Babel008:Layout 1.qxd - Parliamo Di Videogiochi

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Babel008:Layout 1.qxd - Parliamo Di Videogiochi
SETTEMBRE
http://bab3l.splinder.com
C O N T E N T S
008
2 0 0 8
PROGETTO EDITORIALE
federico res
COPERTINA
tommaso “gatsu” de benetti
GRAFICA E IMPAGINAZIONE
federico res
EDITING DEI TESTI
giovanni “giocattolamer” donda
SITO WEB
http://bab3l.splinder.com
BABEL È OSPITATO DA
www.paolofranchini.com
www.qb3project.net
www.issuu.com
010
NINJA GAIDEN 2
LAST NINJA, LAST GAIDEN
REDAZIONE
alvise “kintor” salice
cristiano “amano76” ghigi
emanuele “emalord” bresciani
federico res
giovanni “giocattolamer” donda
giancluca “sator” belvisi
marco “il pupazzo gnawd” barbero
michele “guren no kishi” zanetti
michele “macca” iurlaro
tommaso “gatsu” de benetti
vincenzo “vitoiuvara” aversa
HANNO COLLABORATO
alberto “floyd” li vigni
simone “karat45” tagliaferri
COPYRIGHT
2007/2008 Babel Edizioni
Babel è un magazine gratuito. Può essere
letto, stampato, prestato a cugini e parenti
o inviato via fax in Alaska. E’ assolutamente proibita la distribuzione a pagamento, integrale o parziale. Se avete
pagato per leggere queste righe, significa
che qualcuno specula sulla passione nostra
e vostra. Fateci sapere chi è. Troverà giusta
punizione.
BABEL
002
IGNITION
Alive and kicking 003
FRAME
Guida bene chi guida ultimo 008
REVIEW
Ninja Gaiden 2 010
Siren Blood Curse 012
Soul Calibur 4 014
Braid 020
Viva Pinata 2 019
From the Abyss 018
Summon Night Twin Age 016
DAL VANGELO SECONDO TOMMASO
S O U L
014
C A L I B U R
4
CROSS SWORDS, CROSS DRESSER
Nerd nell’Uncanny Valley 004
ODIO DI GOMITO
Aeris pure ***** 005
ESCO DI RADO
Vivere nel ghetto 006
LA TV CHE VIDEOGIOCA
Drive me crazy 024
GIOCHI DI MERDA
Odama 022
ARS LUDICA
La crudeltà 023
1492
Arte esistenziale 021
012
SIREN BLOOD CURSE
TOYAMA FOR ALL
NEXT MONTH
025
cover story
meat is murder
Ci possiamo girare intorno
quanto vogliamo, incolpando le
lottatrici di Soul Calibur di
sembrare vagamente dei trans
addobbati a festa, ma la verità
è che non vedete l’ora di mettere Ivy in spaccata o creare,
grazie all’editor del gioco, la
spadaccina più maiala dell’uni-
verso. Namco lo sa e ha sfornato un gioco con un character
design totalmente prono ai
pruriti dei suoi probabili clienti.
Ed è per questo, cari amici di
Babel, che da oggi fate parte
di un malvagio esperimento
sociale collettivo. Dettagliate
analisi di mercato ci rivelano
che la cover discinta del numero 005 ha fatto aumentare
le visite in maniera direttamente proporzionale ai cm di
pelle scoperta… e se il fenomeno si ripetesse, forse sarebbe ora di iniziare a
parlarne.
iGniTion
008
ALIVE & KICKING
abel giunge al suo numero 008. Forse dovremmo attendere
dicembre, per celebrare il
primo anno di vita, ma
come per tutti i progetti nati e portati avanti per passione, anche
Babel ha cominciato ad esistere ben
prima che il suo numero 001 (dicembre 2007) fosse pubblicato.
Dapprima semplice idea, poi prototipo largamente imperfetto, infine
creta tra le mani di chi, secondo chi
scrive, non poteva che renderla una
solida realtà. A un anno di distanza,
posso dire di non essermi sbagliato:
l’intera redazione di Babel, compresi tutti i collaboratori che saltuariamente hanno voluto scrivere per
lei, in questi dodici mesi hanno trasformato un’idea forse ardita in
un’espressione tangibile di talento.
Mi sembra d’obbligo, giunti a questo punto, tentare uno sguardo distaccato e sistematico su questo
nostro progetto, analizzarne il passato e il presente e tracciarne le
linee future. Badate, questa non
vuole essere un’autocelebrazione:
semmai, un necessario punto della
situazione…
Babel si è sempre fondata su una
struttura particolare, basata sui
punti di forza di Ring – lo status immanente da “rivista” e l’approccio
fondato sull’approfondimento – e al
contempo tesa a evitarne i difetti,
come l’aperiodicità e la conseguente
incapacità di soddisfare appieno i
lettori e gli autori. Siamo partiti con
l’intento di uscire tutti i mesi, di
B
pubblicare ogni singolo articolo in un
comodo database, di offrire una
ricca selezione di anteprime accanto
ai numeri completi. Abbiano sfruttato vari strumenti, per far ciò. Ma
quanto, effettivamente, ci siamo riusciti?
Abbiamo avuto qualche ritardo
sull’uscita mensile. Abbiamo avuto
periodi avari di anteprime. Abbiamo
tardato – qui mi assumo personalmente la responsabilità – nel mettere online gli articoli “sciolti” degli
ultimi due numeri. Più in generale,
abbiamo sperimentato una lunga
serie di problemi, specie a livello organizzativo, che in qualche modo
hanno inciso sulla qualità (più estetica che contenutistica) della nostra
proposta. Non siamo esenti da critiche, come si vede. E se anche siamo
convinti che comunque il progetto
funzioni e abbia funzionato alla
grande, vogliamo che in futuro le
cose vadano sempre meglio.
È per questo che abbiamo deciso
di condurre Babel con una maggiore
attenzione ai tanti fattori in gioco:
quello organizzativo, quello produttivo, quello pubblicitario.
In primo luogo, la gestione del nostro blog è passata definitivamente
nelle mani di Tommaso “Gatsu” De
Benetti, che eviterà le occasionali
negligenze del sottoscritto, migliorando le forme della nostra offerta.
In particolare, da questo mese troverete le nostre anteprime in forma
integrale anche in formato HTML
(oltre che su Issuu): soluzione agile
e richiesta su vari fronti.
In secondo luogo, da questo numero sarà Giovanni “Giocattolamer”
Donda (coadiuvato all’occorrenza da
Marco “Il Pupazzo Gnawd” Barbero)
ad occuparsi della correzione dei
testi, con le sue non comuni doti
professionali di editing. Inoltre, è
d’obbligo segnalare l’entrata in redazione di Ferruccio Cinquemani, noto
giornalista del settore con anni di
esperienza alle spalle (Super Console, Videogiochi); Emanuele “Emalord” Bresciani, inarrivabile creativo
e membro fondatore di Ring; Gianluca “Sator” Belvisi, anch’egli ringhico DOC nonché acutissimo
giornalista e umorista. Ognuno di
loro contribuirà al benessere di
Babel, anche se in maniera differente (non necessariamente sottoforma di contenuti editoriali).
In terzo luogo, la lenta ma costante crescita del nostro pubblico ci
ha convinti ad investire maggiormente nel settore pubblicitario: il
nostro profilo su Facebook
(http://www.facebook.com/pages/B
abel/39657058848), che trovate
linkato anche sul blog, è la più importante delle iniziative mosse in tal
senso, visto il successo ottenuto di
recente in Italia da questa comunità.
In estrema sintesi: Babel sarà
sempre più bella. Questa è il nostro
piano per il futuro. Nel frattempo,
muoio dalla voglia di ripetervelo:
buona lettura.
-Federico Res
003
Tommaso De Benetti
Uno che i VG preferisce discuterli
Tommaso De Benetti è stato membro
fondatore e colonna portante di Ring, la
rivista più amata dai videogiocatori
meno rincoglioniti. Qualche tempo fa,
esasperato dall’ignavia invincibile degli
ormai depressi ringhici, ha lanciato da
solo il progetto RingCast (reperibile su
iTunes), primo podcast italiano a tema
videoludico, a cui comunque la vecchia
guardia partecipa a corrente alternata.
Gatsu, secondo il nick con cui è solito
firmarsi su Internet, attualmente vive e
tromba ad Helsinki, tra frotte di bionde
ninfomani e sferzate di gelo più o meno
devastanti.
DAL VANGELO SECONDO TOMMASO
Siamo nerd nell’Uncanny Valley
I
Invece di andare da Intimissimi il nerd medio ripiega su
thinkgeek.com per la fornitura
di lingerie. Notare l’efficienza
con cui cicli e mal di testa possono essere gestiti in remoto
senza necessità di status report
004
politici italiani non sono ‘diversamente onesti’, sono
ladri. I ‘collaboratori scolastici’ sono bidelli. Gli ‘operatori
ecologici’ sono spazzini. Allo
stesso modo, noi non siamo ‘appassionati di videogiochi’. Siamo
nerd. Facciamocene una ragione. Uno a cui piacciono solo i
videogiochi non saprebbe che
farsene del Lancer versione 1:1
in vendita con Gears of War 2.
Della statua del Big Daddy. Di
quella di Altaïr. Di 13.000 punti
nella Gamertag. Dell’artbook di
Crisis Core in allegato al gioco
solo presso i migliori rivenditori
online. Del link ‘Stats for nerds’
in Google Chrome. Noi siamo
nerd, nel bene e nel male.
Siamo quelli - gli unici - che capiscono le battute di Pure Pwnage o del Corso per
Videogiocatori Professionisti. Se
proviamo a spiegarle a una persona esterna all’ambiente dopo
due minuti dobbiamo gettare la
spugna. Non solo non ci riusciamo, ma, temendo le reazioni, nemmeno lo vogliamo
fare per davvero. Ci stagliamo
solitari persino quando si tratta
di farsi due risate.
Wikipedia - e chi meglio di
lei - ci definisce così: “Nerd è un
termine con connotazione negativa o stereotipata che si riferisce ad una persona che
persegue con passione attività
intellettuali, conoscenze esoteriche, o altri interessi oscuri piuttosto che farsi coinvolgere in
attività più sociali o mainstream. Di conseguenza, il nerd
è spesso escluso da qualsiasi
tipo di attività fisica e considerato un solitario dai suoi cono-
scenti, oppure tenderà ad associarsi a persone che condividono
le sue passioni”.
C’è del marcio in questa definizione, ma non tanto come
vogliamo far credere. Nell’Anno
del Signore 2008 siamo ancora
intrappolati in una sorta di Uncanny Valley nerdica per nostra
stessa scelta. Troppo ossessivi
per essere socialmente appetibili, troppo poco autorevoli per
essere rispettati alla stregua di
Steven Levy, quello dell’Etica
Hacker. In definitiva, delle
quasi-persone.
O forse no. Chi di voi segue
il podcast RingCast, sa che è
partita da poco una nuova rubrica, chiamata - dopo svariati
nomi provvisori uno peggio
dell’altro - Nerd Co-op. Ora, il
nome della rubrica è stato imposto dal sottoscritto per dare
un’idea chiara e precisa del suo
contenuto: un numero imprecisato di nerd discute in multiplayer di videogiochi. Mission
accomplished. Eppure è successo che un ascoltatore, la cui
opinione mi interessa particolarmente, mi ha bacchettato per
l’uso improprio della parola
‘nerd’, considerata - a ragione? svilente per l’intera categoria.
Cito testualmente: “Definirsi
nerd la vedo sempre un po’ triste come cosa, e mi spiace che
diate per scontato che vi possano seguire solo ed esclusivamente altri cosiddetti nerd [...]
è autoghettizzante”.
Il punto è questo: definirsi
‘nerd’ è autoghettizzante? Se sì,
perché? Perché l’abbiamo deciso
noi. Siamo noi a caricare il termine con valenza negativa.
Siamo noi che spesso siamo
realmente sociopatici. Che abbiamo paura delle nostre passioni. Che siamo dei ciccioni.
Che non spieghiamo le battute
di Pure Pwnage a chi ce lo
chiede. Che se non collezioniamo tutti gli achievements di
un gioco veniamo considerati
n00b. Che nascondiamo i numeri di EDGE quando - e se una ragazza ci viene a trovare.
Che le donne le preferiamo virtuali e con il tasto Pausa. Che
tutto sommato il Wii ci sta sul
cazzo, ma neanche tanto, perché se ci gioca la nonna stai a
vedere che anche quella che ci
piace magari si appassiona.
Siamo quelli che riescono a
discutere di cose tipo “il collo di
Ryu in Street Fighter IV”. Abbiamo seconde copie incellophanate dei nostri giochi preferiti.
Conosciamo acronimi tipo HUD
e parole come ‘displacement
mapping’. E ammettiamolo, se
le periferiche fossero sex toys,
le nostre case sarebbero capitali
del porno.
Non ho paura né vergogna a
definirmi nerd: è parte di quello
che sono e lo accetto. C’è gente
messa peggio, ma io posso vantare nella collezione robaccia
tipo Unlimited Saga solo perché
“la scatola era bella”. Rendiamoci conto, “la scatola era
bella”. Ripetetelo ad alta voce e
chiedetevi se non suona completamente, profondamente
nerd.
Rilassatevi. Chiudete gli
occhi. Aprite il chackra del cuore
e abbracciate la verità. Non potete sfuggire da voi stessi. Ma
vendervi meglio, quello sì.
Giovanni Donda
Un uomo per due stagioni
Giovanni Donda, in arte Giocattolamer, è
italiano di nascita e inglese d’adozione.
“Scozzese, prego” aggiungerebbe lui. È
entrato a far parte dell'industria dei
videogiochi dalla porta di servizio, e lì è
rimasto. Oggi è a capo di una piccola
azienda indipendente di Quality Assurance e localizzazione, il cui nome e/o
prodotti qui non verranno mai men-
zionati. Questo ci ha costretti a scriverlo
lui. Va da sé che le sue opinioni siano appunto tali. Pure questo. La moglie, invece, gradirebbe che simili premure le
riservasse a lei, e alla figlia, non a quella
ditta del... Ma lo ama tanto. Fortuna che
non capisce l'italiano e crede ancora che
“Odio di Gomito” sia solo il romanzo che
gli pagherà il mutuo.
Odio di Gomito
Aeris ****** pure, ma tu sei proprio uno ******!
M
aggio è stato un gran mese.
Almeno, è stato un gran
mese per mia moglie. Vi avviso, però, siate sulla cattiva
strada. Non mi sono ricordato di
qualche inspiegabile anniversario e
non l’ho neanche stupita con effetti
speciali, quali, chessò, il lavaggio
delle stoviglie o un semplice massaggio che non finisca sempre lì.
No, a maggio sono solo stato con
lei e la bimba, anziché davanti a un
alienante tubo catodico o - in caso
l’accoppiata di cui sopra avesse deciso di guardarsi l’ennesima, onnipresente replica di Friends - ai
cristalli liquidi di un laptop. Ma non
faceva parte di un mio malsano
tentativo di disintossicazione – una
risoluzione di una magnitudine simile non può che essere rimandata
a un gennaio – stavo solo cercando
di evitare, a tutti i costi, un qualsiasi spoiler sull’ultimo Metal Gear
Solid. È una cosa triste, lo so.
Rovinare la sorpresa altrui, intendo. Probabilmente il secondo
mestiere più antico del mondo.
Così maggio sarà stato un gran
mese, ma non per me, rinchiuso
com’ero nel mio piccolo bunker
anti-mediatico. Per non parlare poi
dei primi di giugno, con ancora due
settimane da aspettare prima di
potermi rinchiudere sì, ma di mia
volontà. Giorni di clausura, vissuti
nel timore delle persone a me più
vicine a lavoro, e ben lontano dal
sentirmi al sicuro a casa, nel timore
che un qualche simpaticone di Repubblica.it volesse replicare lo
scherzetto fatto ai tempi dell’ultimo
Harry Potter. Ho vissuto settimane
in preda alla pura paranoia, insomma, talmente alta da farmi rivedere alcuni aspetti della mia
industria da me spesso ritenuti eccessivi, maleducati, quasi offensivi.
Eppure l’ho fatto, ho desiderato un
mondo in cui tutti si debba firmare
un non-disclosure agreement.
Uno psicologo a questo punto mi
interromperebbe. E io lo rassicurerei subito: mio padre non mi picchiava da bambino. Son sicuro,
però, che quando quella sera gli
dissi di come andava a finire Il
Sesto Senso, qualche ceffone me lo
avrebbe pure dato. Invece non mi
rivolse più la parola, e io guardai il
suo sguardo di disappunto e morii
un po’ dentro. Anche se questo l’ho
aggiunto giusto per far contento lo
psicologo di prima. Da allora, però,
son passato all’altra sponda, non
quella a cui state pensando voi, ma
quella dove si trovano quelli a cui
gli spoiler non fanno ridere. Anzi, a
quella di chi si incazza proprio. Perché se qualcuno mi avesse detto
come finiva Ico prima dell’altra
notte, o se è per questo qualsiasi
altro videogioco si basi anche solo
marginalmente su una componente
narrativa di sostanza… boh, probabilmente avrei avuto bisogno di
uno psicologo per davvero.
È forse una colpa non aver mai
visto King Kong? Giocato Final Fantasy VII? È forse una colpa, insomma, non avere il tempo, i soldi,
francamente la voglia di usufruire
di un prodotto nelle sue prime ore
di vita? Ovvio che no. E infatti non
è questo il fulcro della questione,
né questo mio schierarmi così
esplicitamente a uno dei due suoi
estremi. Se c’è una domanda da
porsi, questa c’è, ma è stata posta
ben più di rado, forse perché spiace
abbia la stessa, identica e legittima
risposta. È giusto tracciare un
solco, una linea che dir si voglia, di
tot giorni, settimane, mesi o anni,
dopo la quale è permesso poter
parlare pubblicamente di una data
opera? Ahimé, qui neanche i miei
odiati NDA oserebbero tanto.
Intendiamoci, non tutti gli spoiler
vengono per nuocere. Ci tengo a
precisarlo perché, se qualche
buon’anima mi avesse detto prima
come andava a finire Fahrenheit,
mi sarei risparmiato una delle
esperienze ludiche meno gratificanti che la mia già vacillante memoria ricordi. Ma al di là delle solite
promesse da David Cage - che insieme a Peter Molyneux fan marinaio di secondo nome - gli spoiler
sono pur sempre comodi. Se vi capitasse mai di sfogliare l’autorevole
e storica rivista inglese di cinema
Sight & Sound, per ogni recensione
ne trovereste addirittura un box
stracolmo. Loro la chiamano ‘sinossi’, ma sempre di spoiler si
tratta. Se io voglio sapere allora
come va a finire Hancock, apro e
leggo a scrocco. Per dire, un tempo
i nemici sapevi da dove arrivavano.
Come mio padre.
Ma un tempo uno spoiler era al
massimo un qualcosa che gli aeroplani contendevano alle domeniche
della formula uno. Oggi, invece,
abbiamo la nostra vita 2.0. Quella
che, se volesse, è tanto in grado di
agevolare la divulgazione di questi
spoiler, quanto a introdurre strumenti per farceli evitare. Ma è una
battaglia persa, perché se è vero
che prevenire sia meglio che curare, disfare una cosa rimarrà sempre così dannatamente più facile
che farla. Ho perso, dicevo, e perderò così tante altre battaglie che
alla fine non ricorderò più neanche
se c’era una guerra da vincere. Ho
perso perché, di tutti gli strumenti
a nostra disposizione – oggi e domani - ne mancherà sempre uno, e
non si tratta del Lancillotto, né
tanto meno dell’unicorno. Ma del
buon senso, che io – bambino uggioso tanto quanto il primo moccioso che mi sciuperà il finale di
Fallout 3 - non ne ho affatto. E allora lasciatemi rispondere con uno
specchio riflesso, perché quella
linea la traccerei eccome, ma dove
e come mi pare a me.
La delusione nel finire MGS4 è
stata talmente forte da farmi
credere che a me, i veri giochi
stealth, quasi piacciano. Così
mi son comprato l’intero catalogo di Sam Fisher, ma devo
ancora controllare che funzionino tutti tranne il primo, per
paura che questi altri mi rivelino come finisca quest’ultimo.
OK, qui ho esagerato… e non
mi riferisco alla frase
005
Vincenzo Aversa
Professore Nerd
Ritenendosi da sempre uno dei cinque
migliori giocatori al mondo di Tetris, il Dr.
Vitoiuvara ha deciso di condividere con
il mondo le sue conoscenze e abilità portando avanti su youtube quel “Corso per
Videogiocatori Professionisti” che oltre a
renderlo famoso, lo ha definitivamente
consacrato al ruolo di pagliaccio. Vive
solo e abbandonato in compagnia del
suo fidato quaranta pollici ma, come ama
ripetere, risparmia un sacco sui preservativi. Nonostante attualmente passi
tutto il suo tempo libero a videogiocare, è
fermamente convinto che, nell’arco di
massimo cinque anni, sarà fuori da
questo ambiente di sfigati.
esco di rADo (ma gioco pure troppo)
Vivere nel ghetto
C
apita che ti alzi una mattina,
con l’alito che sa di tic tac
marcita e un montone nell’ombelico, e decidi di parlare,
scrivere o canticchiare di videogiochi. Capita che ti metti a scrivere Babel (rivista di cui
probabilmente non avete mai
sentito parlare), pure se non ti
aspetti di ricavarne una valanga
di dobloni. Capita che raccogli per
strada il più squattrinato dei fumettisti nostrani e ti metti a pensare BUG (fumetto politico sui
movimenti videoludici), pure se lo
sai che il disegnatore è lento
come un messicano malato. Capita che dici qualcosa di intelligente, dopo tante stupidaggini, su
The First Place (forum di pervertiti
e feticisti del pad), e che devi
aspettare che la montagna vada
da Maometto. E ancora capita che
chiacchieri per ore su RingCast
(podcast di amore e cavalli), e
che le orecchie non puoi andartele
a cercare. Capita, insomma, che ti
dai tanto da fare, con impegno
amore e pure presunzione, e non
lo puoi raccontare in giro. Perché
non si può, non si vuole e non si
fa.
Se non avete ancora capito di
cosa si sta parlando è certamente
colpa mia, ma soprattutto colpa
vostra. Il problema, perché di
questo si tratta, è che i forum videoludici d’Italia mal sopportano
le iniziative amatoriali e no-profit.
E dopo aver segnato su una lavagnetta le loro motivazioni, non
sono troppo convinto che tutto ciò
abbia un senso.
Ordiniamo le carte. Siamo su
Babel, partiamo da Babel. Ma
cosa rischia realmente un sito di
informazione videoludica, che
offre recensioni e anteprime e
news, accettando lo spam - sem-
006
pre che ‘spam’ sia la definizione
adatta - di una fanzine che, solo
parzialmente, offre gli stessi servizi? Davvero si crede che il numero dei contatti o le vendite di
riviste associate - qualora ce ne
siano - possano accusare dei cali
per una o due recensioni mensili diciamo articoli concorrenti - o
per qualche approfondimento, ovvero una parte marginale e rara
dell’offerta al grande pubblico? I
grossi network sembrano non
avere dubbi, non si passa.
Ma se su Babel si può articolare una spiegazione credibile, la
situazione si fa ancora più complicata quando si parla di progetti
alternativi. Nextgame (vecchio
corso) chiuse un topic che pubblicizzava BUG, un fumetto, non una
recensione. La presenza di un vignettista ufficiale che ironizza anch’egli sul mondo dei videogiochi
può giustificare tale chiusura? Mi
chiedo ancora oggi quali siano i
conflitti di interessi dei due progetti. E ancora, RingCast fatica a
ritagliarsi uno spazio d’attenzione
sui forum, sia che si sforzi di dare
voce a italiani impegnati nel settore, sia che si limiti a chiacchierare per un paio d’ore a ruota
libera. Per non parlare di link ad
altri siti concorrenti, di cui TFP
non farebbe nemmeno parte. La
parola deve essere una e solo
una, roba da far impallidire la
censura cinese. E i link girano lo
stesso, su MSN magari, ma girano
alla faccia di certe restrizioni bulgare che sembrano escludere
questa eventualità.
Ma non tutto è letame quello
che puzza di merda, anche se
forse non era questo il proverbio.
La difesa ha dalla sua una carta
spesso convincente. Permettere a
qualcuno di raccontare le proprie
gesta, autorizza l’universo dei
blogger impacciati e scandalosamente privi di contenuti di questo
emisfero, a fare altrettanto. E allora Gianni scrive una recensione,
si apre un blog e apre un post. E
allora Pinotto si guarda un video e
scrive la sua anteprima perfetta
su PES 2012 e apre un post. In
un attimo non c’è più posto per
fare console war come si dovrebbe. Tutto ciò ha un senso ahimè ce l’ha - ma è forse un vicolo cieco che non offre soluzioni?
Se la selezione preventiva mi
sembra una fatica improponibile,
lasciar fare alla legge naturale dei
forum - quanto può sopravvivere
senza ‘up’ forzati un topic come
quelli descritti prima? - è quantomeno una possibilità accettabile.
Che poi qualcosa può attraversare il campo minato, anche questo va detto. Ringrazio Nextgame,
Gamesradar, Multiplayer, Forumeye, Spaziogame e chi altro mi
lascia indisturbato annunciare il
mio Corso per Videogiocatori Professionisti, ma davvero non c’è
spazio per nessuno che non sia
un ciccione disposto a comportarsi da imbecille? Certo, un problema c’è se davvero non si
possono condividere con lo stesso
gruppo di appassionati progetti di
questo tipo. Un problema che non
ho la presunzione di ritenere facilmente risolvibile, ma che meriterebbe almeno un minimo di
attenzione e riflessione. Giochiamo, scherziamo, chiacchieriamo. Perché siamo quello che ci
piacerebbe leggere e ascoltare,
ma siamo anche quello che perdiamo tra troppe pagine di date
d’uscita, edizioni speciali e confronti PS3/360.
di Cristiano “Amano76” Ghigi
guida bene chi guida ultimo
er alcuni di noi, in possesso di una rara qualità chiamata
“orgoglio”, affrontare
un videogioco senza
l’ausilio di niente e nessuno è un
principio indissolubile.
Se vi siete arresi al boss finale
di Viewtiful Joe e ve lo siete fatti
finire da un amico, non sto parlando di voi.
Se avete giocato un Silent Hill e
avete sbirciato una faq ogni volta
che vi siete trovati in difficoltà con
gli enigmi, non sto parlando di
voi.
Se avete giocato Assassin’s
Creed con mappa e GPS, non sto
parlando di voi.
Ma.
A tutto c’è un limite: misurare
sè stessi contro giochi quasi proibitivi è encomiabile, ma sottoporsi
volontariamente allo stress dei
giochi di ruolo giapponesi senza
una guida strategica? Quello è
masochismo da manuale (perdonate il gioco di parole).
Mettevi seduti perché vi sto per
dare una rivelazione che sconvolgerà il tessuto della vostra realtà:
c’è una differenza sostanziale tra i
giochi di ruolo occidentali e quelli
P
008
giapponesi.
No, non sto parlando dell’abissale divario di qualità tra character design, monster design e
sceneggiatura a favore dei prodotti nipponici, ma della tradizione che ha preceduto entrambi.
Gli RPG americani derivano
dalla cultura del gioco di ruolo da
tavolo, appartengono ad un ambiente letterario che bazzica il genere fantasy da più di un secolo e
fanno della libertà d’azione un requisito imprescindibile. Gli RPG
giapponesi invece derivano da
una contaminazione della letteratura fantasy americana, e come
per tutto ciò che è “occidentale” e
“fico” i giapponesi hanno sviluppato un concetto customizzato di
fantasy e di gioco di ruolo.
La prova più significativa per
dimostrare il divario concettuale
che esiste tra i due è guardare i
dati di vendita dei più noti titoli
offline. Qual’è quello occidentale?
Elder Scrolls: quanto ha venduto
in Giappone? Un cazzo. Qual’è
quello nipponico? Dragon Quest
VII (quattro milioni di copie ragazzi): quanto ha venduto quando
è stato esportato? Un cazzo di un
centimetro, cioè un cazzo di
niente.
Cosa c’entra questo con le
guide?
Quando un occidentale pensa
ad una guida strategica la associa
ad una stampella, un evidente
segno di handicap: chi la usa è
un deficiente, chi la usa pulisce i
piatti al posto della ragazza, chi la
usa vota Berlusconi. Quando un
giapponese vede una guida strategica la associa ad un libretto di
istruzioni venduto separatamente:
di fatto il mercato nipponico si è
spinto in quella direzione e comprare una guida è praticamente
obbligatorio.
Ora.
Diciamo che io di cognome faccio Square. Diciamo che io possiedo una ditta chiamata Digicube
che distribuisce gadget legati ai
miei videogiochi: pupazzetti, magliette, portachiavi, tamponi vaginali a forma di chocobo, eccetera.
Siccome sono un genio, sviluppo un gioco dove le armi più
potenti sono nascoste, i personaggi più fighi sono nascosti e i
boss più coriacei, quelli che
quando li sconfiggi ti senti un
mito, sono nascosti pure quelli.
Dato che sono a conoscenza del
fatto che l’etica del giocatore di
ruolo medio si basa sulla compensazione sessuale (“donna! ammira
la mia turgida ammazzadraghi”),
sul pure pwnage di avversari con
più Hp di Rita Levi Montalcini, e
sull’identificazione con coatti dai
capelli bianchi che hanno perso la
memoria, farò in modo di nascondere questi elementi nella maniera più contorta e assurda che
mi viene in mente. Poi faccio distribuire da Digicube una guida
dove viene spiegato come scovarli
e finalmente il giocatore è libero
di gustarsi quello che ha pagato.
La differenza è che mentre i miei
vicini di casa Capcom, Konami e
Tecmo quando vendono un videogioco intascano solo quei soldi, io
guadagno sui giochi e in più sulle
guide per risolverli, quindi la mia
erba resta sempre la più verde.
E’ evidente che entra anche in
gioco una questione di pressione
sociale. Seppure un utente occidentale fosse libero dal pregiudizio sull’uso delle guide, gli “amici”
del suo forum preferito non glielo
perdonerebbero mai e lo tratterebbero come un’involuzione
dell’uomo sapiens. Non parliamo
poi di cosa significa non
conformarsi alla massa in un posto
come il Giappone: se tutti comprano
le guide, chi non le prende viene
frainteso per uno che vuole distinguersi e quindi meritevole di morte.
Un altro fattore determinante è la
tradizione delle guide strategiche in
Giappone, ben diversa da quella
americana/europea.
Le guide che hanno fatto esplodere
il mercato dell’editoria strategica in
Giappone sono state quelle di Super
Mario Bros e di Xevious negli anni
‘80. L’enorme popolarità riscossa da
questi giochi, unita alla difficoltà di
completamento piuttosto proibitiva,
ha fatto sì che venisse a crearsi la
necessità di metter per iscritto la cospicua mole di cheat-che-in-realtàsono-bug per essere alla portata di
chi non aveva il tempo di applicarsi
giorno e notte a tentare di risolverli
autonomamente. L’editoria nipponica
dell’epoca, nè più nè meno di quella
occidentale, già conteneva soluzioni
e strategie nelle riviste dedicate ai
videogiochi, ma la mancanza di internet per gestire queste informazioni fece sì che per lungo tempo (e
ancora oggi) l’utilizzo della rete costituisse una fonte d’aiuto troppo
scomoda per essere preferita a
quella su carta. Poi arrivò Dragon
Quest III.
Quest’opera trasformò il mercato
del videogioco definitivamente: per
poter mettersi in attesa davanti ai
negozi sin dal giorno prima dell’uscita e garantirsi la propria copia, i
bambini fecero sega a scuola, gli impiegati si assentarono dal lavoro e le
file di persone fuori dai negozi arrivarono a bloccare il traffico. La televisione giapponese affrontò questo
fenomeno con toni scandalistici (o
sarebbe meglio dire scandalizzati),
col risultato che il gioco di Enix macinò ancora più copie.
Si trattava però di un titolo con alcuni passaggi molto difficili, e Famitsu come tante altre riviste non
mancò di assumersi la responsabilità
di rispondere alle migliaia di richieste
d’aiuto delle migliaia di lettori più
piccoli. Non ci voleva un genio per
fiutare l’affare: pubblicare rpg e vendere guide strategiche divennero le
manie dell’industria dei videogiochi.
Le etichette più lungimiranti, come
Square, seppero approfittarne in
modo formidabile.
La situazione in Giappone è ormai
cristallizzata: i beta tester si coalizzano per creare case editrici di guide
strategiche e alcuni titoli non vendono un accidenti finché non ne
viene pubblicata la guida ufficiale. La
qualità della confezione è talmente
alta che comunque vale la pena
comprarle per poterle sfogliare una
volta finito il gioco e immergersi
nei ricordi perché, andiamo, chi
è che si è mai sognato di finire
DUE volte un rpg? (silenzio! Xenogears e Final Fantasy VII non
valgono).
Perciò mettetevi l’anima in
pace: quello che pensavate di
sapere sulle guide strategiche è
sbagliato. Nessuno vi stringerà
la mano se completate un RPG
giapponese senza guida, vi farete solo del male inutilmente. E
sapete come si chiamano quelli
che si fanno del male inutilmente?
Esatto, si chiamano italiani.
In Occidente la vicenda è poco nota, ma quando
uscì Final Fantasy X per Ps2, la Square fece la
scelta più impopolare della sua storia e decise di
distribuire la guida ufficiale del gioco esclusivamente via internet. C’era quindi da acquistare il
modem, la guida, e possedere un hard-disk su cui
registrarla. In un’epoca in cui bisognava vendere i
propri organi per comprare Ps2, i fan della serie si
trovarono di fronte all’ulteriore esborso di una
somma da capogiro. La scelta di Square si rivelò
una minchiata... e la gente ancora non gli aveva
perdonato The Bouncer.
Fu l’inizio della fine: di lì a pochi anni Hironobu
Sakaguchi passerà al Lato Oscuro.
La serie Furai no Shiren, in
arrivo anche su Wii, è uno
dei più popolari franchising
Nintendo. Il livello della difficoltà nella sua incarnazione per N64 fu tale che ne
vennero pubblicate ben
quattro guide ufficiali. Una
generale, una per le magie,
una per i mostri e una per le
armi.
009
xbox 360
NINJA GAIDEN 2
Last Ninja
console xbox 360 sviluppatore team ninja produttore tecmo versione pal provenienza giappone
a cura di Cristiano “Cryu” Bonora
inja Gaiden II è l’ultimo
ninja. Come il samurai
di Tom Cruise, il pupillo
di Tecmo si lancia in
un’ultima cavalcata sulle praterie
dell’action game dimostrando
tutto il proprio valore, prima di
infrangersi contro i cannoneggiamenti di un E3 che vede il videogioco giapponese disperso,
Nintendo sputtanarsi definitivamente e il nuovo corso del fangaming incarnato da un esercito
di shooter steroidati.
Si potrebbero compilare due o
tre recensioni infierendo sui difetti di NGII. Non ha esitato la
stampa di mezzo mondo, che si
riscopre improvvisamente critica
quando alle prese con un genere
di non acclamazione popolare.
Non avremmo remore a farlo noi,
giacché disfunzioni tecniche e sviste di design sfregiano ingiustificatamente un monumento di
gameplay in cui l’azione si riscatta dall’intrattenimento splatter per trasfigurare nella
disciplina dello stylish. Ma urgenza di chi ben conosce NGII è
piuttosto narrare un piacere del
videogiocare che non si innesca
demolendo un palazzo con una
mounted-gun, né cazzeggiando
per una città in cui si può fare
tutto, ma in fondo nulla di eccezionale.
NGII è innanzitutto il suo sistema di combattimento. La parola d’ordine è potenza, cui viene
elevato ogni aspetto del primo
Gaiden. Più velocità, più precisione nei controlli, più varietà di
situazioni. Non più una sola arma
praticabile corredata da un arsenale ad personam per il boss
Tizio o il nemico Caio. Otto armi
che valgono come otto personaggi: katana, doppia katana, artigli, falce, tonfa, nunchaku,
bastone e kusari-gama si caratterizzano ciascuna per un parco
mosse completo, originalissimo e
straordinariamente animato, e
per un baricentro esclusivo tra
parametri quali allungo, reattività, propensione alla lotta aerea,
copertura delle spalle, efficacia
dei colpi caricati, capacità di ta-
REVIEW
N
010
glio. Sì perché le mutilazioni,
oltre a crogiolarsi nel gore, sono
la pietra angolare del nuovo battle system. Il rifornimento automatico di salute tra una battaglia
e l’altra è il viatico per ondate di
nemici sempre numerosi (già
quattro nel primissimo combattimento!), per sfoltire i quali è imperativo uccidere col minor
numero di attacchi possibili, ricavandosi di volta in volta, grazie
all’animazione dell’esecuzione,
una finestra di invulnerabilità con
cui spezzare gli assalti avversari.
Laddove God of War e Devil May
Cry soccombono al teorema che
vede l’AI costretta a regredire
all’aumentare dei nemici, NGII
oppone agli avversari più agguerriti di sempre un protagonista più
prossimo al semi-dio o al supereroe che non a un guerriero di
ispirazione storica. La linguaccia
di Itagaki non mentiva: scalando
i quattro livelli di difficoltà i nemici perfezionano tattiche su due
linee: fanteria corpo a corpo davanti al fuoco di copertura. Dal livello Mentore in su la loro
disposizione realizza una visione
di gioco che sfuma il confine tra
gameplay e level design. Appostamenti sopraelevati da raggiungere in Flying Swallow (la celebre
picchiata fulminea di Ryu) dopo
due, tre sponde di wall-run orizzontale. Stretti canaloni presidiati
da arcieri propiziano wallrun verticale su una sponda del canale,
salto mortale all’indietro e shuriken esplosivo alla cieca, perché
no, la telecamera non aiuta, ma il
senso della posizione e il salto “a
ricerca” (A+X) sono skill che mettono radici lungo la via del ninja.
Una via lastricata tanto di game
over quanto di soddisfazioni. Perché NGII non è necessariamente
l’action più complesso, più tecnico o più perfetto. Ma per chi
scrive, è certamente il più gratificante. Che sia un balzo felino, un
laccio volante o una truculenta
decapitazione, l’energia espressa
da ogni azione di Ryu si irradia
dallo schermo shakerando adrenalina nel giocatore. All’insuperata dinamica dei pesi di NG1, le
routine atte a simulare emorragie
e mutilazioni sommano la percezione dello smembrarsi delle
masse in gioco. Con il moltiplicarsi del parco mosse e anima-
UN GIOCO DEL CAZZO...
…Per tanti niubbi
Ninja Gaiden è solo
questo. A giudicare da
un dettaglio della
splash screen dell’ultimo stage, con NGII
potrebbero averci
preso. Che qualche grafico Tecmo abbia voluto
togliersi una soddisfazione prima di rassegnare le dimissioni?
MODELLO N.5: HAYABUSA FIEND!
Warlord, cyborg e demoniaca. Gradevoli e ben diversificate, sono le tre collezioni di costumi alternativi acquistabili dal Marketplace per poco più di due
euro l’una. Purtroppo il loro caricamento rallenta
l’avvio di ogni partita di una manciata di secondi.
Picco del guardaroba Hayabusa è però il costume
standard in variante leopardata, complemento ideale per il fisico bestiale di Ryu.
(a sinistra) Come in Devil May Cry
4, sono subito disponibili un livello
di difficoltà per neofiti e uno per
veterani. Al contrario di quanto
avveniva nel titolo Capcom, essi
ben rispondono alle esigenze delle
due categorie.
zioni, questo si traduce in scioccanti coreografie che vedono in
eleganza e tecnicismo il lasciapassare per la sopravvivenza.
C’è del paradosso tutto giapponese in questo mondo kitsch fatto
di corpi stralucidi, fiumi di sangue
e immaginario machista, in cui
Venezia ospita tanto il Colosseo
quanto una cattedrale gotica. E
per contro un protagonista che
riesce a prendersi tremendamente sul serio, come se la sua
vera missione fosse purificare con
la sua danza di morte l’epopea
del cattivo gusto allestita da grafici e sceneggiatori. Kate Moss
che sfila tra la spazzatura di Napoli. Stylish gaming estremo.
Nondimeno, occhieggiano vedute
suggestive, come il maestoso
Hayabusa Castle in stile Himeji o
l’apocalittico scenario infernale.
Strutturalmente, NGII si sbarazza delle ingenuità dell’originale, che inseriva enigmi e
convoluta esplorazione più per
senso del dovere che altro. Una
maturata consapevolezza che si
esprime nella linearità più totale.
Ne deriva un’azione incessante,
ritmata solo da istantanee acro-
bazie tra piattaforme e dal saliscendi di una difficoltà apparentemente mal calibrata, ma
provvidenziale nell’inserire pause
di respiro a margine degli scontri
più duri. Questa capacità di sintesi non ha però sacrificato sezioni meno riuscite: scenografie
solo abbozzate, incommentabili
sparatorie subacquee, troppi nemici per l’arco, avversari in respawn dal nulla, compiaciute
scorrettezze di certi boss e loro
occorrenza consecutiva senza lo
straccio di un save point. Con
l’aggravante dei frequenti affanni
di telecamera e motore grafico.
Tutte defaillance che appannano
un titolo comunque lunghissimo,
che in nulla avrebbe risentito di
qualche taglio. Difetti, è decisivo
chiarirlo, che a tutta prima fanno
gridare allo scandalo, ma che inficiano la rigiocabilità assai meno
di intrusi di design quali il puzzle
delle leve o lo stage acquatico del
primo NG. Perfettamente polished, ma sempre noiosi. Mentre
NGII, con tutti i suoi difetti, è divertimento non-stop per centinaia di ore.
NGII è anche l’ultimo Ninja
Gaiden. Il terremoto che ha investito Tecmo con il licenziamento
di gruppo e la class action inMISSIONI ALLA MODA
tentata da Team Ninja non
Il Mission Mode di NGII, da cui le immagini di
segna solo la fine di un breve
queste pagine, è scaricabile al costo di 800 MS
ma già leggendario franchise.
Points e reca con sé achievement per 250 punti.
È anche metafora di un’induLe missioni Karma consistono in 16 battaglie
stria giapponese che non
stanziali: boss da affrontarsi altrove rispetto alla
tiene il passo e di un genere a storia, boss con sgherri al seguito, due boss contemporaneamente, più boss in sequenza e ondate
rischio estinzione come ogni
fino a 100 avversari assortiti. Inoltre, 8 sfide Soattore del suo mercato, sempre più sensibile al botto dello pravvivenza (una per arma) con nemici infiniti per
lo score attack. Per tutte le missioni sono previsti
shotgun che alla sfida della
quattro livelli di difficoltà e classifiche online. Il
spada. Malcelando le cicatrici
pacchetto costituisce un sostanzioso compledi uno sviluppo travagliato,
mento alla versione da scaffale. Rispetto a Ninja
Gaiden: Black, tuttavia, il ridotto numero di sfide
NGII compie la sua missione,
e la superiore rigiocabilità dell'avventura princiconficcando un’ultima katana
pale non questionano la gerarchia tra le due
nel cimitero ninja sul monte
modalità. Afflitto da freeze cronico al conseguiFuji, epitaffio di una grande
mento del primo achievement, nonché da un conscuola di videogaming. Con il
flitto con il LIVE europeo al successivo avvio, il
suo mentore, Tomonobu ItaMission Mode è stato ritirato a poche ore dalla
messa online insieme a una disgraziata patch.
gaki, proiettato a realizzare il
Risolto il freeze ma non il bug LIVE, cinque giorni
suo sogno di passare alla stodopo è ricomparso accompagnato dalla stessa
ria come la pecora nera del
patch che crea il blocco dello story mode in occagame design.
sione di talune cut-scene. Con Tecmo allo sbando,
9
prima di procedere al download si raccomanda di
accertare la risoluzione di questi problemi.
Qualora abbiate già installato la patch, potete
rimuoverla evidenziando l’hard disk nel menu
Memoria della dashboard e premendo Y, X, X, LB,
RB, X, X.
011
playstation3
SIREN BLOOD CURSE
Non c’è due senza dodici
console ps3 sviluppatore scei produttore scei versione pal provenienza giappone
a cura di Alberto “Floyd” Li Vigni
l primo Siren era una
perfetta sintesi tra un
feroce, creativo gameplay, e una struttura
narrativa curata e originale. Il secondo Siren, invece, manteneva
la base del prequel, riuscendo
anche a essere più accessibile,
ma non aveva né l’impatto né l’irripetibile ispirazione del primo capitolo. Il terzo Siren, Blood Curse
- inizialmente previsto come una
serie di episodi settimanali su
PlayStation Network, poi rilasciato anche come pacchetto
completo - è un improbabile tentativo di riprodurre in chiave contemporanea l’onorevole
capostipite.
L’intero progetto, almeno sulla
carta, aveva certamente dei punti
validi: diventare una sorta di laboratorio mediatico del videogioco, in perfetta sintonia con la
metareferenzialità della serie. Il
risultato è indubbiamente interessante, ma l’ibrido che si viene
a creare è con ogni probabilità
più rimarchevole a livello teorico
che pratico. Blood Curse è infatti
un remake realizzato sotto forma
di serial televisivo, comprendente
quattro capitoli principali (Il richiamo della sirena, Senza
uscita, Il nido dei demoni, La fine
e l’inizio) divisi in dodici capitoli,
ognuno dei quali con un certo
quantitativo di missioni, filmati e
un trailer che annuncia ipoteticamente le prossime ‘uscite’. La
trama racconta le peripezie di
una troupe televisiva americana,
venuta a investigare i misteri del
villaggio di Hanuda, improvvisamente scomparso nel 1976, e di
alcuni personaggi direttamente
legati alle oscure vicende del
luogo. Perfettamente inutile aggiungere che i nostri eroi - ridotti
dai quattordici del primo Siren, a
soli otto - si troveranno ben presto ad affrontare il peggiore incubo della loro vita.
Se da una parte era naturale
attendersi un ridimensionamento
della componente narrativa - per
renderla fruibile anche a chi non
volesse perdersi in un’infinita sequenza di segni da interpretare -
REVIEW
I
012
nel farlo Blood Curse ha anche
perso la quasi totalità dei riferimenti culturali e antropologici, a
favore di una maggiore drammaticità e una nuova enfasi sulla
presenza scenica. Nonostante
questo, il titolo riesce comunque
a mantenere una certa non-linearità, con più linee temporali che si
evolvono parallelamente, e a far
sì che il giocatore continui a partecipare alle possibili letture degli
eventi tramite gli oggetti dell’archivio. I caratteri dei protagonisti
- tutte new entries, a parte
Miyako - sono ora più vicini al
modello occidentale, con rapporti
meglio tratteggiati dal punto di
vista emotivo, il cui massimo
esempio è qui costituito dal triangolo esistente tra Sam, Melissa e
Bella, rispettivamente padre,
madre e figlia. I dialoghi si sono
fatti poi meno criptici, e le cutscene, risentendo dell’influenza
degli horror contemporanei,
danno ora ampio spazio a violenza e gore.
Non è chiaro se questa estetica
sia dovuta al nuovo medium, il
quale richiede comprensibilmente
un approccio diverso rispetto a
un prodotto rilasciato ‘normalmente’, o se in ogni caso
avremmo comunque assistito alla
dissoluzione delle caratteristiche
portanti di Siren. A ogni modo, gli
sviluppatori hanno deciso di mantenere la correlazione che sussisteva nell’originale tra narrazione
e gameplay, semplificando anche
quest’ultimo con la precisa elisione del link navigator e degli
obiettivi secondari sbloccabili.
Non restava che annullare le
asperità delle missioni allora, e
anche questo è stato prontamente risolto accompagnando
per mano l’utente con una serie
continua di informazioni a
schermo e una mappa che indica
la posizione di qualsiasi oggetto.
Inoltre, a differenza di Forbidden
Siren 2, non è neanche possibile
selezionare il livello di difficoltà
hard, né disattivare gli aiuti.
Tutto ciò si rivela davvero eccessivo, anche per un gioco destinato al PSN, tanto da muovere il
titolo di Toyama da un’estremo
Potrà sembrare
strano che Sony
abbia puntato per i
suoi esperimenti di
digital delivery su un
titolo sconosciuto, le
quali meccaniche
hanno peraltro allontanato anche videogiocatori esperti
Che si sia trattato o meno, però, dell’ennesima decisione casuale presa dalla compagnia giapponese in questi ultimi anni, è innegabile che il genere continui ad avere
un fascino particolare per il grande pubblico
all’altro dei survival horror.
A questo punto si potrà facilmente immaginare che di Siren
sia rimasto ben poco, e che piuttosto di un rifacimento si tratti di
una nuova produzione che ne riprende vagamente alcune peculiarità. La realtà non è troppo
distante. Sono sì presenti alcune
delle vecchie locazioni dell’originale, ma sono state profondamente modificate e rese meno
complesse a livello di interazione.
I nuovi ambienti, poi, non fanno
che seguire compiaciuti questa
falsariga. Gli enigmi, soprattutto
quelli che richiedono il sightjacking - la particolare abilità
dei protagonisti di vedere tramite
i nemici - sono pressoché inesistenti, in quanto la quasi totalità
degli obiettivi dei capitoli consiste
nel ritrovare l’oggetto x o recarsi
al luogo y. Ovviamente entrambi
presenti sulla mappa. Solo verso
la fine le missioni si fanno più impegnative e le informazioni disponibili per il completamento meno
chiare. Peccato che qui il gioco ci
arrivi troppo tardi.
Nonostante la mancanza di
sfida faccia calare fortemente la
tensione, l’atmosfera resta probabilmente l’aspetto migliore di
Blood Curse. Grazie anche a un
motore grafico che riesce a nascondere bene i suoi limiti e, al
tempo stesso, a impressionare il
giocatore con un efficace sistema
di illuminazione propenso a immergere Hanuda in una coltre
fatta di misteriose ombre e tenue
luci. Questo terzo Siren ricorda i
precedenti titoli della saga solo
esteriormente, senza averne la
profondità che aveva tanto entusiasmato gli appassionati, se non
in alcuni rari, ma preziosi momenti. Difficile pure consigliarlo a
chi cerca solo un degno esponente del genere, perché decisamente troppo facile e guidato
rispetto alla media dei survival
horror. E peccato che per questo
sia invece arrivato troppo presto.
5
013
ps3 xbox360
SOUL CALIBUR 4
Impiccheranno Voldo con una corda d’oro
console 360 sviluppatore project soul produttore namco bandai versione pal provenienza giappone
a cura di Tommaso “Gatsu” De Benetti
i sono due cose che
avrei voluto leggere
nelle recensioni di Soul
Calibur IV apparse online fino a questo momento, ma
stranamente nessuno le ha menzionate. La prima: nel momento
in cui Namco dà la possibilità ai
giocatori di crearsi i propri personaggi tramite un editor potente
come quello incluso nel titolo,
l’intero cast di Soul Calibur perde
completamente importanza e il
cuore del gioco viene d’improvviso ridotto al suo sistema di
combattimento. La seconda:
SCIV è un gioco che indiscutibilmente si esprime al meglio online, ma questo fatto superficialmente positivo - getta
anche ombre inquietanti. Ombre
sia su alcune scelte che riguardano le meccaniche, sia sul valore che questo titolo potrà avere
nel lungo periodo, quando l’eccitamento generale sarà scemato a
favore di qualche altro picchiaduro.
Mi rendo conto che il voto a
fondo pagina potrebbe causare
scompensi cardiaci ai fan di lunga
data. Prima però di accasciarvi su
voi stessi, lasciatemi esplicitare
ciò che mi turba. In generale
SCIV è un degno successore degli
altri titoli della saga, e se tanto vi
basta, allora il consiglio è di spegnere il computer e aprire il portafoglio. Tutto quello che
potevate aspettarvi c’è: tanti personaggi? Check. Tette grosse?
Check. Duelli con la spada laser?
Check. Storia senza senso?
Check. Achievement impegnativi?
Check. Miliardi di mosse che vi
costringeranno a settimane di
pratica prima di poter dire di
saper giocare per davvero?
Check. Button mashing per
niubbi? Check.
L’assottigliarsi delle alternative
offline non va visto necessariamente come un dramma. La modalità storia - questo è un fatto
- si può tranquillamente completare premendo i bottoni a
caso. Va però ricordato che della
trama di Soul Calibur non frega
niente a nessuno, tantomeno agli
REVIEW
C
014
autori della serie che storicamente non hanno mai badato alla
coerenza fra i testi proposti e
quello che accade a schermo. Si
tratta, in sostanza, solo di un ‘tutorial mascherato’, utile a familiarizzare con i personaggi, il
sistema di abilità e le novità di
questa quarta iterazione.
La Torre delle Anime è invece di
gran lunga una delle aggiunte più
intriganti del nuovo episodio e si
configura a tutti gli effetti come
la vera polpa dell’esperienza single player. Divisa in due parti distinte, prevede stage con un
numero variabile di nemici che
vanno sconfitti a condizioni precise, per sbloccare item da utilizzare a posteriori nell’editor dei
personaggi (ascesa) o un survival
mode in tag (discesa) che diventa
via via più improbabile. Il livello
di sfida per soddisfare le condizioni è alto, malignamente calibrato e impossibile da sostenere
senza consapevolezza delle abilità con cui si possono equipaggiare i personaggi.
È qui che però si manifesta, per
la prima volta, una delle ‘problematiche’ più serie che affliggono
il gioco: la totale de-personalizzazione degli avversari. O meglio, la
disintegrazione del roster classico. Nella Torre gli avversari
quasi mai appartengono alla lista
dei personaggi selezionabili in
modalità Storia o Arcade, ma
sono piuttosto cesellati con mestiere tramite l’editor dei personaggi accessibile anche ai
giocatori. Questo fatto, di per sé
positivo per la varietà dell’esperienza, ha l’effetto straniante di
allentare i legami che fino al
terzo episodio della saga ci hanno
legato a personalità come Voldo,
Maxi e compagnia danzante.
Mi domando allora: nel momento in cui un giocatore - con
un minimo di sbattimento nell’editor - può dare vita a guerrieri
decisamente più interessanti di
quelli standard, la rosa di partenza non perde completamente
di significato? È difficile non chiedersi se questo editor, dettagliato
al punto da consentire la neanche
tanto approssimativa riproduzione di personaggi provenienti
da altri universi (Final Fantasy
VII, Devil May Cry, Mortal Kombat, 300 e chissà cos’altro), non
Come accennato da
qualche parte in questa recensione, l’eccellente editor ha
dato sfogo ai peggio
otaku del mondo. Osservate esterrefatti
questi video e provate a smentirmi:
http://it.youtube.co
m/watch?v=touO1L9
GF8M (Final Fantasy
VII) …
http://it.youtube.com/watch?v=0V2aEEWJzq4 (Batman & Joker) ;
http://it.youtube.com/watch?v=p_falPmVos4 (No More Heroes) ;
http://it.youtube.com/watch?v=YUQwfKnUepI (Street Fighter) ;
http://it.youtube.com/watch?v=U-tqh50mGDc (Star Fox) ;
http://it.youtube.com/watch?v=p3DoB0v4DUU (Devil May Cry) ;
http://it.youtube.com/watch?v=BJiTeKSy41w (Zelda).
sia un punto di svolta - o piuttosto di arrivo - per Soul Calibur.
Al di là di questo aspetto, negativo solo nell'ottica di eredità
del brand, non convincono pienamente le sbandierate Critical Finisher, sostanzialmente delle
fatality in salsa Namco. Non per
l'effetto che hanno (concludere lo
scontro immediatamente), ma
per il sistema che le regola, inutilmente complesso e talmente
restrittivo che il gioco in singolo
non apre mai concrete finestre di
tempo in cui utilizzarle (con alcune eccezioni nella Torre delle
Anime). Pur conservando un
certo senso nell'ottica del gioco
online, dove evitano comportamenti troppo difensivi, in generale danno l'impressione di tanto
rumore per nulla.
Infine, l'online. Come anticipato
è la parte migliore del gioco, sia
perchè in generale funziona
senza lag, sia perchè permette di
visionare le - spesso meravigliose
- creazioni degli altri giocatori. In
più, è praticamente l'unico momento del gioco in cui è possibile
utilizzare l'arsenale di colpi dei
lottatori in tutta la loro esten-
sione.
È per questo che Soul Calibur
IV, pur rappresentando forse il
miglior esponente del genere su
next gen, lascia l'amaro in bocca.
Perché quando la gente inizierà
ad abbandonarlo, tutto quello che
ci rimarrà in mano sarà una modalità single player un po' vuota e
con quei limiti intrinseci che, in
mancanza di un secondo sfidante,
ci terranno lontani dai segreti
della Soul Edge.
7
015
nintendo ds
SUMMON NIGHT: TWIN AGE
Silence!
console DS sviluppatore flightplan produttore atlus versione usa provenienza giappone
a cura di Michele “Guren no kishi” Zanetti
na piccola casetta su
un’isola nei pressi del
continente. Una ragazza umana, Reiha e
una summon beast di nome Aldo
che vivono insieme come fratello
e sorella. Il padre di lei si è sacrificato sette anni prima per salvarli. Entrambi, a causa dei loro
poteri, possono sentire la voce
degli spiriti e - a quanto pare qualcosa di sinistro sta accadendo nel continente. Inizia così
questa nuova incarnazione del
franchise Summon Night per DS,
di cui si può notare subito la cura
posta nel cercare di coinvolgere il
giocatore nella storia.
I dialoghi avvengono secondo il
punto di vista di chi avete deciso
di prendere controllo. Cambiano
anche parzialmente alcune scene,
come tutte le conversazioni a fine
capitolo con i vari comprimari.
Per vedere molto di ciò che Summon Night: Twin Age ha da offrire
a livello di trama, si rendono necessarie almeno due partite.
Mentre, se puntate a vedere tutte
le conversazioni e portare al massimo tutti i rank dei personaggi,
state certi che ve ne serviranno
molte di più. Il gioco è piuttosto
breve, una ventina di ore compresi i dungeon bonus ed è possibile cominciare una nuova
avventura tenendo i soldi, i rank,
le skill imparate, nonché i rispettivi livelli. Peccato solo che le
armi che avevate creato con
tanta fatica vi vengano invece
tolte.
Nel gioco, durante le numerose
fasi esplorative, potrete incappare in varie casse e vasi da distruggere. Spesso questi oggetti
contengono materiali preziosi che
vi potranno poi tornare utili per
forgiare spade, armature e gustosi dolci… da impiegare come
ricariche veloci se combinati con
quanto i nemici si lasciano alle
spalle, cadendo sotto i colpi della
vostra furia. I soldi sono sempre
molto limitati e spesso creare un
equipaggiamento vi fa risparmiare tantissimo rispetto a comprare lo stesso oggetto dal
mercante ladrone. È anche possi-
REVIEW
U
016
bile imprimere varie caratteristiche elementali alle proprie armi.
Da notare come, nel caso un mostro abbia una grande resistenza
a un certo elemento, questo
possa finire per assorbire le vostre magie.
Non è sempre saggio ‘spammare’ incantesimi devastanti con
Reiha. Tanto che è quasi meglio
starsene in disparte e osservare
la situazione, mentre Aldo si scatena in tecniche di spada, ascia o
lancia, che ben poco scampo lasciano a dei nemici inermi. L’AI
infatti è piuttosto scadente e di
solito ricorre solo a un paio di tattiche: o cercherà di soverchiarvi
gettandovi addosso mostri su
mostri o, nel caso dei boss fight
più impegnativi, utilizzerà skill su
skill, a una velocità assurda,
senza darvi la possibilità di attaccare. Ogni volta che una skill
viene selezionata e usata passa
un tempo di carica prima che
entri in azione, durante il quale
l’utilizzatore è invincibile. Vale
anche per voi, quindi con un minimo di strategia, e finché avrete
punti abilità a disposizione, non
avrete difficoltà a sopravvivere.
Per converso, i vostri due comprimari potrebbero morire facilmente, visto che se l’AI dei
mostri normali lascia a desiderare, quella dei supporter è ancora peggio. In battaglia si può
controllare direttamente solo Aldo
o Reiha. Se i due sono vicini si
possono anche scambiare velocemente i ruoli. Mentre per Aldo l’AI
fa un lavoro egregio, soprattutto
una volta imparate le tecniche più
avanzate, con Reiha e il supporter di turno è un disastro. Entrate
in una nuova locazione e… dove
sono gli altri due personaggi? Davanti a voi, che così facendo magari attirano uno stormo di mostri
che non finisce più. State per
morire e avete bisogno di una
magia di ricarica? Oppure, siete
stati colpiti da uno status negativo e vi serve una cura immediata? Potete solo sperare che
l’intelligenza artificiale si accorga
che siete in difficoltà e vi tiri fuori
dai guai. O anche solo che si ricordi che Reiha e Ayn sono in
grado di lanciare magie devastanti standosene a debita di-
Twin Age è l’ennesimo
spin-off della serie
Summon Night, presente da un bel po’ di
tempo in nippolandia,
ma mai arrivata sui
lidi occidentali con gli
episodi principali della
saga. Una serie che ha
perso l’autobus dell’occidente
stanza dal nemico. E, invece, dove
li piazza la CPU? Direttamente addosso agli avversari. Contro certi
boss significa morte certa.
Quando tutti e tre i personaggi
muoiono è game over. I personaggi
possono ritornare in vita solo dopo
un lungo periodo di tempo, oppure
uscendo dalla locazione dove vi trovate. Fortunatamente i save point
sono distribuiti molto bene, e nei
pochi casi in cui vi capiterà di ripetere certi scontri potrete sempre
velocizzare di parecchio cut scene e
dialoghi, semplicemente tenendo
premuti R+B. Ogni JRPG dovrebbe
avere un’opzione del genere, se
proprio non si vuole o non si può
inserire una funzione di skip. Per
non parlare della grande comodità
di poter passare ai dialoghi seguenti premendo la croce direzionale. Considerando che tutto il
sistema di gioco (accesso ai menu,
uso delle skill, attacchi, distruzione
di casse e vasi) avviene tramite uso
del pennino su touch screen, far riposare un attimo la mano destra è
proprio ciò che ci vuole.
Tra i numerosi menu a disposizione durante le fasi esplorative, il
più importante è quello dove possiamo assegnare oggetti e skill alle
due ‘command palette’: una serie
di slot verticali ai bordi dello
schermo da cui poi selezionare ciò
che si vuole usare. Solo nella
mappa del mondo possiamo avere
accesso ad alcuni particolari menu.
Possiamo decidere chi portarci dietro come support character e controllare il livello del rank, che più
alto è, maggiore sarà l’aiuto che il
supporter offrirà in battaglia. Per
modo di dire. Il rank sale parlando
con quel determinato personaggio
a fine capitolo o durante certi
eventi, peccato che salga così lentamente da sembrare una presa
per il culo.
Sempre nella mappa del mondo,
è anche possibile instaurare piccole
conversazioni con il party per avere
informazioni extra su dove andare
e cosa fare. Abbastanza inutile
visto che è impossibile perdersi.
Magari impostandole di più sulla
falsariga degli skit dei vari Tales of
il risultato sarebbe stato migliore.
Un altro menu permette di usare la
funzione ‘conjure beast’: sarà sufficiente trovare un contenitore e un
pezzo di un mostro per poterlo generare e portare con sé in battaglia. Ma la voce più importante è
rappresentata dall’accesso all’al-
bero delle abilità, divise in ranghi.
A ogni level up si ottengono punti
da spendere per imparare nuove
tecniche. Imparando skill elementari, inoltre, se ne sbloccano via via
di più complesse. Ogni skill è potenziabile per sette livelli, ma prima
di poter accedere a certi potenziamenti si deve raggiungere il livello
di esperienza specifico richiesto. È
un peccato che il cambio dei membri del party e l’accesso all’apprendimento delle skill sia possibile solo
dalla mappa del mondo, anziché in
qualsiasi momento.
Infine, il gioco è molto semplice,
anche a causa di un’abilità che vi
permette di ricaricare migliaia di
punti abilità a costo zero. Praticamente pensata per i livelli bonus,
accessibili dopo il termine della storia principale. Abusarne è piuttosto
semplice: ha un tempo di carica
decisamente lungo, ma come detto
più sopra, durante la carica siete
invincibili. L’unico motivo di frustrazione che potrete avere deriverà
proprio dall’abuso di questa invincibilità da parte di un paio di boss,
ma perseverando ne uscirete vittoriosi. Basta imbroccare il giro giusto.
8
Il doppiaggio è abbastanza
buono. Vi sono poche battute interamente doppiate,
ma i numerosi dialoghi
sono accompagnati da vari
voice over per le espressioni di stupore o per parole singole che
enfatizzano e sottolineano
con molta efficacia il tono
con cui andrebbero lette
molte battute. Esperimento riuscito
017
nintendo ds
FROM THE ABYSS
Quello che passa il convento
console ds sviluppatore sonic powered produttore aksys games versione usa provenienza giappone
a cura di Michele “Guren no kishi” Zanetti
onic Powered deve
aver pensato che per
divertirsi non servono
budget milionari. E
neanche team faraonici impegnati
sull’ultimo remake o seguito di
questo o quel gioco. Basta un
manipolo di uomini, come ai vecchi tempi. From the Abyss non
sarà l’action jrpg più divertente o
originale del mondo, ma una piccola manciata di ore d’intrattenimento per tutti riesce comunque
a metterle in campo.
Scelto il nostro avatar tra i pochi
disponibili, saremo subito investiti
dalla ‘stupefacente’ trama e dai
grandi eventi che lo sceneggiatore
ha pensato per noi: c’è un regno.
Nei suoi confini vi è un portale magico sigillato in modo che i demoni
non possano uscire. Parte del sigillo viene sciolto, le truppe del
regno non riescono a contrastare
la minaccia. In quanto avventuriero in cerca di fortuna, riuscite a
ottenere un’udienza con la regina
e a farvi spiegare la situazione. Da
lì in poi starà a voi ripulire ogni
abisso delle sue forze malvagie e
dal boss di turno. Gli abissi non
sono altro che i livelli del gioco,
suddivisi in quattro stage a testa.
Il level design non fa impazzire e
gli scenari inquadrati a volo d’uccello sanno tutti di già visto. Pianure, cittadelle, vulcani, terre
innevate... il solito, ma almeno
rappresentato discretamente in
2D.
Compito del giocatore è quello
di trovare l’uscita di ogni livello
generato casualmente, uccidere il
boss di turno, sbloccare l’abisso
successivo e così via fino al boss
finale. Ogni livello e stage sbloccato è poi disponibile per la selezione tramite menu, in questo
modo potrete anche riaffrontare
più e più volte gli stessi boss per
un po’ di sano grinding. Da notare, anche, che i nemici normali
si rigenerano non appena si esce
da una locazione per poi rimettervi piede. A ogni level up è poi
possibile distribuire alcuni punti
alle statistiche base.
Il vostro sprite è in grado di
usare varie armi che influenzano
REVIEW
S
018
abbastanza il gameplay. Un conto
è ‘spammare’ magie da lontano,
un altro caricare a testa bassa armati di un ascia possente. Il negozio in città dispone di tutto ciò
di cui potreste avere bisogno,
mentre nella taverna sarà possibile lasciare in deposito oggetti e
skill superflue. Durante le fasi
esplorative si possono cambiare
equipaggiamenti e skill semplicemente toccando col pennino le
apposite opzioni nello schermo
inferiore.
Fin dall’inizio dell’avventura si è
in possesso di una particolare
tecnica che permette l’assorbimento delle abilità degli avversari
al costo di un decimo dei propri
skill point (che si rigenerano pian
piano col tempo, tramite uso di
pozioni o a ogni level up). Ogni
stage mette in campo almeno un
nuovo nemico dotato di una
nuova abilità e, nel caso assorbiate un’abilità già in vostro possesso, ciò che otterrete sarà
invece una ricarica dei punti ferita pari alla metà di quelli in possesso del mostro. Nelle prime fasi
di gioco è un’ottima strategia per
sopravvivere fino a quando non si
entra in possesso delle apposite
magie. Le skill, inoltre, possono essere
assegnate ai tasti X, Y e B, hanno
spesso costi molto bassi e, visto
che nessuno vi vieta di concatenarne varie di fila, le potrete alternare ai colpi normali falciando
così tutto e tutti. Il livello di difficoltà del gioco è talmente infimo
che difficilmente avrete problemi
a far piazza pulita anche dei boss
più imponenti. Al termine dell’avventura è possibile rigiocare ogni
livello con avversari dieci volte
più forti: ottimo motivo per farvi
aiutare da un amico in multiplayer.
In conclusione, FTA è un gioco
pensato per chi non ha grandi
pretese e vuole qualcosa di estremamente accessibile con cui trastullarsi in attesa di tempi
migliori. Sufficiente sì, ma un po’
d’impegno extra nel gameplay e
qualche limatura in più non
avrebbero guastato.
6
Le skill nel gioco sono molte
e tra queste ve ne sono
troppe di decisamente sbilanciate a vostro favore. In
compenso, è piuttosto difficile divincolarsi nel caso veniate colpiti in pieno da
certe magie avversarie. Insomma, o così o pomì
xbox360
VIVA PINATA:
False friends
GUAI IN PARADISO
console 360 sviluppatore rare ltd produttore microsoft versione pal provenienza uk/usa
uando ho cominciato a
zappare la terra, nel
lontano e remoto 2006,
ero un allevatore inesperto, ingenuo e pasticcione. Ricordo un giorno che una papera
litigò con il castoro e furono scintille e fuoco e fiamme. Ricordo il
primo albero di mele cresciuto
male e il dispiacere di una pianta
rinsecchita in giardino. Ricordo
tutti gli errori commessi allora,
errori figli di un tutorial confuso e
della fretta di toccare subito tutta
la carta che mi saltellava in giardino. Ricordo di aver sbagliato e
di aver rimediato, ricordo un giardino devastato dalla guerra civile
e una volpe da monta recintata
per costringerla a far figli. Ricordo sessantasette ore di gioco
totali, un pappagallo morto dal
valore inestimabile e un fottuto
leone nel mio grazioso giardino.
Viva Piñata 2, Anno del Signore
2008, è un seguito perfetto nel
rispettare le meccaniche del suo
predecessore, attento nel rifinire
quanto poteva essere criticabile,
furbo nell’addomesticare i vecchi
tempi morti, una mezza merda se
si è giocato il primo episodio. Datemi un Amen.
Più remake che seguito, Viva
Piñata 2 costringe il giocatore a
rivivere il suo passato come se
non lo avesse visto con i propri
occhi. Come Funny Games, il
nuovo è troppo indistinguibile dal
vecchio per trarne qualche giovamento. Le stesse piñate di un
tempo si lasciano catturare senza
sorprese e quelle nuove, parecchie a dire il vero, restano varianti di un universo più grande
ma costretto nelle stesse regole.
Le piante ricominciano a crescere
e a morire come se due anni non
fossero passati e i biglietti da
sessanta euro non fossero due.
Tutto è già visto, tutto è già fatto,
tutto è già stato superato e vinto
prima ancora di impugnare pala e
annaffiatoio. E se manca il piacere della scoperta, se viene
meno quel beffardo sorrisino
compiaciuto per la scelta del giusto fertilizzante, Viva Piñata è
meno di niente.
Q
Eppure, di novità vere e proprie ce ne
sarebbero pure,
peccato che
nessuna di queste valga davvero il prezzo di
mezza candela.
La modalità
cooperativa
aiuta a fraternizzare, regala
nuove amicizie,
aiuta nuovi
amori, ma lascia il gioco a
terra, senza
l’ombra di un
decollo. Le
trappole e i due
giardini inesplorati sono
più un fastidio
che non un allegro passatempo.
Caricamenti,
attese e ancora caricamenti, rendono la cattura di una piñata selvaggia una fatica non
direttamente proporzionale al
premio ricevuto. Novità gradevole
e apprezzata, comunque, se paragonata alla ingombrante presenza di minigiochi sputati
direttamente dal clamoroso insuccesso commerciale di Party
Animals. La corsa di piñate è la
sintesi perfetta tra un Mario Kart
- senza i kart, i personaggi Nintendo, il divertimento, i bonus e i
malus spassosi e le piste allegre e una sinuosa linea retta. Robaccia capace di accontentare i collezionisti di achievements, ma
incapace di sollazzare l’entusiasmo di chiunque altro. Datemi
una pernacchia.
Qualcuno non si è giocato il
primo Viva Piñata, lo so, me lo
sento. Quel qualcuno dovrebbe
correre in negozio e spendere
tutti i suoi risparmi per questo
‘Guai in Paradiso’… se un mostro
con tre teste e mille denti si fosse
mangiato tutte le copie a pochi
spicci del primo capitolo. Perché
se non lo conosci, Viva Piñata -
REVIEW
a cura di Vincenzo “Vitoiuvara” Aversa
che sia il primo o sia il
secondo - non dovresti
evitarlo. Un gestionale
divertente e colorato
che richiede buona pianificazione e nervi saldi
e che non ha problemi
di concorrenza. Un gestionale quadrato e faraonico che premia la
fantasia e punisce la disattenzione. Quel qualcuno si divertirà un
sacco, beato lui.
6
Obiettivo per la cattura di piñata tramite
Live Vision inside. Uno dei peggiori modi
di Microsoft di vendere telecamere.
019
xbox360
BRAID
L’ometto simpatico
console 360 sviluppatore number none inc. produttore number none inc. versione pal provenienza usa
a cura di Vincenzo “Vitoiuvara” Aversa
l nuovo che avanza, nel
mondo dei videogiochi,
avanza sempre da
un’altra parte. Ecco allora che Braid, giochino privo di
branchi di scimmie da hype sulle
spalle, sfugge ai generi, alle definizioni e ai ricordi da giocatore
smaliziato. Un’avventura che inizia dove il resto dei videogiochi
finisce, un’esperienza che stupisce prima ancora di divertire.
A guardarlo in fotografia, Braid
somiglia a un platform andato a
male. Stile da vendere, per carità, ma gli ambienti quasi sterili
e la fauna piatta e immutabile
non sono articoli di cui andare
fieri. Eppure tutto ha un senso e
nuova vita quando scopri di non
averci mai giocato prima a Braid.
Stordito dall’assenza di un tutorial chiarificatore, sei costretto a
sprecare l’aiuto da casa già alla
prima domanda. Perché ti guardi
intorno e non capisci cosa fare,
perché non trovi le monete da
raccogliere, perché i nemici che
uccidi prima o poi tornano in vita.
E allora capisci che non è un
platform Braid, e nemmeno gli
somiglia.
A giocarlo faccia a faccia, Braid
è una lotta contro il tempo. Ma
niente corse forsennate, niente
fugaci occhiate al cronometro, il
tempo è l’avversario e va sconfitto con la furia di un cervello
preparato. Ogni singolo pezzo di
puzzle è una sfida all’umana intelligenza. La soluzione è sempre
talmente vicina da restarsene invisibile per ore. È lì, in quella
schermata e a pochi passi da te,
ma non la vedi. Perché è nascosta bene, perché è geniale, perché non sai pensare in una lingua
tanto diversa e perché è una
stronza. Sì, perché è una stronza
che ti scappa dalle mani almeno
cento volte prima di farsi catturare. E poi, quando la incontri, ti
fai un applauso, ti canti una canzone e procedi di un pezzo.
Dopo un mondo di livelli pensi
di aver appreso tutto, ma neanche quello è vero. Un passo
avanti c’è un altro mondo, tutto
nuovo, con regole tutte sue che
REVIEW
I
020
nessuno si prende la briga di
spiegare. Ma è tutto nella scoperta il segreto di questo Braid,
spogliato dei suoi segreti resta
ben poco altro da raccontare ai
nipoti. Un’avventura, un falso
platform, un puzzle game atipico,
qualunque cosa sia, Braid è
buono finché caldo. Buono buono,
però, tanto da valerne comunque
la pena. Le poche ore di gioco potrebbero storcere il naso di chi ha
pagato il salato biglietto, ma se il
brodo non lo allunghi, ti mangi
solo le verdure. Quello che c’è è
reale, palpabile, niente aria fritta
per accontentare le folle.
A leggerlo parola per parola,
Braid è una meravigliosa storia
d’amore che non si lascia capire.
Potrebbe essere una buffonata da
quattro soldi, non posso escluderlo, ma i messaggi sono lontani, imprecisi, inafferrabili. Così
provi a ricomporre i frammenti di
una narrazione confusa e non ti
spieghi se è follia o solo perfezione. Colpa della scelta maniacale dei testi, dell’atmosfera
surreale e di una tristezza di sottofondo che non si dichiara ma si
rivela attimo dopo attimo. Narra
la leggenda di velati
riferimenti a mondi
distrutti da pacifiche
bombe atomiche. Se
è vero, non son stato abbastanza
bravo da leggere tra le righe. Per
me Braid resta la commovente
storia d’amore di un ometto simpatico, in un gioco esemplare, in
un mondo tristemente e sfarzosamente colorato.
Dopo quindici anni di stereotipate missioni di salvataggio, con
Braid ho riscoperto i videogiochi.
Ho ritrovato quella sensazione di
innaturale smarrimento e ho brindato alla rabbia da impotenza.
Sono stato un uomo perso in un
mondo che non conoscevo affatto. Voglio esserlo ancora.
9
55.000 copie nella
prima settimana. Forse
rischiare non è sempre
sinonimo di insuccesso
in questa industria
1492
a cura di
Marco “Il Pupazzo Gnawd” Barbero
alla scoperta delle ‘indie’
C
zi
al
e
’è
una filone nel sottobosco indipendente che snobba
le convenzioni. Non vuole intrattenere,
vuole emozionare passando dal cuore al
cervello e ritorno. Jason Roher, Tale of Tales e
Rod Humble (sul quale ci si soffermerà il mese
prossimo) sono alcuni degli esponenti più in
vista, fautori di un videogioco - se così si può chiamare - che stimola a pensare, che racchiude al suo
interno significati e che tronfiamente li mette in
piazza, delineandone così la sua diversità. È un videogioco fortemente autoriale, che pretende di essere sviscerato, pretende un minimo di dedizione
cerebrale. È un videogioco che si regge su strutture ludiche scarne e che senza approfondimento risulta monco, ma è anche un
coraggioso inizio. Se 1492 è un viaggio,
non può esimersi dall’iniziare.
is
t
en
s
e e
t
r
a
GRAVI
TATION
Scaricate Gravitation al seguente indirizzo http://hcsoftware.sourceforge.net/gravitation
J
ason Roher, ancora lui. Dopo quella
botta di adrenalina che va sotto il
nome di Passage, l’artista statunitense si cimenta nuovamente nella definizione in forma ludica degli stati
emozionali umani. Lo fa attraverso la
pixel art e la malinconia, quello che sta
diventando a tutti gli effetti un marchio
di fabbrica. Il risultato, questa volta, non
è di immediata assimilazione. Non è solo
l’assenza di una - a tratti pedante - spiegazione dei più piccoli significati dell’opera a rendere Gravitation meno
accessibile di Passage. Gravitation, per
la sua natura maggiormente personale,
è effettivamente più ostico da interpretare. Incastonata in una struttura di arcaico platform game è racchiusa una
visione, come scrive lo stesso Roher,
sulla “mania, malinconia e il processo
creativo”. C’è invero qualcosa di ancora
più universale: gli equilibri e i legami familiari, un tema già lambito nel precedente lavoro con l’introduzione della
compagna di viaggio (vedi Babel 006).
Spogliate della loro poesia, le meccaniche di gioco prevedono una fase di caricamento, rappresentata dal giocare con
il proprio figlio - che, nonostante le apparenze, ha i cromosomi xx - dopo la
quale è possibile compiere poderosi balzi
verso l’alto, esplorando così le piattaforme soprastanti per recuperare le
stelle da convertire in punti, spingendole
all’interno del camino. Quello che Roher
tenta di trasmettere è l’alternarsi di stati
sottesi alla genesi della scintilla creativa
e delle sue conseguenze: l’euforia (la
testa in fiamme con vaghe reminescenze
di The Great Giana Sisters), l’isolamento
artistico che tende ad allontanare dagli
affetti, e la centralità di questi ultimi
nell’alimentare l’inventiva. Il rapporto di
limitazione/ricompensa nel relazionarsi
con i propri familiari si esplica in maniera simile in quanto visto in Passage.
L’affetto amplia le proprie possibilità, ma
ne preclude altre. Una visione che è
valsa a Roher critiche francamente fuori
bersaglio. L’approccio non è pessimistico, è intriso di realismo. Quello che un
figlio - o una compagna - può dare, analizzato in modo meccanico, è un percorso. Un ventaglio di possibilità che,
giocoforza - a meno di dinamiche ‘non
standard’ - ne preclude altre.
Gravitation, così come Passage, è il
trionfo del controllo autoriale sul videogioco. Se uno dei problemi storici nel
trasmettere un messaggio è quello di
non sapere se il fruitore sarà in grado di
superare le sfide proposte, la risposta di
Roher è un controllo totale sull’arco
temporale della sua ‘storia’. Gravitation,
così come Passage, ha un preciso tempo
di gioco che esula dalle capacità dell’u-
tente. Il successo di tale approccio sta
nel trasformare il giocatore in spettatore
senza limitarne la possibilità di scelta e
senza corrompere l’impatto artistico.
Otto minuti per inscenare la propria pagina ludica e scardinare le metafore proposte. Metafore, come si scriveva in
apertura, non chiare al primo impatto.
La barriera è prevalentemente linguistica. I simbolismi adottati sono molto
personali, destinati a rimanere parzialmente oscuri senza un’imbeccata da
parte dell’autore. Ma personale è la parola chiave dell’intera opera. Non più incanalate da una dichiarazione d’intenti
arduamente mal interpretabile, le sensazioni sono libere di plasmare l’esperienza in modo del tutto soggettivo.
Esiste una ‘vera’ interpretazione di Gravitation, ma se uno dei punti di forza del
videogame è generare storie personali
all’interno di determinati confini, allora
l’opera di Roher è un vero e proprio manifesto del videogame. La sua forza è
sapere innanzitutto emozionare. Anche
senza elaborate pippe mentali per decostruirne i simboli, il mondo delineato
parla al cuore.
Con ogni probabilità il primo viaggio all’interno di Gravitation si concluderà con
una ricerca forsennata di stelle che inevitabilmente incastreranno il figlio al di
là di una barriera inamovibile. L’avidità e
l’egoismo hanno portato a un allontanamento definitivo, a un’incomunicabilità
nei confronti dei propri affetti, che si allontaneranno lasciando come unica compagnia la solitudine, e un
incancrenimento su sé stessi. Roher comunica tutto ciò attraverso il gameplay
e misurati indizi visivi. Che un quadratino rosso di pochi pixel riesca a esprimere con tale forza la tristezza
dell’abbandono è un risultato di per sé.
Alla stessa stregua, il modificarsi del
proprio spazio visivo e il crescendo musicale sono magistrali nel sottolineare gli
stati d’animo del protagonista, i propri
stati d’animo. Perché Gravitation si vive
sulla propria pelle, lo si incarna nel
profondo ricavandone una lezione, una
storia personale da raccontare. Visioni
alternative che spaziano dalla perdita
del fanciullino (dove giocatore e bambino sono due proiezioni della stessa figura) alla mitizzazione dei fratelli
maggiori. E se tutto ciò vi sembrasse fin
troppo pretenzioso, si può sempre optare per la dissacrante interpretazione
data da roBurky nel forum di Rock Paper
Shotgun: “Non lasciare mai casa tua
per esplorare il mondo: i tuoi figli potrebbero essere rapiti”.
021
odama
C
ULI, TETTE, SESSO
GRATIS! Il lettore
scuserà la sfacciataggine. Quanto scritto
potrebbe essere interpretato come un modo truffaldino di attirare qualche
‘spippettatore’ accanito,
sperando poi che il soggetto in questione trovi
interesse in quanto segue
- il gruppo demografico,
d’altra parte, dovrebbe
essere più o meno il medesimo - ma c’è un motivo più ficcante: l’opera
di Yoot Saito, già autore
del delirante Seaman, ha
più aderenze con quell’incipit di quanto non si
possa supporre. Innanzitutto è anch’essa uno
specchietto per le allodole…
Vestito di ostentata originalità e microfonia
varia, Odama è, nel suo
midollo, nient’altro che un
elaborato flipper al quale
Vivarium ha aggiunto una
blanda ma efficace struttura RTS, da gestire tramite comandi vocali e
pad. Lo scopo di ogni livello è quello di aiutare il
proprio drappello militare
a trasportare una campana verso l’uscita del
piano di gioco. La biglia,
qui chiamata Odama, è il
principale strumento offensivo, capace di travolgere qualsiasi cosa sul
suo cammino (propri soldati compresi). L’ulteriore
controllo del campo di
battaglia deriva dalla possibilità di impartire alle
022
nintendo
vivarium
gamecube
2006
yoot saito
milizie (giapponesi) comandi (in italiano) indispensabili per mettere in
atto la propria strategia.
La buona notizia è che i
nippo hanno studiato la
lingua di Dante, comprendendola perfettamente.
La cattiva è che, come
l’incipit di cui sopra,
Odama è hardcore fino al
midollo, fatto strano per
un titolo Nintendo di
prima fila o giù di lì. Colpire i respingenti giusti in
un flipper è cosa ardua
già di per sé, nel momento in cui si saturano i
tasti del pad di funzioni,
si aggiungono comandi
vocali e si richiede di
compiere determinate
azioni in sequenza, il
tutto evitando accuratamente di non falcidiare le
proprie milizie… beh, diciamo che è la cosa più
vicina alla sodomia senza
sputo che si possa provare: fa male la prima
volta e difficilmente ci si
abitua in quelle successive.
Odama manca di lubrificante, non fluidifica l’approccio ma impenna la
curva di apprendimento
manco fosse Ricky Carmichael. Le dita si aggrovigliano sui tasti (tutti
utilizzati, anche lo Z e la
croce direzionale) in
un’orgia dolorosa, frustrante, punitiva. È sadomaso senza ‘sado’. Si
impiegano settimane solo
per conquistare la prima
manciata di livelli, per poi
di marco barbero
GIOCHI DI MERDA!
essere massacrati senza
pietà dallo stronzissimo
boss del Tempio Aracneo.
E ci si chiede perché. Perché si riesca a superare
uno stage in maniera casuale, perché l’Odama sia
così lenta da lasciare
sguarniti nei momenti
peggiori e perché, al contrario, a volte paia schizzare vivendo di vita
propria, appropriandosi di
quella dei sottoposti.
Ma spesso - troppo
spesso - ci si chiede perché accanirsi visto che la
difficoltà valica con
troppa frequenza il limite
dell’accettabile, trasformando quello che dovrebbe essere un
divertimento in un passatempo che spesso divertente non è. Il motivo è
che Odama è pieno di
passione e attenzione ai
dettagli, e lo si vorrebbe
apprezzare fino in fondo.
Un gioco così originale,
fuori dagli schemi e anti
commerciale lo si vorrebbe amare, ma non in
maniera così hardcore.
Queste sono cose che richiedono passione vera.
Odama, invece, è sesso
mercenario, lui la passione la svilisce, la accoglie a braccia aperte per
buttarla noncurante nel
cesso. Il sudore per arrivare all’orgasmo ludico è
eccessivo e la ricompensa
che sa offrire non è all’altezza della dedizione che
chiede in cambio.
w w w. a r s l u d i c a . o r g
LA
CRU
DEL
TA’
a cura di Simone “Karat45” Tagliaferri
duto, che nel suo contenuto vero
e proprio. Contenuto, del resto,
tranquillamente manipolabile in
più sensi: un paio di frasi e lo si
poteva capovolgere. Magari i puritani lo avrebbero additato lo
stesso - altrimenti che puritani
sarebbero? - ma va ricordato che,
nonostante i pixel grossi come
brufoli, anche le vecchie console
e i computer a 8 bit avevano una
discreta scelta di titoli proibiti. I
quali, a parte qualche battuta,
non suscitarono reazioni degne di
passare alla storia.
Nello stesso, citavo come
esempio anche Shellshock dei
Guerrilla (gli stessi di Killzone) in
cui è necessario torturare dei prigionieri per andare avanti. Ovviamente i torturati fanno parte
E ti capita di scrivere un articolo
[http://arsludica.org/2008/08/07 dell’esercito rivale, ma poco im/shepard-il-generale-custer-e-la- porta. In questo caso lo scandalo
è stato sicuramente minore,
crudelta/] in cui affermi che l’inanche se non sono mancate pacoscienza anarchica e amorale
che ha portato qualcuno a svilup- role di sdegno da parte soprattutto della stampa specializzata,
pare un gioco come Custer’s Reche pare non abbia apprezzato
venge per Atari 2600, aveva
molto. Eppure la tortura calza a
mostrato come sfruttare il mepennello in un gioco dedicato alla
dium videoludico per mettere il
guerra del Vietnam. Molti film crigiocatore di fronte a una scelta
tici verso l’operato degli Stati
paradossale dettata dal conteUniti durante il conflitto ne hanno
nuto: giocare o non giocare?
in più occasioni mostrato i lati
E ti capita poi di pensare che,
oscuri. Penso ad Apocalypse Now
in fondo, quel gioco in cui si stuprava un’indiana legata a un palo o a Platoon, tanto per fare due
era terribile più per il modo in cui esempi celebri. I videogiochi, inveniva presentato, che per il con- vece, hanno sempre tergiversato
tenuto in sé. Se lo stesso identico e si sono limitati a proporne il
gioco si fosse chiamato Custer’s
lato eroico. Il lato buono per la
Love e se ci fosse stato scritto sul propaganda, insomma, come del
manuale utente che Custer, inna- resto hanno sempre fatto per
morato di un’indiana, doveva rag- tutte le guerre (ad esempio la
giungerla per coronare il loro
Seconda Guerra Mondiale). I due
sogno d’amore facendo sesso
stessi film citati, ridotti in pixel,
sfrenato, lo scandalo si sarebbe
sono stati stravolti nel contenuto.
evitato. Anzi, probabilmente si
I Guerrilla, con un atto provosarebbe ricordato il gioco come
catoriamente consapevole, hanno
un mediocre tentativo di realizvolutamente scelto di rompere la
zare un porno interattivo su una
retorica dell’eroe, trasformando il
console dalle potenzialità grafiche giocatore in un torturatore e metdecisamente limitate, e magari
tendolo davanti a una scelta: gioqualcuno lo avrebbe innalzato a
care o non giocare? Partecipare al
esempio di tolleranza e amore tra gioco torturando, oppure rifiui popoli. Invece, gli autori hanno
tarlo abbandonandolo? La scelta
tenuto a sottolineare che di stunon è scontata perché ci sono
pro si trattava, venendo giustamolti fattori da considerare, e
mente additati come razzisti,
credo che, nella stragrande magsessisti e anche un po’ stronzi,
gioranza dei casi, chi ha acquidiciamocelo.
stato il gioco abbia deciso di
E quindi ti capita di riconsideproseguire... almeno per non varare l’oggetto dello scandalo e di
nificare i soldi spesi.
individuarlo più nel modo con cui
Proseguire sì, ma all’interno di
il gioco è stato presentato e ven- un contesto alterato in cui l’eroi-
smo è macchiato e appannato da
un gesto collegato, nell’immaginario comune, ai ‘cattivi’. Sono i
cattivi che torturano provocando
dolore. Lo fanno per estorcere
informazioni, per far confessare
qualcosa oppure, semplicemente,
per causare sofferenza in onore
al loro ruolo. Le torture inflitte dai
cattivi possono essere mostruose
ma, nell’immaginario collettivo,
sono accettabili e, anzi, rendono
più giusta la vendetta. Anche
quando questa sa essere crudele,
non a caso il lettore trova tanta
più soddisfazione nel seguire le
gesta del Conte di Montecristo,
più apprende delle sofferenze che
ha patito.
Il deuteragonista è destinato a
morire, oppure semplicemente a
perdere. Ma come si può giocare
con qualcosa che ci rende torturatori? Anche solo per un attimo
si è costretti a straniarsi dal gioco
e a compiere una scelta esterna a
esso, fosse pure presa in un solo
secondo - a meno che uno non
sia un sadico pazzo che si diverte
a torturare le persone - per poter
continuare a giocare. In questo
senso il contenuto videoludico diventa destabilizzante, perché
rompe la trama dell’ovvio e,
senza offrire alternative accetta-
In Shellshock il delirio di onnipotenza del giocatore, solitamente
incanalato su binari morali atti a
giustificarlo, viene smascherato e
brutalizzato. Come in Custer’s Revenge, l’atto viene mostrato senza
mediazioni, ma con una volontà
autoriale più forte e meditata,
meno legata allo sghignazzo volgare e più cosciente delle sue possibilità
bili in gioco, costringe a rinegoziare i propri valori fuori da esso.
A quel punto non c’è trama che
tenga e il risultato appare scontato: per andare avanti ho torturato. Volente o no, sono stato
partecipe di quel gesto. Anzi, io
stesso l’ho compiuto deliberatamente. Non ne sono colpevole,
ovviamente - neanche tanto - e
non ho causato alcun dolore
reale. Anzi, posso anche vederlo
come un modo per rappresentare
la guerra con più realismo rispetto a un Vietcong o a un Call
of Duty qualsiasi. Ma è il mio
agire che ha prodotto quella rappresentazione di cui sono diventato attore consapevole. Una
rappresentazione che, davanti a
un mio diniego, sarebbe rimasta
latente e sospesa tra le righe del
codice.
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