Il circolo di Weirz

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Il circolo di Weirz
Alessandro Cascio
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Il circolo di Weirtz
“I precognitivi esistono dalla nascita dei tempi. La bibbia li colloca tra le creature angeliche, la
cultura greca tra le stregue dei soldati di Zeus, gli indiani tra gli sciamani e il medioevo, dove
altro, se non sulle braci a chiedere perdono.
Nel ’65, una studentessa di psicologia, la Berlinese M. L. Weirtz, si sofferma sulle tesi di Jung circa
le coincidenze significative sostenendo che il Precognitivo è un essere umano con facoltà di
attraversare il tempo durante la fase REM del sonno che nel soggetto in questione dura otto minuti
in più che in un soggetto normale. Quegli otto minuti rappresentano la “vista” del precog. Il lobo
limbico più grande permette inoltre una lotta tra il lato cosciente e quello incosciente del soggetto
che, per opposizione a quella vista che noi riteniamo paranormale, entra in un cerchio di sonno e
sogno chiamato “eco” da cui mai più potrebbe riprendersi. Il compito della disciplina psicologica
moderna dovrebbe essere quello di far sì che il soggetto-paziente si avvicini il meno possibile al
centro del cerchio (la fossa) che lo farebbe cadere in uno stato comatoso.
La ricercatrice M.L. Weirtz dopo due anni di ricerche, proprio mentre stava per scrivere uno studio
sul precognitivismo,Il circolo di Weirtz, scomparve. La sua morte è stata datata all’incirca nel
1972 ed il suo corpo mai più ritrovato”
- UFO and others, 8 Gennaio 1983
Ci sono fiori ovunque, di ogni colore coltivati con cura certosina da uomini sorridenti, nel sogno,
poi c’è un capannone enorme con il mulino bloccato da dei fermi di pietra rossa sdrucciolevole e
lavorata a mano, piantati sul muro da età remote. C’è l’odore di maiale arrosto che si mischia a
quello di torte mielose e caramellose, mandorlate, zuccherate, velate di cioccolata, cannella o
macchiate da gocce di succo di mirtillo, pesca o mela, c’è il tepore del pane caldo che ti entra nelle
narici che quasi ne mangeresti l’odore e c’è Milly, Dolly o Sally e poi Oyko, che mi guarda
accucciata tra le coperte come se aspettasse che scattassi all’impiedi.
S’era svegliata nel mezzo della notte artificiale che c’eravamo creati per convincerci che il mondo
fosse fermo, fuori dalla nostra finestra.
“No, nulla, continua a dormire” le dico e rido del sogno che ho fatto.
“Era brutto?” mi dice.
“No, tutt’altro”
Siamo nella stanza senza numero di una baita vicino le baracche di Porto che danno sul fiume.
Questa e’ l’unica cosa che ricordo, poi lei, il sesso, i baci e le parole nella sua lingua che ancora non
conosco ma che cerco di imparare. I cuscini di piume d’oca e le lenzuola con i merletti viola cuciti a
mano su stracci bianchi e spessi pesanti come lana e:
“Ho preso una sbronza pesante?”
“Forse”
“Ricordo poco”
Poi lei comincia a singhiozzare, starnuta e singhiozza ed io la copro fino a sopra le spalle nude, le
restituisco il calore corporeo che ha perso dopo il mio sbalzo, scoperta dal mio scatto in avanti e le
accarezzo i capelli. Se pensassi che tutto è normale mi riaddormenterei perché, al contrario di Oyko,
io dormo con o senza il mondo attorno, ma le racconto il mio sogno perché lei non prende sonno
come se aspettasse le mie parole. Le dico del mulino, le dico delle viole e delle margherite, delle
torte…
“E poi…”.
La mia mente è come bloccata dallo stesso fermo che blocca il mulino, piantato sui miei lobi
frontali da tenermi i pensieri fissi sulla stanza e nulla più, come se la festa appena trascorsa fosse un
ricordo vago e quando finisco e le chiedo: “Cosa ho bevuto?”
Lei mi risponde che c’è una cosa che deve dirmi, ma non ci crederei.
Mi dice di bere un bicchier d’acqua, lo dice come suo solito, ed io lo faccio.
Ho un bernoccolo in testa, appena causato da una caduta. Altri piccoli gonfiori a lato.
I miei ricordi li trovo raggruppati dietro i fermi di pietra rossa, che sdrucciola sulla mia fronte, fermi
a Bernard Carl che mi dice: “Amico, tu sei una forza della natura, eu seu louco porém tu es un
incanto, it’s true!” e poi la sua lingua si confonde con il francese, con il portoghese, lo spagnolo e
l’italiano, perché, lui, dice, di lingue ne parla tante ma tutte in una volta.
Tutto perché gli ho detto di aver sognato un tizio che regalava materassi alla sesta di Rua du Brazil,
tutto perché gli ho detto di aver sognato che il suo passaporto era rimasto all’associazione
accademica, sotto il tavolo da biliardo, tutto perché gli ho detto di aver sognato che c’era una
brasiliana che glie l’avrebbe data, al Twisted, due sere prima e lui avrebbe scopato una notte intera.
Tutto, perché ogni cosa che gli ho detto si è avverato e ha cominciato ad aspettare sveglio, che mi
svegliassi.
“Sogno altre cose oltre te” gli dico mentre mi aspetta con la colazione in mano.
“Tipo?”
“Che avremo un incidente se alla prima curva per andare a prendere i materassi gratis, ti farai
prendere dall’entusiasmo!”
I miei ricordi stanno da un lato della mia testa adesso, si accavallano ai fermi di pietra si insinuano
delle cavità e ricordo Bernard Carl che mi dice: “Tu es o gènio, lâmpada du aladdin, do you
remember?” e riesco a malapena a ricordare che c’era un ponte oltre la strada stretta, lo dico e
Bernard Carl, con i pochi capelli al vento fini e secchi, stempiato e abbronzato, proveniente
dall’Inghilterra ma in giro per il mondo da 3 anni, studente di medicina perennemente ubriaco, ex
senza frontiere Cambogiano. Accelera, muove lo sterzo malamente e dopo quel momento strofina la
faccia fuori dal finestrino lungo tutto l’asfalto, con il corpo perfettamente al volante e il collo
completamente girato a seguire la scia bianca sulla quale camminiamo, colorandola, strisciando sul
suo sportello rosso mattone invece che sulle ruote. La testa resta immobile, il sangue gli sgorga via
con la pelle e frammenti d’osso lasciandogli il sorriso beone su una strada di periferia appena
cercata sulla cartina. Io mi appoggio al suo braccio e mi tiro indietro, non mi è ancora successo
nulla, mi spingo sul mio finestrino che sta insolitamente sopra la mia testa e aspetto l’impatto, dove
sono sicuro, mi succederà qualcosa, lo sento, ma non per via dei miei nuovi superpoteri, ma per la
scoperta del fatto che una macchina sta per venirci incontro e non sembra aver capito da quale parte
ci sarà più spazio per evitarsi lo strazio di un parabrezza bucato. Poi sento il botto, Bernard Carl ha
la faccia quasi rivolta verso me, ma il corpo in posizione da scuola guida sembra voler mettere
apposto anche lo specchietto retrovisore.
Vomito l’acqua dolciastra che Oyko mi ha dato!
“Oh cazzo, che schifo!”
“E’ clorephine e sodio azotato”
“No, la testa di Bernard Carl!”
Dice: “E’ successo tanto tempo fa, adesso devo dirti una cosa a alla quale non crederai. Ci
crederai?”
Una donna che ti dice che sta per dirti una cosa nel modo in cui lo dice Oyko, non deve annunciarti
una bella notizia.
Succede così nella maggior parte dei tradimenti, delle gravidanze da preservativi scadenti e a chi si
porta a letto un alieno, ma nei primi due casi, qualcuno è rimasto vivo per raccontarlo, il terzo caso
non è meno comune, ma pochi sono sopravvissuti agli artigli affilati dell’amante venusiana per
poter raccontare su UFO e altre meraviglie, che gli alieni sono tra noi.
Mentre ci incamminiamo con la macchina presa in prestito a tre Inglesi suoi coinquilini dico a
Bernard Carl:
“Ci credi a sta storia delle aliene che divorano i mariti?”
“No” dice, e guida.
“Questo professore ne sembra certo”
“E’ louco, come te”
“Non sembra pazzo” dico, “non ha i capelli alla Einstein e la risata alla Krusty il Clown”
Allora, se la ragazza giapponese che ti sei portata a letto dopo una sbronza al convivio botanico
frequentato da professori e giovani frastornati da droghe, un giorno si sveglia tra lacrime di Iliner
Shiseido nero corvino e ti dice, “tu ci credi se ti dico una cosa?”, la osservi e te ne stai in silenzio,
perché è una ragazza incredibile, con un’incredibile capacità di metterti a letto e di starti sopra
senza farti sentire inferiore. Se ti dice che potresti non credere a quello che sta per dirti, vuol dire
che non ci crederai o che vorrai non crederci.
In quella notte, la ragazza incredibile stava per rendere incredibile una semplice serata ed io me ne
stavo in silenzio cercando una scappatoia a tutto quello, la guardavo e non le permettevo di parlare
fin quando non avessi trovato il modo per rendermi irreperibile, per sempre. Ma se è troppo bella,
se non le riesci a staccare gli occhi di dosso nonostante sia appena sveglia e ubriaca, sporca ancora
di liquidi seminali e vaginali contrastanti dal suo ombelico in giù, dici quello che io ho detto, dici:
“Certo, Oyko”.
Se hai abbandonato l’idea che le giapponesi siano tutte uguali e che potresti trovarne a centinaia,
tutte dello stesso stile, se hai abbandonato l’idea che le giapponesi e le cinesi differiscano solo dalla
digitale che hanno al collo e da ciò che fotografano, se hai abbandonato l’idea che le giapponesi non
fanno altro che lavorare ma non sai spiegarti come mai nonostante tutto le vedi beate visitare il
mondo interessate, se hai abbandonato l’idea di fuggire dalla tua Oyko, ti alzi e le passi il dito sulle
lacrime acquarello disegnandole qualcosa di psicologicamente insano come un’aspirale o dei cerchi
concentrici, nelle guance paffute e le dici: “Certo che ci credo, dimmi”.
“Sogni cose vere, cose che esistono”
“Sono realista, non sogno gente con le ali e la pace nel mondo”
“No, dico, sei uno di quelli che se sogna un incidente, lo sogna perché ciò sta succedendo davvero.
Capisci?”
Le giapponesi lavorano come matte, portano una digitale e fotografano monumenti su cui noi
europei costruiremmo centri commerciali, le giapponesi sono tutte uguali, si differenziano solo
dalla grandezza della mascella, hanno la vagina piccola e gridano quando lo infili. Questo è quello
che voglio credere, piuttosto che finire spiaccicato da un camion proprio mentre la mia ragazza sta
sognandomi. L’ultima cosa che voglio pensare mentre mi vedo arrivare una targa portoghese a 120
Km/h sullo stomaco è: “Dovevo saperlo, cazzo”
Le dico: “Quindi Bernard Carl?”
Mi dice tutto, mi parla dei fiori, mi parla dei sorrisi e degli odori, ma poi inizia a parlare di questa
signora, Molly, o Polly e dice delle cose orribili su Bernard Carl, dice che è morto da tempo, tanto.
“Non ieri?”
“Neanche l’altro!”
Dico: “E dove si trova?”
“Qui”
“Al Convivio?”
“Non è una festa, questa, è un centro di recupero per te che stai male e per quelli come te”.
In un’auto color mattone sbiadito dal Sole d’Agosto, sfoglio con Bernard Carl le copertine di UFO
ed altre meraviglie, Poltergeist, Saturn day, Ghost and religion e le altre riviste che ho comprato alla
stazione, che parlano di precognitivismo,
“Sai che la moglie del Professor Luther era una di alfa centauri?”
“Getta via” risponde l’Inglese con la camicia a quadri e i baffi portoghesi.
“Costano quanto una spesa al mini preço”
Lui, prima della curva, mi dice che io non sono un’invenzione, io esisto e che forse non è neanche
troppo soprannaturale, è un problema psicologico, ma un buon problema, lui è sempre comunque un
quasi dottore.
Oyko, invece, mi dice di scendere e di andare a vedere con i miei occhi, che è già giorno da ore.
La sua voce è pacata, ti parla del comunismo sovietico che ha appena studiato come se parlasse del
lento sbocciare dei fiori in primavera, ti assottiglia i discorsi come se fossi stupido ma mantiene i
concetti come se fossi un Nobel, ti guarda la fronte per non metterti in imbarazzo quando deve farti
notare che stai facendo qualcosa che non va o hai qualcosa che ti esce su per il naso. Se deve
discutere, chiude le gambe e si mette di fronte a te, ma mai accanto, perché alla gente, dice, si parla
di fronte e allora si sposta, prende una sedia e ti dice di andare a vivere assieme in un modo così
divino che vorresti conoscere le altre giapponesi, quelle con la fica stretta e che si ammazzano di
lavoro, per vedere se anche quelle sono come lei.
Se lei è l’unica la sposo.
Allo stesso modo, nonostante il suo abbigliamento dark la colloca tra le insolite giapponesi del
pianeta, mi dice che: “Puoi non venire se non vuoi vedere!”
Mi vesto, bussa ad una porta e leggo che nel corridoio ci sono targhe con nomi, il mio è scritto in
Bookman Old Style, su ottone, contornato di ghirigori floreali come se stessi in quella stanza da una
vita, da due, visto che non è una targa appena affissa.
Il tizio alla porta ci apre ed io lo ringrazio, ma lui, invece di rispondermi mi saluta come fossi suo
fratello e mi chiama per nome.
Ci sono fiori ovunque, di ogni colore coltivati con cura da uomini sorridenti e freschi sotto quel
Sole. C’è un capannone enorme con il mulino bloccato dai fermi di pietra rossa sdrucciolevole e
lavorata a mano, piantati sul muro da età remote. Uguale, così come li ho sognati, così come penso
stiano impostati nella mia testa. La pietra e appuntita e sembra finta vista da lontano. C’è l’odore di
maiale arrosto che si mischia a quello di torte mielose e caramellose, mandorlate, zuccherate, velate
di cioccolata e cannella. Tutto di fila, uguale. Macchiate da gocce di succo di mirtillo, pesca o
mela. Anche. C’è il tepore del pane caldo che ti entra nelle narici che quasi ne mangeresti l’odore e
c’è: “Molly, piacere”
Lei le stringe la mano ed io cerco di fare lo stesso, ma quella è cieca, non mi vede e sorride al vento,
che non ricambia la cortesia e le fa svolazzare i capelli.
Molly è una Signora sui 60 che mi chiede: “Quanti anni mi daresti?”
Dico: “60”, e quella rimane, si vede che qualcuno l’aveva sempre presa in giro dicendole che
dimostrava meno della sua età.
“Migliori ogni giorno. Il tuo eco sta per aprirsi grazie a lei”
E’ cieca, non può vedersi, toccarsi forse.
“Me ne hai sempre dati 50”
Essere più stronzi non è migliorare.
Sono le quattro e mezza e ad ogni mio chiedere “la storia di Bernard e del Precognitivo?” lei ride,
“sono qui da tanto?” e lei ride, “mi ha portato lei qui dopo l’incidente?” e lei ride. Poi mi volto
indietro e io non le posso dire altro che: “Oyko?”
E svengo, cado in terra e sbatto la testa.
“Al contrario di altri psicologi dell’oscuro, del latente, sostengo che il sonno in cui cadono gli eco,
è dato da una reazione che il loro cervello ha nei confronti della malattia e non dalla
malformazione stessa. Il precognitivo si lega ad un simbolo reale, che sia esso un affetto o un
oggetto, per rimanere ai margini del cerchio e non abbandonarsi al coma profondo avvicinandosi
al centro di esso. Per questo il sonno arriva all’improvviso, per una reazione al simbolo,
un’opposizione della parte cosciente nei confronti di quella incosciente, separate da un filo sottile
che è appunto, l’eco. Ogni volta che il precognitivo si risveglia, cambia di una piccola percentuale
sia i propri ricordi che il proprio presente, e tende ad aprire il cerchio chiuso in cui è caduto,
aumentando le proprie percezioni nei confronti della verità”.
Molly Weirtz, Dicembre 1974 Lincoln University, USA
Oyko sembra appena arrivata, mi guarda e mi bacia.
“Parli la mia lingua?” le chiedo.
“Posso imparare” mi risponde e sembra tutto come in un Film, in cui il mio charme è già stato
mostrato dalle agenzie pubblicitarie e dai trailer, scritto in una sceneggiatura, per doverlo tirar fuori
con fatica.
“Mi piaci, penso sia amore”
“Lo é” mi dice lei, “per questo ho scelto di starti accanto, sei il mio amore in piccole dosi
quotidiane e forse un giorno…”
La ragazza corre, ma è meglio così che paralizzata su una sedia a rotelle. La lascio fare, bevo con lei
e osservo gli altri ragazzi muoversi all’interno della festa come se da una vita si trovano lì.
Due, se guardi il modo in cui si salutano.
Io sono strafatto di qualcosa, ho così poco in testa e mi volto a destra e a sinistra per scovare una
faccia tra le facce.
“Chi cerchi?” chiede Oyko.
“No, nessuno, nessuno!”
Bernard Carl sfreccia con la macchina rubata ai coinquilini, rosso copertina sbiadita di una copia
della bibbia in biblioteca, rosso capelli di bibliotecaria anziana e mi dice:
“Vedrai che festa stasera, genio”.
“Ci andiamo con tutti i materassi?”
“Li legheremo al tetto”
Io so che il cancello del convivio della facoltà di botanica in cui stiamo per andare è blu con una
grossa scritta verde, che all’entrata c’è un tipo simpatico e grasso, poco giovane e che ha sempre in
mano un libro. So che non ci sono macchine posteggiate e neanche una musica decente, ma che
dentro è strapieno di gente. So che incontrerò una donna. L’ho sognato.
“E che altro sai?” mi chiede Bernard Carl.
“Nulla, il sogno si è fermato qui”
“E’ abbastanza” mi dice e sfreccia via verso la prima curva.
Alessandro Cascio
Alessandro Cascio pubblica da diversi anni in Italia e all'estero. Finalista al premio
internazionale di letteratura J. Prevert ha pubblicato tre romanzi per Montedit, Il Foglio e
KVP ma ha scritto anche per numerose riviste italiane e straniere. Sta ultimando il suo ultimo
romanzo e vive in giro per il mondo da dieci anni.