3. Il diritto e le sue fonti
Transcript
3. Il diritto e le sue fonti
3. Il diritto e le sue fonti di S. Iannicelli Il presente documento è tratto dall’Appendice inclusa nella monografia “Il governo del territorio. Analisi ragionata del diritto dell’urbanistica” di J. Gallo Curcio, Liguori editore. I diritti d’autore sono tutelati dalla legge. Esaminata rapidamente e in maniera schematica la struttura istituzionale dello Stato italiano, è possibile concludere che lo jus, il diritto, prima di regolare e ridurre ad unità la complessa trama dei singoli rapporti sociali, è chiamato a soddisfare l’esigenza primaria, dal punto di vista logico, della posizione e dell’organizzazione dello stesso consorzio sociale visto nel suo complesso. Il diritto è quindi normazione ma anche, prima di tutto, organizzazione. Il termine diritto può essere impiegato in una duplice accezione: 1. Diritto oggettivo, ovvero come insieme di regole generali e astratte che disciplinano i comportamenti umani (normae agendi). 2. Diritto soggettivo, nel senso di potere di agire (facultas agendi) riconosciuto in capo al singolo per la tutela dei propri interessi. Un agevole esempio della distinzione tra diritto oggettivo e diritto soggettivo può trarsi dalla proprietà privata. Il diritto oggettivo riconosce in astratto il diritto di proprietà, mentre il soggetto proprietario di una casa è titolare del diritto soggettivo che gli consente di goderne direttamente, con esclusione di illecite interferenze altrui. Il diritto oggettivo italiano trae origine dal sistema delle fonti, che vengono comunemente definite come qualunque fatto da cui consegue la creazione, la modificazione o l’estinzione di una norma giuridica. Stante l’interconnessione, segnalata all’inizio del presente capitolo, tra il fenomeno sociale e quello giuridico, è necessario premettere che il sistema delle fonti vigenti in un dato ordinamento è indicativo proprio delle caratteristiche dei rapporti sociali in esso esistenti. Ciascuna fonte del diritto è espressione di un processo di integrazione tra le forze sociali (si pensi, su tutte, alla legge emanata dall’assemblea parlamentare), per cui ad una società complessa corrisponde un altrettanto complesso sistema delle fonti 1. 3.1 Le fonti nazionali 1 G. Zagrebelsky, Sistema delle fonti, in Enciclopedia del diritto e dell’economia, Milano: Giuffré, 1987. 1 Innanzitutto è opportuno distinguere le fonti di produzione, sopra definite, da quelle sulla produzione giuridica (cosiddette fonti di produzione), ovvero le prescrizioni che regolano le stesse fonti del diritto (principalmente la Costituzione, articoli 72 e 73). La produzione si distingue ulteriormente dalla cognizione (cosiddette fonti di cognizione), la quale ultima si identifica in quell’insieme di atti formali che consistono nella veste esteriore della norma giuridica, quando essa viene pubblicata in apposite raccolte e dunque resa nota alla generalità dei consociati (si pensi alla pubblicazione delle leggi nella Gazzetta Ufficiale che è la più nota fonte di cognizione del diritto italiano). Le fonti di produzione si distinguono in primarie e secondarie (o regolamentari che dir si voglia), secondo un’impostazione tipicamente gerarchica che idealmente può schematizzarsi nella figura di una piramide rovesciata. Le fonti primarie a loro volta si distinguono in due diversi gradi: quello costituzionale, posto al vertice della scala gerarchica delle fonti, e quello legislativo, che comprende sia la legge formale che gli atti ad essa equiparati dalle fonti sulla produzione, in quanto aventi forza di legge. Se si dovesse rappresentare pittoricamente la Costituzione ed il suo rapporto con il sistema delle fonti, si potrebbe pensare ad un albero dalle radici profonde e il tronco robusto, mentre i rami e le fronde sono le fonti primarie e secondarie, che sempre dalle radici traggono linfa vitale. Dal punto di vista formale, la Costituzione è quell’atto emanato dall’assemblea costituente, votato da apposito referendum costituzionale, che reca quale caratteri essenziali l’essere scritta, lunga (139 articoli e XVIII disposizioni transitorie finali) e rigida, nel senso che la sua modifica non si attua con una semplice legge ordinaria bensì richiede il particolare procedimento cosiddetto aggravato menzionato nell’art. 138 della stessa Costituzione (che regola la formazione delle cosiddetto leggi di revisione costituzionali). Rigidità significa anche che i principi espressi dalla Costituzione fungono da parametro di legittimità della legge ordinaria, la quale pertanto può essere annullata dalla Corte Costituzionale (detta altrimenti giudice delle leggi) qualora non si presenti esattamente conforme a questi (art. 134 Cost.). La stessa nozione di forza di legge (usata quasi indifferentemente con quella di valore di legge), attributo tipico della legge formale il cui procedimento è descritto dagli articoli 70 e seguenti della Costituzione, si aggancia alla sottoponibilità del sindacato costituzionale. Ciò vuol dire che la legge ordinaria (e gli atti ad essa equiparati quali sono, si vedrà in seguito, decreti legge e decreti legislativi) può essere annullata solo da una sentenza della Corte Costituzionale. Concetto distinto è l’abrogazione di una legge ad opera di una successiva avente il medesimo valore formale, in virtù dell’operatività del semplice criterio cronologico: tra fonti aventi pari grado nella scala gerarchica la 2 fonte successiva prevale su quella precedente e quindi la “elimina” dal mondo giuridico, rimpiazzandola (cfr. art. 15 delle preleggi al codice civile). La legge ha una competenza “generale” ed è “astratta”, ovvero si applica ad una molteplicità indefinita (ovvero non determinabile a priori) di individui e di rapporti che sono inquadrabili nei casi dalla stessa predeterminati. Un limite posto alla competenza generale della legge è quello temporale: essa infatti non dispone che per l’avvenire, è irretroattiva (art. 11 delle preleggi al codice Civile). La legge ha carattere d’innovatività dell’ordinamento giuridico in quanto possiede un contenuto cosiddetto precettivo, che consiste nell’attitudine a porre regole di diritto. Per quanto riguarda l’aspetto formale, essa coincide con l’atto votato dal Parlamento (secondo il procedimento ordinario o abbreviato), promulgato dal Presidente della Repubblica e pubblicato, dopo un periodo di vacatio legis pari a 15 giorni (se non è indicato un termine diverso), nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana (termine questo indicato chiaramente dall’art. 10 delle disposizioni preliminari al codice civile - d’ora innanzi: preleggi - ). L’effetto giuridico della pubblicazione su una fonte di cognizione quale la Gazzetta Ufficiale (abbreviato G.U.) è l’insorgere della presunzione di conoscenza della legge da parte di tutti i cittadini: così essa diventa obbligatoria in ogni suo elemento. Il principio anzidetto è contenuto nell’articolo 5 del codice penale, in base al quale opporre la mancata conoscenza della legge, per giustificare la violazione di una norma, non costituisce una valida scusante, a maggior ragione per evitare l’applicazione di una sanzione. La Corte Costituzionale, con la sentenza 364/1988, ha chiarito che può ammettersi come scusante solo l’ignoranza inevitabile, cui il soggetto non può ovviare nemmeno adoperando la massima diligenza, in quanto il testo legislativo presenta notevole oscurità interpretativa oppure è oggetto di interpretazioni contraddittorie e oscillanti. Ai sensi dell’ articolo 15 delle preleggi, la vigenza di una norma pubblicata secondo il procedimento innanzi illustrato può venir meno soltanto per effetto di una norma successiva di uguale valore: si parla in tal caso di abrogazione. L’abrogazione può essere espressa o tacita: la prima ipotesi si verifica quando la legge posteriore enuncia in maniera esplicita di privare di giuridica efficacia la legge anteriore. La seconda ipotesi presenta invece maggiori difficoltà di identificazione, dal momento che c’è abrogazione tacita sia quando si susseguono due disposizioni che recano precetti tra loro incompatibili, sia quando una legge successiva regolamenti l’intera materia già oggetto di normazione precedente. In tali ipotesi la risoluzione dell’antinomia (ovvero del contrasto tra la legge successiva e quella precedente) si risolve attraverso l’applicazione del criterio cronologico, che implica l’abrogazione della legge che precede secondo una valutazione incentrata sulla mera successione temporale (ad esempio, una legge del settembre 2005 abroga una del giugno 2005). 3 Passando all’esame delle fonti aventi forza di legge si delineano due diverse ipotesi: i decreti legge ed i decreti legislativi. Entrambe le fonti citate contemplano l’esercizio di una frazione del potere legislativo in capo all’esecutivo il quale, in base al noto principio della divisione dei poteri, dovrebbe limitarsi all’esecuzione concreta dei precetti normativi già posti dal Parlamento. Una deroga è ammissibile soltanto se si osserva che è la Costituzione stessa ad operare la ripartizione delle competenze legislative tra le Camere e il Governo, risolvendo in radice la questione del bilanciamento degli interessi coinvolti. L’articolo 76 della Costituzione descrive i limiti della potestà di delega del potere legislativo da parte del Parlamento al Governo: le Camere ben possono incaricare l’esecutivo di emanare norme giuridiche aventi forza di legge ( i cosiddetti decreti legislativi o decreti delegati) purchè aventi un oggetto ben definito e circoscritto, previa determinazione di principi e criteri direttivi dalle stesse individuati, entro un limitato periodo di tempo (trascorso il quale la delega perde efficacia). Il procedimento di formazione del decreto legislativo si presenta con un ritmo binario. Come primo adempimento, il Parlamento emana la legge di delega, la quale deve contenere tutti i requisiti, sopra indicati, di cui all’articolo 76 Cost., ovvero l’oggetto determinato, la limitazione temporale e la fissazione dei criteri e principi direttivi cui il Governo deve adeguarsi. In considerazione del limitato spazio temporale di efficacia della delega legislativa, dunque, il Governo ha un termine preciso entro il quale deve emanare il decreto legislativo, decorso il quale il potere di cui è stato investito dal Parlamento si “consuma” ovvero si estingue. Il decreto legge, contemplato dal successivo art. 77 della Cost., consta di un procedimento di formazione per così dire inverso rispetto al decreto legislativo. Questo vuol dire che il dettato costituzionale riconosce la potestà normativa direttamente in capo all’esecutivo che la esercita “in casi straordinari di necessità e urgenza” sotto la propria responsabilità. Contestualmente, il Governo presenta il testo del decreto legge alle Camere, le quali, entro 60 giorni dalla sua emanazione, lo convertono in legge, eventualmente apportando delle modifiche. Qualora, nel tempo specificato, non intervenga la legge di conversione, il decreto legge perde efficacia scomparendo, se così si può dire, dal mondo giuridico. Il requisito della straordinaria necessità ed urgenza è di fondamentale importanza per la legittimità dell’esercizio del potere di decretazione da parte dell’esecutivo, il quale non può emanare decreti legge su qualsiasi materia esso ritenga opportuna, a prescindere dal verificarsi della situazione di necessità e d’urgenza richiesta dalla Costituzione 2. Viene considerato di rango equiordinato alla legge ordinaria il referendum abrogativo di quest’ultima: più precisamente, appare corretto ritenere che al decreto del Presidente della 2 La Corte Costituzionale è competente infatti a sindacare la conformità del decreto legge emanato dal Governo in spregio al requisito di cui all’art. 77 della Costituzione: argomenta dalla sentenza 29 del 1995. 4 Repubblica che, recependo l’esito della consultazione referendaria, dichiari l’avvenuta abrogazione di una o più norme, vada riconosciuta natura di atto con forza di legge (art. 75 Cost.). La consuetudine o uso è considerata all’interno della previsione di cui all’articolo 1 delle preleggi fonte - fatto. L’essere prevista in virtù di una norma di rango legislativo (quale è, appunto, quella contenuta nel codice civile e nelle disposizioni ad esso preliminari), implica logicamente che la consuetudine sia considerata comunque subordinata alla legge. Il successivo articolo 8 delle preleggi, infatti, prevede che nelle materie regolate da legge o dai regolamenti (cui si farà cenno più avanti) gli usi hanno efficacia soltanto se richiamati da questi. Per quanto concerne gli elementi costitutivi dell’uso normativo, essi sono due: uno di natura oggettiva, l’altro soggettiva. L’elemento oggettivo consiste nella ripetizione prolungata nel tempo ed omogenea di un determinato comportamento giuridicamente rilevante (cosiddetto usus), mentre quello soggettivo prende in considerazione l’atteggiamento interiore dei soggetti che pongono in essere, in maniera capillare ed obiettivamente percepibile, quel comportamento: essi agiscono seguendo la convinzione di obbedire ad un precetto di legge, vincolante (cosiddetto opinio). Si ha consuetudine quando si osserva la compresenza dei citati elementi. Per quanto riguarda le fonti secondarie, qui indicate in maniera sommaria, esse si identificano principalmente nei regolamenti, fonti sottordinate alla legge, rispetto alla quale non possono contenere previsioni in contrasto, ricomprese nella potestà normativa del Governo e degli enti regionali. L’articolo 17 della legge 400/1988 elenca diversi tipi di regolamenti, i quali sono adottati mediante decreto del Presidente della Repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei ministri, sentito il parere del Consiglio di Stato che deve pronunziarsi entro novanta giorni dalla richiesta. Essi possono disciplinare: a. l'esecuzione delle leggi e dei decreti legislativi nonché dei regolamenti comunitari ; b. l'attuazione e l'integrazione delle leggi e dei decreti legislativi recanti norme di principio, esclusi quelli relativi a materie riservate alla competenza regionale; c. le materie in cui manchi la disciplina da parte di leggi o di atti aventi forza di legge, sempre che non si tratti di materie comunque riservate alla legge; d. l'organizzazione ed il funzionamento delle amministrazioni pubbliche secondo le disposizioni dettate dalla legge; Vi sono poi, tra le fonti secondarie, gli statuti (come quelli adottati per regolare il funzionamento e la struttura degli enti) e le ordinanze. L’attività normativa di natura secondaria, rientrante nelle competenze assegnate all’esecutivo, va distinta da quella strettamente amministrativa, che pure prevede l’emanazione di norme, perché queste ultime, a differenza di quelle di rango legislativo, non sono generali ed estratte, né 5 innovative dell’ordinamento giuridico, bensì sono particolari e concrete. La caratteristica da ultimo nominata implica che il precetto, particolare e concreto, si applichi ad un insieme già determinato a priori di soggetti e di rapporti giuridici, come può essere il precetto contenuto in una sentenza od in un contratto, che esprime un obbligo di agire specifico soltanto in capo alle parti e non alla generalità dei soggetti che potrebbero astrattamente trovarsi nella medesima fattispecie. Una distinzione tra contenuto normativo e contenuto provvedimentale si può rinvenire all’interno del piano regolatore generale. Esso è il principale strumento di pianificazione urbanistica che fissa le direttive per l’assetto e lo sviluppo dell’intero territorio comunale anche attraverso l’imposizione di quei limiti che, ai sensi dell’art. 42 della Cost., assicurano la funzione sociale della proprietà privata. Contenuto tipico del piano regolatore generale è l’individuazione delle zone ove sorgeranno opere di pubblico interesse e la previsione dei vincoli preordinati all’esproprio. Per quanto riguarda la funzione programmatica e di pianificazione dell’intero territorio comunale, alcuni interpreti hanno avanzato l’ipotesi che la natura del prg sia regolamentare, ovvero sia definita dalla previsione di norme generali ed astratte suscettibili di un’applicazione indefinita ai casi concreti e quindi richiedente l’adozione di strumenti urbanistici di attuazione. Ciò avviene tipicamente nel caso dell’espropriazione, se si considera che il prg contiene soltanto la previsione dei vincoli, mentre la dichiarazione di pubblica utilità, con cui inizia la procedura di esproprio vera e propria e si evita la decadenza del vincolo stesso, si ha con l’emanazione dei piani attuativi (art. 12 T.U. espropriazione). Altri, al contrario, ritengono che il prg sia un atto amministrativo generale dal momento che contiene comunque prescrizioni immediatamente efficaci ( come i vincoli di inedificabilità assoluta) e si rivolga ad un insieme di soggetti determinabile, anche se a posteriori (ossia con l’emanazione degli strumenti attuativi). 3.2 Le fonti comunitarie L’adesione dell’Italia al trattato istitutivo della Comunità Europea, siglato a Roma il 25 marzo 1957 ed entrato in vigore nel gennaio dell’anno successivo, ha determinato l’ingresso del nostro paese all’interno di una organizzazione internazionale cui, progressivamente, sono state cedute porzioni di sovranità 3 (in conformità con l’articolo 11 della Costituzione repubblicana), in vista del raggiungimento di importanti obiettivi, quali l’integrazione tra gli Stati europei, la creazione di un mercato unico e la realizzazione del cosiddetto welfare europeo, ovvero la omogeneizzazione delle condizioni di benessere all’interno dell’Europa unita. 3 Si veda, a tale proposito, la sentenza della Corte di Giustizia delle Comunità europee n. 26/62, Van Gend en Loos c. Amministrazione olandese delle imposte. 6 Nell’ordinamento comunitario si individuano due livelli di normazione: quella primaria, che coincide con i trattati che sono stati firmati e ratificati dall’Italia a partire dal 1957 fino ad oggi, e quella secondaria, che si identifica nei regolamenti europei, nelle direttive e nelle decisioni. Stante la natura integrata dei due ordinamenti, quello europeo e quello italiano, è fuor di ogni dubbio che il legislatore nazionale trova un limite nei precetti comunitari, rispetto ai quali non può dettare norme che si trovino in contrasto con essi. In caso contrario, l’uniformità del diritto europeo verrebbe seriamente compromessa e si porrebbe un notevole freno al processo di integrazione. Come giustamente osserva la nostra Corte Costituzionale, infatti [..] “ il diritto nato dal trattato non potrebbe, in ragione appunto della sua specifica natura, trovare un limite in qualsiasi provvedimento interno senza perdere il proprio carattere comunitario e senza che ne risultasse scosso il fondamento giuridico della stessa Comunità [..]”4. In virtù della costante giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea, i rapporti tra le fonti interne e quelle europee vanno ricostruiti alla luce del consolidato principio di preminenza del diritto comunitario e della diretta applicabilità di quest’ultimo. In termini pratici ciò vuol dire che una norma europea prevale su una norma interna che contenga un precetto incompatibile; di conseguenza quest’ultima non può trovare applicazione nel caso concreto. Il Trattato istitutivo della Comunità europea contiene sia norme di produzione che norme sulla produzione, pertanto all’articolo 249 prevede, in capo agli organi europei, il potere di emanare norme finalizzate al raggiungimento degli obiettivi sanciti dal Trattato. L’articolo citato regola quello che è definito comunemente “diritto comunitario derivato”, che comprende sia norme vincolanti che non vincolanti. E’ opportuno soffermarsi soltanto sulle norme che vincolano gli Stati membri e che sono contenute nei regolamenti, nelle direttive e nelle decisioni. I regolamenti hanno portata generale, sono obbligatori in tutti i loro elementi e quindi direttamente applicabili. La portata generale è un predicato dell’astrattezza delle norme giuridiche dei regolamenti che sono rivolte a categorie di destinatari non determinabili a priori e che si identificano sia negli Stati membri che nei singoli cittadini, persone fisiche o giuridiche, senza distinzione alcuna. Questa è la caratteristica che consente di distinguere i regolamenti dalle direttive, come si vedrà in seguito. La obbligatorietà e la diretta applicabilità significa che le norme contenute nei regolamenti disciplinano la materia oggetto dello stesso in maniera immediata, senza necessità che i singoli Stati emanino ulteriori norme d’esecuzione e d’attuazione. I regolamenti contengono norme self 4 Corte Costituzionale, sentenza n. 6/64, Costa contro Enel. 7 executing, immediatamente efficaci, che non abbisognano di un atto formale di ricezione da parte degli Stati membri. Le direttive, al contrario, contengono un preciso obbligo solo per gli Stati membri, considerati quali unici destinatari, che ha come contenuto la necessità di attuare nel dettaglio, attraverso la predisposizione di idonee misure interne, sia di natura normativa che amministrativa, il risultato voluto dalle autorità comunitarie. L’efficacia è di natura mediata, nel senso che generalmente i soggetti giuridici non si vedono attribuite posizioni giuridicamente rilevanti direttamente dalle direttive europee, bensì devono attendere l’intervento normativo statale che attui i precetti contenuti nelle stesse in maniera precisa e puntuale. Le decisioni hanno le stesse caratteristiche dei regolamenti, ovvero sono immediatamente obbligatorie e self executing, tuttavia differiscono sotto l’aspetto soggettivo: non si rivolgono alla collettività considerata in toto ma hanno destinatari predeterminati e specifici. Tali destinatari possono essere sia singoli soggetti che Stati membri che vengono a conoscenza della sua esistenza mediante la notifica (e non la pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea, come accade per i regolamenti, che entrano ufficialmente in vigore 20 giorni dopo la pubblicazione). 3.3 Le fonti regionali Un discorso a parte meritano le fonti regionali dopo che l’introduzione dell’articolo 117 della Costituzione, novellato dalla L. Cost. 3/2001, ha sancito una netta ripartizione di competenze tra Stato e Regioni che esulano dall’applicazione rigorosa del principio gerarchico. Ciò significa che una legge regionale è soggetta soltanto al rispetto dei limiti costituzionali, mentre non è subordinata alla legge statale, rispetto alla quale occupa una diversa sfera di competenza, predeterminata dall’elenco dell’articolo 117. Il secondo comma dell’articolo citato individua le ipotesi di potestà legislativa esclusiva dello Stato, su quelle materie relativamente alle quali si ritiene sussista la necessità di porre norme uniformi a tutela di interessi unitari dell’ordinamento, come possono essere i rapporti internazionali, la materia tributaria e di bilancio e così via. Viceversa, in relazione alle altre materie elencate dal terzo comma, sussiste una potestà legislativa concorrente, pertanto allo Stato compete la determinazione dei principi cui la Regione, nell’esercizio di potestà legislativa concorrente, deve necessariamente attenersi. Rispetto a queste ultime materie, quindi, la legge regionale trova un limite proprio nella legge statale, che funge da cornice entro la quale la Regione deve attenersi nell’esercizio della potestà legislativa riconosciuta dalla Costituzione. 8 Vi è poi una previsione residuale all’interno dell’art. 117, ove si dispone che, in tutte le materie non comprese negli elenchi del comma 2 e 3, la potestà legislativa spetta alle Regioni. La tecnica di redazione dell’articolo in commento rispecchia la genesi e lo sviluppo del cosiddetto federalismo (inteso in senso atecnico) italiano. Mentre negli stati federali in senso stretto lo Stato nasce da una convenzione tra i vari stati che concorrono a formarlo, cedendo frazioni della propria sovranità all’organo centrale, in Italia, con la riforma del 2001, è avvenuto l’esatto contrario, e ciò si evince dalla struttura dell’articolo 117, nella vecchia e nella nuova versione, dal momento che è lo Stato centrale a devolvere funzioni legislative in determinate materie alle Regioni. Una delle principali novità della riforma costituzionale è stata quella di riconoscere in capo alle Regioni la potestà di stipulare accordi con Stati esteri, nonché di assumere intese con enti territoriali di altri Stati. Ciò deve avvenire in conformità con le leggi dello Stato italiano e degli impegni da questo presi attraverso i trattati internazionali. In sostanza ciò significa che una Regione non può concludere un accordo con uno Stato terzo che contraddica quanto stabilito nel Trattato Europeo, negando o restringendo, ad esempio, il diritto alla libera circolazione dei lavoratori in questo riconosciuto. L’elencazione delle materie di competenza legislativa esclusiva e concorrente contenuta nell’art. 117, da un punto di vista meramente lessicale, reca tuttavia notevoli ambiguità, dal momento che alcune materia di competenza esclusiva dello Stato sono suscettibili di produrre incursioni, una volta che la legge statale viene approvata, nella competenza regionale, sollevando conflitti di delicata risolubilità. Il compito di definire con esattezza i limiti delle competenze statali, da un lato, e regionali, dall’altro, spetta alla Corte Costituzionale. Dal punto di vista formale, la legge regionale ha un procedimento di formazione che ricalca quello delle leggi statali, ovvero prevede le varie fasi della iniziativa, della deliberazione in capo all’assemblea legislativa (il Consiglio Regionale), la promulgazione (da parte del Presidente della Regione) e, infine, la pubblicazione sull’apposita fonte di cognizione (Bollettino Ufficiale della Regione). 9