Satyagraha - IIS Cremona

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Satyagraha
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Con il termine Satyagraha (sanscrito satygraha, in devanagari ) si indica il tipo di lotta
nonviolenta praticata da Gandhi, Martin Luther King, Aung San Suu Kyi ed altri nella storia. La
parola deriva dai termini in sanscrito satya (verità), la cui radice sat significa Essere/Vero, e agraha
(fermezza, forza). Le traduzioni italiane che più si avvicinano al significato di Satyagraha sono "vera
forza", "forza dell'amore" o "fermezza nella verità". Il termine porta con sé l'idea di ahimsa, cioè
assenza di danneggiamento. In Italia lo stesso concetto è meglio conosciuto con il nome di
Nonviolenza.
Indice
1 Le fonti e i contenuti
2 Esempi storici gandhiani
3 Altri esempi storici
4 Collegamenti esterni per approfondire gli esempi storici
5 Origine del termine
6 Bibliografia
Le fonti e i contenuti
Le fonti da cui Gandhi trasse il suo concetto di nonviolenza sono innumerevoli: le religioni induista,
buddista, zoroastrista cristiana, giainista e i rispettivi testi sacri; saggi letterari come quello di
Thoreau sulla "Disobbedienza civile", di Tolstoj "Il regno di Dio è in voi", di Ruskin "A
quest'ultimo", e inoltre i suoi innumerevoli "esperimenti con la Verità".
Il pensiero satyagraha si basa su una concezione filosofica, religiosa, morale trascendente della realtà
che vede come più alto obiettivo dell'uomo la ricerca della Verità, che Gandhi assimila a Dio,
all'amore e alla nonviolenza. Il concetto di Verità lo si ritrova anche nella Bhagavad Gita, testo sacro
indù che Gandhi apprezzò per il suo valore morale, definendolo il "Vangelo dell'India".
Il satyagrahi (colui che pratica il satyagraha) aderisce a undici principi che osserva in spirito di
umiltà: non violenza, verità, non rubare, castità, rinuncia ai beni materiali, lavoro manuale,
moderazione nel mangiare e nel bere, impavidità, rispetto per tutte le religioni, swadeshi (uso dei
prodotti fatti a mano), sradicamento dell'intoccabilità.
Il satyagraha può anche essere definito una forma di lotta politica e sociale (per Gandhi vi è una
forte identità tra i due termini), dotata della massima efficacia se utilizzata per fini nobili e degni;
risulta, invece, inutile o dannosa per chi lo pratica per egoismo o brama.
Nel pensiero satyagraha vi è identità tra fine e mezzo, a dispetto di ogni concezione
"machiavelliana": per raggiungere una meta giusta l'unico modo è quello di usare metodi pacifici e
nonviolenti, con amore verso il "nemico" contro cui è diretto. Il satyagraha eleva e purifica chi lo
pratica e chi lo riceve. Esso distingue il peccato dal peccatore e, mentre verso il primo si scaglia con
tutta la sua forza, verso il secondo si comporta fraternamente: il suo obiettivo non è la distruzione
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dell'avversario, ma la sua conversione, e la pacifica convivenza di entrambi.
Nel satyagraha vi è una forte tensione morale: i valori sono una componente fondamentale del
pensiero e dell'azione, in ogni campo (sociale, politico, religioso, economico, culturale, ecc.). Vi è
inoltre un forte distacco dai desideri e dalle passioni (intese in senso negativo), in quanto un eccesso
indurisce il cuore dell'uomo, lo sporca e lo stanca.
Rispetto alla morte il satyagrahi non deve provare timore, poiché non si può uccidere ciò che non
può morire. La morte è il dono estremo con cui un essere umano si offre alla propria causa e al suo
avversario, conscio che anche in questo modo serve la Verità e il bene.
Il satyagraha è anche il servizio dell'altro: nella disputa è còmpito del satyagrahi mostrare la via
giusta, aderirvi e accettare a cuor sereno tutte le conseguenze. La disobbedienza civile potrebbe
rendere necessario infrangere una legge ingiusta: in tal caso il cittadino, rispettoso di tutte le altre
leggi, moderato dall'auto-disciplina, obbedirà alla superiore legge morale e trasgredirà quella dello
stato accettando senza rimorso la pena corrispondente. Il fondamento di ciò è la superiorità della
purezza dello spirito (derivante dall'obbedienza alla legge morale) rispetto alla sofferenza del corpo
che potrebbe essere causata dal danno economico ricevuto o dalla permanenza in prigione.
Nel concreto il satyagraha si traduce in molteplici forme, alcune delle quali storicamente
sperimentate, altre sono ancora da ideare. Esse sono: la non-collaborazione nonviolenta, il
boicottaggio, la disobbedienza civile, l'obiezione di coscienza alle spese militari, l'azione diretta
nonviolenta, il digiuno, ecc., nonché, in termini più generali, il pacifismo
Esempi storici gandhiani
Nel soggiorno in Sudafrica Gandhi si accorse dei soprusi che la
popolazione indiana doveva sopportare a vantaggio dell'élite bianca
dominante. Qui praticò alcune forme di disobbedienza civile e accettò la
pena relativa. Dopo aver constatato, mediante numerose interviste, gli
abusi subìti dalla sua gente, riconosciuto che questi dipendevano dallo
status di cittadino indiano in terra del Sudafrica, iniziò a bruciare
pubblicamente i lascia-passare di ogni indiano, che sancivano
ufficialmente la diversità tra gli uomini.
Quando il governo emanò una legge che proibiva ai cittadini indiani di
oltrepassare il confine, organizzò una marcia disarmata che terminasse al
di là dei confini proibiti. Furono arrestati a migliaia, e il governo dovette
arrendersi per l'incapacità fisica e logistica di gestire la situazione.
Gandhi nel 1918, durante
il satyagraha del
Champaran e del Kheda
Sempre in Sudafrica Gandhi organizzò numerosi scioperi a favore dei
minatori sfruttati in modo disumano.
In India si ricorda la storica marcia del sale del 1930. Il governo inglese
aveva imposto una tassa sul sale che, essendo questo una materia prima
di fondamentale importanza, andava a colpire pesantemente tutta la popolazione indiana con
particolare danno dei più poveri. Gandhi e i suoi collaboratori (o meglio amici, compagni, familiari)
partirono dalla loro fattoria che erano in 78: i loro nomi vennero pubblicati sui giornali perché la
polizia ne fosse informata. Percorsero a piedi le duecento miglia che separano Ahmedabad da Dandi,
nello stato del Gujarat, marciando per 24 giorni, e quando arrivarono alle saline erano diverse
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migliaia.
Alla fine il Mahatma raccolse un pugno di sale. Disarmati, ordinatamente e col sorriso sulle labbra, i
manifestanti andavano incontro alla polizia, sul luogo per sedare la rivolta. Nonostante i duri colpi di
sfollagente, i numerosi feriti e la violenza delle autorità, i cittadini continuavano ad avanzare
silenziosi, a subire il trattamento senza reagire in alcun modo, senza neanche difendersi. Dopo un po'
la polizia si arrese di fronte ad una fiumana di gente che continuava ad avanzare senza paura. Fu lo
stesso comandante ad ammettere, a posteriori, il senso di impotenza di fronte a quella moltitudine,
che coglieva impreparati gli agenti generalmente avvezzi a ben altro tipo di proteste popolari.
In India Gandhi e il Congresso organizzarono diversi scioperi e boicottaggi. In particolare si ricorda
quello contro gli abiti inglesi, a favore del costume tradizionale indiano (khadi), che lo stesso Gandhi
tesseva a mano.
I suddetti esempi non sarebbero particolarmente graditi a Gandhi, il quale sosteneva che il satyagraha
è la regola, e non l'eccezione, nella storia dell'uomo. È vero che nei secoli si sono succedute decine di
guerre tra i popoli, ma numericamente parlando è di gran lunga superiore il numero dei conflitti
risolti con l'amore e la comprensione tra le parti in causa. Gandhi amava prendere a mo' d'esempio il
comportamento in famiglia, dove la norma è l'affetto sincero nei confronti del contendente e
l'obiettivo non è l'eliminazione fisica: con tali presupposti è più facile trovare un accordo. Ciò che
avviene tra individui può avvenire anche tra stati, che sono composti da individui, e tutti
appartengono alla stessa famiglia umana e degli esseri viventi (Gandhi era anche vegetariano - vedi
"vegetarismo").
Altri esempi storici
Durante la guerra statunitense del 1846 al Messico, il governo americano impose una tassa per
finanziare il conflitto. Thoreau, ritenendo che la guerra fosse ingiusta, e ben sapendo che questa non
poteva svolgersi se non col consenso e col contributo economico dei cittadini, decise di violare
apertamente la legge e non pagare la tassa, accettando volentieri la reclusione in carcere che questo
gesto comportava. Scrisse a proposito un piccolo saggio "Sulla disobbedienza civile", in cui
esponeva la propria tesi facendo riferimento alla dichiarazione d'indipendenza del 1776 e rilevando
le incongruenze tra questa e la politiche contemporanee del governo. La sua opera fu letta in seguito
anche da Gandhi, che ne trasse ispirazione.
Un altro esempio storico dell'utilizzo dei metodi nonviolenti è quello di Gesù, personaggio ispiratore
della dottrina satyagraha e che Gandhi chiamava 'il principe della nonviolenza'. Egli sosteneva infatti
che sia Lui, sia i primi martiri abbiano svolto un ruolo determinante nella caduta dell'Impero romano.
Martin Luther King praticò il satyagraha ispirandosi direttamente alle gesta nonviolente di Gesù e di
Gandhi. Negli Stati Uniti d'America del Sud organizzò un boicottaggio agli autobus, poiché vigevano
delle norme che imponevano discriminazioni razziali nei posti a sedere. Altri esempi dello stesso
personaggio sono la marcia su Washington per la conquista dei diritti civili e i numerosi sit-in. Un
esempio italiano poco noto è la manifestazione nel luglio 1944 delle donne di Carrara in Piazza delle
erbe per opporsi ai nazisti che volevano deportare tutta la popolazione in Emilia per riuscire così ad
isolare i partigiani. I nazisti cedettero.
Collegamenti esterni per approfondire gli esempi storici
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Storia della movimento nonviolento (http://italy.peacelink.org/storia/)
Origine del termine
Durante la prima campagna che ebbe inizio in Sudafrica l'11 settembre 1906, la stampa
internazionale, ma anche lo stesso Gandhi, solevano indicare le azioni e lotte organizzate da Gandhi
coi termini 'resistenza passiva' o "disobbedienza civile". Gandhi, nel corso del 1907, avviò una
riflessione volta a discutere criticamente l'uso di questi termini. Solo alcuni anni dopo (attorno al
1913) Gandhi iniziò a rifarsi al termine "ahimsa" = nonviolenza / innocenza (letteralmente: "assenza
della volontà di nuocere"). Peraltro Gandhi stesso diverrà consapevole assai presto che l'ahimsa è da
intendersi in senso positivo, e non semplicemente negativo, come pura "assenza di violenza".
Ahimsa significa l'appello ad una "forza altra", distinta dalla violenza e ad essa opposta, e la definirà
"forza che dà vita".
Così Gandhi il 18 dicembre 1907 indisse, dalle colonne del settimanale degli indiani del Sudafrica
"Indian Opinion", un concorso per trovare un nome più appropriato e che sapesse cogliere a pieno lo
spirito del metodo.
La proposta vincente fu suggerita da shri Maganlal Gandhi: sadagraha, cioè “fermezza in una buona
causa”. A Gandhi la parola piacque, ma – dice lui stesso nella sua autobiografia – “affinché fosse più
comprensibile io poi la cambiai in satyagraha, che da allora in poi è diventata comune in lingua
gujarati per definire la nostra lotta”. Il 10 gennaio 1908 Indian Opinion pubblica per la prima volta la
parola Satyagraha, che da allora divenne il nome ufficiale del movimento e del metodo di lotta
promosso da M. K. Gandhi: la forza che nasce dalla verità e dall’amore.
In Italia il termine comunemente adottato nel linguaggio comune è Nonviolenza, mentre Satyagraha
resta quasi sconosciuto, salvo in alcuni contesti come quelli dei movimenti nonviolenti o del
Radicalismo.
Bibliografia
Gandhi, "Antiche come le montagne", Classici moderni Oscar Mondadori
Gandhi, "La forza della nonviolenza" (titolo originale "The science of Satyagraha"), Emi
Gandhi, "Teoria e pratica della nonviolenza", Einaudi
Gandhi, "Una guerra senza violenza" (titolo originale "Satyagraha in South Africa"), Libreria
Editrice Fiorentina
Categorie:
Filosofia politica Nonviolenza
Ultima modifica per la pagina: 13:30, 30 dic 2011.
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