Teoria delle aspettative

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Teoria delle aspettative
RIVISTA BANCARIA
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MINERVA BANCARIA
ISTITUTO DI CULTURA BANCARIA «FRANCESCO PARRILLO»
Settembre-Dicembre 2010
5-6
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RIVISTA BANCARIA
MINERVA BANCARIA
ANNO LXVI (NUOVA SERIE)
SETTEMBRE-DICEMBRE 2010 N. 5/6
SOMMARIO
G. DI GIORGIO
MICHEL MARTONE
Contro i tabù: più mobilità nel pubblico impiego »
3
Saggi
D. CURCIO
Modelling Italian Bank Retail Interest Rates
I. GIANFRANCESCO under an error correction framework:
implications for banking risk management
»
5
Contributi
G. DI GIORGIO
P. PARASCANDOLO
In Search for Growth and Productivity:
Analysis and Policy Suggestions
for the Italian Economy
31
M. STELLA RICHTER
Prime considerazioni
sul dividendo maggiorato
59
Rubriche
Le banche italiane verso Basilea 3: un modello di stima d’impatto
(M. Comana)
»
75
I meccanismi di trasmissione della recente crisi finanziaria:
l’interazione tra funding e market liquidity risk (I. Gianfrancesco)
»
83
Agenti in attività finanziaria e mediatori creditizi. La nuova disciplina.
(D. Roselli)
»
95
Bankpedia:
Nuove voci pubblicate:
TEORIA DELLE ASPETTATIVE (R. De Santis);
RESPONSABILITÀ SOCIALE D’IMPRESA (V. Gentile);
MATRICE DI CONTABILITÀ SOCIALE (C. Notaro);
» 107
Elenco dei referees
» 123
Indice dell’annata 2010
» 125
Presidente del Comitato Scientifico: Giorgio Di Giorgio
Direttore Responsabile: Giovanni Parrillo
Comitato di redazione: Eloisa Campioni - Mario Cataldo - Domenico Curcio - Vincenzo
Formisano - Pina Murè - Giovanni Scanagatta - Giovanpietro Scotto di Carlo
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ISSN: 1594-7556
Econ.Lit
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BANKPEDIA,
IL DIZIONARIO ENCICLOPEDICO ON-LINE
DI BANCA, BORSA E FINANZA (*)
VOCI PUBBLICATE
1. Teoria delle aspettative, di R. De Santis
2. Responsabilità sociale d’impresa, di V. Gentile
3. Matrice di contabilità sociale, di C. Notaro
4. Arbitro bancario finanziario – ABF, di B. Giannini
***
1. Teoria delle aspettative, (R. De Santis)
Nella letteratura economica con il termine aspettative si intende l’insieme delle previsioni avanzate dagli operatori economici, sulla base delle proprie informazioni e
delle proprie intuizioni, circa l’andamento delle variabili economiche nel futuro.
Uno dei primi a sottolineare il ruolo delle aspettative nell’influenzare il comportamento presente degli operatori economici fu Keynes1, che tuttavia non formulò un’esplicita teoria della loro formazione, limitandosi ad addebitare a irrazionali animal spirits le scelte economiche degli individui.
Le prime trattazioni formali relative alla teoria delle aspettative sono state avanzate a partire dagli anni ’40:
i) Le aspettative estrapolative. A partire dagli anni ’40, Metzler2 e altri formulano l’ipotesi di aspettative estrapolative, secondo la quale il valore atteso di una variabile al tempo t dipende dalla sua realizzazione al tempo t-1 e, in base al valore
di un parametro di apprendimento, dalla sua evoluzione tra t-2 e t-1:
1
2
Keynes, John Maynard (1936)
Metzler, L. A., (1941)
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xt = xt-1 + λ (xt-1-xt-2)
(1)
Questo spiegherebbe una certa viscosità del processo di adattamento ai mutamenti delle variabili economiche;
ii) Le aspettative adattive. Sul finire degli anni ’50 Nerlove3 formula l’ipotesi di
aspettative adattive, secondo la quale il valore atteso di una variabile al tempo t dipende dal suo valore atteso al tempo t-1 e, in base al valore di un parametro λ di
apprendimento, dalla sua realizzazione in t-1 rispetto al suo valore atteso in t-1.
Una semplice versione di questa teoria è rappresentabile attraverso l’equazione (2)
e
dove xte è il valore atteso della variabile; xt-1
è la formulazione delle aspettative
sulla variabile al tempo t-1 e x-1 è il valore effettivamente assunto dalla variabile al
tempo t-1
e
e
e
xte = xt-1
+ λ (xt-1
- xt-1
)
(2)
Con λ che varia tra 0 and 1, si indica che le aspettative correnti su di una variabile riflettono le aspettative passate e un fattore di correzione di errore. La teoria
delle aspettative adattive può essere applicata a xα periodi precedenti e in tal caso l’equazione cambia come nella (3):
α
xie= (1 - λ)j-oΣ(λj xj)
(3)
e
dove xj è uguale al valore attualizzato della variabile per j anni nel passato. Quindi, le aspettative correnti sono una media ponderata dei valori passati della variabile, con pesi decrescenti mano a mano che ci si allontana dal presente.
Sia la teoria delle aspettative estrapolative sia quella delle aspettative adattive sono casi particolari di modelli a ritardi distribuiti (RD) e presentano tre limiti principali: i) usano ipotesi arbitrarie, ii) non fanno uso ottimale delle informazioni
disponibili e iii) implicano la possibilità di errori sistematici nella formulazione
delle aspettative.
Muth4 giudicando insoddisfacenti i modelli di aspettative sin ad allora avanzati,
introduce nel 1961 una nuova teoria, basata sull’assunto che gli individui, in
quanto operatori razionali, sfruttano tutte le informazioni disponibili sul sistema economico: la teoria delle Aspettative Razionali (AR). In pratica, all’informazione, risorsa scarsa e costosa, viene applicato lo schema neoclassico di utilizzo efficiente.
Nella sua teoria delle Aspettative Razionali (AR), Muth osserva che: i) in quan3
4
2
M. Nerlove, (1958)
Muth, J. (1961).
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to previsioni consapevoli e informate di eventi economici futuri le aspettative debbono essere derivate da una teoria economica; ii) gli agenti economici sfruttano
in maniera ottimale l’informazione che è scarsa e costosa; iii) la formulazione delle aspettative è endogena al sistema economico.
In particolare, la previsione soggettiva di ogni operatore coincide con la speranza matematica o valore oggettivo atteso della variabile stessa, condizionale rispetto alle informazioni disponibili nel momento in cui l’aspettativa viene formulata. Le AR risultano quindi essere le previsioni ottimali formulabili dagli agenti sulla base delle informazioni esistenti.
Si avrà quindi:
e
xte = E (xt/
It-1)
(4)
Dove E indica l’operatore speranza matematica e It-1 l’insieme delle informazioni disponibili alla fine del periodo precedente quello per cui l’attesa deve essere
formulata. In tal modo, è possibile che gli agenti commettano errori di previsione, ma le aspettative non saranno sistematicamente errate, ovvero saranno in media esatte. L’errore di previsione εt sarà quindi una variabile casuale con media nulla e assenza di autocorrelazione seriale. Avremo cioè:
xte = xt + εt
E(εt)= 0
-t
E(εt•εt-1) = 0V
Se εt non fosse una variabile casuale sarebbe peraltro contraddetta l’ipotesi che
gli agenti utilizzano tutta l’informazione disponibile in maniera ottimale. Un errore sistematico implicherebbe, infatti, l’esistenza di qualche tipo di informazione non pienamente utilizzata, compresa la storia passata degli errori, con la
conseguenza che si potrebbe migliorare la precisione della previsione incorporando tali errori nelle informazioni disponibili.
La teoria delle aspettative razionali è stata spesso criticata soprattutto per la sua irrealisticità: in primo luogo le informazioni sono costose quindi sarebbe più corretto modellizzare aspettative “economicamente” razionali nel senso che un’aspettativa può essere formulata in modo corretto solo se il costo di acquisire l’informazione necessaria per una previsione corretta è inferiore al beneficio di avere l’informazione necessaria. Inoltre, la fondamentale aleatorietà che caratterizza l’andamento delle variabili, suggerisce che il futuro non può essere previsto e che quindi nessuna aspettativa è propriamente “razionale”, infine le verifiche empiriche relative all’ipotesi di aspettative razionali hanno condotto a risultati non univoci.
L’ipotesi di aspettative razionali è stata usata a supporto di alcune conclusioni raRIVISTA BANCARIA - MINERVA BANCARIA N. 5-6/2010
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dicali circa l’efficacia della politica economica. A tal proposito si possono citare i
lavori di Sargent e Wallace5 e di R. Lucas6 quali principali esponenti della teoria neoclassica. Qust’ultima sostiene, infatti, che qualsiasi misura di politica economica,
pubblicamente annunciata e quindi nota agli agenti, è inefficace sulle grandezze
reali, in quanto gli agenti razionali ne scontano immediatamente gli effetti futuri e adeguano il loro comportamento alle loro aspettative, producendo esattamente il risultato atteso a priori (“aspettative autorealizzantesi”). Solo shock stocastici possono determinare deviazioni delle variabili reali dal loro livello naturale.
Inoltre, le manovre di politica economica annunciate hanno effetti nulli sulle grandezze reali, ma producono conseguenze ben definite su quelle monetarie: in
particolare una politica fiscale o monetaria discrezionale espansiva può fare aumentare il livello generale dei prezzi. In presenza di politiche annunciate, dunque,
l’ipotesi di AR ha l’effetto di produrre istantaneamente gli stessi risultati che
emergevano dall’analisi dei monetaristi di prima generazione7 in un orizzonte temporale di lungo periodo.
2. Responsabilità sociale d’impresa (V. Gentile)
2.1 Definizione
L’espressione Responsabilità Sociale d’Impresa (RSI) descrive la relazione tra le imprese, intese come maggiori attori economici e la società. Anche se negli ultimi decenni l’interesse crescente verso tali tematiche ha dato vita a numerosi studi e ad un
intenso dibattito internazionale, attualmente non esiste ancora una definizione univoca della RSI (Correll 1999; Snider et al., 2003; Dahlsrud 2008). Risulta, tuttavia,
proficuo ricostruire brevemente il dibattito nelle sue linee generali per chiarire alcune caratteristiche comuni alle differenti posizioni degli studiosi.
Quando negli anni ’60 si cominciava a discutere sulla responsabilità sociale e sui
rapporti tra mercato e società, l’economista Milton Friedman si pose a difesa del
libero mercato asserendo che l’unica responsabilità sociale dell’impresa consiste
nell’“usare le sue risorse e dedicarsi ad attività volte ad aumentare i propri profitti a patto che essa rimanga all’interno delle regole del gioco, il che equivale a sostenere che competa apertamente e liberamente senza ricorrere all’inganno o alla frode (Friedman 1962)”8.
5
6
7
8
4
Sargent, Thomas J. e Neil Wallace (1981).
Lucas R., (1972, 1976)
Friedman, Milton, (1968)
Citato in italiano in D’Orazio (2003)
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La tesi di Friedman, definita da alcuni come “minimalismo morale” (Freeman and
Werhane 2005), ha dato origine ad una vasta letteratura relativa all’etica degli affari concernente l’estensione e il contenuto della responsabilità sociale dei soggetti economici. In generale, i critici della posizione di Friedman sono portati a
ritenere che il mercato debba essere inteso in una prospettiva più ampia e che in
tal senso i profitti di un’impresa debbano creare un beneficio per la società nel suo
complesso.
Tuttavia, come notato da Freeman e Werhane (2005), sin dai primi studi la
questione centrale dell’indagine sulla “responsabilità sociale” risiede nell’impossibilità di separare la questione sociale da quella economica. In effetti, le critiche
al minimalismo morale di Friedman e di altri sostenitori del libero mercato
non avrebbero potuto sottovalutare l’importanza dell’aspetto economico. A tal
proposito, nel 1979 Carroll identifica quattro componenti della RSI: economica, legale, etica e discrezionale o filantropica. In questa classificazione è evidente la critica alla tesi di Friedman, che riesce solo parzialmente a spiegare il contenuto della RSI.
Dal punto di vista teorico, comunque, la risposta al minimalismo morale arriva
negli anni ’80 con l’approccio fondato sugli stakeholder di Freeman (Evan e
Freeman 1988; Freeman 1994). Il nuovo approccio sostituisce l’idea minimalista
secondo cui l’impresa debba essere responsabile esclusivamente nei confronti degli azionisti con una visione più ampia che vede l’impresa responsabile verso un
ampio gruppo di portatori di interesse (stakeholder) che include fornitori, clienti, azionisti e comunità locale. Secondo Freeman, rientrano in questo gruppo tutti gli individui o gruppi che hanno “un interesse legittimo o una pretesa legittima
sull’impresa” (citato in D’Orazio 2003, p. 13).
Negli ultimi due decenni la letteratura relativa alla RSI ha offerto un gran numero di teorie ed approcci, dalla teoria dei contratti sociali integrativi e della cittadinanza d’impresa alla teoria della sostenibilità. Le seguenti sezioni hanno
l’obiettivo di offrire un’introduzione generale all’evoluzione del concetto di
RSI. Si offre, inoltre, una breve descrizione delle maggiori teorie etico-normative contemporanee sulla RSI9.
2.2 Evoluzione della nozione della RSI
Il concetto di RSI nasce negli Stati Uniti nella seconda metà del Novecento. Convenzionalmente, si ritiene che il testo di Bowen, Social Responsibilities of the
Businessman del 1953, sia il primo lavoro in cui sia possibile rintracciare il fonda9
Le teorie considerate in questa sezione sono la teoria degli stakeholders, la teoria dei contratti sociali integrativi e quella della cittadinanza d’impresa, per quanto concerne la teoria della sostenibilità si veda Sostenibilità.
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mento etico della nozione contemporanea di RSI. Bowen, definito da alcuni
come il “padre della RSI” (Carroll 1999, Garriga e Melé 2004), descrive gli attori economici come vincolati sul piano morale a promuovere quelle politiche
economiche e pratiche di comportamento “desiderabili” per la società10.
All’opera di Bowen ha fatto seguito, nel decennio successivo, una vasta letteratura sul tema della responsabilità sociale. Tuttavia, in questa fase, l’impresa
non compare ancora come soggetto principale dell’indagine; gran parte degli studi di questi anni individuano, infatti, nella figura dell’attore economico (businessman) il soggetto cui imputare la responsabilità sociale delle proprie azioni, mentre l’oggetto principale delle ricerche riguarda i rapporti tra mondo degli affari
e la società. Nel 1960, Keith Davis collega la responsabilità sociale a quelle
azioni e decisioni poste in essere dall’uomo d’affari e che non sono strettamente connesse al suo diretto interesse economico. Nello stesso periodo un altro autore, William Frederick afferma che la responsabilità sociale impone all’uomo d’affari di tener conto nelle proprie operazioni in campo economico delle
esigenze della società (citati in Carroll 1999, p. 271). Solo alcuni anni più tardi,
nel 1967, l’impresa compare per la prima volta associata alla società nella definizione di responsabilità sociale, nel libro di Clarence C. Walton, Corporate Social
Responsibilities. Secondo Walton, la nozione di responsabilità sociale riconosce
l’intimo legame esistente tra l’impresa e la società e impone agli attori economici di considerare questo legame nelle operazioni economiche (citato in Carroll
1999, p. 272).
Negli anni ’70 la nozione di responsabilità sociale diviene più specifica ed è
maggiormente approfondito il ruolo dell’impresa come attore economico responsabile nei confronti della società; sono, dunque, questi gli anni in cui avviene il passaggio dalla responsabilità sociale alla RSI. Nel 1976, H. Gordon Fitch definisce
la RSI come capacità dell’impresa di risolvere problemi sociali, ponendo dunque
l’accento sulla distinzione tra problemi sociali e questioni economiche (citato in
Carroll 1999, p. 281). Il rapporto tra imprese e società viene ulteriormente sviluppato nel 1979, quando Carroll offre una definizione di RSI che supera la
mera idea di profitto e di obbedienza alle leggi statali. Secondo Carroll la RSI
esprime tutte le aspettative economiche, legali, etiche e discrezionali della società nei confronti dell’impresa (Carroll 1999, p. 283).
Solo nel ventennio successivo, tuttavia, la nozione di RSI è stata rielaborata da un
punto di vista concettuale e teorico. A partire dagli anni ’80 la RSI è stata oggetto d’interesse da parte delle scienze sociali ed economiche; in particolare, l’impre-
10
6
Secondo Bowen, “[ responsabilità sociale ] si riferisce all’obbligo degli uomini d’affari di perseguire quelle politiche, di prendere quelle decisioni, o di seguire quelle linee di azione che sono desiderabili in termini di obiettivi e valori della nostra società”, citato in Carroll (1999, p. 270) e Freeman (2005, p. 553).
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sa e le questioni connesse alla responsabilità sociale assumono una posizione centrale nell’etica degli affari. Inoltre, risalgono agli anni ’80 e ’90 i maggiori studi empirici volti a testare le performance della responsabilità dell’impresa. La prima e
più rilevante risposta a carattere normativo è la teoria degli stakeholder, formulata per la prima volta da Freeman nei primi anni ’80.
2.3 Approccio fondato sugli stakeholder
L’espressione stakeholder è oggi di uso comune nelle pratiche associate alla RSI
ed è divenuto uno standard nel monitoraggio della performance sociale dell’impresa. Questa nozione, che introduce un nuovo soggetto in ambito economico,
i portatori di interessi legittimi (stakeholder), è stata utilizzata per la prima
volta da Edward Freeman nel 1984 per rispondere all’idea generale, supportata
da numerosi economisti, secondo cui la principale responsabilità degli attori economici fosse legata alla massimizzazione dei profitti. Al contrario, la teoria
degli stakeholder sostiene che l’obiettivo di ciascuna impresa è, o dovrebbe essere, rivolto alla soddisfazione delle aspettative di tutti gli individui o gruppi portatori di interessi legittimi nei confronti dell’impresa (Freeman e
Werhane 2005).
“Il vero obiettivo dell’impresa [e dunque dei suoi dirigenti] è di servire come veicolo per coordinare gli interessi degli stakeholder. È attraverso l’impresa [ed i suoi
dirigenti] che ciascun gruppo di stakeholder migliora la propria posizione attraverso uno scambio volontario.[…] ognuno di questi gruppi di stakeholder ha il diritto di non essere trattato come un mezzo per qualche fine, e pertanto deve partecipare della direzione futura dell’impresa in cui ha interesse.”11
In termini generali, gli stakeholder possono essere definiti non solo come quei
gruppi o individui che traggono vantaggio o svantaggio dalle attività dell’impresa, ma anche come portatori di determinati diritti (Freeman e Werhane 2005).12
In tal senso, per poter determinare come un’ impresa dovrebbe comportarsi in
situazioni specifiche, occorre identificare ciascuna delle parti con cui l’impresa
interagisce e tutti gli interessi in gioco. Generalmente, il gruppo degli stakeholder include lavoratori, dirigenti, proprietari (shareholder), consumatori, clienti e la comunità locale.
Il ruolo svolto dagli stakeholder è duplice: per un verso le pretese di cui essi sono
portatori costituiscono i limiti alla legittimità aziendale, nel senso che indicano
lo scopo e la priorità dell’impresa stessa; per altro verso, il focus sugli stakeholder
11
12
In Evan and Freeman (1988, p.104), traduzione dell’autore.
Come notato da D’Orazio, nella teoria gli stakeholder sono considerati dei “soggetti morali titolari di diritti”
(D’Orazio 2003, p.14).
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implica un rapporto di responsabilità e fiducia reciproca tra di loro. A tal proposito, alcuni autori notano che le relazioni tra stakeholder introducono ulteriori obblighi relativi all’organizzazione aziendale stessa (Freeman e Werhane 2005). Ad
esempio, un’impresa ha degli obblighi nei confronti dei suoi lavoratori in quanto lavoratori ed esseri umani. I lavoratori, invece, hanno degli obblighi derivanti dal ruolo che rivestono all’interno dell’impresa oltre che i generali obblighi
morali che vincolano le relazioni tra individui e tra lavoratori e l’impresa (Freeman e Werhane 2005). La teoria degli stakeholder costruisce, dunque, un fitto reticolato di relazioni fiduciarie all’interno e fuori dell’impresa che vincola l’impresa verso i suoi stakeholder e viceversa.
In letteratura è possibile distinguere almeno due posizioni critiche in relazione
alla teoria degli stakeholder. Secondo alcuni autori, la teoria rischia di non risolvere un problema morale di fondo legato all’attività dell’impresa. In altre parole, sarebbe possibile pensare ad un’ impresa, che pur rispettando i vincoli posti tra
tutti gli stakeholder, pratichi attività economiche non accettabili da un punto di
vista morale. In verità, la teoria degli stakeholder sin dalle sue prime formulazioni (Edward 1984) presuppone il riferimento alla teoria morale Kantiana. In tale
prospettiva, poiché le relazioni tra stakeholder sono relazioni tra individui o
gruppi di individui, si presuppone che ogni decisione presa per il proprio interesse sia vincolata all’eguale rispetto per le persone e per i diritti di ciascuno. Ed, inoltre, in uno schema sano di accordo tra gli stakeholder, gli individui dovrebbero
mantenere una certa autonomia nel valutare dal punto di vista etico le attività dell’impresa (Freeman e Werhane 2005, p. 562).
La seconda critica alla teoria, per certi versi collegata alla prima, si sofferma poi
sul rapporto fiduciario tra stakeholder13. Secondo Goodpaster, ad esempio, l’approccio multi-fiduciario non tiene conto delle differenze relazionali esistenti tra
i vari soggetti. In particolare, il rapporto tra dirigenti (manager) e azionisti/proprietari (shareholder) dell’impresa sarebbe diverso e più forte di quello tra dirigenti e altri stakeholder, e dunque in caso di conflitto la prima relazione avrebbe priorità sulle altre (Goodpaster 1991). In realtà, oltre al fondamento Kantiano, la teoria introduce uno schema normativo volto ad eliminare la possibilità di conflitti in tal senso. Nel 1994, Freeman e Evan offrono una formulazione della teoria basata sulla teoria Rawlsiana del contratto sociale (Freeman e Evan 1994a;
Rawls 1971). Nella nuova formulazione il principio di eguaglianza dei contraenti è garantito dal ricorso al “velo d’ignoranza” Rawlsiano, secondo cui i contraenti/stakeholder non conoscono “quali interessi particolari realmente hanno
nell’impresa” (citato in D’Orazio 2003, p. 22). Questo sistema consente ai due
filosofi di ritenere che tutti i contraenti sarebbero motivati a scegliere quei prin13
8
Citato in D’Orazio (2003).
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cipi che regoleranno le attività dell’impresa che garantiscano il massimo livello di
profitto compatibile con le maggiori garanzie sociali per gli altri stakeholder.
La teoria degli stakeholder rappresenta la risposta più incisiva al minimalismo morale della responsabilità d’impresa tipico dell’approccio economico liberale.
Come si è detto, questa teoria ha il pregio di introdurre la questione dell’impatto sociale delle attività economiche dell’impresa senza sottovalutare l’importanza delle questioni economiche di crescita dei profitti e sviluppo dell’impresa. La
teoria, infatti, si basa sull’assunzione che l’impresa crea valore per gli stakeholder
non meno di quanto ciascun gruppo faccia nei confronti dell’impresa, ed è questo meccanismo di reciproco scambio che permette all’impresa, intesa come
organizzazione, di crescere in maniera sana.
2.4 Teoria dei contratti sociali integrativi (Integrative Social Contracts Theory)
Accanto alla teoria degli stakeholder, un altro approccio alla RSI si è recentemente imposto all’attenzione del dibattito internazionale, la teoria dei contratti
sociali collettivi. Evidente è il richiamo alla teoria filosofico-politica del contrattualismo, tuttavia in tale contesto la formula contrattualistica è riproposta per spiegare e giustificare lo “status” delle imprese all’interno della società piuttosto che
le regole di costituzione delle imprese stesse (Freeman e Werhane 2005, p. 559).
Per primo, Donaldson aveva considerato la relazione tra mercato e società nei termini del contratto sociale di tipo Lockeano (Donaldson 1982; citato anche in
Freeman e Werhane 2005 e Garriga e Melé 2004). Secondo il filosofo statunitense, esisterebbe un implicito contratto sociale tra società e impresa. In particolare, dal momento in cui un’impresa è autorizzata dalla società ad operare in una determinata comunità, assume implicitamente degli obblighi verso di essa; questi
obblighi costituiscono il fondamento del contratto tra impresa e società (Freeman e Werhane 2005, p. 559). Se per un verso la società si impegna a consentire
il libero agire economico dell’impresa, per altro verso, l’impresa deve impegnarsi a rispettare le aspettative della società, che, secondo Donaldson, riguardano il miglioramento del benessere generale attraverso “la soddisfazione dei consumatori ed il rispetto degli interessi dei lavoratori” (Donaldson 1982, p. 44ff).
L’idea contrattuale sostenuta da Donaldson ebbe un impatto importante nella letteratura sulla RSI, poiché offriva un fondamento teorico all’idea di responsabilità morale d’impresa14. Tuttavia, la sua proposta, concentrando l’attenzione sugli obblighi dell’impresa verso l’esterno, la società nel suo complesso, non prendeva in considerazione le relazioni interne all’impresa e, quindi, gli stakeholder.
14
Sul significato di responsabilità morale e di impresa intesa come agente morale si veda anche il paragrafo 3.1
L’analisi dell’impresa nell’etica degli affair, della voce Etica degli affari.
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Nel 1994, Donaldson e Dunfee hanno ripreso la teoria del contratto sociale
applicata al rapporto tra società e impresa offrendone una versione più matura,
la teoria dei contratti sociali integrativi. La nuova teoria ha lo scopo di integrare
la prima formulazione del 1982 e superarne i limiti. Questo obiettivo è raggiunto attraverso la scomposizione dell’accordo tra società e impresa in due
fasi contrattuali distinte: la prima fase generale, il macrocontratto sociale, garantisce lo standard morale per ogni contrattazione sociale; mentre la seconda, i successivi micro contratti sociali, garantisce l’autonomia dei membri delle singole
comunità economiche di specificare le proprie regole di condotta interne. Secondo i due filosofi, infatti, è possibile ritenere che una comunità di individui razionali accetterebbe un ipotetico contratto sociale (macrosocial contract) generale,
che lasci alle singole comunità economiche locali un significativo spazio di libera scelta morale “moral free space” entro cui sia possibile generare delle norme proprie di condotta economica attraverso contratti sociali più ristretti (microsocial
contracts) (Donaldson e Dunfee 1995, p. 99).
Come si è detto, nello schema della teoria dei contratti sociali integrativi, il
contratto macrosociale ha lo scopo di fornire lo standard morale valido per tutti i successivi accordi. Tuttavia, il contenuto delle norme generali oggetto del macrocontratto non è ancora chiaramente definito. Secondo Donaldson e Dunfee,
esso potrebbe includere principi sufficientemente generali e universali quali, il rispetto dei contratti, la buona fede, il rispetto dei diritti fondamentali degli individui, l’equità di trattamento, eccetera (Donaldson e Dunfee 1995, p. 95-6).
Nonostante la poca chiarezza circa il contenuto delle norme morali generali, l’idea
di uno standard morale, seppur minimo, proposto dalla teoria dei contratti sociali integrativi, offre un contributo importante alla letteratura sulla RSI. Il contratto macrosociale, infatti, garantisce la giustificazione della RSI su scala internazionale pur rispettando differenze di tipo culturale o organizzativo esistenti nei diversi contesti territoriali.
2.5 Cittadinanza d’impresa
Un recente sviluppo della RSI è, infine, quello della cittadinanza d’impresa.
Sebbene l’idea di considerare l’impresa come un cittadino al pari di altri individui
sia già presente in letteratura dagli anni ’70 (Davis 1973), come notato da Garriga e Melé questo concetto è divenuto più rilevante negli ultimi anni a causa di una
serie di fattori, tra cui la crisi del sistema del welfare e il fenomeno della globalizzazione e della deregolamentazione ad esso correlato, che hanno contribuito a
rendere alcune imprese multinazionali più forti di interi paesi sia dal punto di vista economico che da quello sociale (Garriga e Melé 2004, pp. 56-57).
La tesi di fondo di quest’approccio si basa sull’analogia con il concetto di citta-
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dinanza valido per i cittadini (Valor 2005). Tuttavia, nel caso dell’impresa il concetto di cittadinanza, e degli obblighi e diritti ad essa correlati, è circoscritto alle attività economiche poste in essere dall’impresa in una determinata comunità
sociale e politica. In tal senso, l’idea di cittadinanza ha lo scopo di enfatizzare l’obbligo dell’impresa di sostenere e cooperare con il governo per il benessere generale e la giustizia sociale (Freeman e Werhane 2005, p. 563).
Pur non esistendo in letteratura una definizione univoca di cittadinanza d’impresa, è possibile rintracciare alcuni elementi comuni a molti studi, tra cui in particolare l’enfasi sull’idea di responsabilità nei confronti della comunità territoriale in cui l’impresa opera e l’attenzione per le questioni ambientali (Garriga e
Melé 2004).
3. Matrice di contabilità sociale, (C. Notaro)
La matrice di contabilità sociale (in Inglese Social Accounting Matrix da cui
l’acronimo SAM) è uno strumento di analisi economica derivato dalla più famosa matrice input-output (la matrice I-O) di Leontief. Essa è stata largamente utilizzata sia nell’analisi delle economie in via di sviluppo, nell’affrontare problemi
particolarmente gravi quali di distribuzione del reddito, sia negli studi delle
economie più sviluppate. Partendo dalla SAM, infatti, si realizzano modelli di
equilibrio economico generale che, rispetto ad altri, hanno la peculiarità di inserire la distribuzione del reddito all’interno del processo economico, permettendo allo stesso tempo di guardare a tale distribuzione come, causa ed effetto dei
processi di formazione del reddito. Il successo riscosso dal sistema di contabilità sociale nelle applicazioni ai Paesi sottosviluppati è da rintracciarsi principalmente nella caratteristica di tale metodo che permette di combinare dati puramente
economici con informazioni di carattere sociale.
L’importanza della SAM è cresciuta nel corso del tempo, poiché essa si è evoluta in uno strumento flessibile, applicabile alle diverse realtà locali, e, nel sistema
statistico raccomandato dalle Nazioni Unite, anche un vero e proprio mezzo volto alla creazione della Contabilità Nazionale. I suoi conti sono compilati, infatti, impiegando fonti diverse i cui dati vengono successivamente sistemati in
modo da fornire un quadro coerente di informazioni quantitative sulle transazioni tra settori economici e istituzioni.
Altri strumenti che come la SAM descrivono le transazioni che si svolgono all’interno di un sistema economico, sono il modello Input – Output e la Matrice di
Contabilità Nazionale (NAM). Ciò che rende la matrice di contabilità sociale uno
strumento di maggior rilievo e miglior utilizzo rispetto agli altri richiamati, è il
fatto che essa può essere vista sia come il completamento del primo, sia come
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l’evoluzione della seconda. Il metodo della SAM è la naturale estensione del
modello I-O.
Dalla I-O alla SAM:
Il modello input-output di base è costituito dalla seguente equazione di bilancio
materiale:
X = AX + C + E
(1)
dove X rappresenta il vettore (n x 1) dei livelli di produzione degli n settori dell’economia, A la matrice input output (n x n), C il vettore (n x 1) dei consumi finali ed infine, E il vettore (n x 1) delle esportazioni nette dei prodotti finiti.
Differenziando la precedente equazione (1) si otterrà:
dX = adX + dAX + dC + dE
(2)
a cui si può aggiungere la relazione esistente tra fattori produttivi e produzione
data dalla relazione;
Z = FX
(3)
dove Z esprime il vettore (m x 1) delle quantità di fattori produttivi utilizzati mentre F rappresenta la matrice input output (m x n).
Differenziando anche la (3) si otterrà:
dZ = FdX + dF
(4)
Assumendo che i coefficienti delle matrici A ed F non varino (dA=dF=0), otteniamo
dX = (I - A)-1(dC + dE)
(5)
dZ = F(I-A)-1(dC+dE)
(6)
e
Le equazioni (5) e (6) consentono di calcolare le variazioni della produzione e dei
fattori produttivi a fronte di variazioni esogene della domanda finale.
Il motivo per cui si considera la SAM come un completamento del modello I-O
è il fatto che la Tavola di Leontief non comprende il processo distributivo e redistributivo del reddito, che invece rappresenta l’aspetto chiave della matrice di con-
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tabilità sociale, grazie all’inclusione dei conti dei cosiddetti settori istituzionali,
ossia nella forma più semplice della SAM, le famiglie, le imprese, il governo, la formazione del capitale e il resto del mondo.
Rispetto alla SAM, la matrice Input – Output non è completa né “essa è capace
di una rappresentazione solo parziale dell’economia sia perché trascura i soggetti e quindi la distribuzione del reddito, sia perché non si presenta come un insieme di conti mutuamente consistenti”15. La matrice di contabilità sociale consente, quindi, di chiudere il modello di Leontief tenendo conto di relazioni tradizionalmente assenti nel modello I-O.
La SAM registra i flussi che intercorrono tra i diversi operatori nelle varie fasi del
processo economico, quali produzione, distribuzione, consumo ed accumulazione, evidenziandone la circolarità.
La SAM è una matrice a doppia entrata, per convenzione, registra i flussi in
uscita per colonna, evidenziando la struttura dei pagamenti dell’aggregato considerato verso tutti gli altri aggregati. Per riga sono invece registrati i flussi in entrata e quindi, la formazione dei redditi di ciascun aggregato a fronte dei pagamenti di tutti gli altri.
La matrice comprende il processo distributivo e redistributivo del reddito, includendo i conti intestati ai settori istituzionali. Secondo tale approccio, il sistema
economico viene rappresentato da sette diversi blocchi fondamentali:
- Fattori primari di produzione (Lavoro, Capitale);
- Settori produttivi (Agricoltura, Industria, Servizi);
- Famiglie;
- Imprese;
- Governo (Pubblica amministrazione);
- Formazione di capitale (Investimenti fissi lordi, pubblici e privati);
- Resto del mondo.
Per ogni aggregato produttivo ed istituzionale vengono definiti i flussi in entrata
e in uscita e “ciascuno di questi blocchi è suscettibile di ulteriore disaggregazione
secondo dimensioni che dipendono sostanzialmente dagli obiettivi dell’analisi”16.
I conti intestati ai settori istituzionali, oltre all’intero processo di formazione del
reddito disponibile, permettono di evidenziare il ruolo delle istituzioni nella
formazione dei consumi e degli investimenti, mentre, il conto intestato al Resto
del mondo, consente di cogliere i flussi da e verso il resto del mondo.
I flussi intestati all’operatore Lavoro riguardano i redditi da lavoro dipendente
15
16
Scandizzo P.L., (1994), I modelli di equilibrio economico generale e la valutazione dei progetti d’investimento, ISPE, Roma, cap. II, pag. 34.
Scandizzo P.L., (1994), I modelli di equilibrio economico generale e la valutazione dei progetti d’investimento, ISPE, Roma, cap. II, p. 31.
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pagati ai lavoratori e pari alla somma di retribuzioni lorde e oneri sociali, mentre,
i flussi relativi all’operatore Capitale, che presentano un totale pari al Risultato
lordo di gestione al costo dei fattori, possono essere suddivisi in redditi da risparmio o investimento, nella riga dell’operatore Famiglia, in investimenti lordi,
variazione delle scorte e ammortamenti, nella riga dell’operatore Imprese e infine, in contributi sociali in corrispondenza della Pubblica Amministrazione.
I Consumi delle famiglie, ovvero il totale reddito relativo all’operatore Famiglie,
si distinguono in contributi sociali, in acquisti di beni finali, relativamente ai macrosettori di attività considerati, in imposte dirette e contributi sociali come
pagamenti del Governo, in risparmio, relativamente alla Formazione di capitale
e in importazioni di beni finali al lordo delle tasse indirette, in corrispondenza del
Resto del mondo.
Per quanto riguarda i Consumi delle imprese, invece, il totale dei flussi di cassa
delle Imprese viene distinto per colonna in prestazioni sociali e trasferimenti, in
corrispondenza delle Famiglie, in consumi finali in corrispondenza dei Settori,
in trasferimenti e imposte dirette come pagamenti alla Pubblica Amministrazione ed in risparmio nella riga intestata alla Formazione di capitale.
La produzione intersettoriale relativa alla macro-branche Agricoltura, Industria e Servizi presenta come totale delle transazioni la produzione distribuita a
prezzi ex-fabrica che, per colonna, si distingue in redditi da lavoro e da capitale,
in scambi di prodotti intermedi di ogni macro-branca con le altre, in imposte indirette sui prodotti al netto dei contributi alla produzione, pagate alla Pubblica
Amministrazione e nei pagamenti per le materie prime importate (al lordo delle tasse) in corrispondenza della riga relativa al Resto del mondo.
Per quanto attiene ai Consumi della Pubblica Amministrazione, il totale flusso
di cassa del Governo è determinato dal valore delle prestazioni sociali ed altri trasferimenti alla Famiglie e alle Imprese, dalle spese per i Servizi, dal risparmio del
Governo, in corrispondenza della riga intestata alla Formazione del capitale,
ed infine, dai trasferimenti erogati dal Resto del mondo.
Relativamente alla Formazione di capitale, la strutturazione per colonna permette una distribuzione della Variazione delle scorte e degli investimenti fissi lordi
totali attraverso le suddette macro-branche e il Resto del mondo.
Il Resto del mondo, infine, racchiude il totale del flusso di cassa dalle Famiglie in consumi, redditi da lavoro dipendente, prestazioni sociali e versamenti ed effettua trasferimenti alle Imprese e pagamenti alle Attività economiche per i beni esportati.
Un esempio di SAM è rappresentato nella figura che segue.
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U
E
ATTIVITÀ
PRODUTTIVE
N
ATTIVITÀ
PRODUTTIVE
IMPRESE
BENI
INTERMEDI
T
R
A
RESTO
DEL MONDO
T
E
RESTO
DEL MONDO
FAMIGLIE
GOVERNO
CONSUMI
PRIVATI
CONSUMI
PUBBLICI
ESPORTAZIONI
TRASFERIMENTI
CORRENTI
PROFITTI
DALL’ESTERO
FORMAZIONE
DI CAPITALE
TOTALE
INVESTIMENTI
DOMANDA
TOTALE
REDDITO
DELLE IMPRESE
REDDITO
DEI FATTORI
PRODOTTI
DISTRIBUITI
REDDITI
DA LAVORO
IMPOSTE
IMPOSTE
DIRETTE NETTE SULLE IMPRESE
IMPORTAZIONE
DI BENI
INTERMEDI
T
FORMAZIONE
DI CAPITALE
E
TOTALE
I
VALORE
AGGIUNTO
FAMIGLIE
GOVERNO
C
REDDITI DA
CAPITALE
IMPRESE
FATTORI
FATTORI
S
PRODOTTI
DISTRIBUITI
ALL’ESTERO
REDDITO
DELLE IMPRESE
REDDITO
DELLE
FAMIGLIE
RIMESSE
DALL’ESTERO
IMPOSTE
SULLE PERSONE
RIMESSE
ALL’ESTERO
REDDITO
DEL FATTORI
IMPOSTE
TOTALI
INVESTIMENTI IMPORTAZIONI
FISSI LORDI DI
TOTALE
IMPORTAZIONI
IMPORTAZIONI
DI BENI FINALI
RISPARMIO
DELLE
FAMIGLIE
ACCANTONAMENTI
PRODUZIONE
LORDA
TRASFERIMENTI TRASFERIMENTI
TRA
CORRENTI
LE FAMIGLIE
REDDITO
DELLE
FAMIGLIE
SURPLUS
DI PARTE
CORRENTE
FLUSSI
DI CAPITALE
NETTI
SPESA PUBBLICA ESPORTAZIONI
TOTALI
RISPARMIO
TOTALE
INVESTIMENTI
TOTALI
4. Arbitro Bancario Finanziario, (B. Giannini)
L’Arbitro Bancario Finanziario (ABF) è uno strumento stragiudiziale per la soluzione delle controversie in ambito bancario e finanziario. È un sistema da non confondere con la conciliazione o con l’arbitrato ed è detto “stragiudiziale” perché offre una procedura meno complessa e anche più rapida ed economica rispetto al ricorso al giudice. Esso è composto da un Organo decidente e da una Segreteria tecnica: l’Organo decidente è articolato sul territorio nazionale in tre Collegi: uno a
Milano, uno a Roma e uno a Napoli. In ciascun Collegio l’Organo decidente è composto da cinque membri: il Presidente e due membri sono scelti dalla Banca d’Italia, un membro è designato dalle associazioni degli intermediari ed un altro è designato dalle associazioni che rappresentano i clienti (imprese e consumatori). Il Presidente resta in carica per cinque anni, mentre gli altri per tre anni, con mandato rinnovabile una sola volta. Il regolamento dispone, inoltre, che tutti i componenti debbano possedere requisiti di esperienza, professionalità, integrità ed indipendenza.
La composizione di ciascun Collegio deve rispettare i criteri di imparzialità previsti dalla legge e deve assicurare che gli interessi dei diversi soggetti coinvolti siano
rappresentati. Ogni Collegio ha la sua Segreteria tecnica, che ha il compito di: ricevere il ricorso; attestare se il ricorso è incompleto o irregolare oppure se è stato
presentato oltre i termini previsti e darne comunicazione alle parti; ricevere la
documentazione fornita dall’intermediario per spiegare la propria posizione (controdeduzioni) insieme ai documenti relativi al reclamo presentato all’intermediario; verificare che la documentazione sia completa e regolare e che l’intermediario abbia rispettato i tempi per l’invio; chiedere alle parti eventuali integrazioni della documentazione già presentata, se ciò è necessario per la decisione. L’ambito di
applicazione dell’Organo, non ha limitazioni dal punto di vista soggettivo (può riRIVISTA BANCARIA - MINERVA BANCARIA N. 5-6/2010
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volgersi tutta la clientela), ma dal punto di vista oggettivo, esso può risolvere
esclusivamente controversie relative ad operazioni e servizi bancari e finanziari
(escludendo, dunque, l’attività di investimento, i contratti di leasing e di factoring),
con un valore non superiore a €100.000 e che abbiano ad oggetto operazioni e servizi non anteriori al 1 gennaio 2007. La creazione dell’Arbitro Bancario Finanziario è stata prevista dall’articolo 128-bis del Testo Unico Bancario, introdotto dalla legge sul risparmio (legge n. 262/2005). Secondo questa norma, le banche e gli altri intermediari finanziari sono obbligati ad aderire a sistemi di risoluzione stragiudiziale delle controversie con la clientela. Il Comitato Interministeriale per il
Credito e il Risparmio (CICR), con la delibera del 29 luglio 2008, ha stabilito i criteri per lo svolgimento delle procedure di risoluzione delle controversie e ha affidato alla Banca d’Italia il compito di curarne l’organizzazione e il funzionamento.
Quest’ultima ha reso disponibile in data 18 marzo 2009 un documento di consultazione, con possibilità da parte di tutti gli interessati di inviare entro il 17 maggio
2009 i propri commenti e le proprie proposte. Al fine di incrementare la possibilità di conoscenza da parte di tutti i soggetti interessati dell’esistenza di sistemi alternativi di risoluzione delle controversie, nonché dell’esistenza di altri meccanismi
di risoluzione stragiudiziale nelle materie affini, è stato disposto che informazioni sulle controversie arbitrabili dinnanzi all’ABF siano pubblicate sul sito internet
dell’Organo, che prevede anche un percorso guidato per l’utenza volto ad agevolare l’individuazione dei casi in cui il cliente può adire l’ABF. La stessa Banca
d’Italia ha nominato i componenti dei collegi il 14 ottobre 2009, ed il giorno seguente l’ABF è diventato operativo per il pubblico.
4.1 La procedura di ricorso all’Arbitro Bancario Finanziario
Analizzando la procedura, c’è da evidenziare che prima di rivolgersi all’Arbitro Bancario Finanziario, il cliente deve presentare un reclamo all’intermediario, il quale
deve avere al suo interno un apposito ufficio. Se non riceve risposta entro 30
giorni oppure se non è soddisfatto della risposta, il cliente può presentare ricorso
all’Arbitro, purché non siano trascorsi più di 12 mesi dalla presentazione del reclamo all’intermediario. Prima di presentare il ricorso è necessario versare un contributo per le spese della procedura pari a 20 € (rimborsato dall’intermediario se il ricorso è accolto in tutto o in parte). Successivamente, il cliente, deve inviare alla Segreteria tecnica competente (ed all’intermediario stesso) , il modulo di ricorso e l’attestazione del pagamento delle spese, per posta o strumenti informatici. Dalla
ricezione della comunicazione, l’intermediario ha a disposizione al massimo 45 giorni per inviare alla Segreteria tecnica le proprie controdeduzioni e la documentazione necessaria per decidere il ricorso. La Segreteria tecnica svolge l’istruttoria
esclusivamente sulla base della documentazione fornita dalle parti. Può, comunque,
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chiedere alle stesse di fornire ulteriori documenti. Il Collegio si pronuncia entro 60
giorni dalla data in cui la Segreteria tecnica ha ricevuto le controdeduzioni da
parte dell'intermediario oppure dalla data di scadenza del termine di presentazione. La decisione è presa a maggioranza ed è sempre motivata. Infine, la Segreteria tecnica comunica alle parti decisione e motivazione entro 30 giorni dalla pronuncia. Se il ricorso è accolto anche solo in parte, il Collegio fissa il termine entro il quale l'intermediario deve adempiere alla decisione; se non fissato, l’intermediario
deve adempiere entro 30 giorni dalla comunicazione della decisione. Non essendo
vincolante la decisione dell’ABF, lo strumento utilizzato per garantirne il rispetto
da parte dell’intermediario, è la pubblicità dell’inadempimento. Nel caso in cui l’intermediario non adempia o non collabori, infatti, è prevista la pubblicazione dell’inadempimento sul sito dell’Organo dove è possibile inoltre visualizzare un elenco aggiornato delle decisioni ordinate per oggetto del ricorso.
RIVISTA BANCARIA - MINERVA BANCARIA N. 5-6/2010
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