Libero, 29 agosto 2003 Ricordo di Tazio Nuvolari Renata Salvarani
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Libero, 29 agosto 2003 Ricordo di Tazio Nuvolari Renata Salvarani
Libero, 29 agosto 2003 Ricordo di Tazio Nuvolari Renata Salvarani E' stato un simbolo dell'Italia fascista, un'icona di sprezzo della morte e di amore per il rischio. Fu più volte al Vittoriale, ospite di D'Annunzio, che gli regalò una tartarughina d'oro, poi inseparabile portafortuna, con una dedica fin troppo banale: "l'animale più lento all'uomo più veloce". Fece visita a Mussolini, che, nel giardino di villa Torlonia, posò gongolante seduto nella sua Alfa P3. Ma a Tazio Nuvolari la politica non interessava. L'ha usata, astutamente, e se ne è lasciato usare per quel che gli è servita a sostenere la sua leggenda. Il suo punto di forza era un altro: "Pochi conobbero come lui la folla. Pochi capirono quello che voleva e seppero alimentare il proprio mito", ha detto di lui Enzo Ferrari. E la gente l'ha amato alla follia. Lui, che era nato a Casteldario, dove la pianura mantovana sconcerta, tanto è uniforme, nell'immobilità delle afe estive e nell'impenetrabile fissità delle nebbie d'autunno, ha incarnato l'ansia di nuovo e di velocità che ha animato l'élite futurista europea, ma è stato, più di ogni altro, un simbolo popolare. Ha dimostrato agli italiani, che allora trovavano nello sport un riscatto dalla loro quotidianità di miserie e di fatiche senza soddisfazioni, che meschinità e distanze possono essere annullati, anticipando, eroicamente, la libertà di movimento che soltanto nel secondo Dopoguerra l'industria automobilistica ha portato sul mercato di massa. C'è del vero negli aneddoti che i giornali hanno sempre raccontato, ma c'è anche molto di ciò che gli occhi dei tifosi volevano vedere: le sue diventavano vittorie di un omarino alto un metro e sessantacinque sulle leggi fisiche, sulla tecnica. E sui potenti del mondo. Poco importa se nel '39 Hitler, al Salone dell'auto di Berlino, si congratulò pubblicamente con lui per la sua carriera. Il primo posto strappato quattro anni prima al Gran Premio di Germania è rimasto per tutti - soprattutto a guerra finita - "lo sberleffo al Fuhrer". Su un percorso difficilissimo, con 174 curve su 28 chilometri, davanti ad un pubblico di 300.000 tifosi tedeschi, ufficiali nazisti, sotto gli occhi dell'uomo più temuto del mondo, a Nuvolari era toccato di schierarsi con con un'Alfa P3 modificata che soffriva una differenza di 50-100 cavalli rispetto alle vetture d'Oltralpe. Guidando come un indemoniato, a mezzo giro dalla fine sorpassò il leader della corsa, von Brauchitsch, e, in un silenzio attonito e stupefatto, trionfò. Le voci gracchianti dei radiocronisti e i resoconti esaltati dei giornali hanno fatto la loro parte. Dal 1921, quando guadagnò il secondo posto sul tortuoso circuito motociclistico del Garda, il mantovano volante ha consolidato la sua immagine con una presenza costante: in alcuni anni era in pista ogni settimana; nella stagione 1923 corse 28 gare. Quando la sua popolarità sembrava in discesa, nel '38 arrivò il colpo di scena. L'auto di Nuvolari si incendiò ad oltre 150 chilometri all'ora per una perdita di benzina: si salvò buttandosi giù dalla macchina con la tuta in fiamme. Rimase ustionato e contuso. Dall'ospedale comunicò la decisione di ritirarsi: "Il fuoco mi ha terrorizzato. E' un nemico che non ti da scampo e dal quale non puoi difenderti. E' finita davvero, sono vecchio e sono stanco". Questa ammissione di debolezza non fece che renderlo ancora più amato dal pubblico, che impazzì di gioia quando decise di tornare sui suoi passi, per ricominciare a vincere, sulla paura e sul su stesso destino. Era morto da qualche mese, a diciotto anni, il figlio maggiore, Giorgio, portato via da una malattia di cuore, mentre lui non c'era, era in America alla Coppa Vanderbilt. La moglie Carolina raccontò "...era la prima volta che Tazio piangeva. Quando seppe che poco prima della morte lo aveva cercato, si chiuse nel suo studio e per molto tempo non volle più vedere nessuno". Nel '46 perse anche l'altro figlio. Molti scrissero che cercasse la fine al volante. Più probabilmente, per lui le corse erano diventate una necessità per sentirsi vivo, una sfida da giocare in totale assenza di istinto di conservazione. Così, per il "Nivola" che la gente voleva vedere, gli avversari sportivi divennero semplici rappresentazioni di una lotta molto più alta, titanica. Achille Varzi entrò nel mito come suo antagonista fisso. Il paese dei guelfi e dei ghibellini si divise ancora una volta: da una parte Nuvolari, che correva anche ingessato, proseguiva la gara con la macchina a pezzi, guidava con una chiave inglese al posto del volante, dall'altra il perfetto stilista e calcolatore, costante e regolare come nessuno. Era l'antipatico, l'elegante, il ricco che poteva permettersi le macchine migliori e che non doveva lavorare per mantenersi, che veniva battuto dal figlio del popolo, che lo sorpassava di notte, guidando a fari spenti, per l'ennesimo guasto. Non interessava a nessuno che anche i Nuvolari fossero benestanti, che lo zio Giuseppe sia stato uno dei primi commercianti di moto Bianchi e che, insieme con passione e consigli, gli abbia dato una grossa mano. Allo stesso modo, i battibecchi, gli allontanamenti e le riappacificazioni con Enzo Ferrari, l'amico ed estimatore di sempre, sono entrati nella leggenda come vittorie del genio sui soldi, su un padre padrone a cui il pilota avrebbe detto un orgoglioso, mantovanissimo, "mi fagh sensa", ne faccio a meno, per dimostrare poi di raggiungere altri traguardi, con altre macchine. Solo l'ultimo nemico, la morte, ha avuto la meglio, nel '53. Non è arrivata in pista, come è stato per tanti altri, compreso Varzi, come un finale un po' previsto e un po' scontato. Si è fatta pagare a caro prezzo, lentamente, nello strazio delle ultime gare, quando vomitava al volante perchè aveva lo stomaco consunto dai gas di scarico respirati tutta la vita, quando la mascherina che portava non riusciva a difenderlo dagli attacchi d'asma, quando si vedeva sfuggire il primo, a volte anche il secondo posto per poco. E, ormai, non più per guasti tecnici. Proprio il suo essere tragicamente sfuggito alla trionfalistica retorica fascista e, insieme, a quella melensa e vuota dei rotocalchi sportivi, fa di lui un eroe straordinariamente autentico della modernità.