memorie di pietra - Il Messaggio Teano

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memorie di pietra - Il Messaggio Teano
MEMORIE DI PIETRA
Una delle due sfingi all’ingresso del Duomo di Teano
Teano fu inondata da lastre di pietra graffite da
iscrizioni,
commemorazioni, tenerezze, nostalgie, singhiozzi e lacrime, ritratti
più o meno fedeli di persone inghiottite da una storia muta, devastate
dal virus della dimenticanza. Alcune campeggiano come spolia di
monumenti cristiani, altre seminascoste in luoghi più discreti, altre
ancora dormono un interrotto sonno senza fine sotto la città antica,
sotto le zolle dei campi percorse un tempo da millenari aratri
trascinati da lenti buoi sonnolenti, ora frammentate da rombanti
mostri stillanti nafta e cambiali. Furono magistrati orgogliosi,
eroici guerrieri , narcisisti incogniti, duci, perfino imperatori che
lasciarono labili tracce della loro esistenza affidandole alla memoria
quasi imperitura di pietre tenaci e a volte pregevoli. E noi
contemporanei di un’era frenetica e informatica a volte sostiamo
religiosamente in silenzio, tentando di leggere queste cronache
antiquarie, perplessi e ipnotizzati dal magnetismo che da esse si
sprigiona, catturando la nostra attenzione, cattivando il nostro
interesse.
Chi può negare, anche il passante meno provveduto, di essersi
arrestato anche per alcuni secondi, magnetizzato da queste pietre a
volte fuligginose, tentando di penetrare un segreto perduto, o
ammirando i volti e le sembianze ivi incise, anche quelle prive di
vigore artistico, o di bellezza formale. Belle e terribili le due
sfingi di granito rosa di Assuan poste a guardia del Duomo, vigili e
immutabili, un tempo custodi silenziose di un Santuario di Iside
(Iseion), fulgido di marmi e fresco di zampillanti fontane,
impreziosito da eleganti giardini, percorso da calvi sacerdoti in
taciturna preghiera, da vergini di belle forme, danzanti con piede di
nuvola, appena coperte da lini sottili e ornamenti d’oro e d’argento.
Austera la stele funeraria della nobile Herennia Paphia e del ricco
Mario Lucio Africano per sempre cristallizzati nel mare di tufo e
marmi del tronco campanile del Duomo, fissi nei loro pensieri, nei
loro desideri, nelle loro speranze, nelle loro immancabili manie,
immutabili e quasi snob, eternati da un abile lapicida al servizio
dell’immortalità, effimera consolazione a una vita forse troppo breve,
di sicuro agiata e pretenziosa. Commovente la lastra della dolce
Veneria, fossilizzata negli spechi ombrosi della venerabile cripta di
S. Paride, trasudante salnitro e una dismagante tristezza, pioggia di
lacrime e desolazione del fin troppo desolato Victor, lo sconsolato
coniuge che fece incidere su pietra povera per quattro soldi, parole
di dolore e rimpianto per una moglie docile e devota che mai si lagnò
nel corso della breve vita coniugale. Sine querellam. Per sempre.
Interessante e sobria l’edicola di un virgulto di una famiglia
romana
che giace nel lago d’erba del giardino episcopale, sferzata dal vento
robusto e inondata da piogge impietose e cattive, pianto emozionale di
stagioni gonfie di nuvole, sapide di sale e sole. Manifesti di pietra
e marmo, monumenti di una civiltà in ibernazione, commoventi frammenti
di mille cose da dire o non dette. Altri brandelli di fantasmi lapidei
riapparsi da un passato in letargo, sonnecchiano nel museo in bella
mostra e con didascalie esplicative raccontano un brano delle loro
mille storie dimenticate. Ci emozionano, ci ipnotizzano, ci consolano.
I ricordi lapidei restano lì, pietrificati nel loro mondo,
pazienti e
quasi narcisisticamente ripiegati in sé, vivendo di vita propria alla
luce della luna, nella penombra sottile di magici incantesimi, nella
accademica protervia di chi vuole, deve, è costretto a tutti i costi a
trasmettere un messaggio criptico che nessuno vuole ricevere.
Astronavi smarrite nello spazio interstellare senza neppure il
conforto di un bip-bip. Vaganti in eterno. Cristalli di parole a volte
non compiutamente espresse, smozzicate, tarlate, assassinate.
Colpisce per la straordinaria eleganza di esecuzione un bassorilievo
nel Duomo, inserito nella parete della vasta cappella del Sacramento,
sormontante il busto dell’accigliato cardinale D’avanzo. Fa compagnia
a un bel pluteo medievale, a un frammento architettonico romano e a un
pezzo dell’ambone cosmatesco. Sta lì su in alto, troppo in alto per
essere considerato come meriterebbe. Solingo mendicante di attenzione.
Inerme e inerte, visitato da vicino solo da qualche ragno che tesse la
sua tela fine, senza ansia, senza frenesia, come Penelope d’ombra in
snervante attesa di un Ulisse di luce e colore che non arriva mai. Ma
Ulisse, in fulgido splendore di una tarda giovinezza, si attarda
ancora, altro trasgressivo mendico di attenzione, alle porte dorate
del profumato talamo dell’incantatrice Calipso, antichissima divinità,
dea del centro, morbida, flessuosa, amabile maliarda nelle leggiadre
fattezze e nella voce che cela mille segreti di arcane ere. Ancora una
volta riaffiorante in questa bella plastica rappresentazione della
storia di Europa e del suo folle rapimento.
Collocata in un’aula, che ripropone in chiave attualizzata,
il
perimetro della longobarda cattedrale del vescovo Mauro, benedettino
di frontiera, servo dei servi di Dio, che pianse devote, pie lacrime,
edificando la sua cattedrale, leggenda di colonne e di marmi. Lacrime
che si fusero con quelle di orrore e costernazione del pio Mons.
Tamburini, alla visione orrenda della sua cattedrale lacerata da una
devastante grandine di bombe anglo-americane il triste 6 Ottobre del
1942. Bella lastra di una scena incorporata in una sensuale morbidezza
e una levità di stile incomparabili. In audaci e morbidi voli
mediterranei, sapidi del desiderio di Zeus, insaziabile, audace,
fecondo inseminatore di donne dai fianchi voluttuosi e i desideri mai
spenti, produttore infaticabile di catene di montaggio di semidei,
ninfe, eroi e quanto di meglio poteva offrire l’epopea classica. Una
cornucopia dei sensiIn effetti è come per la voce della Callas. La titolare è morta,
ma il
suo canto continua a tessere l’incanto di un moto perpetuo senza età.
Fuori dalla dimensione spazio temporale, catene per vibrazioni
sottili.
Il Paese dell’ambra
Giulio De Monaco