Il Satyagraha

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Il Satyagraha
Satyagraha
Con il termine Satyagraha (sanscrito: Satyāgraha) si indica il tipo di lotta nonviolenta praticata da
Gandhi, Nelson Mandela, Martin Luther King ed altri ancora nella storia. La parola deriva dai
termini in sanscrito satya (verità), la cui radice sat significa Essere/Essenza/Verità, e agraha
(fermezza, aderenza, forza). Le traduzioni che più si avvicinano al significato di Satyagraha sono
"vera forza", "forza dell'amore" o "fermezza nella verità". Il termine porta con sé l'idea di ahimsa,
cioè assenza di danneggiamento o assenza di violenza. In Italia il concetto è noto come nonviolenza.
I contenuti
Le fonti da cui Gandhi trasse il suo concetto di nonviolenza sono innumerevoli: le religioni induista,
buddista, zoroastriana, cristiana, giainista e i rispettivi testi sacri; saggi come quello di Thoreau
sulla Disobbedienza civile, di Tolstoj Il regno di Dio è in voi, di Ruskin A quest'ultimo, e i suoi
innumerevoli "Esperimenti (o Esercizi) con la Verità".
Il pensiero satyagraha si basa su una concezione filosofica, religiosa e morale della realtà che vede
come più alto obiettivo dell'uomo la ricerca della Verità, che Gandhi assimila all’Essenza, all'Amore
e alla Nonviolenza. Il concetto di Verità si ritrova anche nella Bhagavad Gita, testo sacro indù, che
Gandhi apprezzò per il suo valore morale, definendolo il "Vangelo dell'India".
Il satyagraha può essere definito una forma di lotta politica, dotata della massima efficacia se
utilizzata per fini nobili; risulta, invece, inutile o dannosa per chi lo pratica per egoismo o brama.
Nel pensiero satyagraha v’è identità tra fine e mezzo a dispetto di ogni concezione "machiavellica":
per raggiungere una meta giusta l'unico modo è quello di usare metodi giusti, pacifici e nonviolenti,
con amore verso il "nemico" contro cui è diretto. Il satyagraha eleva chi lo pratica e chi lo riceve.
Esso distingue il peccato dal peccatore e, mentre verso il primo si scaglia con tutta la sua forza,
verso il secondo si comporta fraternamente: il suo obiettivo non è la distruzione dell'avversario, ma
la sua conversione, e la pacifica convivenza di entrambi.
Nel satyagraha vi è una forte tensione morale: i valori sono una componente fondamentale del
pensiero e dell'azione in ogni campo (sociale, politico, religioso, economico, culturale). Vi è inoltre
un forte distacco dai desideri e dalle passioni (intese in senso negativo), in quanto un eccesso
indurisce il cuore dell'uomo, lo sporca e lo stanca.
Il satyagraha è anche il servizio dell'altro: nella disputa è necessario mostrare la via giusta, aderirvi
e accettare a cuor sereno tutte le conseguenze. La disobbedienza civile potrebbe rendere necessario
infrangere una legge ingiusta: in tal caso il cittadino, moderato dall'auto-disciplina, obbedirà alla
superiore legge morale e trasgredirà quella dello Stato accettando la pena corrispondente. Il
fondamento di ciò è la superiorità della purezza dello spirito (derivante dall'obbedienza alla legge
morale) rispetto alla sofferenza del corpo che potrebbe essere causata dal danno ricevuto (prigione).
Nel concreto il satyagraha si traduce in molte forme, alcune delle quali storicamente sperimentate,
altre da ideare. Esse sono: la non-collaborazione nonviolenta, il boicottaggio, la disobbedienza
civile, l'obiezione di coscienza alle spese e alle pratiche militari, l'azione diretta nonviolenta, il
digiuno, le marce, le dimostrazioni etc., nonché, in termini più generali, il pacifismo.
Esempi gandhiani
Nel soggiorno in Sudafrica Gandhi si accorse dei soprusi che la popolazione indiana doveva
sopportare a vantaggio dell'élite bianca dominante. Qui praticò alcune forme di disobbedienza civile
e accettò la pena relativa. Dopo aver constatato, mediante numerose interviste, gli abusi subìti dalla
sua gente, riconosciuto che questi abusi dipendevano dallo status di cittadino indiano in Sudafrica,
iniziò a bruciare i lascia-passare di ogni indiano, che sancivano la diversità tra i cittadini.
Quando il governo emanò una legge che proibiva ai cittadini indiani di oltrepassare il confine,
organizzò una marcia disarmata che terminasse al di là dei confini proibiti. Furono arrestati a
migliaia e il governo dovette arrendersi per l'incapacità fisica di gestire la situazione. Sempre in
Sudafrica Gandhi organizzò numerosi scioperi a favore dei minatori sfruttati in modo disumano.
In India si ricorda la storica marcia del sale del 1930. Il governo inglese aveva imposto una tassa
sul sale che, essendo una materia prima di fondamentale importanza, andava a colpire pesantemente
tutta la popolazione indiana con particolare danno dei più poveri. Gandhi e i suoi collaboratori (o
meglio amici) partirono dalla loro fattoria in 78: i loro nomi vennero pubblicati sui giornali perché
la polizia ne fosse informata. Percorsero a piedi le 200 miglia che separano Ahmedabad da Dandi,
nel Gujarat, marciando per 24 giorni, e quando arrivarono alle saline erano diverse migliaia.
Alla fine Gandhi raccolse un pugno di sale. Disarmati, ordinati, col sorriso sulle labbra, i manifestanti
andavano incontro alla polizia, sul luogo per sedare la rivolta. Nonostante i duri colpi di manganello
i numerosi feriti e la violenza delle autorità, i cittadini continuavano ad avanzare silenziosi, a subire
il trattamento senza reagire in alcun modo, senza neanche difendersi. Dopo un po' la polizia si
arrese di fronte ad una fiumana di gente che continuava ad avanzare senza paura. Fu lo stesso
comandante ad ammettere il senso d’impotenza di fronte a quella folla che li coglieva impreparati.
In India Gandhi e il Congresso organizzarono diversi scioperi e boicottaggi. In particolare si ricorda
quello contro gli abiti inglesi a favore del costume tradizionale indiano (khadi), che lo stesso Gandhi
tesseva a mano. Questi esempi non sarebbero particolarmente graditi a Gandhi, il quale sosteneva
che il satyagraha è la regola, non l'eccezione, nella storia dell'uomo. È vero che nei secoli si sono
succedute decine di guerre tra i popoli, ma numericamente parlando è di gran lunga superiore il
numero dei conflitti risolti con l'amore e la comprensione tra le parti in causa.
Gandhi amava prendere a mo' d'esempio il comportamento in famiglia, dove la norma è l'affetto
sincero nei confronti del contendente e l'obiettivo non è l'eliminazione fisica: con tali presupposti è
più facile trovare un accordo. Ciò che avviene tra individui può avvenire anche tra stati, che sono
composti da individui, e tutti appartengono alla stessa famiglia umana e degli esseri viventi.
Altri esempi storici
Durante la guerra nord-americana del 1846 degli USA contro il Messico, il governo USA impose
una tassa per finanziare il conflitto. Thoreau, ritenendo che la guerra fosse ingiusta, ben sapendo
che questa non poteva svolgersi se non col contributo economico dei cittadini, decise di violare la
legge e non pagare la tassa, accettando volentieri il carcere che questo gesto comportava. Scrisse a
proposito un piccolo saggio Sulla disobbedienza civile in cui esponeva la propria tesi riferendosi
alla Dichiarazione di Indipendenza Americana del 1776 e rilevando le incongruenze tra questa e le
politiche del governo. La sua opera fu letta in seguito anche da Gandhi, che ne trasse ispirazione.
Altro esempio storico dell'uso dei metodi nonviolenti è quello di Gesù di Nazareth, personaggio
ispiratore della dottrina satyagraha che Gandhi chiamava “il principe della nonviolenza”. Egli
sosteneva che Lui e i primi martiri abbiano svolto un ruolo decisivo nella caduta dell'Impero Romano.
Martin Luther King praticò il satyagraha ispirandosi direttamente alle gesta nonviolente di Gesù e
di Gandhi. Negli USA del Sud organizzò un boicottaggio agli autobus, poiché vigevano delle norme
che imponevano discriminazioni razziali nei posti a sedere. Altri esempi: la marcia su Washington
per la conquista dei diritti civili e i numerosi sit-in.
Origine del termine
Durante la prima campagna in Sudafrica l'11 settembre 1906, la stampa internazionale soleva
indicare le azioni organizzate da Gandhi coi termini “resistenza passiva” o “disobbedienza civile”.
Gandhi, nel 1907, avviò una riflessione volta a discutere criticamente l'uso di questi termini. Alcuni
anni dopo (1913) Gandhi iniziò a rifarsi al termine ahimsa = nonviolenza (letteralmente: "assenza
della volontà di nuocere"). Gandhi stesso diverrà consapevole presto che l'ahimsa è da intendersi in
senso positivo e non negativo, cioè come “propensione al bene” e non come “assenza di violenza”.
Ahimsa significa l'appello ad una "forza altra", distinta dalla violenza e ad essa opposta, e la definirà
"forza che dà vita", appunto una forza più potente. Così Gandhi il 18 dicembre 1907 indisse un
concorso per trovare un nome più appropriato e che sapesse cogliere appieno lo spirito del metodo.
La proposta vincente fu suggerita da Maganlal Gandhi: Satyagraha, cioè “fermezza in una buona
causa”. Il 10 gennaio 1908 “Indian Opinion” pubblica per la prima volta la parola Satyagraha
(aderenza alla verità), che da allora divenne il nome ufficiale del movimento e del metodo di lotta
promosso da Gandhi: la forza che nasce da verità, giustizia e amore. In Italia appunto Nonviolenza.