I libri che hanno fatto gli italiani
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I libri che hanno fatto gli italiani
Carlo Ossola I libri che hanno fatto gli italiani Si intende qui suggerire – secondo la traccia di Maurice Halbwachs – un percorso che identifichi il formarsi, tra XIX e XX secolo, della «memoria collettiva» degli italiani. Non si tratta dunque di enucleare retrospettivamente un canone delle “dignità” nelle quali riconoscere il frutto più durevole del pensiero italiano nell’Italia unita: a tale titolo avrebbero dovuto figurare Gobetti e Gramsci, ad esempio, la cui incidenza tuttavia – per le vicende storiche che ne limitarono o negarono con violenza l’azione – ebbe a manifestarsi molto più tardi. Vorrei percorrere, brevemente, un canone di «memoria condivisa»: quegli autori che, nel quotidiano della scuola, dei mestieri, della vita domestica, della lettura, hanno fornito l’immaginario più ampio, più omogeneo, più concorde, al nostro vivere associato e alla nostra lingua. Fatta l’Italia, restavano da fare gli italiani, secondo il monito di Massimo d’Azeglio; ma mancavano anche i libri che potessero, per la loro storia, valori e ideali, porsi come strumenti di educazione e formazione della rinata Italia. A tale progetto contribuirono certamente I Promessi Sposi, in specie a partire dall’edizione illustrata del 1840. Ma non bisogna dimenticare il ruolo essenziale avuto da Le mie prigioni di Silvio Pellico (Saluzzo 1789-Torino 1854). Ci fu un’Italia eroica del sacrificio: quello del sangue, delle lotte risorgimentali, dei giovani morti a Curtatone e Montanara (29 maggio 1848), dei garibaldini e mazziniani; di tutto quel sangue saranno eredi le pagine di Cuore. Ma ci fu anche un’Italia più silente, stoica, legata più alla coscienza che ai riti o ai poteri, della quale il Pellico e il Rosmini furono i più coerenti interpreti. Rileggere oggi qualche pagina da Le mie prigioni significa ritrovare la storia sotterranea di un “pietismo” europeo che, basato sulla semplicità, su un narrare sobrio, per quadretti raccolti, per capitoletti distribuiti intorno a una o due figure, aveva dato i suoi migliori frutti in Johann Peter Hebel (1760-1826), autore poi amatissimo da Walter Benjamin. Le sue Storie bibliche (trad. it.: 1828’29) sono, sul versante riformato, quello che Le mie prigioni rappresentano, con più ampia risonanza, sul versante romano; con la stessa attenuazione antieroica dello stile, nella ricerca di una «calma costante» («Curioso fatto, che il vivere arrabbiato piaccia tanto! Vi si pone una specie di eroismo!» – cap. XVII) nel governo di sé, nel giudizio sugli eventi, per quanto terribili siano come il carcere duro. 1 La prigione non accentua soltanto il controllo di sé; essa suscita anzi – come nelle notti tassiane della prigionia di Sant’Anna – fantasmi e simulacri, descritti dal Pellico con la stessa febbrile impotenza di Torquato Tasso: sembrano qui tornare lampi shakespeariani della sua Francesca da Rimini: «Fin nel delirio, agl’infelici / Scrutar vuolsi il pensier? […]» (Atto I). Fatta l’Italia, la scuola fu indubbiamente – e la scuola primaria in particolare – il luogo ove questa «memoria condivisa» si è più ampiamente formata e sviluppata. Per un secolo intero le centinaia di edizioni degli Esempi di bello scrivere (1829) di Luigi Fornaciari, e poi di Fior da fiore del Pascoli hanno formato il “canone medio” di lettura di ogni italiano. Con la “forma” antologia si era cimentato il Leopardi, preparando la sua doppia Crestomazia 2 , della prosa e della poesia, 1827 e 1828; ma non ebbe il successo del suo imitatore, il Fornaciari, il quale chiudeva le sue Considerazioni generali su’ diversi tempi della lingua italiana, poste ad antiporta, con questa vigorosa affermazione: «Ché lo studio delle cose senza quello delle parole, e molto meno lo studio delle parole senza quello delle cose, non fece e non farà mai gli eccellenti scrittori». La solidarietà di «parole e cose» fu del resto sigillata, a fine secolo XIX, dai prontuari dedicati a quei luoghi nei quali quotidianamente più si manipolano cose: la cucina e la fabbrica, come suggerisce Michel de Certeau nella Invenzione del quotidiano. La cucina con il ricettario dell’Artusi e la fabbrica con il ricetterio del Ghersi o il Romanzo di un operaio di Cesare Cantù. 1 La loro diffusione fu europea: edizioni in lingua italiana: Torino e Saluzzo 1832; Capolago 1833; Lugano 1834 e 1842; Parigi – Lione 1833, 1834, 1840, 1845; Bruxelles 1839; Bastia 1842; Malta 1842; Firenze 1847 e 1851; Milano 1858; ed anche in lingua francese: Mes prisons, Paris, Fournier, 1833, 1837, 1838, 1842, etc. Più tardi –nello stato unitario- continuò ad essere modello delle virtù risorgimentali: le edizioni si moltiplicarono, in effetti, dall’anno stesso dell’unificazione: Napoli 1860; Torino e Milano 1862 e ss.; e anche nei decenni successivi: Milano 1867, 1871, 1877, 1886, 1880, 1889, 1898; Torino 1874, 1887, 1890, 1893,etc., senza contare le molte edizioni scolastiche fiorentine, torinesi e milanesi di inizio XX secolo. 2 Crestomazia italiana, cioè scelta di luoghi insigni o per sentimento o per locuzione raccolti dagli scritti italiani in prosa di autori eccellenti d'ogni secolo per cura del conte Giacomo Leopardi, Milano, presso Ant. Fort. Stella e figli, 1827; e Crestomazia italiana poetica, cioè scelta di luoghi in verso italiano insigni o per sentimento o per locuzione, raccolti e distribuiti secondo i tempi degli autori, dal conte Giacomo Leopardi, Milano, presso Ant. Fort. Stella e figli, 1828. 2 I due prontuari, dell’Artusi e del Ghersi, nascono l’uno appresso l’altro, e si offrono come un insieme di pratiche, e di ricchezza di nomi, di un artigianato domestico che riunisce le tradizioni regionali in patrimonio collettivo. Nel fervido dilatarsi di ricette, dalle 475 della prima edizione (Firenze 1891) alle 790 della tredicesima edizione (Firenze 1909), la Scienza in cucina e l’arte di mangiar bene di Pellegrino Artusi è stato il breviario di sapienza e di arte culinaria, di lingua e di memorie rituali della festa che davvero ha unificato l’Italia, dai «Cappelletti all’uso di Romagna», che aprono il ricettario, alla «Bavarese lombarda», dai «Maccheroni con le sarde alla siciliana» alla «Coratella d’agnello alla bolognese», dalle «Arselle o telline alla livornese» alla «Bistecca alla fiorentina», senza dimenticare la «Pizza alla napoletana» e un’equanime celebrazione – per finire con i dolci – delle recenti capitali con i rispettivi «Dolce Roma», «Dolce Torino», «Dolce Firenze». E questa prodigiosa solidarietà di “parole” e “cose” sarà continuata dal «prontuario» di Italo Ghersi, Ricettario industriale (Milano, Hoepli, 1899, 1900, 1904, 1906, 1910, 1915), passato in pochi anni da 2.886 a 8.500 «ricette», capaci di illustrare le procedure per mettere in opera e condurre a perfezione «appretti, colori, vernici, mastici, colle, inchiostri, gomme, fibre tessili, carta, legno, cuoio», non meno che i processi di «bronzatura, nichelatura, galvanoplastica, incisione, tempera, leghe», e tutta la strumentazione che andava dall’ «agricoltura» all’ «elettricità». Vocabolario impressionante, favoloso persino, se per ottenere lo «scarlatto intenso» occorre passare dal «quercitrone» e dall’«alizarina»; oppure adoprare «eritroesina» o «deltapurpurina». Che mondo quei coloranti! : crisamina, azobleu, auramina, giallo di naftolo, o giallo di crinolina, azzurro Nilo, etc. Tra i libri, nella prima fase dell’Unità italiana, che hanno avuto la scuola come sfondo narrativo e impegno identitario, svettano certo – e con opposte ragioni di successo – Pinocchio e Cuore: il monello e il modello, la fragile cuccagna della povertà – come ascolteremo tra poco – o il dovere delle istituzioni. Due volti irrisolti dell’identità italiana; così ebbe a conchiudere Giuseppe Prezzolini nella sua acuta Storia tascabile della letteratura italiana: «Ci sono due libri, che direi non hanno una data né un autore (sebbene l’uno e l’altro siano conosciuti) che sembrano riassumere lo spirito più profondo del popolo italiano: Pinocchio e Bertoldo. Pinocchio fu scritto per pagare un debituccio di gioco da un giornalista toscano, e fece la fortuna della casa editrice ed è oggi ancora liberamente ristampato. È un libro che si dà da leggere ai ragazzi, ma è pieno di una saviezza cittadina, mondana e adulta, che 3 mostra il mondo com’è, non retto da virtù ma da fortuna, corretta dalla furbizia» 3 . Di fronte a questo mondo com’è, con la sua lingua pieghevole, di bugie e di astuzie, sta – nella tradizione italiana – l’altro canone della lingua italiana, quello del mondo come dovrebbe essere, anche solo nel modo di intrattenersi col prossimo e che si riassume nell’asciutto aforisma che suggella il Galateo di monsignor Della Casa, il quale preso atto del mondo com’è: «Né vendere si deono le cirimonie e le carezze a guisa che le meretrici fanno, sì come io ho veduto molti signori fare nelle corti loro, sforzandosi di consegnarle agli sventurati servidori per salario» (cap. XVII) 4 ; si premurava tuttavia di raccomandare l’imitazione del mondo come dovrebbe essere e, non raggiungendolo, suggeriva almeno: «Ricòrdati di vergognarti qualche volta» 5 . Forse la nostra storia linguistica, e civile, non è che un incessante oscillare tra sobrietà e arbitrio, tra accumulo di pattume e austerità, come ci ricorda Italo Calvino: «Il pattume di Leonia a poco a poco invaderebbe il mondo, se sullo sterminato immondezzaio non stessero premendo, al di là dell’estremo crinale, immondezzai d’altre città, che anch’esse respingono lontano da sé montagne di rifiuti. Forse il mondo intero, oltre i confini di Leonia, è ricoperto da crateri di spazzatura, ognuno con al centro una metropoli in eruzione ininterrotta. I confini tra le città estranee e nemiche sono bastioni infetti in cui i detriti dell’una e dell’altra si puntellano a vicenda, si sovrastano, si mescolano. Più ne cresce l’altezza, più incombe il pericolo delle frane: basta che un barattolo, un vecchio pneumatico, un fiasco spagliato rotoli dalla parte di Leonia e una valanga di scarpe spaiate, calendari d’anni trascorsi, fiori secchi sommergerà la città nel proprio passato che invano tentava di respingere, mescolato con quello delle città limitrofe, finalmente monde: un cataclisma spianerà la sordida catena montuosa, cancellerà ogni traccia della metropoli sempre vestita a nuovo»6 . 3 G. Prezzolini, Storia tascabile della letteratura italiana, 1976; Roma, Biblioteca del Vascello, 1988, p. 133. 4 G. Della Casa, Galateo, a cura di S. Prandi, Introduzione di C. Ossola, Torino, Einaudi, 1994, pp. 43-44. 5 G. Della Casa, lettera ad Annibale Rucellai del 30 marzo 1549. 6 I. Calvino, Le città continue. 1, da Le città invisibili, Torino, Einaudi, 1972 e 1977, p. 120. 4 E così riprendeva, pochi anno dopo, un cittadino che del consumo insensato di cose e parole conosceva i limiti, Enrico Berlinguer: «Una politica di austerità, invece, deve avere come scopo […] quello di instaurare giustizia, efficienza, ordine, e, aggiungo, una moralità nuova. Concepita in questo modo, una politica di austerità, anche se comporta (e di necessità, per la sua stessa natura) certe rinunce e certi sacrifici, acquista al tempo stesso significato rinnovatore e diviene, in effetti, un atto liberatorio per grandi masse, soggette a vecchie sudditanze e a intollerabili emarginazioni, crea nuove solidarietà, e potendo così ricevere consensi crescenti diventa un ampio moto democratico, al servizio di un’opera di trasformazione sociale» 7 . In effetti, come aveva già visto Dante nel suo De vulgari eloquentia, la lingua è la nazione, e non c’è volgare più illustre di quello che possa dire, con don Lorenzo Milani: «Appartenere alla massa e possedere la parola» 8 . 7 E. Berlinguer, Conclusioni al Convegno degli intellettuali, Roma, Teatro Eliseo, 15 gennaio 1977; ora in La via dell’austerità, Roma, Edizioni dell’asino, 2010, p. 31. E poco oltre: « La ragione principale per cui consideriamo la crisi come un’occasione, sta nel fatto che obiettivi di trasformazione e di rinnovamento come quelli che ho ricordato possono essere non solo compatibili, ma debbono e possono essere organicamente compresi dentro una politica di austerità, che è la premessa indispensabile per superare la crisi, ma andando avanti, non tornando al passato. Infatti, mi pare sia evidente che quegli obiettivi contribuiscono a configurare un assetto sociale e una politica economica e finanziaria organicamente diretti proprio contro gli sprechi, i privilegi, i parassitismi, la dissipazione delle risorse: realizzano, cioè, quello che dovrebbe costituire l’essenza di ciò che per natura e definizione è una vera politica di austerità. Anzi, si potrebbe osservare che, come spesso, nelle società decadenti, sono andati, vanno insieme e imperano le ingiustizie e lo scialo, così nelle società in ascesa vanno insieme la giustizia e la parsimonia» (ivi, p. 39). 8 L. Milani, Lettera a una professoressa, Firenze, LEF, 1967, p. 105: «La cultura vera, quella che ancora non ha posseduto nessun uomo, è fatta di due cose: appartenere alla massa e possedere la parola». 5