Liturgia, conflitti ed educazione alla riconciliazione

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Liturgia, conflitti ed educazione alla riconciliazione
Liturgia, conflitti ed educazione alla riconciliazione
Con la forza dello Spirito tu agisci nell’intimo dei cuori,
gli avversari si stringano la mano
e i popoli si incontrino nella concordia.
Per tuo dono, o Padre,
la ricerca sincera della pace estingue le contese,
l’amore vince l’odio e la vendetta è disarmata dal perdono.1
Intanto, quando l’autore del mondo tolse a riformarlo,
non si appagò di annunziare all’intelligenza i precetti morali;
ma diede ancora alla sua volontà la forza pratica di eseguirli.
E se questa forza la congiunse a certi riti esteriori,
ciò fu per mostrare che egli la donava gratis all’uomo.2
Accostare la liturgia alla problematica dei conflitti è un’impresa non immune da rischi o
fraintendimenti. Da un lato, infatti, è facile ricondurre l’intera questione a motivazioni e
dinamiche dipendenti semplicemente dalla volontà del singolo e dal suo cammino personale, perdendo così di vista il profilo sociale ed ecclesiale del problema, e dall’altro lato è
facile scivolare nell’attribuzione di pesi insopportabili sulle spalle della liturgia, quasi che
questa debba trovare le soluzioni ai problemi stessi.
Pertanto è bene chiarire la domanda di fondo: qual è il rapporto possibile tra celebrazione liturgica e conflitti interpersonali o sociali? Come risponde la prassi liturgica
all’esigenza di riconciliazione personale e comunitaria? Si tratta, in ultima analisi, di chiarire il contributo specifico dell’azione liturgica nell’esperienza della riconciliazione del singolo
e della comunità con Dio, sorgente della pace e della salvezza, e con il prossimo.
Liturgia e conflitti
Il rapporto tra celebrazione cristiana e conflitti non è nuovo, come attesta uno studio
particolarmente opportuno dello storico inglese John Bossy3. La partecipazione alle pratiche rituali (sacramenti, veglie oranti, rogazioni) nella società europea medievale giovava a
scaricare le tensioni accumulatesi nel tempo tra gruppi sociali. La stessa liturgia eucaristica
si era in qualche modo incaricata di raccogliere le istanze provenienti dalla storia tormentata delle popolazioni: si pensi all’osculum pacis4, ai formulari nei vari libri liturgici pro caritate fraterna, pro pace, in contentione, contra invasores5, all’oratio fidelium, anche nel “relitto”
CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA, Messale Romano, riformato a norma dei decreti del Concilio Ecumenico Vaticano II e promulgato da Papa Paolo VI, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 1983, p. 923.
1
A. ROSMINI, Delle cinque piaghe della santa Chiesa, Testo ricostruito nella forma ultima voluta dall’Autore
con saggio introduttivo di N. Galantino, Cinisello Balsamo (MI), San Paolo, 1997, p. 125.
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3
J. BOSSY, Dalla comunità all’individuo. Per una storia sociale dei sacramenti, Torino, Einaudi, 1998.
Cfr. J. A. JUNGMANN, Missarum sollemnia. Origini, liturgia, storia e teologia della Messa romana, Milano, Ancora, 2004 (ediz. anast.), pp. 243-251.
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5
Cfr. M. RIGHETTI, Storia liturgica, III, La Messa, Milano, Ancora, 1998 (ediz. anast.), pp. 129-131.
della prière du prône6. Il passaggio progressivo verso una forma sempre più privata della
penitenza e l’allineamento di questa con le dinamiche del consiglio e della direzione spirituale non fecero che accelerare vistosamente lo smarrimento della dimensione comunitaria
del peccato e della grazia. Il peccato non appariva più come un danno ecclesiale da rimediare con pratiche riconosciute, ma come una patologia interna da curare nell’interiorità e
nel rapporto personale con il confessore. La diminuzione della partecipazione liturgica, la
nascita del misticismo individuale e la diffusione del culto eucaristico sganciato dalla messa soprattutto in epoca controriformistica avevano spostato la forza coalizzante e unificante del tessuto sociale dalla celebrazione alla pietà eucaristica soprattutto nelle sue manifestazioni più imponenti e popolari. Il prevalere della devozione eucaristica (comunione come
atto devoto del singolo, adorazione solenne, processioni, centralità del tabernacolo nello
spazio celebrativo) sulla comprensione globale della celebrazione procedeva di pari passo
con la percezione del valore sociale della devozione all’eucaristia come elemento catalizzatore delle diverse realtà che compongono la società 7. La stessa prassi penitenziale, il “fare
penitenza”, nella Chiesa in epoca medievale era fortemente protesa all’eliminazione
dell’ostilità sociale, mentre in epoca controriformistica la preoccupazione gravitava attorno ai peccati individuali, in primis quelli sessuali. Se il peccato aveva una connotazione sociale e consisteva nel conflitto e nell’inimicizia all’interno delle comunità, la penitenza, e
gli altri riti, si ponevano come prassi riconosciute e affidabili per la risoluzione dei conflitti e per
il ricompattamento della comunità lacerata.
L’epoca seguente al Concilio di Trento trasferisce il processo penitenziale alla maturazione coscienziale strettamente legata al proposito e all’intenzione e mira alla confessione
frequente quale mezzo per ritrovare la pace interiore. Accanto alla devozione eucaristica di
questi secoli, tendenzialmente individuale e interioristica, dove la comunione frequente (peraltro non obbligatoria) convive con la comunione spirituale (sempre accessibile e senza
condizioni) subordinata sempre più ad una rigida disposizione dello spirito8. Ciò che prima appariva come strutturalmente comunitario e sociale (questo aggettivo sarà particolarmente caro ad alcuni esponenti del Movimento liturgico del XX secolo), ora è strettamente congiunto all’aspetto interiore della persona che si accosta individualmente a Cristo
nel sacramento e nel santuario dell’anima si ritira per riconoscere il proprio peccato e ricevere l’assoluzione.
L’obiettivo di questa breve introduzione storica è di far comprendere il lungo percorso
del rapporto tra vita liturgica e dinamiche sociali che, a mio avviso, trova il suo punto di
forza o di smentita nella relazione tra interiorità ed esteriorità che ha sempre percorso la considerazione teologica e spirituale della liturgia. In altri termini, la riflessione di fondo che
Cfr. C. GIRAUDO, Ascolta, Israele! Ascoltaci, Signore! Teologia e spiritualità della Liturgia della Parola, Città del
Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2008; M. BARBA, La preghiera dei fedeli. Atto di solidarietà e di responsabilità.
Eucaristia e vita sociale, in Eucaristia e condivisione. “Dacci oggi il nostro pane quotidiano” (Mt 6, 11), a cura del
Centro Azione Liturgica, Atti della 61a Settimana Liturgica Nazionale, Fabriano (Ancona), 23-27 agosto 2010,
Roma, CLV-Edizioni Liturgiche, 2011, pp. 113-131.
6
7
Cfr. J. BOSSY, Dalla comunità all’individuo, pp. 186-188.
F. MARXER, L’eucaristia nel XVII secolo. Il modello tridentino, in Eucharistia. Enciclopedia dell’Eucaristia, a cura
di M. BROUARD, Bologna, Edizioni Dehoniane, 2005, pp. 239-269.
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emerge tenta di intercettare la prossimità dell’azione rituale non soltanto al mistero che celebra e al dono di grazia che media, ma anche l’uomo con le sue dimensioni di esteriorità e
socialità, con il suo cammino a volte faticoso, con il suo corpo, individuale e comunitario,
con il quale fa esperienza di divisione e di comunione.
Il dono di grazia tra i tempi dell’uomo
La liturgia trova la sua novitas rispetto al fluire del tempo e agli avvenimenti della storia
nel porsi come interruzione del tempo, dello spazio e delle azioni. In quanto momento altro
essa è in grado di consentire l’accesso al mistero e di gettare una luce nuova anche sulle
vicende della storia. La preoccupazione di introdurre nella liturgia le ansie e le problematiche della vita quotidiana non rispetta lo specifico del rito che necessariamente deve segnare una cesura rispetto al quotidiano con le sue pretese e i suoi problemi. Si entra in uno
spazio diverso, si vive un tempo significativo, si compiono azioni che eccedono le azioni
consuete, affinché il rito possa dare senso e direzione nuova al vivere. Questa interruzione
si fa benefica, perché sottrae il soggetto alle rivendicazioni della vita di ogni giorno, alle sue contraddizioni e ai suoi conflitti, e nei simboli gli dischiude una possibilità altra di vita e di
salvezza dove la grazia di Dio è il soggetto di ogni iniziativa. Nel liberare il corpo viene affermata la libertà dell’uomo rispetto ad ogni forma di razionalismo, nell’apparente inutilità dei gesti e delle parole vengono smantellati i ricatti della produzione e dei progetti
utilitaristici a tutti i costi, nel “consumo” e nel piacere delle azioni rituali salta la dittatura
del consumismo e dell’edonismo dove l’oggetto di cui fruire è al centro di tutto, nelle regole della festa si percepisce la trascendenza di un tempo nuovo che va oltre le regole e ci fa
gustare la compagnia di un Dio sempre oltre le nostre aspettative9.
In quest’ottica è possibile rileggere l’impatto della celebrazione sui conflitti: a ben vedere, i
conflitti nella celebrazione liturgica non trovano alcuna soluzione. Essi, piuttosto, vengono
assunti dall’uomo celebrante che rimane uomo a tutti gli effetti e, al contempo, vengono
sintonizzati con la preghiera della Chiesa. La liturgia si oppone alla tentazione del talkshow dove tutto si fa chiacchiera e discussione e si propone come salvezza in atto «nel
mezzo del cammin di nostra vita». In questo frattempo la performance rituale interrompe il
quotidiano e tenta di riconnettere il tessuto sociale per via simbolica. Nel rito avviene una
comunicazione nuova, ulteriore, simbolica appunto, dove anche i conflitti acquistano una
luce nuova e intravedono una soluzione, per quanto alternativa rispetto alle logiche del
mondo10. Una soluzione rituale dove gesti e parole concorrono a produrre un senso nuovo
più profondo di ogni strategia o argomentazione umana.
Cogliere questa radicale diversità dell’azione rituale e la sua originale incidenza sulla
storia umana è estremamente importante per rinvenire proprio nell’alterità del rito ciò di
cui l’uomo, lacerato dalle separazioni e dalle ostilità, ha bisogno.
Cfr. G. BONACCORSO, Celebrare la salvezza. Lineamenti di liturgia, Padova, Edizioni Messaggero-Abbazia di
Santa Giustina, 2003, pp. 48-55.
9
Dal versante antropologico il dramma sociale e la sua risoluzione simbolica nel rito sono stati indagati
da V. TURNER, Dal rito al teatro, Bologna, Il Mulino, 1986; Antropologia della performance, Bologna, Il Mulino,
1993.
10
Eucaristia: nella forma del rito l’antidoto ai conflitti
Il ritorno alla liturgia come proposta educante anche ai fini della pacificazione sociale,
oltre che personale, non può che incontrare con favore l’eucaristia, momento culminante
del processo di iniziazione cristiana, ripetibile, e dunque sempre a disposizione dell’uomo.
L’eucaristia nel suo essere innanzitutto forma celebrata può essere considerata anche «istituzione sociale»11 nella misura in cui non viene ripiegata alle esigenze del momento, ma
diventa forza compattante il corpo ecclesiale sempre a rischio di frazionamenti.
Il Messale Romano conosce una certa ricchezza di materiale eucologico che insiste in
particolar modo sui temi dell’unità e della riconciliazione. Si pensi, ad esempio, ai formulari Per la concordia, Per la riconciliazione, Per l’unità dei cristiani, Per la pace e la giustizia, In
tempo di guerra, Per chiedere la carità, e la seconda preghiera eucaristica per la riconciliazione.
Questi formulari, appartenenti alla sezione delle Messe e orazioni per varie necessità della
Chiesa e della vita civile, in linea con una lunga tradizione, legano sapientemente «il corpo
sociale, cosmico e ancestrale della preghiera liturgica, nell’unità del corpo mistico sacramentale ed ecclesiale»12. In essi le vicende degli uomini, e segnatamente le dinamiche conflittuali, vengono assunte nella preghiera ecclesiale e trasfigurate dal mistero salvifico di
Cristo e viene chiesto di poter ottenere i frutti dell’eucaristia, «sacramentum unitatis», custodendo e diffondendo la pace. È nel mistero eucaristico che i cristiani fanno esperienza
viva di unità e di riconciliazione e imparano ad impegnarsi per garantire pace e riconciliazione e per una giusta ed equa soluzione dei conflitti sociali (come afferma l’orazione sulle
offerte della messa Per la fame nel mondo). Questa tensione tra mistero celebrato e culto vitale è caratteristica fondamentale di una Chiesa che non vuole tanto affidare la sua credibilità solamente al momento etico quanto ritrovare nel momento sacramentale la sua fonte e
lo specchio della sua esistenza13.
Tuttavia sarebbe riduttivo identificare il legame tra liturgia e dinamiche di riconciliazione soltanto nei formulari eucologici che espressamente fanno riferimento al tema. È la
stessa forma dell’eucaristia, la sua struttura celebrativa che per via simbolico-rituale interrompe la tendenza alle divisioni e ripropone l’azione liturgica come scuola permanente di
vita autenticamente cristiana. Alcuni segmenti in particolare sembrano indicativi in quanto accolgono il soggetto umano e lo forgiano con delicata sapienza conferendogli lo status
sempre sorprendente di figlio e di fratello.
 I riti di introduzione. Lo stesso Ordo Missae uscito dalla Riforma liturgica del Vaticano
II lascia intuire che la forma del rito è già rivelativa di un contenuto teologico ed ecclesiologico di primo ordine: «Populo congregato, sacerdos cum ministris ad altare
11
L’espressione è di J. BOSSY, Dalla comunità all’individuo, pp. 143-190.
P. TOMATIS, Le messe votive del Messale di Pio V, specchio della devotio personale ed ecclesiale, «Rivista Liturgica», 95 (2008), p. 133.
12
Cfr. G. CAVAGNOLI, Dimensione «agapica» nella liturgia attuale, dimensione «liturgica» nella carità, «Rivista
Liturgica», pp. 526-538.
13
accedit, dum cantus ad introitum peragitur» (OM 1)14. Il raduno del popolo è elemento necessario e non dispensabile e si accorda con il saluto di colui che presiede con il
quale viene manifestato l’«Ecclesiae congregatae mysterium» (IGMR 50)15. La composizione dell’assemblea rivela già che la celebrazione eucaristica si oppone ad ogni forma di
contrapposizione e che la dimensione comunitaria fin dall’inizio è essenziale. Questa
peculiare manifestazione del mistero della Chiesa lascia trapelare che la tensione alla
pace, alla riconciliazione e alla comunione non dipende in prima battuta
dall’impegno dei soggetti o dall’indifferenza ai problemi sul campo, ma è innanzitutto dono e mistero, grazia immeritata che viene da Dio, primato di un’azione che è possibile ricevere nel rendimento di grazie. Questo la liturgia esprime e permette di riconoscere nell’ordo realizzato. La composizione dell’unico corpo assembleare, il saluto che annuncia e augura la pace e la grazia di Dio, la comune invocazione di perdono al Misericordioso, l’invito alla preghiera rivolto a tutti e l’orazione dove il silenzio
confluisce nella supplica ecclesiale, sono segmenti di una ritualità dove la vita e la
fede dei singoli si fanno tasselli preziosi del mosaico comunitario. In questo caso, la
dissoluzione dei conflitti non viene dibattuta, ma annunciata in forma liturgica:
l’unica assemblea, che si riconosce peccatrice e rinuncia alla domanda individuale
per sciogliersi in un unico «Preghiamo», diventa icona di ciò che la Chiesa è ed è
chiamata a divenire nel quotidiano della sua esperienza. Varcando la soglia
dell’edificio sacro i credenti si lasciano alle spalle ambienti e tempi di ogni giorno per
incontrare colui che è sempre Altro rispetto al quotidiano e nell’inevitabile separazione che ogni rito liminale comporta imparano ad aggregarsi, a formare un unico
gregge16. Separato dal mondo, e dunque anche dalle sue tensioni, il singolo che entra
nella celebrazione liturgica si comprende orientato verso Dio e il suo mistero e verso i
fratelli con i quali è chiamato a costituire il prezioso tessuto dell’assemblea. Non è
più solo in preda ai conflitti e alle tensioni, ma parte viva unica di un mistero che lo
avvolge e che ha il suo centro in Cristo. In questo modo i riti di inizio sono simbolo
che scolpiscono le coscienze credenti nel segnare una cesura tra prima e dopo, dentro
e fuori, individui e comunità radunata, e educano alla riconciliazione istituendo
l’esperienza, a tutti accessibile, della comune convocazione.
 La liturgia della Parola. Il mistero della Chiesa ricomposta in unità, dopo la dispersione
dei singoli, trova singolare espressione nell’ascolto comunitario dell’unica Parola.
L’assemblea, infatti, è raccolta per ascoltare l’unica Parola che mette a tacere le tante
o troppe parole degli uomini. Dopo la vicenda tormentata dell’esilio Israele rinasce
come popolo a partire dalla proclamazione liturgica della Legge (Ne 8, 2-10). È
l’assemblea cultuale che ha al centro la proclamazione della Parola e l’assenso corale
della fede a istituire il nuovo corso della storia del popolo: «Non vi rattristate perché
Missale Romanum ex decreto Sacrosancti Œcumenici Concilii Vaticani II instauratum auctoritate Pauli
pp. VI promulgatum Ioannis Pauli pp. II cura recognitum, Civitas Vaticana, Typis Vaticanis, 2002, p. 503.
14
15
Institutio Generalis Missalis Romani, in Missale Romanum, p. 30.
Cfr. le osservazioni sui riti iniziali di G. BUSANI, La risorsa educativa della liturgia. Ordo communionis,
«Rivista Liturgica», 98 (2011), pp. 260-263.
16
la gioia del Signore è la vostra forza» (Ne 8, 10). «Omnes sedentes auscultant» (OM
10)17: così intima perentoriamente l’Ordo Missae. Tutta l’assemblea, nella sua varia articolazione ministeriale, si pone nella posizione tipicamente “passiva” di chi ascolta.
Presidente, ministri e fedeli lasciano che sia un Altro a prendere la parola e ogni altro
intervento (omelia e preghiera dei fedeli) prende le mosse dalla Parola di Dio.
Nell’ascolto corale tutti si assoggettano alla medesima Parola, tutti imparano nuovamente a farsi discepoli, tutti volgono lo sguardo verso lo stesso punto spaziale
(ambone) e l’orecchio verso la stessa voce. Viene da sé che la simultanea lettura individuale del testo proclamato sul foglio volante o su altro sussidio si scontra vistosamente con la comune azione dell’ascoltare: difficilmente chi segue con gli occhi un
testo riesce anche ad ascoltarlo. In questo caso, l’individualismo o le esigenze razionali dell’individuo cozzano contro la portata simbolica dell’ascoltare in modo comunitario l’unica Parola. La liturgia, invece, si fa maestra di grande sapienza perché
esorta al silenzio per lasciare che sia Dio a parlare. Il primo abbandono delle armi
viene stabilito da questa azione comune di ascolto e, naturalmente, anche di acclamazione comune.
 Lo scambio del dono della pace. Il bacio o abbraccio di pace, che nel rito romano precede
e prepara la comunione, è soprattutto signaculum, epifania e sigillo della comune invocazione dei fedeli: coloro che hanno fuso i loro cuori nella preghiera eucaristica,
per bocca del presidente, si scambiano il bacio della piena comunione 18. Superata
l’interpretazione intellettualistica che riduce l’azione a segno rappresentativo
(«Scambiatevi un segno di pace») l’accoglienza del gesto nella sua corporeità, senza
inutili esagerazioni e senza dannose semplificazioni, fa vivere l’evento celebrato (la
pace di Cristo) nell’oggi della celebrazione liturgica. In tal modo, il gesto non risolve
alcun problema conflittuale nella vita delle persone, ma è l’inizio simbolico di una
nuova possibilità di gestire le relazioni secondo il Vangelo di Cristo. Il rito, nel suo
movimento composito e composto di preghiera (memoria ed invocazione) e gesto, ribadisce il primato del dono ricevuto, prima ancora dell’impegno morale, dopo averlo
invocato e dopo avere riconosciuto in Cristo la fonte della pace. Ciò che diventa arduo o appare impossibile nelle relazioni interpersonali viene vissuto e annunciato
simbolicamente e dunque realmente19.
 La fractio panis. Secondo l’insegnamento paolino i molti che prendono parte all’unico
pane spezzato diventano un corpo solo (1 Cor 10, 17)20. Prima ancora che nelle giuste
17
Missale Romanum, p. 510.
Sullo sviluppo e la comprensione di questo segmento rituale, cfr. P. SORCI, Il bacio di pace, «Rivista Liturgica», III serie, 96 (2009), pp. 138-146; G. DI NAPOLI, Pacis concludentis signaculo. Lo scambio del bacio di pace nella liturgia eucaristica tra limitazioni e ri-significazione, «Rivista Liturgica», III serie, 97 (2010), pp. 497-517.
18
Cfr. BUSANI G., Gesti e riti dell’assemblea eucaristica. Valenza antropologica e biblica, in Parrocchia, comunità
eucaristica. Un solo pane un solo corpo (1 Cor 10, 17), a cura del Centro Azione Liturgica, CLV-Edizioni Liturgiche, Roma, 2006, pp. 192-193.
19
Cfr. F. CAMPANA, La frazione del pane. Da un gesto liturgico una teologia dell’eucaristia, in Eucaristia e condivisione. “Dacci oggi il nostro pane quotidiano” (Mt 6, 11), Atti della 61a Settimana Liturgica Nazionale, Fabriano
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strategie di superamento dei contrasti è innanzitutto nell’evento simbolico del condividere l’unico pane che i molti fanno esperienza di essere un corpo solo. È un pane
spezzato e condiviso che non permette ad alcuno di scadere nell’ingordigia o nella
rapacità di chi vuole tutto per sé e subito, un pane che ci domanda di sostare nella
contemplazione e nell’invocazione e che ci pone nella posizione di chi accoglie un
dono gratuito. Così i tanti diventano un unico corpo e riscoprono la loro identità
nell’accoglienza di un unico pane. La forma eucaristica della benedizione e del convito trasforma il credente fino a fargli, assumere la forma del pane21. La gestualità eucaristica che lascia passare il dono divino modella il credente affinché possa conformare
a Cristo il cuore e la vita. È quella trasformazione invocata nell’epiclesi dei comunicandi in ogni preghiera eucaristica e invocata sovente nell’orazione dopo la comunione: «in id quod sumimus transeamus»22. Tale realtà non avviene innanzitutto per
l’assimilazione di un complesso di valori, ma per l’esperienza sacramentale nella
quale i credenti partecipano insieme al mistero salvifico della morte e risurrezione
del Signore. È, dunque, ancora la liturgia in quanto forma a plasmare le coscienze e
l’esistenza dei credenti23.
Penitenza, riconciliazione e comunità
Dopo il sacramento culminante dell’iniziazione cristiana, l’esperienza della penitenza,
come terapia del credente caduto nella malattia del peccato, si propone come possibilità di
riaccedere alla comunione piena con il Signore e di ritornare nel grembo della Chiesa madre. La Chiesa che si sente segnata dal peccato dei figli è la medesima che si preoccupa di
intavolare vie credibili di riconciliazione e di pacificazione con lo stesso corpo ecclesiale.
Autorevolmente le Premesse del Rito della Penitenza (RP) rammentano che lo scopo
della penitenza e la pace con Dio e con i fratelli, legati tra loro da uno stretto rapporto per
(Ancona), 23-27 agosto 2010), a cura del Centro Azione Liturgica, Roma, CLV-Edizioni Liturgiche, 2011, pp.
73-94.
Cfr. il celebre discorso di Agostino ai neofiti dove la vita credente è riletta alla luce del mistero eucaristico e secondo le fasi della preparazione del pane, cfr. AGOSTINO D’IPPONA, Sermone 272, in ID., Sermoni per i
tempi liturgici, Milano, Edizioni Paoline, 1994, pp. 319-323: «Così pure voi si direbbe che prima siete stati macinati con l’umiliazione dell’esorcismo e con il sacramento del digiuno. Sopraggiunse il battesimo e, in certo
modo, siete stati impastati con l’acqua per assumere la forma del pane».
21
Missale Romanum, Dominica XXVII «per annum», Post communionem, p. 477. Così il testo completo italiano: «La comunione a questo sacramento sazi la nostra fame e sete di te, o Padre, e ci trasformi nel Cristo
tuo Figlio», in Messale Romano, p. 273.
22
È ancora diffusa la mentalità secondo la quale la liturgia sarebbe un’ulteriore offerta di valori (quali la
pace, la fraternità, il perdono…). Si dimentica, invece, che nella liturgia si impara ad radunarsi, a perdonare,
ad ascoltare, a rendere grazie, a fare comunione, perché si compiono esperienze simboliche «che permettono
la piena assunzione di quell’atteggiamento, di quella mens, senza la quale ogni valore, anche il più evidente,
risulta debole e secondario», A. GRILLO, La pubblicità e il rito, in G. BONACCORSO-A. GRILLO, La fede e il telecomando. Televisione, pubblicità e rito, Assisi, Cittadella, 2001, p. 87. È evidente che se il significante non “funziona”, in quanto non viene rispettata la sua sintassi, anche la comunicazione dei significati non trova riscontro.
Nel caso della fractio panis se il pane spezzato non è effettivamente condiviso come auspica OGMR 321 il rito,
pur eseguito, rimane insignificante.
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il quale il peccato di uno solo reca danno a tutti e a tutti porta beneficio la santità del singolo: di conseguenza «la penitenza ha sempre come effetto la riconciliazione anche con i
fratelli, che a causa del peccato sempre hanno subito danno» (RP 5)24. Il tessuto ecclesiale
disgregato a causa del peccato viene nuovamente ricomposto dalla penitenza.
Affinché questo sia possibile la Chiesa conosce non un evento istantaneo, ma una pratica graduale, comunitaria e rituale che agendo internamente ed esternamente al credente
attiva in lui la via della conversione. L’uomo, protagonista dell’alleanza con Dio grazie ai
sacramenti dell’iniziazione cristiana, può cadere nel peccato che lo separa da Dio e dai fratelli, ma facendo appello all’amore misericordioso del Padre può ritornare all’intimità con
lui attraverso la penitenza.
Una prassi penitenziale che nella percezione comune rischia di apparire sempre più
come interesse del singolo, elaborazione interiore, al massimo dialogo con il confessore, e
sempre meno come atto rituale celebrato dalla Ecclesia intera. Basti pensare come la trasformazione dell’ampia prassi penitenziale al dialogo sottovoce tra il penitente e il ministro, con il minimo ricorso necessario alla gestualità, abbia decisamente relativizzato la
percezione del tempo (ci si può confessare sempre) e drasticamente costretto lo spazio
(confessionale). La storia, invece, conosce esperienze molto ampie di penitenza quali il digiuno, il pellegrinaggio, la preghiera, l’ascolto intenso della Parola, l’elemosina, dove il
cuore e il corpo collaborano alla ricostruzione del tessuto personale del soggetto. Una
maggiore considerazione del corpo, fatta propria anche dalla teologia liturgica, e soprattutto una più ampia visione del soggetto umano nei suoi elementi interiori ed esteriori
punta a recuperare l’aspetto della prassi e della corporeità che la tradizione antica e medievale conosceva nell’agere poenitentiam25. Ciò significa non solo un maggiore impiego
della gestualità nel rito, ma soprattutto un recupero generoso del corpo che, soggetto di
peccato, è chiamato a diventare soggetto con Dio, in Cristo, di riconciliazione, e della comunità, sollecitata a cooperare anche nella penitenza dopo aver solidarizzato nel peccato
(RP 5). Così la grazia ad opera di Dio si inscrive nel corpo e nella memoria del singolo e
nel corpo e nella memoria della comunità. È la comunità, impoverita e indebolita dal peccato di uno o più dei suoi figli, che accede alle esperienze simboliche per ricostruire
l’alleanza con Dio e la sua integrità26. Per tale ragione non è possibile rinchiudere la risoluzione dei conflitti tra le persone e all’interno del corpo sociale nel cammino interiore del
singolo ed è necessario cogliere il più possibile le risorse che la liturgia può offrire a questo
scopo. La pratica penitenziale della Chiesa, a questo punto, non dovrebbe esitare a imbastire cammini penitenziali accurati per coloro che vivono situazioni di conflitto particolarmente dolorose e laceranti dove tempi e spazi, parole, gesti e silenzi, sono la via concreCONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA, Rito della Penitenza, in Rituale Romano riformato a norma dei decreti del Concilio Ecumenico Vaticano II e promulgato da papa Paolo VI, Città dl Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 1984, p. 17.
24
Cfr. l’interessante lavoro in prospettiva storica, antropologica e teologica di M. FLORENTINO, La penitenza pubblica nel gelasiano antico. Uno studio a partire dai suoi segni visibili, Roma, CLV-Edizioni Liturgiche, 2010.
25
Del resto, questa rimane la grande lezione delle indulgenze che lega volentieri il tentativo dell’uomo di
recuperare il terreno perduto con pratiche sincere e visibili, cfr. A. CATELLA-A. GRILLO, Indulgenza. Storia e
significato, Cinisello Balsamo, San Paolo, 1999.
26
ta e praticabile della conversione27. In tal modo, la Chiesa non soltanto professa il suo peccato e invoca il perdono, ma si prende cura dei figli peccatori aiutandoli a riconoscere la
propria situazione di vita, a ritrovare la strada della salvezza e a vivere momenti concreti e
credibili di ritorno a Dio e al Vangelo del suo Figlio. Si tratta, così, di invertire la marcia
delineata da J. Bossy, procedendo dall’individuo verso la comunità, ricucendo gli strappi che
l’egoismo e le rivendicazioni di parte provocano e recuperando la sana preoccupazione
medievale di salvaguardare o di curare il corpo ecclesiale e civile inquinato non soltanto
dai mali individuali, ma anche ferito dalle ostilità sociali.
Per una liturgia che educhi alla riconciliazione
Nel tentativo di coniugare la vita liturgica e il suo stile educativo con la tematica dei
conflitti e della riconciliazione occorre ribadire che la liturgia è azione educante nella misura in cui rimane se stessa e non diventa cassa di risonanza delle istanze più disparate e,
tanto meno, motivo di contesa28. Tuttavia, ogni liturgia è celebrata in un determinato contesto storico, geografico, culturale e sociale, che non può essere ignorato o snobbato pena
una celebrazione asettica, ripiegata su se stessa e, dunque, dimentica del suo valore comunicativo. Alcuni punti sintetizzano il discorso finora portato avanti e focalizzano la questione attorno a questa duplice passione per Dio e per l’uomo che è il compito di ogni pastorale liturgica.
a) Maggiore fiducia nelle risorse della liturgia. Affermato il primato dell’esperienza liturgica
quale fons et culmen della vita cristiana la prassi pastorale scivola sovente su precedenze
altre quali l’annuncio, la testimonianza della carità, la promozione umana. Credere alla
forza formante della liturgia significa accogliere la sua forma e il suo inconfondibile stile
che può formare e trasformare i soggetti. Tale forma preserva il primato della relazione
con Dio e consegnando parole e gesti insegna a comportarsi coram Deo in una comunità
di fratelli:
Ogni gesto liturgico, infatti, soprattutto quando è ripetuto nella sua innocenza, cioè nella naturalezza chi
aderisce a un ordo condiviso, non è mai innocuo: genera uno stile, un modo di percepire e di percepirsi,
tanto più penetrante quanto più silenzioso.29
L’ordo rituale, così, diventa ordo vitae perché consegna a ciascuno il proprio posto e
agendo insegna a vivere secondo lo stile di Cristo, cuore di ogni azione liturgica.
b) Valorizzazione della comunità celebrante per la terapia del penitente. È il grembo della Chiesa
madre che offre il meglio di sé per il recupero di suoi figli: la preghiera incessante, la
Fra i soggetti bisognosi di percorsi penitenziali che puntino alla visibile riconciliazione vi sono anche le
comunità cristiane, come conferma il lungo cammino ecumenico non privo di battute d’arresto o di regressioni, e la società civile, nelle sue differenziazioni, spesso divisa per rivalità politiche o ideologiche.
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Non è una novità che il celebrare è stato ed è motivo di contrasto o di rivendicazione. Del resto, ciò è
comprensibile trattandosi di forme rituali che coinvolgono l’uomo e fondano il suo credere. Si cade nel tragico, con tutte i risvolti pastorali conseguenti, quando i sacramenti diventano la “mia” messa o il “mio” matrimonio.
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29
237.
P. TOMATIS, La liturgia, forma fidei-forma vitae: un’obbedienza feconda, «Rivista Liturgica», 98 (2011), p.
Parola di salvezza e il “contatto” cordiale e premuroso dei suoi membri. È una Chiesa
convocata che si impegna a lenire le ferite dei contrasti attingendo la grazia della comunione nello scrigno della preghiera liturgica e della vicinanza umana. L’intercessione
accorata si carica dell ansie e delle sofferenze di persone in lotta, famiglie spaccate, popoli in guerra, rivalità tra gruppi o fazioni, e si abbandona alla benedizione di Dio che si
protende dove l’uomo non arriva.
c) Accoglienza del primato del mistero sulle contrapposizioni umane. Lasciarsi educare dalla liturgia, e particolarmente dall’eucaristia, significa scoprire il primato del mistero di Dio
sulle diatribe e gli schieramenti ideologici o le partigianerie umane. Il rito chiamando a
raccolta gli uomini dalla dispersione non solo geografica, ma soprattutto ideologica,
“obbliga” a lasciare che la parola suprema sia quella espressa «per ritus et preces».
Mentre l’uomo lascia dietro di sé il quotidiano e le sue sfide si dispone ad accogliere la
novità sempre eccedente di Dio che si manifesta come misericordia, ospitalità, riconciliazione, dialogo, pace e perdono. La liturgia non è il momento delle armi, non è l’ora
della rivendicazione e nemmeno lo spazio della disamina delle posizioni: è piuttosto la
resa dell’uomo di fronte all’azione misericordiosa di Dio che raccoglie il suo popolo per
celebrare nuovamente l’alleanza eterna.
d) Cura per il lato responsoriale della celebrazione. La liturgia vive di delicate dinamiche responsoriali dove non c’è uno solo che parla o agisce mentre tutti ascoltano e recepiscono
(meccanismo tipico di una didattica ormai sorpassata); tutti, invece, sono “partecipi”
dell’azione salvifica che si compie nel rito e nessuno è “spettatore” che fruisce di quanto
avviene. Curare la responsorialità del rito significa abbandonare la logica del possesso o
dell’invadenza per fare spazio all’altro, presidente, ministro o fedele. Di conseguenza, la
cura per l’ars celebrandi, in quanto dire e fare, può aiutare a percepire il gesto, la parola e
i ministeri non semplicemente come esercizio di una facoltà, ma come partecipazione
all’unico atto di culto del quale è soggetto l’intera comunità presieduta dal ministro ordinato. In questo modo, la liturgia mentre viene agita è già educazione all’apertura
all’altro e argine contro ogni irruenza.
La società odierna, supportata in questo in maniera evidente dai media, sembra particolarmente propensa al conflitto. Litigi, discussioni animate, aggressioni fisiche e verbali,
rotture di rapporti nella famiglia, accesi dibattiti nell’agone politico, trasmissioni televisive
sempre più violente, sembrano essere note caratteristiche e prevedibili del nostro tempo.
Anzi, pare che “esternare” sia l’antidoto contro le inibizioni, la risposta alle ingiustizie subite e la liberazione dei risentimenti che si annidano all’“interno” della coscienza umana. Il
superamento del riserbo e della sobrietà appare come il mezzo più efficace per restituire
dignità a chi ha subito il danno e riconciliare le persone con se stesse 30.
La liturgia offre le sue affidabili risorse educative all’uomo che necessita continuamente
di essere ricondotto al Vangelo di Cristo per dare forma al suo vivere. Ciò che in essa viene
“esternato” è già attuazione, celebrazione e profezia di un mondo nuovo e di una nuova
forma vivendi che la forma celebrandi fa sperimentare. Questa unità tra “dentro” e “fuori” e
Cfr. le osservazioni di A. BEVILACQUA, E venne il tempo degli «sfoghisti». L’ultima faccia della volgarità,
«Corriere della sera», 1 agosto 2011, p. 26.
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tra individuo e individuo è educazione permanente all’accoglienza e alla riconciliazione
che la Chiesa esercita e riceve nella liturgia che celebra. Questa Chiesa che si ricopre “una”
proprio nei riti che celebra vive con trasparenza il suo essere santa e al contempo bisognosa di penitenza e di riconciliazione, e, mentre nel rito rifugge dalla tentazione di “esternare” se stessa, celebra il suo Signore che le dona la comunione fraterna nell’unico pane e
nell’unico calice e le insegna nuovamente la via della pace.
Loris Della Pietra