Zygmunt Bauman
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Zygmunt Bauman
Zygmunt Bauman: Sono molto grato a Letizia Leviti per avere impostato la scena per la nostra riflessione. Stiamo creando l’atmosfera giusta in cui condurre la riflessione. Sono solo un poco impacciato, o meglio sono molto a mio agio, perché da tempo guardo al lavoro di Greenaccord pieno di ammirazione e rispetto per quello che fanno, e il problema di cui si è parlato sul confronto è che io dubito di poter aggiungere nulla di cui non si sappia già. Probabilmente saranno solo un paio di commenti marginali al loro lavoro per il quale auguro con tutto il cuore enorme successo semplicemente per il fatto che loro hanno messo a confronto, hanno provato a trattare, cercando di fare i conti con quello che probabilmente è attualmente la vitale questione dell’umanità. C’è la questione circa il provare un po’ di umanità qua e là, che è la questione dell’essere o non essere. Cercherò di giustificare e spiegare la mia opinione su questo tema. Questo infatti è l’argomento più importante del nostro tempo poiché indica che la situazione in cui ci troviamo ora può essere brevemente descritta come la modernità che è giunta a confrontarsi con i propri limiti. Questa è un’affermazione drammatica se ci pensiamo perché viviamo all’ombra della vita moderna, di moderne visioni e mentalità, moderne consuetudini, dagli ultimi 400 o 500 anni. È un tempo molto lungo per adattarsi, per assumere scelte umane per il verdetto della natura, e considerare la vita moderna non solo come la normalità ma anche come l’unica pensabile. Oggi siamo divisi tra ottimisti e pessimisti ma la differenza tra i due è triviale e non troppo drastica, perché gli ottimisti pensano che questo mondo in cui viviamo ora è il migliore possibile mentre i pessimisti sospettano che gli ottimisti possano avere ragione. Entrambi concordano su una cosa: sul fatto che c’è molto poca speranza. La speranza è in crisi. Cosa ha significato la modernità. La modernità è la combinazione di tre elementi: una è l’investimento della fiducia nella scienza e nelle tecnologie. Ci sono problemi su cui ci confrontiamo e che conducono verso un modo perfetto di comunione umana, una perfetta società e, come ha indicato Leon Battista Alberti, la perfezione è uno stato in cui ogni ulteriore cambiamento può essere solo il cambiamento del mondo, ossia un momento in cui ci fermiamo poiché tutti i nostri bisogni sono soddisfatti, siamo felici e non c’è necessità di cercare ulteriori cambiamenti. Lo sforzo di modernizzazione è limitato nel tempo. C’è molto sudore, a volte anche del sangue che si è dovuto versare, ma alla fine tutto è andato a buon fine. Tale consuetudine di vita moderna ebbe inizio nel XVI/XVII secolo ed è giunto ad una consapevole abitudine nel XVIII secolo, e particolarmente dopo il disastro di Lisbona. Se vi ricordate dalle lezioni di storia, nel 1755 Lisbona venne distrutta da un triplo disastro: innanzitutto un terremoto, poi del fuoco che distrusse tutto ciò che rimase dopo il terremoto, infine qualcosa che oggi potremmo chiamare uno tsunami, le onde marine che coprirono tutto ciò che vi era rimasto. Lisbona al tempo era uno dei più importanti centri di scambio commerciale, politica e cultura dell’Europa, e il disastro fu preso molto seriamente da tutti i più seri signori del tempo. Ci fu una lunga discussione che durò per molto tempo tra Roussou e Voltaire su quali conclusioni dedurre dall’evento, e le conclusioni furono che non si può confidare nella natura ma bisogna conquistarla, vincerla, fare meglio di lei perché essa è cieca e indifferente verso i bisogni umani e, per dirla in breve con un’affermazione compatta, il mondo va preso al “humangement” (human management, gestione umana), e questo può essere fatto attraverso la ragione che né la storia né la natura sono riusciti a raggiungere. Nel XIX secolo, lo stile di vita moderno ha acquisito questo tipo di fiducia in se stesso o, se volete, un’arroganza che ha permesso di diffondere il suo vangelo al resto del pianeta. Il XX secolo ha portato alla globalizzazione dello stile di vita moderno. Il XXI secolo è il secolo in cui dobbiamo fare i conti con le conseguenze di tutto lo svilup po. Come ho detto, la modernità significa 3 elementi. Un elemento è la fiducia messa nell’eccezionale e miracolosa abilità della scienza e della tecnologia, la sua crescente ed intrinseca natura progressiva. Il secondo elemento è credere nell’agenzia che può fare qualsiasi cosa, lo Stato, che è monopolio la legittima unione e lo Stato Nazione che combina in sé potere, che è l’abilità a fare le cose, e politica che è l’abilità di decidere quali cose debbano essere realizzate e quali si debbano rifiutare. Il terzo elemento è l’economia capitalistica globale: un più possibile globale e sregolato scambio commerciale di merci, scambio di conoscenza e informazione. Ora questi tre elementi che si combinano insieme nello stile di vita moderno, sono oggi sotto una forte critica. Essi oggi non funzionano più molto bene, non riescono più a realizzare le promesse fatte e soprattutto quello che si dubita ora è che in esse veramente si trovi la strada per la salvezza. Stiamo confrontando due questioni che si combinano nell’atmosfera dell’ “inter-regnum”. Ho preso in prestito questo termine dal grande filosofo italiano Antonio Gramsci che ha sua volta lo riprende da Tito Livio che ha scritto l’Urbe Condita, la prima leggendaria storia di Roma. Secondo lui il primo momento in cui si è manifestato l’Inter-regnum fu dopo la morte del primo leggendario re di Roma, Romolo. Romolo ha governato su Roma per 37 anni e, vi ricordo, che 37 anni era l'età media di vita dei romani a quel tempo, il che significa che quando morì Romolo c’erano pochissime persone che possono ricordare il mondo prima di Romolo. In quel momento ci fu lo shock dell’Inter-regno. Improvvisamente la vecchia autorevole fonte di saggezza, istruzione, comando che era Romolo, scomparve e non c’era più alcuna persona similmente importante e degna di fiducia come lui. Antonio Gramsci ha dato al termine Inter-regnum il nuovo significato moderno, per il quale esso non è più l’interruzione tra la vecchia volontà che non c’è più e una nuova che non è ancora emersa. Le vecchie abitudini, le consuetudini che eravamo soliti applicare con buoni effetti non funzionano più. Mentre i nuovi stili di vita che possono essere più efficienti sono ancora nella fase di progettazione, nella tavolozza, sotto sperimentazione, e non si sa ancora quali siano affidabili e quali debbano essere selezionate. Questo è lo stato dell’Inter-regnum, e ci troviamo in questo stato quando la modernità si confronta con i propri limiti. O possiamo porlo in un’altra maniera: in questo momento stiamo attraversando una crisi di agenzia. La grande domanda non è più quella di quando ero giovane, ossia: Cosa deve essere fatto? Questa è una domanda molto complicata ma è diventa ingenuamente facile se paragonata con la seconda domanda che non è mai stata posta quando ero giovane (tutti erano convinti di avere già una risposta). La seconda domanda è: chi lo farà? Come vi ho detto precedentemente, qualunque fossero le proprie convinzioni politiche, che fossero di destra o di sinistra, a metà del secolo una cosa era messa in discussione: se sappiamo cosa fare e abbiamo la possibilità di compierlo in qualche maniera, allora non interessa più chi sia a compierlo. Cosa accadde nella seconda parte del XX secolo e continua ad accadere fino ad oggi è l'evaporazione del potere dello Stato-Nazione che è stato collocato in una terra di nessuno, in una sorta di wild west, di ciber spazio, che Manuel Castells chiama “lo spazio dei flussi”. Questo va al di là di potere di ogni esistente entità e agenzia politica. Abbiamo dei poteri che decidono con quale tipo di vita dobbiamo confrontarci, prospet- tarci, ma che è emancipata dagli strumenti di controllo politico che i nostri padri, tra il XIX e il XX secolo, hanno creato nella forma di sistemi politici democratici, rappresentazione della volontà popolare, e il monopolio dei mezzi di legittima coesione. D’altronde, abbiamo istituzioni politiche tradizionali che abbiamo ereditato dai vecchi sistemi, abbiamo lo Stato Nazione, abbiamo il Parlamento, la Corte Suprema che sono tutti confinati territorialmente, che significa che essi possono prendersi carico del territorio, o almeno tentare di farlo, territorio che è circondato da confini posti dallo stato Nazione, mentre i problemi che si trova ad affrontare non sono solo territoriali bensì extra-territoriali, e sono nelle mani di poteri che ignorano e non tengono conto dei costumi locali, delle preferenze locali, dei valori locali, ecc. Quindi da una parte vi è l’emancipazione del potere dal controllo politico, dall’altra vi è una politica che soffre per la costante mancanza di potere. Per que sto la domanda “chi lo farà?” ha una risposta molto difficile. Dov’è l’agenzia capace di portare il cambiamento? Vorrei citare John Maxwell Coetzee, un formidabile filosofo e un eccellente novellista sud africano così come anche un infaticabile cronista delle scene mondiali. Concordo perfettamente con lui, e spero che concorderete anche voi, quando dice che: “il nostro mondo deve essere diviso tra entità economiche competitive perché questo è quanto la sua natura richiede. Economisti competitivi esistono perché noi abbiamo deciso di dargli forma. La competizione è una sublime sostituzione della guerra. La guerra è in nessun modo inevitabile. Se volete la guerra, possiamo scegliere la guerra, ma se volete la pace possiamo allora equamente scegliere la pace. Se desideriamo la rivalità possiamo scegliere la rivalità, ma possiamo anche scegliere un’amichevole cooperazione”. Fino a che punto la situazione è nelle nostre mani? Ancora una domanda: chi metterà la carne su queste ossa? Questa è una domanda importante perché il divorzio tra potere e politica porta le sue conseguenze. Lo Stato Nazione è semplicemente incapace di ergersi al livello dei problemi con cui si confronta. Recentemente ho fatto un incubo ossia ero stato chiamato a far parte del Governo, ed era un incubo per me essere un Ministro perché i governi contemporanei sono sottoposti ad un doppio legame: da una parte sono pressati perché essi devono venire rieletti, in poche settimane ci sono le rielezioni, pertanto essi devono ascoltare ciò che la Nazione vuole e obbliga loro di promettere e devono far di tutto per mantenere le promesse fatte; dall’altra parte, la gamma delle opzioni dipende dalle decisioni delle forze extra sulle quali loro hanno pochissima influenza. Un doppio legame: da una parte devono prendere delle decisioni che devono essere messe in pratica per accontentare i cittadini, dall’altra parte però devono rimanere in un’ attesa nervosa fino a quando le borse riaprono, e solo allora sapranno se è nelle loro possibilità o meno fare quello che hanno promesso. Pertanto, è molto improbabile che le istituzioni politiche attuali, così come sono ora, a meno che non vengano drasticamente riformate, facciano ciò che hanno affermato di poter fare. Dal momento che c’è stato un deficit nel potere degli Stati, per un lungo periodo questi hanno dovuto rinunciare ad un certo numero di funzioni, le quali si credeva ampiamente che era loro compito assolvere. Alcune di queste funzioni che 50 e 60 anni fa erano considerate un diritto e un obbligo dello Stato, sono state trasferite ai mercati che non sono dichiaratamente istituzioni politiche, e non vengono elette da elettori e non devono seguire i desideri dell’elettorato. Le altre funzioni sono state affidate a quello che Anthony Giddens chiamò la dimensione politica della vita, un’area in cui io, tu, tutti quanti si aspetta che siano il proprio Parlamento, il proprio Governo, e la propria Corte Suprema, ricercando soluzioni individuali a problemi prodotti a livello globale. Adesso, chiaramente questa politica individuale soffre dell’insufficienza di potere. Possiede delle risorse, delle abilità che possono affrontare il compito, che possono affrontare la questione avendo alle loro spalle forze globali. Pertanto, considerate queste due parti, questi due spazi in cui le politiche contemporanee cercano di giocarsi piani politici, la salvezza difficilmente ci giungerà da tutto questo. Ma cosa c’è frammezzo? Da una parte, la situazione politica stabilitasi e dall’altra la sfera della politica della vita. Il problema è che quest’area di mezzo viene progressivamente lasciata libera. La crisi dell’agenzia è raddoppiata, non per casualità ma per necessità, a causa dell’erosione dell’area di mezzo. Tra le altre cose oggi ci troviamo ad affrontare la crisi della classe media. La crisi di oggi colpisce la classe media molto più che le altre fasce della società. Una recente idea, che penso sia molto ingegnosa, sostiene che il problema che ci troviamo oggi ad affrontare nella nostra parte del globo, non sia tanto quello del vecchio proletariato quanto quello del precariato. L’idea proviene dal termine francese precaritè, cioè incertezza, impotenza, la mancanza di consapevolezza di ciò che il futuro porterà e l’umiliante sensazione generata dalla mancanza di un controllo sulla propria vita. Se ti senti ignorante, impotente allora è molto facile che sopraggiunga l’umiliazione, come del sale spruzzato su una ferita già aperta. Un’ampia e crescente classe media, come viene chiamata, si unisce al vecchio proletariato, a quella parte della popolazione afflitta da un'incertezza molto profonda. Adesso, questo è il contenuto del nostro arsenale, delle forze che sono disponibili adesso in questo momento. Questo è drastico, drammatico, tragico, perché, al momento, abbiamo almeno due fenomeni che si stanno sviluppando, i quali sono terribilmente minacciosi per il futuro dell’umanità. Mi limiterò a nominarli, in quanto non ho tempo per parlarne approfonditamente. Il primo è una nuova forma di disuguaglianza, che sta crescendo in tutto il mondo. Nuova forma perché la piramide che ci ha accompagnato per molti secoli è sempre più fine in punta. E’ una situazione in cui i 40 individui più ricchi al mondo fanno insieme una fortuna che è pari ai beni dell’intera Francia, che è la quinta potenza economica mondiale. La distanza che c’è tra la punta della piramide e la sua base sta irrefrenabilmente crescendo. Farò solo un esempio: nel 1960, non molto tempo fa, prima che la grande ondata del neoliberalismo prendesse piede, il capo esecutivo delle grandi compagnie americane guadagnava 12 volte di più di uno stipendio medio di un operaio. Nel 1974 guadagnava 35 volte di più. Nel 1980 42 volte di più. Tre anni dopo era già di 84 volte maggiore. Negli anni ’90 secondo il Business Week il valore era di 135 volte maggiore e nel 1999 aveva raggiunto le 400 volte. Nel 2000 saltò a 531 volte superiore dello stipendio medio di un lavoratore della classe media. Fu così che si sviluppo, e da lì, dal 2007, le cose peggiorarono ulteriormente. Secondo statistiche successive, in America la crescita del valore del prodotto nazionale, dopo il collasso dei crediti e dopo la crisi del 2007, era per il 91% nelle mani dell'1% dei più ricchi d’America. Il resto del 99% della popolazione americana doveva dividersi il restante 9% del guadagno. Questa è la situazione per quanto concerne l' ineguaglianza. Un’altra questione molto importante con cui ci si deve confrontare e di cui Greenaccord è giustamente molto preoccupata, non è solo la questione della modernità che sta vivendo i suoi limiti, ma anche quella che vede il pianeta raggiungere i suoi limiti. Ci sono due parole che mi vengono in mente. Capacità di ripresa e sostenibilità. La prima fa riferimento alla capacità delle parti del pianeta di ricostituirsi, di ricrearsi attraverso processi naturali dopo essere stati sfruttati. La seconda fa riferimento ad una grande questione: il pianeta è in grado di sopravvivere al nostro modo di vivere? Circa il modo di vivere oggi, quello che accade anche ora che siamo seduti qui e torniamo a casa consumando un pianeta e mezzo, che in poche parole significa che stiamo consumando più del 50% della natura che il nostro pianeta possa sostenere. Esistono già dei calcoli, e considero che insieme all’aumento della popolazione mondiale a 9 miliardi di persone che ci si aspetta per la metà di questo secolo secondo diversi demografi, con questo avremmo bisogno di 5 pianeti per poter mantenere l’attuale stile di vita basato sull’aumento del consumo come unico modo per raggiungere la felicità e come unico modo per liberarci dei conflitti sociali e politici. Bene, su questi punti dobbiamo interrogarci. Vi ho detto che non ho molto da aggiungere su quanto Greenaccord già conosce, e che probabilmente concorderà con me che, detto tra noi, non conosciamo abbastanza quanto dovremmo e avremmo bisogno di conoscere. Poiché parlo nella sessione dedicata al “Futuro dell’umanità”, ci sono due domande che bisogna porre: se l’umanità, l’umanesimo abbia o meno un futuro, e anche se il futuro avrà o meno un umanesimo, una umanità. Per poter rispondere a queste domande vorrei citare il più grande sociologo vivente, Richard Sennet, che recentemente ha proposto una formula per un nuovo umanesimo, e che, se parliamo di nuovo umanesimo, dobbiamo richiamare. Partendo dal fatto che viviamo in un pianeta disorganizzato e un pianeta che è anche sottoposto ad un rapido e molto diffuso processo di diaspora, vivere queste differenze è diventato il nostro pane quotidiano, non più inusuale, transitorio, temporaneamente irritante, bensì un normale modo di vivere, quale forma deve prendere un nuovo umanesimo? Non aspettiamoci miracoli, ma la sola cosa che Richard Sennet può offrire è una strategia e non una mappa stradale, che è il termine che va di moda oggi, schematizzare passo per passo come raggiungere l’obiettivo, lui non offre una mappa stradale bensì una strategia e a proposito nessuna mappa stradale proposta dalla nostra politica ha mai portato qualcuno da nessuna parte. Come affrontare un dialogo che è, senza esitazione, la condizione necessaria per trovare una soluzione. Senza il dialogo non possiamo fare nulla. La sola salvezza è il dialogo. Ma come condurre il dialogo? Il dialogo deve essere aperto e informale. Cosa significa informale? Significa che non ha alcun codice normativo preparato prima. Si deve lasciare che le regole della nostra mutua cooperazione e interazione vengano create e stabilite nel corso stesso dell’interazione. Che significa aperto? Significa che tutti noi possiamo entrare in questo dialogo attraverso due strade nello stesso tempo, insegnando e imparando. Non crediamo, come molti di noi pensano durante i seminari universitari, che lo scopo della discussione sia provare che io ho ragione e tu hai torto. No, dobbiamo essere preparati alla possibilità che il dialogo porti ad esporre, svelare e dimostrare che noi siamo nel torto e che qualcun altro abbia trovato soluzioni migliori che credevamo di avere noi. Infine, sarebbe meglio sostituire la parola dialogo con la parola cooperazione, perché a differenza del termine “dialogo” ed in particolare “dialoghi”, che sono utilizzati nelle conferenze, esse non sono dei giochi a somma zero, i termini “interazione” e in particolare “cooperazione” costituiscono un gioco in cui non ci sono né vincitori né vinti. Dalla cooperazione e il suo gioco ciascuno viene fuori arricchito dall’esperienza che ogni partecipante porta nel dialogo. Questo è la modalità su come procedere, e ciò che rimane è sperare che procedendo per questa strada porti alla risoluzione del processo che altrimenti non possiamo sperare di impedire che accada. DOMANDE: 1) Dal momento che secondo me l'evento di ieri ha scombussolato un po tutti e visto che nei giornali si discute oggi di un gesto di coraggio o un gesto di debolezza di una istituzione importante che deve guidare una società in difficoltà, volevo sapere come lo interpretava Bauman questo gesto se veramente è un gesto di un leader che capisce che è ora di cambiare o è l'assenza di un leader che capisce che la società è molto complessa. Bauman: Non sono in grado ovviamente di entrare nella testa e nel cuore di Benedetto XVI, posso solo arrischiarmi a pensare all'impatto che la sua decisione avrà sulla gente. Guardare alla questione di Dio e dell'uomo, la relazione virtuale e come essa si riflette nella realtà fattuale. Posso solo ripetere quello che ho detto poco fa ad un giornalista di Avvenire che mi ha fatto proprio la stessa domanda. Penso che quanto ha fatto Benedetto XVI abbia portato il papato ad un livello umano confessando pubblicamente che un uomo, anche investito del ruolo di una sorta di apostolo o messaggero plenipotenziario di Dio, incontra limiti alla sua capacità. È la prima volta, o almeno negli ultimi 700 anni, che accade che un un uomo nel ruolo di erede di San Pietro e guida della grande, enorme, largamente estesa chiesa di fedeli, presenti la questione circa l'uomo in questo ruolo e il ruolo stesso: sono identici o sono due cose diverse? Ci sono state una grande onestà e un gran coraggio nel dire: mi sono state affidate le più sacre funzioni immaginabili ma sono ancora un uomo e sebbene stia cercando di svolgere il ruolo al massimo della mia capacità, la mia capacità è umana che vuol dire una capacità limitata. Credo che Benedetto XVI sia arrivato alla conclusione che tale affermazione, che viene dimenticata e che ha cambiato per sempre la situazione, dovesse essere fatta. Ho notato delle influenze dovute ai molti anni che Benedetto XVI passò in compagnia di Giovanni Paolo II, nel confrontarsi con il conflitto tra due cose: il ruolo che Giovanni Paolo II (come lo stesso Benedetto XVI) era chiamato a svolgere e la sua capacità di uomo che soffre, malato, debole, capace di fare tanto ma non più di quello e penso che guardando alla tragica performance, Benedetto XVI sia arrivato a questa conclusione e ha deciso di non ripetere l'esercizio ma tirarne le conclusioni. 2) Rimanendo sul tema di questa domanda lei professore ha parlato di una crisi speranza e alla fine ha proposto il dialogo paritario come possibile via di soluzione step by step(problema per problema), non le sembra che questo evento che oggi riempie le prime pagine di tutti i giornali del mondo rappresenti in un certo senso una resa rispetto a questa strategia? Ho parlato di crisi di speranza ma non bisogna estrapolarlo dal contesto dal momento che io credo che la speranza morirà insieme con l'umanità e che essere uomo significhi avere speranza. Il Prof. Masullo ha parlato della differenza tra vita animale e vita umana. Bene, la vera differenza tra animali e esseri umani, spero che siate d'accordo, è che gli animali non sanno di essere mortali e che la loro presenza al mondo è temporanea. Sanno quando stanno per morire, lo sanno meglio di noi, possiedono l'istinto ma a differenza di noi umani non sentono già dalla culla “un giorno morirai, tutti sono mortali”. Il sillogismo tutti sono mortali, ogni essere umano è mortale, Socrate è umano dunque anche Socrate è mortale. Se devi vivere con l'idea che sei mortale questa dunque è una conoscenza che ha bisogno di inventare cultura. Penso che il fatto che l'umanità abbia inventato la cultura è il prodotto della consapevolezza che sia mortale e dunque, come dice Bles Pasqual, essa confronta l'infinità del cosmo, il cielo pieno di stelle con la brevità del suo stare qui e così sorge un problema. Penso che tutte le culture, tutte quelle che conosco e di cui ho avuto esperienza diretta e quelle di cui ho letto nelle relazioni antropologiche e storiche, tutte stavano cercando di trovare una risposta a questa grande questione tra temporalità ed eternità, tra vita mortale e permanenza della durata eterna. Non volevo dire che c'è una crisi della speranza, Mi sono espresso così dunque ora mi correggo. La speranza è disancorata, non c'è un porto sicuro dove gettare l'ancora. È a causa delle cose di cui ho parlato, la crisi di agenzia, la nostra mancanza di conoscenza che fa in modo che la speranza sia disancorata ma c'è anche un'altra causa. Penso che la modernità solida che ci siamo lasciati dietro, aveva terribili crimini nel suo passato che possono a malapena essere perdonati o ignorati ma ha anche creato una fonte di scenari (sto abbandonando la filosofia per andare alla sociologia), scenari in cui la gente vive quotidianamente, nella vita casalinga, in quella familiare, nel posto di lavoro, nelle strade, in compagnia di sconosciuti, in compagnia di vicini. Questa fonte di scenari della modernità solida è stata, qualsiasi altra cosa abbia fatto, anche un enorme fattore di solidarietà, di comunanza, di gente consapevole che possono trarre vantaggio qunado uniscono le forze, quando si aggregano, quando marciano fianco a fianco e che c'è da guadagnare quando si uniscono le forze. Lei (prof. Masullo) ha parlato della differenza tra italiani e nord europei. Mi piacerebbe aggiungere ancora una cosa. Il fenomeno che ho descritto nei miei lavori recenti e cioè lo sgretolarsi delle ossa umane, l'indebolimento di esse, questo fenomeno in Italia è molto meno avanzato che in Nord Europa. Questa è una vostra grande fortuna perchè in caso di una terribile crisi economica, una massiccia disoccupazione, ecc.., penso che gli italiani abbiano una seconda linea di trincea che in nord Europa sta più o meno scomparendo. C'è (in Italia) una grande famiglia, un insieme familiare caloroso: quando un membro della famiglia ha successo questo è condiviso da tutta la famiglia, quando un membro subisce una sconfitta, allora la sventura è condivisa dal resto della famiglia. Questo è il tipo di vita comunitario o quello che Ivan Linch chiama convivialità. Questo processo di dissipazione dello sgretolarsi delle ossa umane è andato molto oltre e parte le aree del Mediterraneo dove è ancora molto forte, è relativamente forte in Paesi come la Spagna o l'Italia. Generalmente si era soliti difendersi contro di esso, ma al momento, non sono un profeta quindi non so cosa accadrà dopo, in linea di massima la tendenza oggi è quella di trasformare il fattore sociale di solidarietà nel fattore sociale di sospetto reciproco, in competizione. C'è una parola intraducibile in inglese che è one up manship che significa che tutte le strategie e la saggezza di vita è l'essere in vantaggio rispetto al tuo compagno in Pirelli, o alla Fiat. Quando si arriva al giro di riduzioni o esuberi è meglio se sia lui ad andare via e non io. Proprio per questa ragione siamo tutti sotto la stessa minaccia, sarebbe più saggio se mi curo solo dei miei interessi e non mi preoccupo di quello che accade a lui. Il Prof. Alberti ha parlato molto e in maniera giusta della crisi della moralità, moralità come responsabilità per l'altro, questa è la mia definizione di moralità, lo presa da Emmanuel Lèvinas, l'essere morali è il vivere per l'altro non solo con l'altro. Lo scenario sociale presente in cui ci caliamo, consciamente o inconsciamente ma senza dubbio siamo responsabili di questo, non è accogliente per questa sorta di comportamento. Al contrario, ci sussurra all'orecchio, a chiunque voglia ascoltarlo, che è imprudente, irragionevole sacrificare i propri interessi per gli altri e che non c'è niente i guadagnato nell'unire le forze. Ricorda molto- i più anziani, molto pochi, tra di voi possono ricordare- il periodo del panico della guerra nucleare. Allora la gente consigliava di comprarsi rifugi familiari per sfuggire le bombe. Questo è esattamente lo steso tipo di pensiero che ci è offerto per uscire dai problemi che ci angustiano. Questo è il problema con la speranza. La speranza sta cercando un posto dove potersi ancorare e questo deve essere un posto proprio ospitabile alla solidarietà umana. Prof. Masullo, lei ha detto che le persone innanzitutto hanno bisogno della volontà di dialogo, certamente è così ma esse hanno volontà di dialogare quando questo ha un senso per loro, quando c'è una situazione che promuove e non nega il valore della solidarietà umana. Questo era il mio punto. Quindi per favore non mi attribuite di aver negato la speranza, non penso di averlo mai fatto. Penso che è l'idea di ottimismo e pessimismo ad essere sbagliata, perché tale divisione dell'umanità è incomprensiva, insufficiente. C'è una terza categoria a parte quella dei pessimisti e gli ottimisti che è quella degli uomini con la speranza e spero tanto che questa categoria sia indistruttibile qualsiasi cosa possano portare la conferma o la negazione del pessimista o le prospettive pessimistiche.