012. I Nuvolari. Con bollicine, prego. Questa è la storia di parenti

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012. I Nuvolari. Con bollicine, prego. Questa è la storia di parenti
012. I Nuvolari. Con bollicine, prego.
Questa è la storia di parenti lontani venuti un’ultima volta fino
a Brazzaga per farci visita, a bordo di macchine d’epoca sfreccianti
come siluri lungo ogni sentiero appena carrabile. Un’età agrodolce, i
tempi d’una volta, in cui i siluri scendevano furtivi giù dal grande
Nord, mascherati da sottomarini gialli U-boot Tipo XXI. Quelli derivati
dai vecchi U-boot Tipo XVIII. Così, tra una mina e l’altra di profondità,
facendosi cullare teneramente al suono ovattato di Lili Marleen. 1
Oggi invece, che i siluri si sono involgariti scostumandosi, ci si deve
accontentare del bordello hip-hop cispadano-celtico, al suono pur
sempre ovattato di teneri Ugg boots tipo economico. Quelli derivati
dai vecchi Moon boots tipo economico. E siamo costretti a scansare
mascherati gente d’ogni tipo, sempre più minata, che si fa un po’
1
Celebre canzone composta da N. Schultze (1911-2002) nel 1937, con testo originale, La
canzone di una giovane sentinella, tratto da Die Harfenorgel, volume di poesie del 1915
scritto da H. Leip (1893-1983). Portata al successo dalla cantante tedesca Eulalia Lieselotte
Bunnenberg (1905-1972), altrimenti detta «Lale Andersen», venne poi interpretata da
Marie Magdalene Dietrich (1901-1992), peccatrice in esilio altrimenti detta «Marlene». E
con un nome del genere non si poteva far altro che rimetterle i peccati in attesa d’un buon
pediluvio riparatore. Durante la Seconda guerra mondiale infatti Lili Marleen, altrimenti
detta «Lili Marlene», divenne la canzone dei soldati al fronte, malgrado risultasse antipatica
proprio al ministro della propaganda tedesca, il filosofo J. Goebbels, altrimenti detto «il
caprone di Babelsberg». Piacque invece al gran comandante dei Deutsches Afrika Korps, il
feldmaresciallo E. Rommel, da allora detto «la volpe del deserto», a tal punto da imporla
come sigla di fine trasmissioni della radio tedesca di Belgrado, la Soldatensender Belgrad.
La si poteva quindi ascoltare ogni sera alle 21 e 55, e se ci si appuntivano bene le orecchie
acquattandosi astuti come lupetti di Heidenheim, addirittura fino in Africa. Poi dicono che
sono gli svizzeri ad essere precisi. Per me se ne stanno in pigiama e alabarda sotto i pastrani
dei vescovi, quelli, precisi precisi, mentre lasciano ai villani il compito di fare gli uomini
sparandosi nel sedere. Patrimonio piuttosto raro e sensibile quest’ultimo, altrimenti detto
«culo», ma solo alle spalle. La canzone fu interpretata anche dal coro corazzato della VI
Panzergrenadierdivision, e ne esiste pure una versione esclusiva appositamente studiata per
gli equipaggi degli U-boot. Gente asciutta, avvezza ai trasporti ovattati dell’immersione
intima. Innumerevoli sono infine le versioni incise in tutte le lingue. Io consiglio sempre
quella di Amanda Lear del 1979, dall’album Never trust a pretty face. Se non altro per gli
stivali gialli che a sua volta avrebbe saputo indossare con discreta lungimiranza.
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ovunque e con qualsiasi cosa. Così, anche in profondità. Certo che
se poi assumono un colorito sul giallo furtivo, non sarà mica colpa
nostra! Ad ogni stagione le sue mezze verità da percorrere. Meglio
se a fette un po’ spesse, così la pelle viene via senza tormenti e il
gusto è più rotondo. Troppo sottili non danno soddisfazione. Troppo
alte poi annebbiano ciò che resta del buonsenso. E poi così abbiamo
il tempo per raccontarci qualcosa con piacere. Come quando ci sono
i Nuvolari in visita, senza stare lì a spizzicare frantumi randagi nel
piatto, che sanno sempre un po’ di muffa.
Tutti noi vantiamo a volte parenti di questa razza e benché si
presentino agghindati in maniera alquanto bizzarra per il nostro fine
senso estetico, siamo comunque concordi nel prestar loro il dovuto
omaggio. Nonché un’energica stretta di mano, contornata da tutto
quanto l’affetto di cui il nostro giovane cuore è capace.
La sorpresa per il loro arrivo è in ogni tempo grande. Anche
perché non telefonano mai per avvisarci prima. Soprattutto adesso
che hanno tolto dalle strade le cabine della SIP. Quelle derivate dalle
vecchie cabine gialle della SIP. Amano giungere di soppiatto, quando
noi siamo impegnati in tutt’altre faccende e non ci aspetteremmo mai
di vederli spuntare dal nulla. Con quegli occhiali di vetro sottile,
quelle facce sporche e spigolose piantate sotto un caschetto di cuoio
sempre troppo apprensivo per farsi portare senza imbarazzo. E
risultano così frizzanti, sorridendo comunque, da far sentire anche
noi un po’ più sollevati verso il cielo.
Con tutte quante le bollicine che si vogliono.
Qualcuno indossa una tuta finemente decorata ad olio sulla
poliedrica maglia di lana. Non ne fanno più di così belle e resistenti.
Una trama davvero unica. Altri invece passeggiano su e giù per l’aia
estraendo dal baule certe enormi chiavi inglesi, mentre sorseggiano
rapiti euforiche gazzose. Di quelle chiavi adatte a far girare piantone
e semiassi quando il volante non ne vuole più sapere di prestarsi al
proprio incarico particolare. Tutta colpa dei sindacalisti da ruota, che
vanno ad infilarsi dappertutto come bastoni e ti ficcano sotto il casco
quello che non dovrebbero mai nemmeno supporre. Quello che in
realtà non dovrebbe nemmeno esistere.
Sempre che tutto questo sia reale e non piuttosto il sogno ad
occhi aperti d’una mente ingenua ben infervorata. Come la mia. O
più semplicemente sopraffatta da una sciarpa così ben stretta al collo
da farsi quasi leggenda. Perché le bollicine fanno venire le lacrime
agli occhi a chi è abituato solo alla fatica dei campi. E tutto si
stempera allora in un incanto dai contorni sfuggenti che si prestano
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alle più svariate interpretazioni mistiche. Non per niente i presepi li
guarniscono di luci intermittenti.
Anzi, se ci penso meglio allentando un poco il nodo, uno di
loro, uno di quelli piccoli, porta spesso un’eccentrica corona d’alloro
sulle spalle. Si direbbe laureato come un generale in parata. Di più.
Ricoperto di gloria dalla testa ai piedi come Giulio Cesare. Sacro
come un imperatore. Ancora di più. Addirittura eterno come un poeta.
Come Cesare Coppi e Cesare Bartali. Come Giacomo Agostini di
Brazzaga che si faceva dare del Cesare al bar dei poveri per non
farsi imbrogliare. Meglio puntualizzare in certi casi ambigui. Non sia
mai che ti prendano nel posto sbagliato quando meno te lo aspetti. O
come mio cugino Napoleone nel 2004, che non sarà mai un Cesare,
ma centodieci senza lode in un cassetto fa sempre comodo a tutti.
E poi ci sono quelli grandi. Quelli che sono stati in Sicilia, a
Monza, giù a Pescara, a Marsiglia… Nell’Indiana persino. E li hanno
messi sui giornali. Quelli che hanno vissuto con i fari spenti le aurore
tra Peschiera e Brescia, o di chissà dove, alle calcagna d’un pallido
Achille. 2 Quelli che hanno espugnato fitte boscaglie teutoniche solo
per dispetto. O forse perché ai wurstel hanno sempre preferito il
cotechino con i crauti. Ci sono anche quelli che dovevano essere
morti a Stoccarda e che hanno invece visto la Luna sorgere come in
sogno, per poi tramontare lasciando il posto all’alba d’un nuovo
giorno. Un giorno fatto di mille e mille miglia da divorare in silenzio,
un giorno felice anche per morire davvero.
2
Achille Varzi (1904-1948) quella notte lì non se la ricorda nemmeno. Anzi pare proprio
che fosse già mattina quando Tazio Nuvolari (1892-1953) lo raggiunse. Ed è logico che uno
i fari li arrivi anche a spegnere. Mica come adesso che li devi tenere accesi apposta per far
bruciare le lampadine. Altrimenti il ramo lampadine del cavalier Calciolari inaridisce e gli
si secca la vite come nel ’29. E chi glielo racconta poi al cavaliere, col suo cappello liberty,
che per quell’anno lì deve ridurre l’ingaggio al trequartista? E poi il signor Pelide dice che
s’era fatto pallido per via della pausa caffè. Non poteva certo entrare al bar con la faccia
così sporca! Quindi si era lavato e incipriato. Anche se precedendo tutti, poteva al massimo
essersi preso qualche moschino. A sua discolpa si può concludere che non ci sono più i
moschini di una volta, quelli che viaggiavano in equilibrio sul cofano a gazzose e grasso di
motore. Oggi, come siluri qualunque, c’infilano la coca riserva oro nelle bibite gassate, a
noi e ai moschini da cofano, mentre i motori su per di dietro. Ed è ovvio che poi capiti di
sbiancare all’improvviso. Noi e i moschini. Vuoi mettere un bel chinotto bruno? L’Achille,
malgrado il suo motore per davanti, la sapeva lunga già da allora. Per quanti desiderassero
rivivere le medesime emozioni crepuscolari, mi si consenta di consigliare almeno un paio di
F.W.: di F.W. Nietzsche Aurora, Adelphi, Milano 1978, e di F.W. Murnau Aurora, film del
1927. Per non far perdere troppo tempo ai signori siluri, mi sento infine in dovere di
avvisare che la signorina Aurora se n’è già andata da tempo con l’Achille, un tipo lesto che
se l’è caricata sul sedile posteriore della sua auto gialla, tutta ovattata, e che furtivamente ha
sgommato dileguandosi. Nel baule portava ancora tracce di profondi stivali da pesca e una
maschera da sottomarino. Mentre la radio suonava teneramente Lilli e il vagabondo.
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La curva Te impazzirebbe nel vederli ancora così in forma. Le
osterie strariperebbero d’incanto e lambrusco viola, spillati a coppe di
coccio smaltato. Le strozzate a briscola calerebbero a sensazione,
senza più regole. Tutti usciremmo in strada ad abbracciarci felici,
incuranti del freddo che ci addenterebbe ballerino mani e piedi, il
vigliacco. Le preoccupazioni sarebbero sepolte dalle urla del trionfo,
scordate per sempre su qualche scaffale impolverato, al riparo dalle
intemperanze assurde della vita quotidiana.
È vero, sono soltanto parenti lontani. Ma che volete, gli assi
del volante sono come quelli della briscola. Carichi da undici che se
ne stanno al primo posto d’una lunga fila di anime in fuga. Da se
stesse, probabilmente. Dalla noia del parcheggio innanzitutto. Il fatto
è che non sono in grado di resistere alla voglia di scaraventarsi con
animo sul tavolo, «Tòmo!» …sciaff! «Ciàpa, brœtt gugiœl!» 3 o di
volare davanti a tutti e non fermarsi più. Nemmeno dove la folla grida
accalcata. Nemmeno dove le dame agitano al vento i fazzoletti
bianchi. Nemmeno dove il cielo si ribalta di colpo in una linea forse
troppo austera, là in fondo, e nessuno osa più guardarla per quanto è
lontana. Mentre loro la puntano senza tregua, immensi come matti.
Si concedono una seconda gazzosa per fiatare un po’, i matti, e con
loro le macchine ribelli che incessantemente fabbricano nuvole. E poi
via, in mutande rosse magari, ma sempre più liberi della luce. 4
Quando arrivano è davvero una gran festa. La banda suona
senza sosta melodie gitane e i bambini, in mutande bianche un po’
sospette, non fanno che guardarli ammaliati.
«Zia… zia… e i leoni quando arrivano?»
Tutti in verità fantastichiamo di sentirci un giorno dei lontani
Nuvolari come loro. Con quel tanto di bollicine sufficienti a sfrizzare
fin sui nasi e darci quell’indispensabile pizzicore democratico di cielo
turchino. Perché il cielo deve essere pieno zeppo di angeli e di fate
turchine che sfrizzano e sfrizzulano insieme sbattendo le ali, o che
agitano bacchette magiche su e giù come pistoni.
E non può trattarsi solo di lambrusco amabile.
Vagheggiamo d’infilarci quella maglia gialla consunta e quasi
un poco turchina. Sogniamo di stare pancia all’aria immaginando a
turno nuvole filanti di zucchero, lassù tra le fate celesti, in una giostra
3
Tipica esclamazione da torneo, alternativa popolare alla meno frequente «Wüstenfuchs!»
N.d.C. Ritengo che il maestro O.F. Nullo, collega dell’esimio creativo F.T. Marinetti
conosciuto in un parcheggio clandestino, abbia qui inteso rendergli omaggio citandone un
vezzo della figlia, la quale appunto era solita indossare sotto gli stivali mutande rosse dalla
natura ondulatoria-corpuscolare per scandalizzare i troppi benpensanti. Almeno quelli che
sapevano pensare assai bene del futuro prossimo. E pure di quello anteriore.
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d’arcangeli un po’ brilli. Filante anche lo zucchero e per sempre
bianco. Descriveremmo ad ogni volteggio una forma da esplorare.
Comunque, e non è per razzismo, mai visto uno zucchero filato nero.
Al massimo rosa, come la schiuma del lambrusco. Ma è da femmine.
Da giovane li ho visti danzare anche in televisione. Purtroppo
non vengono un granché bene in punta di piedi. Il loro spettacolo va
assaporato dal vivo, seduti in prima fila e senza tutù rosa d’impaccio.
Come con la birra media in mano. Ci sta solo un sacchetto di gnocco
fritto. Nient’altro. Mentre il tuono s’incendia nella polvere d’un fragore
crudele, per poi dileguarsi esausto nel commiato della distanza, tra le
briciole scivolate unte giù sul pavimento. Sempre pronto a sfavillare
identico però, al passaggio successivo, quando le anime frementi di
passione si riconoscono in tanta elettricità. E si puliscono la bocca
con le maniche del paltò.
In curva planano tutto di traverso come solo loro osano fare,
mentre le carriole scricchiolano atterrite, lasciandosi quasi andare tra
quelle nuvole in mille pezzi contorti ma pur sempre scintillanti. E
quando uno scintilla così bene, può trascinare nell’alto dei cieli anche
chi lo contempla incantato.
Un giorno li abbiamo incontrati in moto fasciati stretti come
salami. Tutti doloranti ma allo stesso tempo felici, quasi che proprio
quello fosse il desiderio inconfessato che li animava. Lo scopo ultimo
di un’intera esistenza. E poi uno che gira in moto con un braccio e
una gamba ingessati, non può che sembrare un grosso salame con
lo spago. Morselli giustamente ne cercava il piombino.
Non scorderò mai quando sbucarono fuori all’improvviso dalla
nebbia più fitta che avessi mai visto al paese. Sembrava quasi di
poterla tastare, quella nebbia da polenta e funghi. Potevi entrarci
dentro con tutti e due gli Ugg boots, solo prendendo la rincorsa dal
soggiorno. Arrivarono in gruppo, malinconici, reggendo a malapena il
fardello di dover far gioire un pubblico guadagnandosi il traguardo,
che pareva troppo lontano. E poi ancora più tristi, perché troppo
vicino invece il traguardo era infine giunto.
Le auto sanguigne ruggivano ardenti al pensiero di ripartire
ancora verso il Po, o le splendide colline di Biella. 5 Non importava
poi molto. L’importante era l’inquieta gazzosa che le attendeva
sfrizzando o sfrizzulando, comunque turchina e scoppiettante. Anche
un bicchiere di sanguinella poteva andare bene. Quella che ti
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Perché «non di sole dame vive un Uomo», come non si stancava mai di ripetere don
Giovannini, il predecessore di don Curato, altrimenti detto «il convitato di pietra».
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servivano al bar dell’oratorio in un bicchiere alto della Nutella. Tutto
tranne il lambrusco insomma, con la sua schiuma rosa.
Il giovane Tadzio 6 mi disse allora che quella sarebbe stata la
loro ultima avventura, poiché li attendevano imprese ben più gloriose
in luoghi ameni, difficilmente raggiungibili per un semplice mortale
quale ancora io stimavo fosse lecito ritenermi. E sparirono.
Vennero nuovi straordinari tendoni a tentare di rimpiazzarli e
moltissimi saltimbanchi di valore si prodigarono un po’ ovunque a
tale scopo. Furono tutti certamente grandi maestri nella propria arte.
Campioni acclamati in tutto il mondo. Tuttavia la magia dei Nuvolari
se n’è andata con loro per sempre, con le ruote sottili e i cofani
rilucenti di quei prodigiosi apparecchi. Armature volanti degne dei più
nobili cavalieri. Quelli destinati a una vita di eterni successi.
So che da qualche parte nel mondo gli eroi non smettono mai
di fare carriera e s’incontrano volentieri al bar col proprio seguito di
cavalli scalpitanti. Certe volte, durante i temporali più impetuosi, se
ne possono udire in lontananza le frenate al limite del possibile.
Sfrizzanti e sferraglianti. E tutti noi esultiamo in coro allora, perché
siamo consapevoli che molti cuori stanno fremendo ancora per il loro
transito. Anche solo di una notte. Anche solo di un istante. E
continuano in questo modo a tener desta la memoria di parenti così
cari, nonostante essi siano ormai soltanto bei ricordi lontani.
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N.d.C. Mi sono chiesto, e ci ho pensato pure a lungo, perché mai il maestro abbia
accostato «Tadzio» a Nuvolari. Perché la storia del terzetto Tidzio, Tadzio e Curiadzio che
mi ha suggerito la zia Faustina sa un po’ di cedrata alla romana. Quella che ti servono
sgasata d’estate, più o meno al sesto miglio della via Appia, di fianco al mausoleo. Si sarà
sbagliato, pensavo. Lo sanno tutti che Nuvolari era un gran bel Tazio. Già ci ha giocato
nell’accidente 011, Il Nullo. Non è possibile che ora ripeta il medesimo tranello. Allora ho
chiesto lumi all’editore di Baviera, il quale, da luminare cinematografico qual è, mi ha
tirato in testa una copia di Der Tod in Venedig, un racconto del 1912 di P.T. Mann, che noi
italiani siamo riusciti a storpiare in La morte a Venezia. Per fortuna era piccolo. E per
fortuna il conte di Lonate Pozzolo, L. Visconti di Modrone, ebbe il coraggio di ribadirlo nel
1971, firmando la regia di La morte a Venezia. Un po’ lento come ritmo per riuscire ad
abbordare l’Alfa bimotore che s’è vista transitare in località Altopascio, sulla Firenze-Mare,
il 15 giugno 1935. Pure se con gazzosa liberale. Poi la notizia s’è diffusa e sono arrivati, via
Brema, anche i soliti musicanti del Suffolk a complicare le cose. Come l’esimio signor E.B.
Britten nel 1973 ad esempio, con la sua Death in Venice. Titolo insolito. Faccenda intricata.
Accostamento sottile. Se non altro meglio del «Tizio» dell’altra volta. Quindi il maestro
Nullo avrebbe evocato la struggente figura dell’anziano protagonista, il maestro Gustav von
Aschenbach, mentre agonizzante s’una sdraio contempla in spiaggia il fanciullo Tadzio,
effimero simbolo della bellezza ideale e della sua giovinezza ormai perduta, per accostarla
alla purezza quasi estetica con cui Nuvolari affrontava il volante e la morte. Ma l’ipotesi
non mi convince. Il von sorseggia tuttavia una gazzosa. Ed è questo allora l’indizio da
seguire, la traccia da leggersi quale richiamo implicito alla ben nota ossessione del pilota
mantovano. È una questione di grandi numeri. Mica a tutti può piacere il lambrusco.
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Qualcuno insinua invece che stiano tirando il collo a una bella
fata. Sarà… Io preferisco fare sogni turchini.
Con bollicine, prego. 7
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N.d.C. Alla fine di questa novella dal risvolto agrodolce m’è come apparsa una fatina che
m’ha mostrato un ulteriore frammento utile a far maggiore chiarezza sull’identità composita
del pur sempre nostro, ma soprattutto suo maestro O.F. Nullo. Vorrei allora concludere col
più classico dei coccodrilli, per tentare di risalire la corrente virtuosa, riscoprirne le origini
remote, onorare almeno uno dei tre quesiti esistenziali, le filanti Cloto, Lachesi ed Atropo.
Francesco Nullo (1826-1863), eroe intrepido d’avanguardia, protagonista di molte imprese
patriottiche italiane e anche un po’ polacche. Lo troviamo ad animare le Cinque giornate di
Milano nel 1848, poi nei Corpi dei Volontari Lombardi del generale Allemandi durante il
tentativo d’invasione del Trentino. Nel 1859 si unisce ai Cacciatori delle Alpi di Garibaldi
sempre contro gli austriaci. Arruola personalmente i volontari bergamaschi nella Spedizione
dei Mille, dove pare fosse coinvolto anche in qualità di sponsor fornitore delle camicie
rosse, in quanto proprietario di una nota fabbrica tessile. Fatto sta che per dissipare ogni
possibile maldicenza sul conflitto d’interessi, fu proprio lui a piantare il primo tricolore a
Palermo il 27 maggio 1860. Preziosa fibra di lino, per la precisione. Ferito a Calatafimi, fu
con Garibaldi anche sull’Aspromonte. Nel 1863 organizzò una spedizione per liberare la
Polonia dalla dominazione russa, allestendo una legione di circa 600 volontari italiani e
anche un po’ francesi, a cui si unirono gli Zuavi della morte di Rochebrune. A Krzykawka,
il 5 maggio 1863, fu infine trafitto da un proiettile cosacco. Pare abbia sussurrato in dialetto
bergamasco: «Sò mòrt!» Considerato eroe nazionale in Polonia, la sua statua eretta nella
città natale di Bergamo è ancora oggetto di commemorazione annuale con tanto di console
inviato dal governo. Uomini così non ne fanno più, per fortuna o per disgrazia non saprei
dire. Ma quel che è grave è che non ne faranno nemmeno mai più. Solo facce di gomma e
pedalò. Meglio cantarci sopra allora, cfr. G. Bottesini, Fantasia funebre a grande orchestra
alla memoria del Colonnello Nullo. «Ei fu. Siccome immobile, - Dato il mortal sospiro, Stette la spoglia immemore - Orba di tanto spiro, - Così percossa, attonita - La terra al
nunzio sta, - Muta pensando all’ultima - Ora dell’uom fatale; - Né sa quando una simile Orma di piè mortale - La sua cruenta polvere - A calpestar verrà…»
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