:42 circa) l’emoglobina è pari a 13,4 g/dl mentre alle ore 12:08 la
paziente con lo stesso strumento presentava Hb 9,1 g/dl: in sostanza la
pazienta aveva perso 4,3 g/dl di emoglobina in sole 4 ore (valore che poteva
mettere in allarme i sanitari anche se ai limiti dell’accettabile per un
intervento di tale portata!).
Doverosa evidenziazione:
I consulenti del PM nella loro relazione tecnica evidenziano i seguenti fatti:
- una lesione arteriosa lombare all’Angio TC;
- Una lesione arteriosa lombare nella descrizione chirurgica del II intervento;
- Uno spandimento emorragico del periostio di L5 tanto da costringere il
chirurgo a tamponarlo (evidentemente riparando la breccia) con cera ossea e
Tabotamp;
- Dopo ben 4 e 7 mesi non esistevano s.d.c. del soma vertebrale anche alla prova
con iniezioni di liquido blu e con specillazione;
Le succitate evidenze fanno sorgere non pochi dubbi agli scriventi specie dopo
la lettura delle conclusioni del CC.TT. del PM. Ossia:
1. I consulenti non si sono mai domandati quali fossero i motivi della presenza di
uno spandimento emorragico in sede vascolare e lombare (soma di L5) allo
stesso livello e della loro causa;
2. I consulenti non hanno dato peso alle “riparazioni” fatte dal chirurgo e ai loro
esiti rilevabili dopo 4 mesi;
3. Insomma, essi hanno solo dedotto che non essendoci soluzione di continuo nel
soma vertebrale non poteva essere accaduta una lesione iatrogena dell’arteria
lombare! Lasciando dunque irrisolta l’eziologia sia della lesione arteriosa che
quella somatica!
Esiste invece una spiegazione razionale che dà adeguata motivazione della
copiosa perdita ematica perioperatoria e postoperatoria (I° intervento)!
- Nella preparazione dei peduncoli è avvenuta la lesione della parete del soma
con lesione dell’arteria lombare;
- la piccola lesione di continuo del soma di 2-3 mm è stata riparata dal chirurgo
con cera ossea la quale si è successivamente indurita facendo incappare i
CC.TT. nell’errore dell’assenza di lesione;
- La lesione del soma spiega dunque:
1) gli “spandimenti emorragici/ematomi” dell’avventizia e del periostio
riscontrati dal chirurgo in sala operatoria;
2) la difficoltosa emostasi durante il primo intervento;
3) la grave e precoce perdita di emoglobina evidenziata agli EGA;
4) la diffusa emorragia nell’immediato postoperatorio (circa 1 l solo
quello recuperato!);
Ritornando alla storia clinica, successivamente la paziente veniva trasportata in
Terapia Intensiva dove già mostrava un quadro di ipotensione (86/50 mmHg) e
dalle ore 14:00 si procedeva alla reinfusione del recupero ematico di circa 1000
cc.
Dall’ultimo controllo dell’Hb erano passate circa 2 ore ed in presenza di un
quadro emorragico così abbondante, ancora nei limiti accettabili dell’intervento,
era necessario, prima della reinfusione, un controllo dell’emocromo e della
coagulazione poiché in ogni intervento chirurgico ortopedico è contemplato non
solo un rischio emorragico ma anche una CID (tale omissione è la causa prima
del decesso della paziente, seguito da altre imperizie e negligenze).
Un siffatto intervento chirurgico, caratterizzato da una tale cruenza, libera nel
campo operatorio un’enorme quantità di “tessute factor” (legato ai
microframmenti ossei e alle microparticelle lipidiche, etc.) che riassorbendosi nel
letto vascolare venoso può innescare una CID.
Si ribadisce pertanto che in un quadro emorragico, come il caso de quo, è
stato grave e negligente non valutare la condizione emostatica ed emoglobinica
della paziente pre-infusione.
Non potendo quindi disporre di un quadro emoglobinico e coagulativo preinfusione possiamo solo dedurre il limite a cui la paziente è giunta con la perdita
ematica: se consideriamo che la rinfusione di 1000 cc determina il recupero di
almeno 2 g/dl di emoglobina e considerando che il valore dell’emoglobina
successivamente dosata alle ore 17:50 era pari a 8,4 g/dl (contro un valore
precedente di 9,1 g/dl), la paziente è giunta al valore di perdita totale pari a 7 g in
8 ore e tale dato doveva allertare i sanitari poiché non più accettabile rispetto alla
perdita prevista per un siffatto intervento, e far sospettare una perdita arteriosa.
Per verificare questo era sufficiente effettuare un EGA del sangue reinfuso o
dalle perdite continue che presentava, così da poterlo confrontare con il sangue
venoso e accorgersi della natura mista del sanguinamento (il sangue prima
dell’EGA doveva subire il naturale filtraggio pre-infusione).
Epicrisi: in una situazione emorragica grave post-intervento ortopedico, per i
motivi suddetti, deve sempre nascere il dubbio diagnostico differenziale seguente:
 se si è di fronte ad un’emorragia arteriosa e dunque è necessario accertare
l’eziologia della lesione con un re-intervento o un’embolizzazione per via
angiografica;
Oppure
 se si è di fronte ad un’emorragia venosa con una sottostante coagulopatia
emorragica grave che non permette l’emostasi nelle piccole soluzioni di
continuo delle venule (a bassa pressione, dove pertanto la spontanea
emostasi arresta le normali ed inevitabili piccole perdite post operatorie);
Se il medico avesse percepito la potenziale perdita ematica in atto della paziente
(e ciò era impossibile DA NON NOTARE: agli EGA aveva già perso 4 grammi di
emoglobina e le sole perdite ESTERNE ammontavano ad 1 litro … eccessivo per
questo intervento) avrebbe accertato la reale perdita della paziente (come buona
prassi medica) con un emocromo e coagulazione al rientro dalla Sala Operatoria,
o appena dopo, e comunque “sempre” prima di reinfondere il sangue: in questo
modo non solo avrebbe notato l’entità del problema emorragico (Hb molto bassa),
ma avrebbe osservato i dati emocoagulativi.
Lo scenario che avrebbe osservato sarebbe stato quello di una grave anemia
verosimilmente associata a normali valori emocoagulativi, cosìcchè avrebbe
concluso per un emorragia arteriosa e si sarebbe comunque allertato per un
reintervento od un ‘angiografia.
Volendo per assurdo ipotizzare che la CID fosse già iniziata (ma non esistono né
cause né prove cliniche come petecchie o sanguinamenti extra sede operatoria!),
avrebbe notato una CID in fase MICROTROMBOTICA , con PLT tendenzialmente
basse, fibrinogeno ridotto sotto il range, DD elevati ma PT e PTT ancora validi o
accorciati. Anche in questo caso, trasfondendo plasma avrebbe interrotto la
successione degli eventi che portavano alla CID e, previo monitoraggio e
correzione, avrebbe ugualmente predisposto per un re-intervento o angiografia.
Intervenendo in questa fase la paziente con ogni ragionevole probabilità sarebbe
stata trattata chirurgicamente in una fase clinica stabilizzata.
Non aver eseguito esami al rientro, o poco dopo, dalla sala operatoria e non
averla almeno monitorizzata per i paramentri emocoagulativi (il medico ha
ignorato le perdite potenziali e i primi esami sono stati effettuati solo dopo l’inizio
dell’urgenza) è stato non solo GRAVE NEGLIGENZA, ma è costato la vita alla
paziente!
In sintesi, due grandi negligenze:
 La prima di non aver valutato in una paziente evidentemente emorragica
(dopo intervento ortopedico) la possibilità di una coesistente CID post
intervento alle ore 14:00;
 La seconda di non aver sospettato, considerata la copiosità dell’emorragia,
l’eventuale natura arteriosa della perdita ematica e di aver atteso circa 6 ore
prima di rieseguire una valutazione dell’emoglobina (12:05  17:52).
Riprendendo la storia clinica, la paziente, in assenza di quadro coagulativo, dalle
ore 13:00 alle ore 18:00 veniva sottoposta ad una terapia antifibrinolitica per un totale
di 4 fl di Ugurol per tentare di fermare l’emorragia clinicamente evidente
(somministrato alle 13:30 e alle 16:05).
La CID è stata notata alle ore 18:30 quando era certamente iniziata
precedentemente in quanto, fisiopatologicamente, la CID si suddivide in due fasi
temporalmente consecutive:
1) Prima fase: microtrombotica. Il suddetto materiale dotato di TF attiva la
cascata coagulativa determinando un picco nella generazione della trombina
e quindi una conseguente aggregazione piastrinica: in tale fase si ha un
microtrombosi diffusa multiorgano con conseguente attivazione
compensativa fisiologica del fenomeno fibrinolitico che passa attraverso la
trombomodulina e la plasmina. Infondendo un inibitore della fibrinolisi in
questa fase trombotica si è ulteriormente aggravato la microtrombosi
diffusa e multiorgano, accelerando quindi il consumo di fibrinogeno,
piastrine e fattori della coagulazione. Il risultato finale è stato quello di un
rapido e favorito passaggio dalla fase di una CID microtrombotica alla fase
emorragica.
2) Seconda fase: scoagulativa ed emorragica. E’ fuori dubbio che non può
essere stato il sanguinamento la causa della CID, poiché per quanto esteso,
esso non determina mai la microtrombosi diffusa, tipica invece della CID;
anzi in corso di sanguinamento il sistema midollare cerca di compensare la
perdita con una piastrinosi reattiva ed il fegato con iperfibrinogenemia.
A questo punto della storia possiamo affermare che, in conseguenza del fatto che non
era stata eseguita una rivalutazione coagulativa ed emocromocitometrica postintervento nonostante il quadro emorragico, è stato somministro empiricamente un
farmaco (antifibrinolitico) che ha aggravato le condizioni della paziente (concausa
efficiente!).
Ciò è inquadrabile sotto l’aspetto della grave negligenza!
Ma da cosa è stata provocata la CID?
Un’ emorragia, per quanto arteriosa, non è essa stessa causa di CID , poiché
essa si innesca per elementi “estranei” che entrano liberi (e non escono) nel torrente
ematico. Una grave emorragia può portare solo ad un più abbondante consumo di
fattori coagulativi, di PLT, di fibrinogeno, ma un fegato ed un midollo normali (quale
quello della paziente A.) riescono bene a tamponare, tanto da non arrivare MAI al
consumo di tutti i fattori emocoagulativi o a loro dosaggi estremamente ridotti
(solitamente PT e PTT si allungano di un 10-20%, il fibrinogeno al massimo arriva a
150 mg/dl e le PLT a 80-90000/ul, quando addirittura il sistema non sia così
responsivo da supplire totalmente). Quindi, in questo caso, possiamo affermare che
l’imperita lesione arteriosa non sia direttamente la causa scatenante della CID.
La CID è stata invece innescata da qualcosa che veniva immesso nel torrente
ematico, dall’infondere di sostanze attivanti la coagulazione, soprattutto liberate in un
campo operatorio (sede del recupero di sangue) sottoposto ad elevata pressione
emorragica arteriosa.
In sostanza la lesione arteriosa liberava nella zona operata sangue ad alta
pressione e in cospicua quantità (sicuramente più di quello reinfuso) e “lavava” il
campo operatorio portandosi dietro tutto ciò (microframmenti ossei, microparticelle
di lipidi, citochine tossiche come il Tumor Necrosis Factor, Tissue Factor, etc) che si
trovava di fronte. Questo sangue, già solo per essere in cosi grande quantità,
possedeva una tale concentrazione di SCORIE metaboliche/organiche, impossibili da
eliminare con qualsiasi sistema di re-infusione (nella prassi SI SCONSIGLIA
nell’intervento ortopedico reinfondere alte dosi di sangue pescato dalla sede
operatoria proprio per questo motivo; comunque tali situazioni necessitano
dell’esperienza di un Centro Trasfusionale, che certamente in questo caso Mai
avrebbe GARANTITO il prodotto da reinfondere... ovviamente sarebbe stato meglio
sangue eterologo!).
Ecco dunque che la lesione diviene primum movens della CID se pensiamo che:
 il tipo di lesione emorragica (arteriosa) ha gettato molto sangue nel campo
operatorio, oltretutto a pressione elevata;
 che questo sangue così raccolto fosse pieno di scorie metaboliche /organiche
quasi impossibile da annullare con i kit di re infusione;
 la reinfusione abbia attivato la CID (non a caso la rettorragia, cioè un
emorragia spontanea in una sede non lesa, come tipico delle emorragie da
coagulopatia, si verifica SOLO ED ESCLUSIVAMENTE POSTREINFUISIONE!).
Altro fatto sconcertante da mettere in rilievo è che in cartella non c’è alcuna
documentazione da parte del centro trasfusionale in merito alla trasfusione autologa
del sangue di raccolta (grave omissione di rilevante importanza!).
In base alla legge 219 del 21/10/2005 in riferimento all’articolo 5 comma
14b è compito del centro trasfusionale sovrintendere “alle prestazioni di
diagnosi e cura in medicina trasfusionale, organizzate in relazione alla
complessità della rete ospedaliera pubblica e privata dell’ambito territoriale
di competenza e comprendenti: … 6) coordinamento ed organizzazione
delle attività di recupero perioperatorio e della emodiluizione.” Tale legge
garantisce la qualità del prodotto trasfusionale ed il centro trasfusionale
può delegarla agli operatoria della sala operatoria/T.I., ma ne rimane lo
stesso il responsabile; qualora il recupero e la lavorazione della sacca
autologa sia delegata agli operatori in S.O/T.I., deve esservi comunque una
comunicazione dell’avvenuta lavorazione e reinfusione da parte del centro
trasfusionale e comunque l’operatore è tenuto a mantenere tracciabilità in
cartella del Kit utilizzato per la lavorazione della sacca: nel caso specifico è
assente qualsiasi tracciabilità o consenso/dichiarazione del centro
trasfusionale.
Alle ore 18:30 veniva evidenziato il quadro emorragico e di CID conclamata
tramite l’esecuzione, per la prima volta (negligenza allo stato puro!), dell’esame
emocoagulativo, risultato indosabile in tutte le sue voci (PT, PTT, Fibrinogeno con
DD elevatissimi: condizione dunque iniziata già da alcune ore!) e venivano quindi
richieste trasfusioni di DUE SOLE sacche di emazia concentrate e di DUE SOLE
sacche di plasma che giungevano alle ore 19:45 al centro trasfusionale (ulteriori due
ore di ritardo).
Il centro trasfusionale consegnerà alle ore 20:20 le sacche trasfusionali e quindi, per
i tempi tecnici di trasporto e di messa in opera dei prodotti trasfusionali, è verosimile
che le infusioni di emazie concentrate siano iniziate non prima delle ore 20:45 ed il
plasma ben oltre le tre ore e mezza per i tempi di scongelamento, dal momento della
diagnosi di CID: un tempo impensabile per tamponare un’urgenza emorragicocoagulativa. E’ quindi necessario sottolineare che, contrariamente a quanto affermato
erroneamente dai CC.TT. del PM, nessuna trasfusione poteva iniziare alle 20:15
poiché non erano neppure state consegnate le sacche.
Inoltre facendo riferimento alla stessa perizia dei CC.TT. del PM in essa si afferma
più volte che la CID emorragica è inevitabilmente infausta!? Tale dato non
corrisponde a verità poiché come surriportato, solo una CID tardivamente
diagnosticata e mal curata è a prognosi infausta! Inoltre i consulenti riferiscono di una
CID emorragica presente d’amblè già durante l’intervento chirurgico e questo
deducendolo a causa della profusa emorragia: viene invece sottaciuto che come
evidenziato dall’angioTC, dal secondo intervento esisteva una lesione dell’arteria
lombare sn provocata da manovre imperite del chirurgo, per cui l’abbondante
emorragia in questo caso non può far dedurre alcunché circa il momento di innesco
della CID.
E’ anzi verosimile, per le ragioni suddette, che la CID sia stata innescata dalla
reinfusione del recupero ematico delle ore 14.
La sola rettorragia (delle ore 19), non potendo essere correlabile ad altra causa, era
l’evidenza certa della CID, ma questa ormai verrà diagnosticata tardivamente alle ore
18.
Invece, proprio dalle ore 14 in poi (momento della reinfusione) si nota una
progressiva accelerazione delle perdite ematiche che invece durante l’intervento
erano sì state abbondanti (600 cc) per via della lesione arteriosa, ma non cosi
cospicue come poi si sono dimostrate. L’evidenza delle perdite è sottolineato dall’uso
(del tutto fuori luogo in questo specifico caso, ossia in assenza di un esame
coagulativo) di ripetute dosi (2 fl x 2) di antifibrinolitico (Ugurol ).
In realtà nell’immediato periodo post-reinfusione verosimilmente era in sviluppo la
fase Microtrombotica della CID con progressivo consumo di fibrinogeno, fattori
coagulativi e piastrine e quindi l’uso di Ugurol ha accelerato il passaggio alla fase
coagulativa-emorragica.
Pertanto il periodo fra le ore 14 e le ore 18 sono state ore cruciali in cui la CID poteva
essere controllata con adeguata terapia e, previa Angio-TC, si poteva notare lo
spandimento ematico arterioso (come accadde nell’esame del giorno dopo) e portarla
all’intervento chirurgico di revisione del campo operatorio prima che le condizioni
scadessero eccessivamente 4 ore più tardi.
Infatti, con un esame coagulativo alle ore 15 o alle ore 16 sicuramente si sarebbe
notato il consumo del fibrinogeno (<100mg/dl), la piastrinopenia e l’incremento a
dismisura dei D-Dimeri che indicavano la fase Microtrombotica della CID,
assolutamente trattabile con 4 ore di anticipo.
Tale trattamento anticipato avrebbe verosimilmente evitato il decesso della sig.ra A.
M.!
Si ritiene necessario precisare quanto segue:
La terapia che doveva tempestivamente essere messa in atto, anche dopo questo
inqualificabile ritardo, doveva prevedere:
a) Plasma 10-15 ml /kg (in questo caso fino a 20 ml/kg, come da linee guida) che
per una paziente media di 65 kg equivale a 1000-1300 cc di plasma e
considerando che nel centro trasfusionale in questione hanno un volume di 220
cc +/- 10%, dovevano essere richieste 5-6 sacche di plasma (ne sono state
richieste solo due, pari ad un terzo della terapia);
b) Fibrinogeno umano, per valori al di sotto di 100 mg/dl (come da linee guida) è
necessario infondere 1-2 g di fibrinogeno umano, richiedibile ai centri
trasfusionali se non in dotazione nella struttura. In questo caso non si menziona
neppure l’ipotesi di utilizzare tale farmaco;
c) Essendo ormai in una fase emorragica grave (emorragia dalla zona chirurgica
+ rettorragia spontanea sine causa) era necessario anche trasfondere Piastrine
poiché ormai la fase trombotica si era esaurita (assenza dei fattori coagulativi)
e la gravità del caso consentiva di trasfondere piastrine anche con un valore >
di 40000/ul; anche queste non sono mai state richieste sebbene fosse palese il
quadro di emorragia irrefrenabile;
d) Vista ormai la condizione emorragica grave, in modalità salva-vita ma in modo
estremamente efficace, dovevano infondere NOVOSEVEN fl alla dose di 90
ug/kg ripetibile ogni 4 ore fino a garantire il controllo dell’emostasi, sebbene
solo temporaneo. Per una persona media si somministrano 4 fl alla volta. Tale
farmaco è il Fattore VII della coagulazione già attivato per cui innesca la via
estrinseca della cascata coagulativa e salta completamente l’attivazione dei
restanti fattori della coagulazione fino alla protrombina. In questo modo, in
presenza di plasma fresco in infusione, determina la Trombin generation
immediata. Anche in presenza di gravi CID, tale farmaco determina una forte
emostasi sebbene transitoria, ma in questo caso sarebbe potuto essere
sufficiente a garantire un valore di emoglobina non cosi basso da provocare
l’arresto cardiaco (Hb 5 g/dl), permettendo di allestire un’Angio-TC e
successivamente un’angiografia con embolia selettiva del vaso emorragico. La
rettorragia non si è più presentata per cui si era già arrestata e dunque l’unica
sede di sanguinamento rimaneva l’arteria lombare sn e il campo operatorio:
tale farmaco non è stato preso in considerazione;
e) Vista la gravità del quadro clinico, oltre al plasma doveva essere infuso il
farmaco Protromplex 200 o 500 U, da ripetere a 6 ore. Questo farmaco è un
complesso protrombinico costituito da 200/500 UI di ciascun fattore
costituente il complesso protrombinico (X, IX, II) e dunque è già pronto. E’ pur
vero che, se la gestione di Plasma-PLT-Fibrinogeno è di competenza di
qualsiasi Laureato in Medicina e Chirurgia abilitato, tali farmaci sono di
competenza specialistica ematologica, per cui il collega doveva almeno
contattare un ematologo e farsi tempestivamente dare delle linee guida da
seguire oltre il consueto: ciò non è stato fatto;
f) Al momento della costatazione di un quadro di totale esaurimento dei fattori
coagulativi ed in presenza di emorragia estesa con la comparsa di rettorragia
(considerando ormai completamente superata la fase microtrombotica della
CID), doveva essere iniziata infusione di Ugurol (antifibrinolitico) ad un
dosaggio di circa 12 fl/24 h.
Ricovero presso la II Struttura:
Possiamo dire che i colleghi hanno agito quando ormai le condizioni generali
della paziente erano gravi, caratterizzate da una multiorgan failure dovuta all’acidosi
conseguente al quadro emorragico, ipotensivo generale e ischemico dei singoli
organi. Lo stato generale e la rapidità con la quale la paziente ha ripresentato alle ore
00:30 la condizione di arresto cardiocircolatorio non consentivano di effettuare
manovre per controllare chirurgicamente l’emorragia della paziente.
Tuttavia rimangono alcuni punti da evidenziare nel loro operato:
 Il consulente ematologo non consiglia l’uso del Novoseven, né
dell’antifibrinolitico, né del protromplex, limitandosi ad un’innocua terapia
convenzionale della CID, con richieste trasfusionali. Tali farmaci verranno poi
richiesti da una successiva consulenza ed iniziati 20 ore dopo l’arrivo in
Ospedale e solo 8 ore prima dell’exitus (troppo tardi!?!).
In verità sembra che il collega non si sia reso conto della gravità e dell’urgenza
del quadro;
 La scelta di attendere 10 ore prima di effettuare l’Angio-TC può essere dovuta
alla necessità di stabilizzare la paziente dopo un secondo arresto
cardiocircolatorio, complicato da grave aritmia. Tuttavia al mattino la paziente
era accettabilmente stabile per effettuare TC e intervento. Quantunque sia stato
lodevole e coraggioso il comportamento dei sanitari chirurghi che hanno
tentato un intervento arduo, era verosimile che ormai potesse non essere
risolutivo nel controllo della principale sede di emorragia (arteria lombare sn).
Va inoltre notato come, con un’adeguata terapia medica, iniziata alle ore 18:47
del 29.03.2006, con il solo plasma a dosaggi corretti, la paziente ripresentava
dosabili sia PT e PTT che il fibrinogeno, PER CUI, IN RISPOSTA ALLE
DICHIARAZIONI DEI PERITI DEL PM che definivano tale CID irrisolvibile, di
fatto si può affermare con ragionevole certezza che con i giusti presidi lo stato di
coagulopatia della pz. poteva essere controllata e risolta (anche alle ore 16 del
28.03.2006), come in parte stava accadendo solo poche ore prima dell’exitus.
Di fatto il comportamento dei sanitari ha inficiato le residue chances di
sopravvivenza che erano rimaste alla sig.ra A., la quale a seguito della succitata
storia clinica, che sa dell’incredibile, ha certamente vissuto 3 giorni di grande
agonia con chiaro presentimento (specie dopo il secondo ricovero)
dell’avvicinarsi della morte.
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
In definitiva nella sentita esigenza di raffigurare la catena causale degli eventi tra loro
correlabili che ha condotto a morte la sig.ra A. M. sembra necessaria schematizzare
quanto segue:
La pazienta era soggetto senza alcun segno evidente, clinico o laboratoristico, di
trombofilia o coagulopatia. Quindi dalla non dimostrata diatesi alla CID risultano
sconfessate le dichiarazioni dei CC.TT. del PM che ipotizzavano una coagulopatia in
atto già all’inizio dell’intervento;
La sig.ra A. si sottoponeva ad intervento chirurgico ortopedico a seguito del quale si
evidenziava un quadro emorragico “diverso dal prevedibile” perché più profuso (tale
fatto doveva far sospettare una lesione vascolare);
 si reinfondeva un volume esagerato di sangue recuperato intraoperatoriamente,
senza la necessaria manipolazione di esso (quanto non trascritto in cartella si
presume omesso) configurandosi così una grave imprudenza;
 è molto più che verosimile che tale infusione (troppo cospicua e con molto
fattore Tissutale) sia stato il primum movens oppure uno dei principali
responsabili della CID;
 non venendo effettuato nessun controllo per circa 6 ore (dalle ore 12:05 alle ore
17:56) non ci si accorgeva della natura arteriosa del sanguinamento e neppure
della successiva fase microtrombotica della CID, anzi si aggravava con
l’infusione di un antifibrinolitico (grave negligenza);
 la CID diveniva emorragica per esaurimento dei fattori coagulativi e dunque la
perdita arteriosa diventava cospicua e compariva rettorragia;
 nel frattempo le microischemie diffuse avevano determinato una multiorgan
failure progressiva, testimoniata dal progressivo peggioramento dell’acidosi
lattica della paziente;
 per l’anemia indotta dalle emorragie si determinava un arresto di circolo,
aggravato dalla mancanza di disponibilità immediata di sacche di EC da
trasfondere perchè non richieste o predisposte in anticipo (grave imprudenza e
negligenza);
 Exitus.
Dimostrata la catena causale che ha condotto a morte la sig.ra A. M. si ritiene
doveroso riepilogare la catena degli errori medici e strutturali in ogni fase
dell’assistenza prestata:
1) Grave difetto di informazione in fase preoperatoria che non ha permesso
l’incontro delle volontà tra le parti. La sig.ra era stata rassicurata che trattavasi di
un intervento risolutivo e di routine, per cui si intravede una vera inadempienza
contrattuale;
a) La paziente non fu informata dell’assenza nella clinica di Reparto di
Rianimazione e quindi, di fatto, Le fu vietato di scegliere altra struttura ed
eventualmente altro operatore. Insomma trattasi davvero di un “Consenso
disinformato”
2) Grave imprudenza nel non aver predisposto dei preparati ematici per affrontare
una copiosa perdita ematica come poteva essere prevedibile in tale tipologia di
intervento (decompressione e stabilizzazione lombare);
3) Lesione iatrogena accertata dell’arteria lombare sn da manovre imperite del
chirurgo (e quindi non giustificabile in quanto prevedibile e prevenibile con
adeguata manualità chirurgica). Tale evento rappresenta l’inizio degli eventi
avversi dai quali discendono tutti i successivi che hanno condotto a morte la
paziente:
a) Senza emorragia non ci sarebbe stato bisogno di reinfondere grandi quantità di
sangue con la verosimile assenza di inizio di CID microtrombotica (invece
facilitata dal mancato lavaggio del sangue reinfuso);
b) Senza emorragia i medici non avrebbero somministrato l’Ugurol che ha
favorito la trasformazione della CID microtrombotica in emorragica;
4) imperito non riconoscimento di un sanguinamento troppo cospicuo non adeguato
all’intervento effettuato e dunque di natura arteriosa:
a) era sufficiente un EGA del sangue recuperato per tale riconoscimento;
INVECE, NELL’ASSURDA IPOTESI di voler disconoscere la lesione iatrogena
arteriosa, confermando, quindi, la tesi dei consulenti del PM si evidenziano
comunque:
1) una grave negligenza nel non eseguire precocemente emocromo completo e
i parametri della coagulazione, dopo un intervento chirurgico invasivo
seguito da una emorragia profusa, nonché un accertamento radiologico con
contrasto per evidenziare l’eventuale origine di una cosi abbondante perdita.
Tale comportamento ha impedito di iniziare precocemente il trattamento
della CID e di riparare gli eventuali foci emorragici;
2) Imperito trattamento della CID e della terapia dello shock ipovolemico: il
tutto (punti 5 e 6) ha fatto perdere alla paziente le numerose e ragionevoli
chances di sopravvivenza (oltre ogni ragionevole dubbio scientifico e
giuridico);
3) I tentativi terapeutici dei sanitari della II struttura sono stati parziali e anche
qui tardivi (20 ore per iniziare Novoseven e protromplex) ed hanno azzerato
quelle poche chances di sopravvivenza per la paziente.
A tale proposito sembra adeguato ricordare come per la Suprema Corte di Cassazione
sia necessario risarcire adeguatamente e non simbolicamente anche pochi giorni di
vita o settimane di un malato terminale persi a causa di una errata diagnosi o di una
errata terapia (Cass. Civ. 18/09/2008 n. 23846).
Ciò si è voluto precisare per non indurre in errore chiunque pensi che le condizioni
cliniche della sig.ra A., che erano certamente gravi, non le avrebbero comunque
lasciato speranze di sopravvivenza in assoluto in quanto affermare ciò equivarrebbe a
dire che la paziente, curata tempestivamente ed adeguatamente, sarebbe morta nello
stesso giorno e nella stessa ora!
LE CONSEGUENZE DELLA SUCCITATA MALPRACTICE SI POSSONO
COSI’ RIASSUMERE:
1) DECESSO DELLA SIG.ra A. M. la quale ha coscientemente vissuto l’agonia
degli ultimi giorni della propria vita in piena consapevolezza della morte
imminente, motivo per il quale tale “Danno Catastrofale” va adeguatamente
risarcito. Insomma, in considerazione dell’intensità del danno, della gravità
delle lesioni e la rilevante ripercussione sulla sfera psichica della A., sotto
forma di angoscia e di disperazione, tale danno necessita di adeguata
personalizzazione considerando:
- La sopravvivenza dal momento della lesione chirurgica;
- Il grave grado di pervasività fisica delle lesioni;
- Il conseguente alto livello di percezione del danno da parte della
sig.ra A. e quindi della sua reale comprensione dell’avvicinamento
della morte.
2) GRAVE SOFFERENZA RIFLESSA DEI CONGIUNTI, massima negli
ultimi giorni di vita della defunta M., i quali ancora oggi non hanno
elaborato il lutto e cercano giustizia nella rabbia e nel dolore interiore, che
va risarcita, dopo adeguata personalizzazione, con quanto previsto dalle
tabelle del tribunale di Milano;
3) SCONVOLGIMENTO DELLE ATTIVITA’ ESISTENZIALI DEI
CONGIUNTI i quali non hanno ancora ripreso una normale attività
sociale, condizione anche da risarcire equamente valutando il grave danno
al “tessuto familiare”.
Dr. Carmelo Galipò
Prof. Massimiliano Postorino