Zygmunt Bauman

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Zygmunt Bauman
Zygmunt Bauman:
Sono molto grato a Letizia Leviti per avere impostato la scena per la nostra riflessione. Stiamo creando l’atmosfera giusta in cui condurre la riflessione. Sono solo un poco impacciato,
o meglio sono molto a mio agio, perché da tempo guardo al lavoro di Greenaccord pieno di
ammirazione e rispetto per quello che fanno, e il problema di cui si è parlato sul confronto è
che io dubito di poter aggiungere nulla di cui non si sappia già. Probabilmente saranno solo
un paio di commenti marginali al loro lavoro per il quale auguro con tutto il cuore enorme
successo semplicemente per il fatto che loro hanno messo a confronto, hanno provato a trattare, cercando di fare i conti con quello che probabilmente è attualmente la vitale questione
dell’umanità.
C’è la questione circa il provare un po’ di umanità qua e là, che è la questione dell’essere o
non essere. Cercherò di giustificare e spiegare la mia opinione su questo tema. Questo infatti
è l’argomento più importante del nostro tempo poiché indica che la situazione in cui ci troviamo ora può essere brevemente descritta come la modernità che è giunta a confrontarsi
con i propri limiti. Questa è un’affermazione drammatica se ci pensiamo perché viviamo all’ombra della vita moderna, di moderne visioni e mentalità, moderne consuetudini, dagli ultimi 400 o 500 anni. È un tempo molto lungo per adattarsi, per assumere scelte umane per il
verdetto della natura, e considerare la vita moderna non solo come la normalità ma anche
come l’unica pensabile.
Oggi siamo divisi tra ottimisti e pessimisti ma la differenza tra i due è triviale e non troppo
drastica, perché gli ottimisti pensano che questo mondo in cui viviamo ora è il migliore possibile mentre i pessimisti sospettano che gli ottimisti possano avere ragione. Entrambi concordano su una cosa: sul fatto che c’è molto poca speranza. La speranza è in crisi.
Cosa ha significato la modernità.
La modernità è la combinazione di tre elementi: una è l’investimento della fiducia nella
scienza e nelle tecnologie. Ci sono problemi su cui ci confrontiamo e che conducono verso
un modo perfetto di comunione umana, una perfetta società e, come ha indicato Leon Battista Alberti, la perfezione è uno stato in cui ogni ulteriore cambiamento può essere solo il
cambiamento del mondo, ossia un momento in cui ci fermiamo poiché tutti i nostri bisogni
sono soddisfatti, siamo felici e non c’è necessità di cercare ulteriori cambiamenti. Lo sforzo
di modernizzazione è limitato nel tempo. C’è molto sudore, a volte anche del sangue che si
è dovuto versare, ma alla fine tutto è andato a buon fine.
Tale consuetudine di vita moderna ebbe inizio nel XVI/XVII secolo ed è giunto ad una consapevole abitudine nel XVIII secolo, e particolarmente dopo il disastro di Lisbona. Se vi ricordate dalle lezioni di storia, nel 1755 Lisbona venne distrutta da un triplo disastro: innanzitutto un terremoto, poi del fuoco che distrusse tutto ciò che rimase dopo il terremoto, infine qualcosa che oggi potremmo chiamare uno tsunami, le onde marine che coprirono tutto
ciò che vi era rimasto. Lisbona al tempo era uno dei più importanti centri di scambio commerciale, politica e cultura dell’Europa, e il disastro fu preso molto seriamente da tutti i più
seri signori del tempo. Ci fu una lunga discussione che durò per molto tempo tra Roussou e
Voltaire su quali conclusioni dedurre dall’evento, e le conclusioni furono che non si può
confidare nella natura ma bisogna conquistarla, vincerla, fare meglio di lei perché essa è cieca e indifferente verso i bisogni umani e, per dirla in breve con un’affermazione compatta, il
mondo va preso al “humangement” (human management, gestione umana), e questo può essere fatto attraverso la ragione che né la storia né la natura sono riusciti a raggiungere.
Nel XIX secolo, lo stile di vita moderno ha acquisito questo tipo di fiducia in se stesso o, se
volete, un’arroganza che ha permesso di diffondere il suo vangelo al resto del pianeta.
Il XX secolo ha portato alla globalizzazione dello stile di vita moderno.
Il XXI secolo è il secolo in cui dobbiamo fare i conti con le conseguenze di tutto lo svilup po.
Come ho detto, la modernità significa 3 elementi.
Un elemento è la fiducia messa nell’eccezionale e miracolosa abilità della scienza e della
tecnologia, la sua crescente ed intrinseca natura progressiva.
Il secondo elemento è credere nell’agenzia che può fare qualsiasi cosa, lo Stato, che è monopolio la legittima unione e lo Stato Nazione che combina in sé potere, che è l’abilità a fare le
cose, e politica che è l’abilità di decidere quali cose debbano essere realizzate e quali si debbano rifiutare.
Il terzo elemento è l’economia capitalistica globale: un più possibile globale e sregolato
scambio commerciale di merci, scambio di conoscenza e informazione.
Ora questi tre elementi che si combinano insieme nello stile di vita moderno, sono oggi sotto una forte critica. Essi oggi non funzionano più molto bene, non riescono più a realizzare
le promesse fatte e soprattutto quello che si dubita ora è che in esse veramente si trovi la
strada per la salvezza.
Stiamo confrontando due questioni che si combinano nell’atmosfera dell’ “inter-regnum”.
Ho preso in prestito questo termine dal grande filosofo italiano Antonio Gramsci che ha sua
volta lo riprende da Tito Livio che ha scritto l’Urbe Condita, la prima leggendaria storia di
Roma. Secondo lui il primo momento in cui si è manifestato l’Inter-regnum fu dopo la morte del primo leggendario re di Roma, Romolo.
Romolo ha governato su Roma per 37 anni e, vi ricordo, che 37 anni era l'età media di vita
dei romani a quel tempo, il che significa che quando morì Romolo c’erano pochissime persone che possono ricordare il mondo prima di Romolo. In quel momento ci fu lo shock dell’Inter-regno. Improvvisamente la vecchia autorevole fonte di saggezza, istruzione, comando che era Romolo, scomparve e non c’era più alcuna persona similmente importante e degna di fiducia come lui.
Antonio Gramsci ha dato al termine Inter-regnum il nuovo significato moderno, per il quale
esso non è più l’interruzione tra la vecchia volontà che non c’è più e una nuova che non è
ancora emersa. Le vecchie abitudini, le consuetudini che eravamo soliti applicare con buoni
effetti non funzionano più. Mentre i nuovi stili di vita che possono essere più efficienti sono
ancora nella fase di progettazione, nella tavolozza, sotto sperimentazione, e non si sa ancora
quali siano affidabili e quali debbano essere selezionate.
Questo è lo stato dell’Inter-regnum, e ci troviamo in questo stato quando la modernità si
confronta con i propri limiti. O possiamo porlo in un’altra maniera: in questo momento stiamo attraversando una crisi di agenzia. La grande domanda non è più quella di quando ero
giovane, ossia: Cosa deve essere fatto? Questa è una domanda molto complicata ma è diventa ingenuamente facile se paragonata con la seconda domanda che non è mai stata posta
quando ero giovane (tutti erano convinti di avere già una risposta). La seconda domanda è:
chi lo farà?
Come vi ho detto precedentemente, qualunque fossero le proprie convinzioni politiche, che
fossero di destra o di sinistra, a metà del secolo una cosa era messa in discussione: se sappiamo cosa fare e abbiamo la possibilità di compierlo in qualche maniera, allora non interessa più chi sia a compierlo. Cosa accadde nella seconda parte del XX secolo e continua ad
accadere fino ad oggi è l'evaporazione del potere dello Stato-Nazione che è stato collocato
in una terra di nessuno, in una sorta di wild west, di ciber spazio, che Manuel Castells chiama “lo spazio dei flussi”. Questo va al di là di potere di ogni esistente entità e agenzia politica. Abbiamo dei poteri che decidono con quale tipo di vita dobbiamo confrontarci, prospet-
tarci, ma che è emancipata dagli strumenti di controllo politico che i nostri padri, tra il XIX
e il XX secolo, hanno creato nella forma di sistemi politici democratici, rappresentazione
della volontà popolare, e il monopolio dei mezzi di legittima coesione.
D’altronde, abbiamo istituzioni politiche tradizionali che abbiamo ereditato dai vecchi sistemi, abbiamo lo Stato Nazione, abbiamo il Parlamento, la Corte Suprema che sono tutti confinati territorialmente, che significa che essi possono prendersi carico del territorio, o almeno tentare di farlo, territorio che è circondato da confini posti dallo stato Nazione, mentre i
problemi che si trova ad affrontare non sono solo territoriali bensì extra-territoriali, e sono
nelle mani di poteri che ignorano e non tengono conto dei costumi locali, delle preferenze
locali, dei valori locali, ecc. Quindi da una parte vi è l’emancipazione del potere dal controllo politico, dall’altra vi è una politica che soffre per la costante mancanza di potere. Per que sto la domanda “chi lo farà?” ha una risposta molto difficile.
Dov’è l’agenzia capace di portare il cambiamento? Vorrei citare John Maxwell Coetzee, un
formidabile filosofo e un eccellente novellista sud africano così come anche un infaticabile
cronista delle scene mondiali. Concordo perfettamente con lui, e spero che concorderete anche voi, quando dice che: “il nostro mondo deve essere diviso tra entità economiche competitive perché questo è quanto la sua natura richiede. Economisti competitivi esistono perché
noi abbiamo deciso di dargli forma. La competizione è una sublime sostituzione della guerra. La guerra è in nessun modo inevitabile. Se volete la guerra, possiamo scegliere la guerra,
ma se volete la pace possiamo allora equamente scegliere la pace. Se desideriamo la rivalità
possiamo scegliere la rivalità, ma possiamo anche scegliere un’amichevole cooperazione”.
Fino a che punto la situazione è nelle nostre mani? Ancora una domanda: chi metterà la carne su queste ossa? Questa è una domanda importante perché il divorzio tra potere e politica
porta le sue conseguenze. Lo Stato Nazione è semplicemente incapace di ergersi al livello
dei problemi con cui si confronta. Recentemente ho fatto un incubo ossia ero stato chiamato
a far parte del Governo, ed era un incubo per me essere un Ministro perché i governi contemporanei sono sottoposti ad un doppio legame: da una parte sono pressati perché essi devono venire rieletti, in poche settimane ci sono le rielezioni, pertanto essi devono ascoltare
ciò che la Nazione vuole e obbliga loro di promettere e devono far di tutto per mantenere le
promesse fatte; dall’altra parte, la gamma delle opzioni dipende dalle decisioni delle forze
extra sulle quali loro hanno pochissima influenza. Un doppio legame: da una parte devono
prendere delle decisioni che devono essere messe in pratica per accontentare i cittadini, dall’altra parte però devono rimanere in un’ attesa nervosa fino a quando le borse riaprono, e
solo allora sapranno se è nelle loro possibilità o meno fare quello che hanno promesso.
Pertanto, è molto improbabile che le istituzioni politiche attuali, così come sono ora, a meno
che non vengano drasticamente riformate, facciano ciò che hanno affermato di poter fare.
Dal momento che c’è stato un deficit nel potere degli Stati, per un lungo periodo questi
hanno dovuto rinunciare ad un certo numero di funzioni, le quali si credeva ampiamente che
era loro compito assolvere. Alcune di queste funzioni che 50 e 60 anni fa erano considerate
un diritto e un obbligo dello Stato, sono state trasferite ai mercati che non sono
dichiaratamente istituzioni politiche, e non vengono elette da elettori e non devono seguire i
desideri dell’elettorato.
Le altre funzioni sono state affidate a quello che Anthony Giddens chiamò la dimensione
politica della vita, un’area in cui io, tu, tutti quanti si aspetta che siano il proprio
Parlamento, il proprio Governo, e la propria Corte Suprema, ricercando soluzioni
individuali a problemi prodotti a livello globale.
Adesso, chiaramente questa politica individuale soffre dell’insufficienza di potere. Possiede
delle risorse, delle abilità che possono affrontare il compito, che possono affrontare la
questione avendo alle loro spalle forze globali. Pertanto, considerate queste due parti, questi
due spazi in cui le politiche contemporanee cercano di giocarsi piani politici, la salvezza
difficilmente ci giungerà da tutto questo. Ma cosa c’è frammezzo?
Da una parte, la situazione politica stabilitasi e dall’altra la sfera della politica della vita. Il
problema è che quest’area di mezzo viene progressivamente lasciata libera. La crisi
dell’agenzia è raddoppiata, non per casualità ma per necessità, a causa dell’erosione
dell’area di mezzo. Tra le altre cose oggi ci troviamo ad affrontare la crisi della classe
media. La crisi di oggi colpisce la classe media molto più che le altre fasce della società.
Una recente idea, che penso sia molto ingegnosa, sostiene che il problema che ci troviamo
oggi ad affrontare nella nostra parte del globo, non sia tanto quello del vecchio proletariato
quanto quello del precariato. L’idea proviene dal termine francese precaritè, cioè incertezza,
impotenza, la mancanza di consapevolezza di ciò che il futuro porterà e l’umiliante
sensazione generata dalla mancanza di un controllo sulla propria vita. Se ti senti ignorante,
impotente allora è molto facile che sopraggiunga l’umiliazione, come del sale spruzzato su
una ferita già aperta. Un’ampia e crescente classe media, come viene chiamata, si unisce al
vecchio proletariato, a quella parte della popolazione afflitta da un'incertezza molto
profonda.
Adesso, questo è il contenuto del nostro arsenale, delle forze che sono disponibili adesso in
questo momento. Questo è drastico, drammatico, tragico, perché, al momento, abbiamo
almeno due fenomeni che si stanno sviluppando, i quali sono terribilmente minacciosi per il
futuro dell’umanità. Mi limiterò a nominarli, in quanto non ho tempo per parlarne
approfonditamente. Il primo è una nuova forma di disuguaglianza, che sta crescendo in tutto
il mondo. Nuova forma perché la piramide che ci ha accompagnato per molti secoli è
sempre più fine in punta. E’ una situazione in cui i 40 individui più ricchi al mondo fanno
insieme una fortuna che è pari ai beni dell’intera Francia, che è la quinta potenza economica
mondiale. La distanza che c’è tra la punta della piramide e la sua base sta irrefrenabilmente
crescendo.
Farò solo un esempio: nel 1960, non molto tempo fa, prima che la grande ondata del
neoliberalismo prendesse piede, il capo esecutivo delle grandi compagnie americane
guadagnava 12 volte di più di uno stipendio medio di un operaio. Nel 1974 guadagnava 35
volte di più. Nel 1980 42 volte di più. Tre anni dopo era già di 84 volte maggiore. Negli anni
’90 secondo il Business Week il valore era di 135 volte maggiore e nel 1999 aveva
raggiunto le 400 volte. Nel 2000 saltò a 531 volte superiore dello stipendio medio di un
lavoratore della classe media. Fu così che si sviluppo, e da lì, dal 2007, le cose peggiorarono
ulteriormente. Secondo statistiche successive, in America la crescita del valore del prodotto
nazionale, dopo il collasso dei crediti e dopo la crisi del 2007, era per il 91% nelle mani
dell'1% dei più ricchi d’America. Il resto del 99% della popolazione americana doveva
dividersi il restante 9% del guadagno.
Questa è la situazione per quanto concerne l' ineguaglianza. Un’altra questione molto
importante con cui ci si deve confrontare e di cui Greenaccord è giustamente molto
preoccupata, non è solo la questione della modernità che sta vivendo i suoi limiti, ma anche
quella che vede il pianeta raggiungere i suoi limiti. Ci sono due parole che mi vengono in
mente. Capacità di ripresa e sostenibilità. La prima fa riferimento alla capacità delle parti
del pianeta di ricostituirsi, di ricrearsi attraverso processi naturali dopo essere stati sfruttati.
La seconda fa riferimento ad una grande questione: il pianeta è in grado di sopravvivere al
nostro modo di vivere?
Circa il modo di vivere oggi, quello che accade anche ora che siamo seduti qui e torniamo a
casa consumando un pianeta e mezzo, che in poche parole significa che stiamo consumando
più del 50% della natura che il nostro pianeta possa sostenere. Esistono già dei calcoli, e
considero che insieme all’aumento della popolazione mondiale a 9 miliardi di persone che ci
si aspetta per la metà di questo secolo secondo diversi demografi, con questo avremmo
bisogno di 5 pianeti per poter mantenere l’attuale stile di vita basato sull’aumento del
consumo come unico modo per raggiungere la felicità e come unico modo per liberarci dei
conflitti sociali e politici.
Bene, su questi punti dobbiamo interrogarci. Vi ho detto che non ho molto da aggiungere su
quanto Greenaccord già conosce, e che probabilmente concorderà con me che, detto tra noi,
non conosciamo abbastanza quanto dovremmo e avremmo bisogno di conoscere.
Poiché parlo nella sessione dedicata al “Futuro dell’umanità”, ci sono due domande che
bisogna porre: se l’umanità, l’umanesimo abbia o meno un futuro, e anche se il futuro avrà o
meno un umanesimo, una umanità.
Per poter rispondere a queste domande vorrei citare il più grande sociologo vivente, Richard
Sennet, che recentemente ha proposto una formula per un nuovo umanesimo, e che, se
parliamo di nuovo umanesimo, dobbiamo richiamare. Partendo dal fatto che viviamo in un
pianeta disorganizzato e un pianeta che è anche sottoposto ad un rapido e molto diffuso
processo di diaspora, vivere queste differenze è diventato il nostro pane quotidiano, non più
inusuale, transitorio, temporaneamente irritante, bensì un normale modo di vivere, quale
forma deve prendere un nuovo umanesimo? Non aspettiamoci miracoli, ma la sola cosa che
Richard Sennet può offrire è una strategia e non una mappa stradale, che è il termine che va
di moda oggi, schematizzare passo per passo come raggiungere l’obiettivo, lui non offre una
mappa stradale bensì una strategia e a proposito nessuna mappa stradale proposta dalla
nostra politica ha mai portato qualcuno da nessuna parte. Come affrontare un dialogo che è,
senza esitazione, la condizione necessaria per trovare una soluzione. Senza il dialogo non
possiamo fare nulla. La sola salvezza è il dialogo. Ma come condurre il dialogo? Il dialogo
deve essere aperto e informale. Cosa significa informale? Significa che non ha alcun codice
normativo preparato prima. Si deve lasciare che le regole della nostra mutua cooperazione e
interazione vengano create e stabilite nel corso stesso dell’interazione. Che significa aperto?
Significa che tutti noi possiamo entrare in questo dialogo attraverso due strade nello stesso
tempo, insegnando e imparando. Non crediamo, come molti di noi pensano durante i
seminari universitari, che lo scopo della discussione sia provare che io ho ragione e tu hai
torto. No, dobbiamo essere preparati alla possibilità che il dialogo porti ad esporre, svelare e
dimostrare che noi siamo nel torto e che qualcun altro abbia trovato soluzioni migliori che
credevamo di avere noi. Infine, sarebbe meglio sostituire la parola dialogo con la parola
cooperazione, perché a differenza del termine “dialogo” ed in particolare “dialoghi”, che
sono utilizzati nelle conferenze, esse non sono dei giochi a somma zero, i termini
“interazione” e in particolare “cooperazione” costituiscono un gioco in cui non ci sono né
vincitori né vinti. Dalla cooperazione e il suo gioco ciascuno viene fuori arricchito
dall’esperienza che ogni partecipante porta nel dialogo. Questo è la modalità su come
procedere, e ciò che rimane è sperare che procedendo per questa strada porti alla risoluzione
del processo che altrimenti non possiamo sperare di impedire che accada.
DOMANDE:
1) Dal momento che secondo me l'evento di ieri ha scombussolato un po tutti e visto che
nei giornali si discute oggi di un gesto di coraggio o un gesto di debolezza di una istituzione
importante che deve guidare una società in difficoltà, volevo sapere come lo interpretava
Bauman questo gesto se veramente è un gesto di un leader che capisce che è ora di
cambiare o è l'assenza di un leader che capisce che la società è molto complessa.
Bauman: Non sono in grado ovviamente di entrare nella testa e nel cuore di Benedetto XVI,
posso solo arrischiarmi a pensare all'impatto che la sua decisione avrà sulla gente. Guardare
alla questione di Dio e dell'uomo, la relazione virtuale e come essa si riflette nella realtà
fattuale.
Posso solo ripetere quello che ho detto poco fa ad un giornalista di Avvenire che mi ha fatto
proprio la stessa domanda.
Penso che quanto ha fatto Benedetto XVI abbia portato il papato ad un livello umano
confessando pubblicamente che un uomo, anche investito del ruolo di una sorta di apostolo
o messaggero plenipotenziario di Dio, incontra limiti alla sua capacità. È la prima volta, o
almeno negli ultimi 700 anni, che accade che un un uomo nel ruolo di erede di San Pietro e
guida della grande, enorme, largamente estesa chiesa di fedeli, presenti la questione circa
l'uomo in questo ruolo e il ruolo stesso: sono identici o sono due cose diverse?
Ci sono state una grande onestà e un gran coraggio nel dire: mi sono state affidate le più
sacre funzioni immaginabili ma sono ancora un uomo e sebbene stia cercando di svolgere il
ruolo al massimo della mia capacità, la mia capacità è umana che vuol dire una capacità
limitata.
Credo che Benedetto XVI sia arrivato alla conclusione che tale affermazione, che viene
dimenticata e che ha cambiato per sempre la situazione, dovesse essere fatta.
Ho notato delle influenze dovute ai molti anni che Benedetto XVI passò in compagnia di
Giovanni Paolo II, nel confrontarsi con il conflitto tra due cose: il ruolo che Giovanni Paolo
II (come lo stesso Benedetto XVI) era chiamato a svolgere e la sua capacità di uomo che
soffre, malato, debole, capace di fare tanto ma non più di quello e penso che guardando alla
tragica performance, Benedetto XVI sia arrivato a questa conclusione e ha deciso di non
ripetere l'esercizio ma tirarne le conclusioni.
2) Rimanendo sul tema di questa domanda lei professore ha parlato di una crisi speranza e
alla fine ha proposto il dialogo paritario come possibile via di soluzione step by
step(problema per problema), non le sembra che questo evento che oggi riempie le prime
pagine di tutti i giornali del mondo rappresenti in un certo senso una resa rispetto a questa
strategia?
Ho parlato di crisi di speranza ma non bisogna estrapolarlo dal contesto dal momento che io
credo che la speranza morirà insieme con l'umanità e che essere uomo significhi avere
speranza.
Il Prof. Masullo ha parlato della differenza tra vita animale e vita umana. Bene, la vera
differenza tra animali e esseri umani, spero che siate d'accordo, è che gli animali non sanno
di essere mortali e che la loro presenza al mondo è temporanea. Sanno quando stanno per
morire, lo sanno meglio di noi, possiedono l'istinto ma a differenza di noi umani non
sentono già dalla culla “un giorno morirai, tutti sono mortali”. Il sillogismo tutti sono
mortali, ogni essere umano è mortale, Socrate è umano dunque anche Socrate è mortale. Se
devi vivere con l'idea che sei mortale questa dunque è una conoscenza che ha bisogno di
inventare cultura. Penso che il fatto che l'umanità abbia inventato la cultura è il prodotto
della consapevolezza che sia mortale e dunque, come dice Bles Pasqual, essa confronta
l'infinità del cosmo, il cielo pieno di stelle con la brevità del suo stare qui e così sorge un
problema.
Penso che tutte le culture, tutte quelle che conosco e di cui ho avuto esperienza diretta e
quelle di cui ho letto nelle relazioni antropologiche e storiche, tutte stavano cercando di
trovare una risposta a questa grande questione tra temporalità ed eternità, tra vita mortale e
permanenza della durata eterna.
Non volevo dire che c'è una crisi della speranza, Mi sono espresso così dunque ora mi
correggo. La speranza è disancorata, non c'è un porto sicuro dove gettare l'ancora. È a causa
delle cose di cui ho parlato, la crisi di agenzia, la nostra mancanza di conoscenza che fa in
modo che la speranza sia disancorata ma c'è anche un'altra causa.
Penso che la modernità solida che ci siamo lasciati dietro, aveva terribili crimini nel suo
passato che possono a malapena essere perdonati o ignorati ma ha anche creato una fonte di
scenari (sto abbandonando la filosofia per andare alla sociologia), scenari in cui la gente
vive quotidianamente, nella vita casalinga, in quella familiare, nel posto di lavoro, nelle
strade, in compagnia di sconosciuti, in compagnia di vicini. Questa fonte di scenari della
modernità solida è stata, qualsiasi altra cosa abbia fatto, anche un enorme fattore di
solidarietà, di comunanza, di gente consapevole che possono trarre vantaggio qunado
uniscono le forze, quando si aggregano, quando marciano fianco a fianco e che c'è da
guadagnare quando si uniscono le forze.
Lei (prof. Masullo) ha parlato della differenza tra italiani e nord europei. Mi piacerebbe
aggiungere ancora una cosa. Il fenomeno che ho descritto nei miei lavori recenti e cioè lo
sgretolarsi delle ossa umane, l'indebolimento di esse, questo fenomeno in Italia è molto
meno avanzato che in Nord Europa. Questa è una vostra grande fortuna perchè in caso di
una terribile crisi economica, una massiccia disoccupazione, ecc.., penso che gli italiani
abbiano una seconda linea di trincea che in nord Europa sta più o meno scomparendo. C'è
(in Italia) una grande famiglia, un insieme familiare caloroso: quando un membro della
famiglia ha successo questo è condiviso da tutta la famiglia, quando un membro subisce una
sconfitta, allora la sventura è condivisa dal resto della famiglia. Questo è il tipo di vita
comunitario o quello che Ivan Linch chiama convivialità.
Questo processo di dissipazione dello sgretolarsi delle ossa umane è andato molto oltre e
parte le aree del Mediterraneo dove è ancora molto forte, è relativamente forte in Paesi
come la Spagna o l'Italia. Generalmente si era soliti difendersi contro di esso, ma al
momento, non sono un profeta quindi non so cosa accadrà dopo, in linea di massima la
tendenza oggi è quella di trasformare il fattore sociale di solidarietà nel fattore sociale di
sospetto reciproco, in competizione. C'è una parola intraducibile in inglese che è one up
manship che significa che tutte le strategie e la saggezza di vita è l'essere in vantaggio
rispetto al tuo compagno in Pirelli, o alla Fiat. Quando si arriva al giro di riduzioni o
esuberi è meglio se sia lui ad andare via e non io. Proprio per questa ragione siamo tutti
sotto la stessa minaccia, sarebbe più saggio se mi curo solo dei miei interessi e non mi
preoccupo di quello che accade a lui.
Il Prof. Alberti ha parlato molto e in maniera giusta della crisi della moralità, moralità come
responsabilità per l'altro, questa è la mia definizione di moralità, lo presa da Emmanuel
Lèvinas, l'essere morali è il vivere per l'altro non solo con l'altro. Lo scenario sociale
presente in cui ci caliamo, consciamente o inconsciamente ma senza dubbio siamo
responsabili di questo, non è accogliente per questa sorta di comportamento. Al contrario, ci
sussurra all'orecchio, a chiunque voglia ascoltarlo, che è imprudente, irragionevole
sacrificare i propri interessi per gli altri e che non c'è niente i guadagnato nell'unire le forze.
Ricorda molto- i più anziani, molto pochi, tra di voi possono ricordare- il periodo del panico
della guerra nucleare. Allora la gente consigliava di comprarsi rifugi familiari per sfuggire le
bombe. Questo è esattamente lo steso tipo di pensiero che ci è offerto per uscire dai
problemi che ci angustiano. Questo è il problema con la speranza. La speranza sta cercando
un posto dove potersi ancorare e questo deve essere un posto proprio ospitabile alla
solidarietà umana.
Prof. Masullo, lei ha detto che le persone innanzitutto hanno bisogno della volontà di
dialogo, certamente è così ma esse hanno volontà di dialogare quando questo ha un senso
per loro, quando c'è una situazione che promuove e non nega il valore della solidarietà
umana. Questo era il mio punto.
Quindi per favore non mi attribuite di aver negato la speranza, non penso di averlo mai
fatto. Penso che è l'idea di ottimismo e pessimismo ad essere sbagliata, perché tale divisione
dell'umanità è incomprensiva, insufficiente.
C'è una terza categoria a parte quella dei pessimisti e gli ottimisti che è quella degli uomini
con la speranza e spero tanto che questa categoria sia indistruttibile qualsiasi cosa possano
portare la conferma o la negazione del pessimista o le prospettive pessimistiche.