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Giancarlo Cofelice
Augustin
il nazista
R oma nzo
AUGUSTIN IL NAZISTA
Autore: Giancarlo Cofelice
Copyright © 2013 CIESSE Edizioni
P.O. Box 51 – 35036 Montegrotto Terme (PD)
[email protected] - [email protected]
www.ciessedizioni.it - http://blog.ciessedizioni.it
ISBN 978-88-6660-105-0
I Edizione stampata nel mese di novembre 2013
Impostazione grafica e progetto copertina:
© 2013 CIESSE Edizioni
Collana: Green
Editing a cura di: Pia Barletta
PROPRIETA’ LETTERARIA RISERVATA
Tutti i diritti sono riservati. È vietata ogni riproduzione dell’opera, anche
parziale. Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi ed
eventi narrati sono il frutto della fantasia dell’autore o sono usati in
maniera fittizia. Qualsiasi somiglianza con persone reali, viventi o defunte, eventi o luoghi esistenti è da ritenersi puramente casuale.
A Michele
Sei andato via, in silenzio, in una fredda giornata di fine febbraio. E ora ascolto in solitudine l’eco della tua voce, ne assaporo
il ricordo, dolce e malinconico, come il timido fruscio del vento in
una tiepida notte autunnale. Se guardo nel mio cuore vedo i tuoi
occhi e il profondo affetto che mi lega a te.
Ciao Michele.
Prologo
Si chiama Abigail, è un’ebrea tedesca miracolosamente sopravvissuta ai forni crematori di un luogo orrendo chiamato Auschwitz. Su un braccio reca ancora impresso un numero: B-26578,
marchiato a fuoco come fosse bestiame. È mia nonna, e io vivo
con lei.
Il suo dolore, col tempo, è diventato il mio e anche la mia anima è segnata da una tragedia immane. Ci si illude che il tempo
possa lenire tutte le ferite, ma ce ne sono alcune che, passassero
secoli, non guariscono mai del tutto e basta un niente perché riprendano a sanguinare. Quel niente può presentarsi sotto imprevedibili forme, come l’amore. È accaduto a me, inconsapevole di
quanto mi riservava il destino, di incamminarmi lungo il sentiero
della verità che mi ha fatto ritrovare faccia a faccia con il Male. A
volte il passato, insieme alla verità, torna ed esige un prezzo da
pagare troppo alto. Se ci fosse dato di sapere prima quale sia questo prezzo preferiremmo restare all’oscuro? Forse no. È nella natura umana andare avanti, anche sbagliando.
Alcune persone, pochi eletti, posseggono una sorta di marcia in
più, un sesto senso, Abigail è una di questi.
È nata con una dote speciale e chissà che non sia stata lei a fare
in modo che incontrassi Eléonore. Quante storie mi raccontava
mia nonna… in ognuna di esse si poteva ravvisare un elemento
sovrannaturale; all’inizio non volevo crederci, convinto che esagerasse: tutti facciamo sogni premonitori, qualche volta.
Ma ora tutto torna, i tasselli s’incastrano al posto giusto e il disegno si palesa in tutta la sua complessità. Già da piccola faceva
strani sogni: reticolati, strade ferrate, volute di fumo, nessuno,
nemmeno i suoi genitori avevano saputo interpretarli. Un lager,
era quello che sognava la piccola Abigail.
La vita, al pari della morte, è un mistero e sono convinto che
nulla accada per caso.
Per Abigail, per me, per Eléonore, per tutti il destino è segnato
dalla nascita e non gli si può sfuggire.
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Pisa, autunno 2002
Completamente ubriaco, percorsi barcollando i pochi metri
che mi separavano dall’ingresso di casa mia. Lo stomaco ingaggiò
una lotta con l’alcol ingerito e perse: il fiotto si riversò sulle mie
scarpe e la luna vi intinse un raggio. L’odore acre mi provocò un
altro conato, ma questa volta riuscii a contrastarlo. Prima di allora non avevo mai bevuto tanto, ma non mi era mai accaduto
nemmeno di litigare violentemente con Eléonore, la mia ragazza.
Gelosia, o forse il ricordo ancora vivo di Angelica, la quindicenne
che mi aveva fatto battere il cuore anni addietro, scappata via con
un ragazzino più grande di me dopo quattro mesi di bacetti e
promesse di amarci per tutta la vita. A quell’età si crede ancora
nell’amore eterno, e certe ferite faticano a rimarginarsi.
Riuscii, ancora non so bene come, a infilare la chiave nella
toppa e a entrare in casa, il lampadario sembrò venirmi incontro
in una sorta di benvenuto. Abigail, mia nonna, dormiva beatamente nel suo lettone, almeno era quello che credevo, e cercai di
non produrre il minimo rumore, ma all’improvviso un urlo mi aggredì i timpani. Di colpo sobrio, mi precipitai nella sua stanza, la
vidi inginocchiata accanto al letto e con lo sguardo perso nel vuoto, «mamma… mamma», la udii sussurrare.
Scappai letteralmente da quella camera per rifugiarmi nella
mia stanza da letto e bere un sorso d’acqua dalla brocca poggiata
sul comodino. Mia nonna non era come tutte le altre persone. Lei
possedeva una straordinaria capacità di percepire cose che gli altri non potevano sentire, per lei il confine tra il mondo dei vivi e
quello dei morti non era così netto. Questo suo modo di essere mi
aveva sempre preoccupato, ma un po’ alla volta me ne ero fatta
una ragione. Approdai sul letto e ripensai agli occhi di Eléonore
davanti a quel messaggino e l’ira mi salì di nuovo al cervello come
l’improvvisa furia del vento in un deserto africano, riuscii a prendere sonno solo alle due del mattino.
La mattina successiva mi ritrovai sul letto mezzo vestito. Ero
letteralmente crollato, una scarpa ancora al piede sinistro e l’altra
vicino alla porta. Il quaderno su cui mi dilettavo a scrivere poesie,
incautamente lasciato incustodito, giaceva sotto una sedia con le
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pagine mangiucchiate da Pioggia, almeno lui dimostrava di gradirle, chissà! O forse era solo un dispetto, a volte mi sorgeva il
dubbio che davvero i gatti siano ingrati e dispettosi, ma sapeva
essere un compagno discreto e affettuoso, se gli girava. Era piccolo quanto un soldo di cacio quando l’avevamo trovato vicino al
cancello durante un temporale. Quel batuffolo grigio, sporco e inzuppato aveva miagolato così forte da sovrastare il rumore della
pioggia ed era entrato prepotentemente nelle nostre vite, come
solo i gatti sanno fare. Io e Abigail avevamo discusso a lungo sul
nome da dargli, io propendevo per Stentore e Abigail per Pioggia,
comunque fosse da buon felino ce lo ritrovavamo tra i piedi nei
momenti più impensati.
Ma non avevo tempo per incavolarmi con il gatto, Roberto mi
aspettava per una questione importante.
Roberto e io lavoravamo insieme, come volontari, in
un’associazione di Pisa, “Gli amici dei poveri”, che si occupava di
aiutare persone disagiate, ed ero già abbondantemente in ritardo.
«Ma si può sapere che ti è successo stamattina?» mi apostrofò
il mio amico quando arrivai. «Hai dimenticato che abbiamo un
appuntamento?»
«Sì, hai ragione, scusami, ma questa notte non riuscivo a
prendere sonno. Mi sono addormentato solo all’alba, avevo un
forte mal di stomaco» replicai, mentendogli. Non volevo che sapesse che avevo litigato con Eléonore, tantomeno che mi ero
ubriacato.
«Alle dieci viene il proprietario dell’albergo, e poi, lo sai, gli altri giorni devo andare a scuola e non posso venire qui in associazione.»
Era un po’ risentito mentre mi versava una tazzina di caffè appena fatto, aveva ragione. Il suo giorno libero a scuola lo impiegava in associazione. «Eh, Andre’, te ne sei dimenticato?» rincarò.
«Hai ragione, ma sono stato male, che devo fare» ammisi laconico.
«Va bene dai, aiutami a finire di scrivere questa lettera, che tra
un po’ arriva il signor Ricci» mi rispose, quando si sentì suonare il
campanello alla porta dell’associazione. Era Ricci, il proprietario,
in anticipo di un quarto d’ora.
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Gli illustrammo il caso di Giovanni, un uomo che aveva chiesto
aiuto alla nostra struttura. Aveva perso il lavoro da poco tempo e,
a oltre sessant’anni, solo e senza più nessuno non sapeva come tirare avanti. Era stato al servizio di una nota famiglia della città
per tanti anni, fin da ragazzino, quasi tutta la vita. Il suo rapporto
di lavoro era terminato nel giorno in cui i suoi vecchi padroni,
molto anziani, erano morti.
Il signor Ricci ascoltò con attenzione la storia e, andando via,
ci promise che avrebbe fatto il possibile per aiutarlo, ma non poté
assicurare niente. Guardai con tristezza Roberto che espresse il
mio stesso pensiero.
«Speriamo che Ricci faccia davvero qualcosa per lui.» Era anche lui dispiaciuto, quotidianamente ci ritrovavamo impotenti di
fronte a tante piccole tragedie.
Non lo ascoltavo già più, Giovanni sostituito da Eléonore nei
miei pensieri. Non sapevo come dire a Roberto che dovevo andare
via subito, avevo un appuntamento all’università con Giulia, una
mia amica e collega di Giurisprudenza, e temevo di fare tardi.
«Devo andare via, Roberto, non posso aiutarti stamattina» dissi, senza girarmi e con lo sguardo fisso sul monitor del computer.
Ma Roberto aveva intuito qualcosa.
«Ho capito da quando sei arrivato che oggi non è giornata»
esordì ancor prima che mi voltassi verso di lui e finissi di parlare.«Sei strano oggi, non so perché, comunque vai, vai dove devi
andare.»
«Ma dove vuoi che vada, se lo dici così non vado via. Devo vedermi con Giulia. Mi deve dare quegli appunti di diritto penale.
Lo sai che con questo esame non sono riuscito ad andare a lezione. Senza gli appunti rischio di non superarlo.»
Sapevo che Roberto mi avrebbe capito, lui era così, doveva
sempre dire qualcosa, ma non bastò a lenire i sensi di colpa. C’era
rimasto un po’ male, contava su di me per scrivere la lettera alla
Caritas.
“Al diavolo” pensai mentre infilavo il giaccone per uscire, “non
posso abbandonare un amico in difficoltà.”
Avvisai Giulia con un messaggio che ci saremmo visti più tardi
e mi sedetti accanto a Roberto. Bisognava mandare una mail alla
Caritas di Roma. Il Centro per l’impiego della Provincia di Pisa
aveva ricevuto, tempo addietro, la telefonata di un camerunense,
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un ragazzo di ventidue anni, che voleva venire in Italia per lavorare. Purtroppo, l’impiegato non aveva potuto aiutarlo a causa della
legge sugli immigrati diventata molto severa nel corso degli anni.
La decisione di rivolgersi alla Caritas era maturata
nell’impossibilità materiale di aiutarlo.
«Anche la Caritas dispone di un ufficio immigrazione, forse loro possono fare qualcosa.»
Soddisfatto per aver assolto il mio compito, stavo quasi per
dimenticare l’appuntamento con Giulia.
La trovai già lì, puntuale come sempre, il ritardatario ero io.
Decidemmo di andare a mangiare all’Osteria dei cavalieri, in via
San Frediano, nel cuore di Pisa, dove si mangia bene e la cucina è
tipicamente toscana.
«Scusa per il ritardo, Giulia.»
Era una giornata stupenda, tanto che, pur essendo ottobre
inoltrato, sembrava uno di quei giorni di settembre, quando si ha
l’impressione che l’estate, ormai al capolinea, non voglia proprio
andare via.
«Non preoccuparti, non ci sono problemi, sono arrivata
anch’io pochi minuti fa. Ma cos’è successo? Hai una faccia…»
A Giulia non sfuggiva niente, e le raccontai del litigio avuto con
Eléonore. Parlarne con lei mitigò un po’ il mio malessere. Giulia,
oltre che un’amica, era una persona estremamente intelligente e
sensibile; ascoltò attenta e alla fine mi rimproverò affettuosamente. Ridimensionò il mio problema, se problema si può definire
uno screzio, precisò, anzi a volte i litigi servono a rafforzare i sentimenti. Avevo fatto bene a confidarmi, la stima che nutrivo nei
suoi confronti cresceva sempre di più, Eléonore lo sapeva e non
era mai stata gelosa. Non aveva motivo di esserlo. Quando
l’amicizia è sincera, da entrambe le parti, non c’è mai nulla da temere.
«Mi hai portato gli appunti? Scusa, ti scoccio sempre, ma proprio non riesco a venire a lezione, in associazione è un periodaccio. C’è molto da fare» cambiai discorso, sollevato.
«Tranquillo, gli appunti li ho presi io. Ieri il professore ha
spiegato la colpa cosciente e il dolo eventuale, argomento davvero
interessante, mi è piaciuto.»
«Sì, immagino. Ho già avuto modo di leggere qualcosa su questo argomento, qualche giorno fa.»
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Mangiammo divinamente continuando a chiacchierare del più
e del meno, le pappardelle al sugo di lepre erano squisite e ci ripromettemmo di ritornare prima possibile in quel ristorante.
Dopo esserci salutati, mi diressi alla fermata del bus, perso nei
miei pensieri. Eléonore non si era ancora fatta risentire e io, distratto dalla piacevole compagnia di Giulia e preso da altre faccende da sbrigare, avevo tenuto occupata la mente e solo in quel
momento me ne resi conto.
Camminavo spedito e con l’umore risollevato, ma non appena
rivolsi lo sguardo verso l’alto e osservai il cielo cupo con le nuvole
addensate mi si rovesciò addosso di nuovo il malessere. Quanto
odiavo quella parte di me che mi faceva vedere tutto nero, e quanto invece invidiavo le persone come Giulia, solari e sempre pronte
a trasmettere una buona dose di ottimismo.
A casa, già nell’atrio, mi accolsero un delizioso profumo di patate al forno e lo scalpiccio di Abigail che si affaccendava in cucina.
«Nonna, cosa stai preparando di buono?» ammiccai sfoderando un sorriso finto.
«Sei tornato presto, Andrea, dieci minuti ed è pronto!» il suo,
di sorriso, era genuino.
Felice di poter restare ancora un po’ in compagnia dei miei cupi pensieri, mi diressi nel salone a rimirare il giardino su cui affacciava la grande vetrata. La panchina sistemata sotto la magnolia mi ricordava mio nonno, sedeva sempre lì, nelle belle giornate,
a leggere. La sua scrittrice preferita era Isabel Allende, acquistava
tutti i suoi libri, per il mio diciassettesimo compleanno mi aveva
regalato Paula. Mi parve di sentirlo mentre mi diceva: «Andrea, ti
regalo Paula, questo libro ti insegnerà tante cose.»
Quel libro la Allende lo aveva dedicato alla figlia morta prematuramente e mi tornò in mente la commozione provata nel leggerne un brano.
Sono il vuoto, sono tutto ciò che esiste, sono in ogni foglia del
bosco, in ogni goccia di rugiada, in ogni particella di cenere che
l’acqua trascina via, sono Paula e sono anche me stessa, sono
nulla e tutto il resto in questa vita e in altre vite, immortale.
Adiòs, Paula mujer, bienvenida, Paula, espiritu.
Parole forti, uniche, tinte di tanta poesia e amore, addolcite dal
calore che solo una mamma può dare. Il ricordo di quei passi del
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romanzo mi gelò l’anima, pensando a quanto grande potesse essere l’amore, in tutte le sue forme, nella gioia e nel dolore, di una
mamma per la figlia, di un uomo per una donna.
A cena ce la misi tutta ma proprio non riuscivo a mandar giù
niente, la carne restò nel piatto, integra. Abigail si preoccupò, non
mi aveva mai visto così. Per evitare di farla impensierire troppo,
le dissi la verità. Ci rimase male, sapeva quanto tenessi a Eléonore. Per farmi distrarre, mi propose una partita a carte davanti al
camino, dopo cena.
«L’amore è così» provò a consolarmi, «gioie e dolori. Tu adesso stai vivendo dei dolori, ma non ti preoccupare, torneranno anche le gioie.»
Le sue parole, pronunciate con tanta semplicità, ebbero il potere di rincuorarmi. Sorrisi e guardai una foto di Eléonore poggiata
sul camino, era stata scattata a Firenze l’anno precedente. Cercai
di ricacciare indietro una lacrima, temevo di scoppiare a piangere
come un bambino; la musichetta che annunciava l’arrivo di un
messaggio sul cellulare venne in mio soccorso: ti amo tanto, Andrea. Quattro parole e il cuore prese a battermi forte nel petto,
come a volerne uscire. Mi sentii decisamente meglio.
Non ero riuscito ancora a perdonarmi di essere stato così cattivo con lei, la mia reazione era stata davvero esagerata.
Quella notte, i raggi della luna bussarono insistentemente alla
finestra, infiltrandosi nella camera, giungendo fin quasi ai piedi
del letto. Mi sembrava che disegnassero sulle mura arabeschi di
luce e ombra che all’improvviso assunsero le sembianze di tanti
mostriciattoli venuti da me per punirmi. Mi addormentai molto
tardi e solo dopo essermi alzato più volte e aver camminato nella
camera per tanto tempo, come un pazzo che rinchiuso in una cella
non riesce a trovare pace. Mi vergognai di me stesso, di quello che
avevo fatto, di aver bevuto tanto.
La mattina successiva alle 7.30 in punto ero già sveglio, eccitato all’idea di rivedere Eléonore. Rovistai nell’armadio pensando a
cosa indossare, mi ricordai di un jeans “Armani” comprato qualche settimana addietro e mai messo. Niente di classico o troppo
serio, il pantalone nuovo andava benissimo.
Abigail soleva alzarsi molto presto. Gli acciacchi della vecchiaia, uniti all’età avanzata, la destavano sempre prima e mi portava la colazione a letto. Mi viziava troppo, la mia adorabile non14
nina, quel giorno sul vassoio c’era anche un cornetto appena sfornato. Era uscita presto per acquistarlo nel forno sotto casa. Non
era solita fare queste cose, per lei erano solo degli sprechi inutili,
ma era venuta meno alle sue abitudini per farmi una sorpresa.
«I cornetti posso farli io» sosteneva compunta, «non ci vuole
molto, perché spendere soldi inutilmente?»
Aveva ragione. Lei era cresciuta nel rigore, nonostante la sua
fosse stata una famiglia benestante, il papà non aveva mai viziato
i propri figli. Provai dei forti sensi di colpa. Ne aveva già passate
tante, la più terribile la perdita del figlio in un incidente stradale,
e non meritava altri dispiaceri, non avrei dovuto darle altre preoccupazioni, dopo tutte le sofferenze patite.
Con la sua famiglia, ebrea tedesca, durante la guerra si era rifugiata in una casa di campagna di amici fidati, vicino Parigi, e
quando le truppe dei nazisti tedeschi avevano occupato la Francia
si erano dovuti nascondere in un vano ricavato nel fienile. Due
lunghi, interminabili anni vissuti nel terrore, i giorni e le notti
sempre uguali, attenti a non uscire, a non fare troppo rumore.
Due anni insopportabili per gli adulti, atroci per i bambini.
I tedeschi avevano fatto irruzione di sera, portando via prima i
suoi genitori e poi anche lei e il suo fratellino più piccolo. Abigail
aveva pianto, urlato, implorato suo padre perché la portasse con
sé, mentre la polizia lo trascinava fuori dal fienile. Sua madre era
stata picchiata quando si era ribellata cercando con forza di opporsi alle guardie che volevano dividerla dai suoi bambini. Ma
quegli uomini non conoscevano la misericordia, niente avrebbe
potuto far breccia nei loro cuori di pietra. Mia nonna non aveva
dimenticato, aveva solo otto anni quando era emigrata in Francia
nel 1933 ed era una bambina vivace e piena di vita, non poteva
sapere che era iniziata l’epoca delle persecuzioni verso gli ebrei, il
più orrendo capitolo della storia a memoria d’uomo. In Germania
avevano lasciato una bellissima villa alle porte di Berlino, confiscata dal regime fascista.
«L’aveva costruita mio nonno, immersa nel verde, l’intera proprietà era circondata da un muro in pietra molto antico, che si
chiudeva come un quadrato intorno alla casa.» Le piaceva raccontare della casa in cui viveva. «È lì che sono nata e avrei voluto rimanere» mi aveva ripetuto tantissime volte, guardandomi negli
occhi. Nei suoi, di un azzurro profondo come quello del mare, si
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potevano leggere le parole taciute, perché troppo dolorose o, forse, per non addolorare me.
A guardar bene, sul volto di mia nonna ormai pieno di rughe si
poteva vedere un velo di tristezza, anche sotto un sorriso. Era
molto anziana, ma ricordava tutto degli anni passati ad Auschwitz.
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Abigail
Con Abigail la vecchiaia era stata clemente, non tanto per le
rughe, quelle c’erano a disegnare delle linee sottili, ma per la luce
e la dolcezza emanate dal suo volto. Gli occhi grandi ed espressivi
osservavano tutto, e lo sguardo fiero guizzava rapido e instancabile nonostante l’età avanzata.
Arzilla, sempre attiva e piena di energia, non le piaceva oziare
e così nei freddi pomeriggi invernali sedeva spesso alla sua scrivania, sistemata in un angolino del salone di casa, a scrivere poesie o a leggere romantiche storie d’amore. In estate, invece, quando c’era più luce, amava trattenersi in giardino a dipingere, a ricamare o sferruzzare con la lana e realizzare golfini. Ricamare era
sempre stata la sua passione. Le amiche le invidiavano l’abilità nel
confezionare straordinari lavori che rendeva inimitabili e unici.
Quella passione gliela aveva trasmessa una sua vecchia zia,
maritata in Abruzzo e residente a Santo Stefano di Sessanio, un
borgo medioevale nel cuore del Parco nazionale del Gran Sasso
d’Italia, di poche anime, vicino alla città di l’Aquila. Un luogo che
aveva amato tanto e di cui spesso mi parlava con nostalgia, per lei
era fatato, un posto favoloso che aveva lasciato un’impronta nel
suo cuore. Lei e il marito vi si recavano ogni volta che potevano,
in estate e a volte anche durante il periodo natalizio, quando la
neve del freddo inverno rivestiva tutto con la sua coltre bianca.
La zia Adele era dotata di un potere speciale, misterioso, fin da
ragazzina e, sebbene da piccola talvolta ne fosse rimasta spaventata, in quel villaggio sperduto sembrava aver trovato la sua dimensione. Vi si era trasferita giovanissima e per amore di Giacomo, con il quale era convolata a nozze dopo un breve fidanzamento, come usava all’epoca. L’atmosfera particolare aveva fatto da
cassa di risonanza alla sua recettività, si era trovata subito a suo
agio tanto da non sentire la mancanza delle comodità cui era abituata nella casa paterna, a Pisa. Giacomo, il marito, non avrebbe
potuto sperare di meglio, consapevole di non essere in grado di
offrirgliele. Col bel tempo, Adele passeggiava a lungo per il paese,
tra i vicoli stretti e tortuosi e le piazzette; accarezzava i muri delle
case come a voler trarre energia dalle fredde pietre, si fermava a
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chiacchierare con la gente di cui amava la genuinità. Non disdegnava di intrattenersi nei giochi dei bambini né di aiutare un anziano a portare un peso. “Quella lì è un po’ matta”, mormorava
qualcuno al suo passaggio, ma con fare bonario. Qualcun altro,
perlopiù donne invidiose della sua bellezza, sibilava tra i denti “è
una strega”, perché bella lo era davvero, di una bellezza un po’
selvaggia esaltata da una massa di capelli ribelli e rossi. Camminava con passo leggero, eretta e sicura, e la sua statura ne traeva
vantaggio: sebbene fosse minuta, la postura la faceva sembrare
più alta di quanto fosse in realtà.
Spesso, al calar delle tenebre, si recava al lago e si chinava fin
quasi a sfiorare l’acqua con il viso, come a specchiarsi alla pallida
luce della luna, mormorando incomprensibili litanie. C’era chi
giurava di averla vista subito dopo danzare, scalza e con leggiadre
movenze, insieme a un’ombra. Lì, sul limitare di quello specchio
d’acqua, tanti anni addietro era stata vista per l’ultima volta una
giovane donna alla vigilia del suo matrimonio. Non era stata mai
ritrovata, né viva né morta.
Si attardava anche nei boschi, incurante delle bestie che li abitavano, con gli animali aveva un feeling particolare, domestico o
selvatico che fosse per lei non faceva nessuna differenza.
La giovane non sapeva ancora che suo marito nascondeva un
segreto: egli possedeva un antico libro donatogli dal nonno, sulla
copertina nera spiccava il titolo dorato: Le sedute spiritiche. Ne
era in possesso da quando era solo un ragazzino e non se ne era
mai separato, tuttavia, condividendo la casa con la moglie si era
reso inevitabile che lei prima o poi lo trovasse, nonostante
l’avesse ben celato sul fondo di un cassetto. Adele, infatti, l’aveva
scoperto per caso, in uno di quegli eccessi di zelo che spesso colgono le donne in primavera, quando vogliono che tutto sia pulito
come l’aria che si comincia a respirare in quel periodo. Dimenticate le faccende domestiche, aveva iniziato a leggerlo con tale attenzione da non accorgersi del marito che rincasava. Un po’ per il
fascino che esercitava su di lei l’argomento, un po’ perché anche
lei in fondo aveva tenuto all’oscuro Giacomo del suo potere, non
aveva potuto di certo risentirsi, anzi, dopo il comprensibile smarrimento iniziale di entrambi, i due si erano sentiti ancora più accomunati.
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Con chi altri facessero sedute spiritiche mia nonna non aveva
saputo, o voluto, dirmelo, ma pare che la casa fosse diventata crocevia di gente desiderosa di salutare un’ultima volta il proprio caro, scomparso prematuramente o repentinamente. Adele possedeva una predisposizione naturale nell’evocare chi faceva parte
del mondo dei più.
Abigail, una sera, durante un soggiorno estivo, vi aveva preso
parte, avvolta nell’atmosfera e nel mistero di quell’incontro predisposto al calare della notte, in una buia stanza della casa, con la
sola luce fioca di una candela sistemata al centro di un vecchio tavolo. L’esperienza l’aveva scossa, ma al contempo le aveva fatto
scoprire una parte di sé di cui non sospettava l’esistenza, la parte
dotata di poteri paranormali. Tornando a casa, all’improvviso si
era sentita come mancare la terra sotto i piedi.
«Ebbi una strana visione» mi aveva confidato, «c’era una donna riversa per terra in una pozza di sangue. Il vicolo in cui si trovava era deserto e mi fece ripensare a Parigi, ero certa di esserci
già stata.»
La visione era durata pochi istanti, ma sufficienti a trasmetterle un’enorme angoscia che le era rimasta appiccicata sulla pelle
come un velo di sudore per diversi giorni. Chi era quella donna, e
perché si era palesata a lei? Qual era, ammesso che ci fosse, il legame tra loro due?
Tutto questo me l’aveva raccontato una sera di primavera, sulla panchina del giardino di casa, mentre richiudeva il libro delle
sedute spiritiche ereditato insieme alla casa e ai terreni da quei
suoi parenti. Non l’avevo mai visto, così vecchio con la copertina
nera e una croce disegnata sul frontespizio. Abigail aveva notato
la mia faccia mutata in una smorfia di paura e aveva cercato di
rasserenarmi. «Non devi aver paura delle anime dei defunti, essi
sono al di sopra di tutto, non mi faranno del male.»
Quasi a voler confermare tale concetto, Pioggia venne a strofinarsi contro le mie gambe.
Dalla morte di mio nonno, Abigail aveva ripreso a fantasticare
sulla possibilità di mettersi in contatto con lui.
Era una pratica, quella dello spiritismo, che aveva abbandonato molti anni prima, quando ero ancora un ragazzino, dopo alcuni
episodi dolorosi. Nella casa vi era una stanza chiusa a chiave, cui
nessuno poteva accedere, nemmeno mio nonno: la stanza delle
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sedute spiritiche. Lì aveva conservato il libro, nascosto nel tiretto.
Mi aveva raccontato dello zio Giacomo e della moglie, dei loro
strani riti solo dopo la morte di nonno e all’indomani della decisione, maturata con la perdita del marito, di riavvicinarsi alle sue
antiche abitudini. In passato aveva avuto modo di mettersi in
contatto con i suoi cari e quando era riuscita a parlare con la sua
mamma o il suo papà, morti nel campo di sterminio, aveva pianto
per giorni e giorni. Aveva cercato più volte di contattare anche il
suo fratellino più piccolo, Danny, senza nessun risultato. Nei vari
tentativi fatti nel corso degli anni, era riuscita solo a sentire un
profumo fresco di violette di campo nella stanza, ma niente altro.
A un certo punto aveva messo da parte le sedute, perché mio
nonno Andrea aveva cominciato ad aver paura. Un giorno in cui
era rimasto da solo in casa, mentre mia nonna si trovava a teatro
insieme alle sue amiche, aveva sentito dei rumori in quella stanza
usata da Abigail per i suoi macabri riti. Era rimasto sveglio fino a
tarda ora sulla poltrona, nonostante il sonno, in attesa che Abigail
tornasse per raccontarle ciò che era successo, con la faccia sbiancata dal terrore.
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