accesso agli atti del concessionario della riscossione

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accesso agli atti del concessionario della riscossione
ACCESSO AGLI ATTI DEL CONCESSIONARIO DELLA RISCOSSIONE: LA
CARTELLA DI PAGAMENTO E LA RELATA DI NOTIFICA
Sommario: 1. La risposta del T.A.R. alla questione concernente l’accesso alla cartella esattoriale - 2. La
natura giuridica del concessionario del servizio di riscossione - 3. La qualificazione del concessionario
della riscossione ai fini dell’applicazione delle norme in tema di diritto di accesso ai documenti
amministrativi - 4. L’accesso alla cartella esattoriale - 5. La cartella di pagamento quale “documento
amministrativo” accessibile ai sensi della L. n. 241 del 1990 - 6. La giurisdizione sulle controversie in
tema di accesso alla cartella di pagamento: conclusioni.
1. LA RISPOSTA DEL T.A.R. ALLA QUESTIONE CONCERNENTE L’ACCESSO ALLA CARTELLA
ESATTORIALE
Con la sentenza che si annota il Tribunale Amministrativo Regionale di Reggio Calabria,
riconosciuta nella ricorrente la posizione di destinataria di un “provvedimento di fermo amministrativo”
disposto dalla società concessionaria della riscossione dei tributi a carico dell’autovettura di sua
proprietà1, ha individuato nella strumentalità dell’accesso alla “tutela dei diritti dell’interessata in tutte le
forme consentite dall’ordinamento giuridico” il titolo legittimante la proposizione da parte sua
dell’istanza ostensiva: istanza che, non essendo stata soddisfatta dalla società detentrice del documento
richiesto, ha dato luogo, ex art. 25, comma 6, L. 7 agosto 1990 n. 241, alla pronuncia ordinatoria del
giudice adito2.
La fattispecie presa in considerazione dal giudicante non sembra presentare, ad un esame
superficiale, profili di particolare complessità: escluso in particolare che l’interesse perseguito con la
domanda di accesso si trovasse a fronteggiare taluna delle esigenze di salvaguardia di valori concorrenti
contemplate dall’art. 24, comma 2, L. n. 241 del 19903, lo stretto collegamento funzionale che la
normativa di settore4 instaura tra la notifica della cartella esattoriale e la valida imposizione del vincolo
del fermo sui beni mobili di pertinenza dei soggetti compulsati per il pagamento è apparso al Tribunale
Il “provvedimento” di fermo amministrativo cui fa riferimento la sentenza è quella particolare misura, avente sostanziale
funzione di “induzione all’adempimento” del debitore, che l’art. 86, comma 1, D.P.R. 29 settembre 1973 n. 602, come
sostituito dall'art. 1 D.lgs. 27 aprile 2001 n. 193, consente al concessionario della riscossione di disporre con riguardo ai beni
mobili del debitore, quando è inutilmente decorso il termine di sessanta giorni dalla notificazione della cartella di pagamento
(termine a sua volta contemplato dall’art. 50, comma 1, D.P.R. citato). Così delineato il contesto normativo entro il quale
opera l’istituto del “fermo amministrativo”, l’interesse alla esibizione della cartella di pagamento – con la prova dell’avventa
notifica - trova agevole riscontro nel ruolo di presupposto che la notifica della cartella, ed il decorso del termine prescritto,
assumono rispetto alla legittima adozione della predetta misura di autotutela. Giova peraltro osservare che l’impiego del
termine “provvedimento”, per designare il fermo in parola, denota una – non si sa quanto meditata, atteso il carattere
marginale del tema nell’economia della decisione – evidente presa di posizione del giudicante in ordine ad una questione
vivamente dibattuta in sede giurisdizionale, quella cioè concernente la valenza – provvedimentale o meno – riconoscibile
all’atto di autotutela di cui si discorre. In proposito, ed a favore della tesi che nega la natura provvedimentale dell’atto di
fermo, si veda T.A.R. Napoli, Sez. I, 16 settembre 2004 n. 12025, in Giustamm.it, rivista telematica di diritto amministrativo,
settembre 2004. Come si vedrà, peraltro, l’inquadramento degli atti della procedura di esecuzione forzata stimolata dal
concessionario della riscossione (tra i quali sembra doversi annoverare lo stesso “fermo amministrativo”) non è privo di
riflessi sulla soluzione da dare ai problemi interpretativi che si esporranno nel prosieguo.
2 Ai sensi della disposizione citata, infatti, il giudice amministrativo, “in caso di totale o parziale accoglimento del ricorso il
giudice amministrativo, sussistendone i presupposti, ordina l’esibizione dei documenti richiesti”.
3 L’istanza di accesso può infatti confliggere con alcuni interessi meritevoli di protezione, di cui la legge offre la seguente
elencazione: “a) la sicurezza, la difesa nazionale e le relazioni internazionali; b) la politica monetaria e valutaria; c) l’ordine
pubblico e la prevenzione e repressione della criminalità; d) la riservatezza di terzi, persone, gruppi ed imprese, garantendo
peraltro agli interessati la visione degli atti relativi ai procedimenti amministrativi, la cui conoscenza sia necessaria per curare
o per difendere i loro interessi giuridici”. Ebbene, in vista di tale esigenza di protezione è consentito introdurre in sede
regolamentare casi di esclusione del diritto di accesso ulteriori rispetto a quelli legislativamente tipizzati (art. 24, comma 1, L.
n. 241/1990).
4 V. nt. 1, che precede.
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sufficiente ad integrare la titolarità, in capo alla ricorrente, dell’”interesse per la tutela di situazioni
giuridicamente rilevanti” che l’art. 22 della legge sul procedimento amministrativo eleva a condizione
soggettiva indispensabile per l’utile esercizio del diritto di accesso.
Come è noto, tuttavia, quando la controversia investe il tema dell’accesso la funzione di
delimitare gli spazi di cognizione del giudice amministrativo, generalmente esercitata dai motivi di
ricorso, non è assolta in termini così stringenti come avviene nell’ambito della giurisdizione di
legittimità5: ebbene, il vaglio “allargato” del giudice adito appare a maggior ragione necessario quando,
come nella vicenda oggetto della pronuncia che si commenta, l’ente destinatario dell’istanza di accesso
abbia mantenuto un atteggiamento silente, essendo in tal caso compito precipuo del giudicante, prima
di assicurare all’interesse conoscitivo la tutela pienamente satisfattiva che discende dall’ordine di “esibire
i documenti richiesti”, di verificare attentamente che ricorrano tutte le condizioni di legge in presenza
delle quali è legittimamente esperibile il diritto di accesso.
In tale quadro, appare di particolare interesse prospettare alcune questioni che il Tribunale non
ha espressamente affrontato, vuoi perché ne ha considerato implicita la soluzione vuoi perché ne ha
postulato l’estraneità ai temi direttamente coinvolti dalla controversia decisa.
2. LA NATURA GIURIDICA DEL CONCESSIONARIO DEL SERVIZIO DI RISCOSSIONE
L’art. 23 L. n. 241 del 1990 prevede che, tra i soggetti tenuti ad assicurare l’esercizio del diritto
di accesso agli atti di cui abbiano la disponibilità, vadano annoverati - oltre alle “pubbliche
amministrazioni”, alle “aziende autonome e speciali” ed agli “enti pubblici” - i “gestori di pubblici
servizi”.
Si pone, a questo punto, la questione concernente l’individuazione della categoria, tra quelle
contemplate dal legislatore, alla quale ascrivere i concessionari della riscossione: la soluzione della quale,
come si vedrà, non è priva di ricadute applicative.
L’appartenenza del concessionario del servizio di riscossione all’ambito dei “gestori di pubblici
servizi” sembra evincersi agevolmente da un indirizzo giurisprudenziale abbastanza consolidato6.
Tuttavia, la natura dei compiti ad esso affidati ed il peculiare ordinamento nel quale si trova
inserito inducono a dubitare di tale inquadramento, ed a preferire la sua classificazione tra i
concessionari di “pubbliche funzioni”.
L’attività del concessionario della riscossione, invero, è scandita da una serie molteplice di atti,
diretti a produrre effetti giuridici nella sfera patrimoniale del soggetto debitore conformemente alla loro
funzione esecutiva: atti che sono assistiti da peculiari prerogative giuridiche, quale in primo luogo
l’attitudine a conseguire il coattivo soddisfacimento della pretesa creditoria senza che la fondatezza di
quest’ultima abbia costituito oggetto di accertamento nella conveniente sede giurisdizionale.
Né varrebbe obiettare che gli atti del concessionario hanno valenza prettamente procedimentale,
essendo estranei alla fase di accertamento dell’an e del quantum del debito oggetto di esecuzione e
consentendo semplicemente il venire in essere dei presupposti di legge per la sua concreta attuazione: di
tal che la capacità di penetrare coattivamente nel patrimonio del debitore costituirebbe un effetto
riflesso della connotazione esecutoria che l’ordinamento attribuisce all’atto emanato dall’ente pubblico
creditore, in funzione di titolo esecutivo, e collocato a monte della procedura di esecuzione.
In tale prospettiva, invero, l’appartenenza dell’attività del concessionario all’ambito del
“pubblico servizio” potrebbe trovare riscontro nella configurazione servente e giuridicamente neutra
In tale ordine di idee si veda T.A.R. Lazio, sez. III, 2 settembre 2003 n. 7206 (in www.giustizia-amministrativa.it): “in tema
di diritto di accesso agli atti della p.a., il giudice amministrativo è chiamato a valutare direttamente se sussistono i
presupposti per l’esibizione degli atti richiesti, prescindendo quindi dalle valutazioni effettuate dall’amministrazione nel
provvedimento di diniego. Il legislatore ha infatti strutturato il giudizio in materia di accesso non come un giudizio
impugnatorio, bensì come un giudizio di accertamento, nel quale il giudice è chiamato a valutare direttamente se sussistono i
presupposti di legge per ordinare l’esibizione degli atti richiesti”.
6 Cfr. T.A.R. Lecce, Sez. II, 17 marzo 2003 n. 779, in Foro amm. T.A.R. 2003, p. 1070; Consiglio di Stato, Sez. V, 1 ottobre
2001 n. 5181, in Comuni d’Italia 2001, p. 1707; Cass. civ., S.S.U.U., 15 maggio 1995 n. 5303, in Ced Cassazione.
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degli atti di riscossione: in una rappresentazione estrema, anzi, essi sarebbero sostanzialmente
equiparabili a quelli, di ordine materiale, tipici dell’attività di erogazione dei pubblici servizi.
E’ pur vero che la predetta impostazione trova conforto nell’indirizzo pretorio a tenore del
quale la contestazione giurisdizionale degli atti di riscossione (si pensi alla cartella di pagamento) è
ammessa esclusivamente per vizi propri degli stessi, non potendo dedursi quelle patologie che
avrebbero dovuto prospettarsi nei confronti dell’atto, emesso dall’ente creditore, contenente l’originario
accertamento del dovuto7: dal che sembrerebbe doversi ricavare una sorta di strutturale dipendenza
giuridica degli atti di riscossione da quelli che ne legittimano l’adozione.
A tali rilievi può tuttavia replicarsi osservando, in primo luogo, che la preclusione frapposta alla
facoltà di contestare un atto consequenziale in relazione ai profili di illegittimità mutuati dall’atto
presupposto, laddove autonomamente impugnabile, costituisce un principio generale valido per tutte le
ipotesi di atti legati da interconnessione procedimentale.
In secondo luogo, va evidenziato che non sono rari i casi in cui il concessionario estende le sue
funzioni all’accertamento inerente allo stesso sussistere del credito dell’ente pubblico ed ai relativi
contorni quantitativi8.
Inoltre, può accadere che l’atto di accertamento del credito, laddove coincidente con la
formazione del ruolo, non venga autonomamente immesso nella sfera di conoscenza del soggetto
debitore: in tale ipotesi, l’atto iniziale della procedura di riscossione, il cui venire ad esistenza compete al
concessionario, diventa l’unico strumento mediante il quale trova esternazione la pretesa creditoria9.
Ebbene, se si considera che, in tali ipotesi, gli atti di accertamento rimasti nella sfera interna
dell’amministrazione non assumono diretto rilievo giuridico (nel senso, quantomeno, che non
determinano la decorrenza del termine per sollevare opposizione nella sede giurisdizionale) se non per il
tramite della formale attività di riscossione avviata dal concessionario, non rimane che concludere nel
senso che nessun preciso e drastico spartiacque può ergersi, quantomeno sul piano della fenomenologia
giuridica, tra gli atti promananti dall’amministrazione creditrice (sicuramente riconducibili all’esercizio di
una pubblica funzione, assolvendo al compito di formare l’atto - il titolo esecutivo – che funge da
cerniera tra la fase di accertamento del credito e quella della sua esecuzione) e quelli provenienti dal
concessionario.
Potrebbe replicarsi, a questo punto, che è la stessa natura pubblicistica degli atti con i quali
l’amministrazione afferma la sua pretesa creditoria a dover essere messa in discussione: ciò in quanto
l’unico effetto ad essi riconducibile consisterebbe nella incontestabilità del debito una volta decorso il
termine di legge per sollecitare il sindacato giurisdizionale sulla sua sussistenza, effetto il cui
meccanismo produttivo non sarebbe diverso da quello tipicamente decadenziale non estraneo alla
disciplina dei rapporti strettamente privatistici.
Basti però osservare che, pur così impostati i termini della questione, permane la specificità
pubblicistica degli atti in esame (e, di riflesso, di quelli promananti dal concessionario della riscossione):
specificità che trova il suo momento di massima espressione nella assenza di profili consensuali a
fondamento, prima, dell’onere dell’escusso di reagire tempestivamente (ed in sede giurisdizionale) alla
pretesa creditoria, quindi nella sua definitiva soggezione all’obbligo di pagamento nell’ipotesi di
mancato assolvimento del predetto onere (o di inutile esperimento dei mezzi di ricorso).
Ma la stessa considerazione funzionale delle attività poste in essere dal concessionario della
riscossione appare decisiva per metterne in risalto la qualificazione pubblicistica.
Cfr. Cass. civ., Sez. Trib., 22 luglio 2003 n. 11354, in Giust. civ. Mass. 2003, f. 7-8.
Cfr. Cass. civ., Sez. Trib., 5 agosto 2004 n. 15079 (in Ced Cassazione): “In tema di tassa per l'occupazione di spazi ed aree
pubbliche (Tosap), qualora il Comune, in applicazione dell’art. 52 D.lgs. 15 novembre 1993 n. 507 - nonché del successivo
art. 52 D.lgs. 15 dicembre 1997 n. 446, che regola la potestà regolamentare generale delle province e dei comuni in materia
di entrate, anche tributarie - affidi (ritenendo ciò “più conveniente sotto il profilo economico o funzionale”) il servizio di
accertamento e riscossione della tassa, mediante apposita convenzione, ai soggetti terzi indicati nelle norme suddette, il
potere di accertamento del tributo spetta al soggetto concessionario e non al Comune”.
9 “Quando, come nella liquidazione in base alla dichiarazione ex art. 36 bis del D.P.R. 29 settembre 1973 n. 600, l’atto
impositivo è costituito dal ruolo, solo la tempestiva impugnazione della cartella consente al contribuente di rimettere in
discussione la debenza del tributo” (Cass. civ., Sez. Trib., 4 maggio 2004 n. 8456, in Ced Cassazione).
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In tale ottica, deve porsi l’accento sulla rilevanza che il puntuale e regolare svolgimento del
procedimento di riscossione riveste ai fini dell’efficiente espletamento delle funzioni attribuite agli enti
pubblici titolari dei crediti condotti ad esecuzione: rilevanza che chiama altresì in causa valori di taglio
eminentemente costituzionale, in ragione delle esigenze di parità di trattamento che si impongono nel
meccanismo impositivo (le quali sarebbe frustrate per effetto di eventuali distorsioni della fase
esecutiva) e delle finalità di eguaglianza sostanziale che le pubbliche risorse, rinnovate grazie alla
riscossione delle entrate pubbliche, sono destinate a realizzare.
Del resto, e come si è accennato all’inizio, a supporto della qualificazione pubblicistica degli atti
posti in essere dal concessionario concorrono alcuni dati di derivazione normativa.
Milita in tale direzione, in primo luogo, l’art. 2, comma 1, D.lgs. 13 aprile 1999 n. 112 (Riordino
del servizio nazionale della riscossione, in attuazione della delega prevista dalla L. 28 settembre 1998 n.
337): la disposizione, infatti, qualifica espressamente i concessionari del “servizio nazionale della
riscossione”, inquadrati in un ruolo articolato in ambiti territoriali, quali “concessionari di pubbliche
funzioni”.
Né fa difetto un intenso legame organizzativo con l’apparato statale, segno evidente della
rilevanza pubblicistica delle funzioni esercitate dal concessionario: spetta infatti al Ministero delle
finanze di esercitare “la vigilanza sui concessionari della riscossione al fine di assicurare la regolarità, la
tempestività, l’efficienza e l’efficacia del servizio della riscossione” (art. 5, comma D.lgs. cit.)10.
A tanto deve aggiungersi che la nozione di “pubblico servizio” è andata progressivamente
precisandosi, in sede interpretativa, fino ad approdare alla definizione che lo identifica in quella attività,
“resa da un soggetto pubblico (o privato che al primo, in forza di diversi meccanismi giuridici, si
sostituisca) ed implicante una prestazione alla generalità degli utenti”11.
Ebbene, appare evidente la discrasia rilevabile tra tale concezione del pubblico servizio ed i
compiti propri del concessionario della riscossione: tali compiti infatti, pur comportando un contatto,
giuridicamente qualificato, con la generalità dei contribuenti non si traducono in prestazioni di cui i
destinatari siano beneficiari, essendo la loro posizione di soggezione piuttosto che di pretesa a fronte
degli atti di riscossione posti in essere nei loro confronti12.
3. LA QUALIFICAZIONE DEL CONCESSIONARIO DELLA
DELL’APPLICAZIONE DELLE NORME IN TEMA DI DIRITTO DI
RISCOSSIONE AI FINI
ACCESSO AI DOCUMENTI
AMMINISTRATIVI
E’ apparsa plausibile, a conclusione delle osservazioni svolte fino a questo punto, l’ipotesi che i
concessionari della riscossione siano affidatari di “pubbliche funzioni” piuttosto che di un “pubblico
servizio”: tale inquadramento, come vedremo subito, non è privo di riflessi sulle modalità di
In termini analoghi, l’art. 53 D.lgs. 15 dicembre 1997 n. 446 a sua volta prescrive che “presso il Ministero delle finanze è
istituito l’albo dei soggetti privati abilitati ad effettuare attività di liquidazione e di accertamento dei tributi e quelle di
riscossione dei tributi e di altre entrate delle province e dei comuni” (l’albo è stato di fatto istituito con D.M. 11 settembre
2000 n. 289): i soggetti ivi iscritti sono sottoposti alla vigilanza di una apposita commissione (art. 53, comma 2, del D.lgs. n.
446 del 1997), cui compete l’adozione dei provvedimenti in ordine alla gestione dell’albo (esame delle domande di iscrizione,
revisione periodica, cancellazione e sospensione dall’albo, revoca e decadenza della gestione).
11 Così da ultimo, al fine di determinare i confini applicativi dell’art. 33 D.lgs. 31 marzo 1998 n. 80, Cass. civ., S.S.U.U., 19
aprile 2004 n. 7461, sulla scia peraltro di Cass. civ., S.S.U.U., 30 marzo 2000 n. 71, entrambe in Ced Cassazione.
12 In un tentativo di dilatare i margini definitori della nozione di “pubblico servizio”, al fine di farvi rientrare le funzioni del
concessionario della riscossione, potrebbe sottolinearsi che la sua presenza nel meccanismo di esazione si riflette
vantaggiosamente nei confronti dei soggetti debitori, rendendo più agevole e spedito (grazie alla sua articolazione territoriale
ed alla sua snellezza operativa) l’adempimento degli obblighi di pagamento: non sembra tuttavia che tale lettura dei compiti
del concessionario della riscossione cambi la sostanza delle cose, ove si consideri che il vantaggio ricevuto dalla collettività
degli utenti grazie all’erogazione del “pubblico servizio” rigorosamente inteso deve possedere una particolare connotazione
qualitativa, socialmente rilevante e di matrice costituzionale (come già affermava Cons. Stato, Sez. VI, 14 luglio 1982 n. 361
(in Foro it. 1982, III, p. 464) a proposito della diffusione di trasmissioni radiofoniche e televisive su scala nazionale, definita
come “servizio pubblico” essenziale ed a carattere di preminente interesse generale in quanto “volta ad ampliare la
partecipazione dei cittadini e concorrere allo sviluppo sociale e culturale del Paese in conformità ai principi sanciti dalla
Costituzione”).
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applicazione ai predetti soggetti della disciplina dettata a presidio del diritto di accesso ai documenti
amministrativi.
Non affronteremo, per ora, il tema della specifica qualificazione delle funzioni assolte dal
concessionario della riscossione, nel quadro della loro acclarata connotazione pubblicistica: tema cui si
associa strettamente l’interrogativo relativo alla loro assimilabilità tout court a quelle, di matrice
propriamente amministrativa, tipicamente assolte dalle pubbliche amministrazioni.
Un primo dato, di ordine negativo, può tuttavia considerarsi acquisito: la difficoltà di
inquadramento del concessionario della riscossione, ai fini della disciplina del diritto di accesso, nella
categoria normativa dei “gestori di pubblici servizi”.
Volendo adesso tentare un avvicinamento della figura in questione alle altre configurate dal
legislatore, non sembra azzardato proporre la sua equiparazione al novero degli “enti pubblici” di cui
all’art. 23 L. n. 241 del 1990: l’affermazione, tuttavia, merita alcune precisazioni.
In primo luogo, la qualificazione in discorso appare preferibile, soprattutto perché meno
impegnativa sul piano ricostruttivo, a quella che si proponesse di ascrivere il concessionario alla
categoria, sicuramente caratterizzata dalla maggiore nettezza dei tratti definitori, delle “pubbliche
amministrazioni”13.
In secondo luogo, l’inquadramento suggerito va accolto in una prospettiva puramente analogica
e limitatamente all’ambito applicativo della disciplina sull’accesso: in tale ottica, che rifugge da rigidi
schematismi classificatori, la fattispecie soggettiva degli “enti pubblici” si presenta, proprio per la sua
connotazione residuale e l’ampiezza dello spettro applicativo, particolarmente adatta a giustificare un
procedimento interpretativo fondato su valutazioni di “similitudine” piuttosto che di precisa identità.
Infine, non sembra che all’alternativa “enti pubblici” – “pubbliche amministrazioni” si
accompagnino decisive differenze in punto di applicazione della disciplina sull’accesso: almeno, non
così evidenti come quelle suscettibili di derivare, come si dirà subito, dall’eventuale (e respinto)
inquadramento tipologico del concessionario della riscossione come “gestore di pubblico servizio”.
Procedendo oltre nell’analisi, giova segnalare che l’estensione della normativa sull’accesso ai
soggetti formalmente privatistici, pur deputati allo svolgimento di attività rilevanti per il perseguimento
del pubblico interesse, è stata temperata sulla scorta di varie considerazioni.
Premesso che il problema si è posto con prevalente riguardo ai gestori di pubblici servizi, la
struttura formalmente privatistica degli enti in questione, da un lato, e la natura eminentemente
contrattuale delle relazioni instaurate con la collettività degli utenti, dall’altro lato, hanno fatto sì che le
istanze di accesso venissero ritenute ammissibili nella misura in cui l’affermazione del principio di
trasparenza apparisse funzionale a garantire che la gestione del pubblico servizio – ed il perseguimento
del pubblico interesse che vi si associa – avvenisse nel rispetto dei valori di imparzialità e buon
andamento che costituiscono i canoni intrinseci di qualunque attività funzionalmente (e
sostanzialmente) pubblicistica14.
L’esigenza di valutare il nesso di collegamento tra l’attività cui ineriscono i documenti oggetto
della domanda di accesso e gli aspetti organizzativi/gestionali del servizio pubblico, pur prospettata nel
vigore della precedente formulazione dell’art. 23 L. n. 241 del 1990 – incentrata sul riferimento, quali
destinatari delle norme sull’accesso, ai “concessionari di pubblici servizi”15 - è stata mantenuta ferma
dalla giurisprudenza pur in costanza delle modificazioni apportate alla norma dal legislatore16.
Se infatti si assume come pacifico postulato che le “pubbliche amministrazioni” sono soggetti preposti istituzionalmente
all’esercizio di funzioni amministrative (pur potendo cumulare funzioni di diversa natura, come quella normativa), si vedrà in
seguito, allorché si porterà ad ulteriore sviluppo l’analisi delle funzioni svolte dal concessionario della riscossione, che la
classificazione di quest’ultimo come “ente pubblico” risulta la sola coerente con le conclusioni cui si approderà in quella
sede.
14 Si veda, per una puntuale analisi dei presupposti sulla scorta dei quali la giurisprudenza riconosce l’accesso agli atti
detenuti da soggetti privati, S. Del Gatto, Il diritto di accesso nella giurisprudenza: oggetto e limiti, in Foro amm. TAR 2002, 4, p.
1470. In senso critico, invece, circa la soluzione escogitata da Cons. Stato 22 aprile 1999 n. 4(in www.giustiziaamministrativa.it) nel delimitare l’accesso agli atti in parola, F. Compierchio, Accesso ai documenti amministrativi dei concessionari di
pubblici servizi: una decisione non convincente, in Giust. civ. 2000, 2, p. 591.
15 Si veda, in proposito, l’innovativo orientamento espresso da Cons. Stato, ap., 22 aprile 1999 nn. 4 e 5 (in www.giustiziaamministrativa.it). La modifica indicata nel testo è quella apportata con l’art. 4 della L. 3 agosto 1999 n. 265, e concretizzatasi
nella sostituzione, alla originaria locuzione “concessionari di pubblici servizi”, di quella “gestori di pubblici servizi”. Sulla
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Ebbene, proprio la peculiarità delle funzioni espletate dal concessionario della riscossione, non
risolvibili nella gestione di un pubblico servizio, nonché i nessi organizzativi che la normativa analizzata
instaura con l’apparato stricto sensu pubblicistico, inducono ad ipotizzare la sua sottoposizione alla
disciplina dell’accesso anche al di là dei confini entro i quali la giurisprudenza ne ammette l’applicazione
allorché venga in discussione una figura soggettiva di matrice privatistica17.
Del resto, che la specificità soggettiva e funzionale della persona giuridica organizzata in forma
privatistica possa influire sui margini applicativi del diritto di accesso – eventualmente dilatandoli
rispetto a quelli fissati per l’ipotesi che venga in rilievo una società preposta alla gestione di pubblici
servizi - rappresenta una incontestabile acquisizione giurisprudenziale, testimoniata da tutte le decisioni
che hanno affrontato il tema dell’accessibilità degli atti nella disponibilità delle società per azioni
derivanti dalla trasformazione di enti pubblici economici18.
Ebbene, proprio la minuziosa disciplina applicabile ai concessionari del servizio di riscossione,
volta a regolarne – anche mediante la previsione di meccanismi di vigilanza esterna – i profili
organizzativi in vista dell’espletamento delle funzioni attribuite attento alla delicata rilevanza degli
interessi in gioco, denota l’esigenza della loro incondizionata attrazione nel raggio operativo del
principio di trasparenza, che fa da sfondo alla previsione legislativa del diritto di accesso: attrazione che
prescinde quindi dalla puntuale verifica, da condurre caso per caso, concernente la correlazione
dell’accesso alla gestione dei compiti pubblicistici affidati al concessionario.
Da tale interpretazione non possono non scaturire obblighi ostensivi atti ad integrare la
disciplina codicistica cui i soggetti concessionari, in virtù del loro statuto societario, sono sottoposti,
assurgendo a fonte di poteri di controllo ulteriori (e diversi, quanto soprattutto alla legittimazione ad
esperirli, radicabile anche in capo ad extranei alla compagine societaria) rispetto a quelli derivanti dalla
intrinseca natura civilistica di molti dei documenti dei quali hanno la disponibilità19.
Giova solo osservare che siffatta proposta interpretativa trova legittimazione in special modo
nei casi in cui, a radicare gli obblighi di trasparenza in capo al concessionario, siano disposizioni di legge
sintomatiche del particolare interesse che l’ordinamento ripone nel funzionamento delle attività
portata dell’innovazione legislativa si veda in particolare M. Balestrieri, La nuova formulazione dell’art. 23 della L. n. 241 del 1990.
La posizione del legislatore sull’accessibilità degli atti di diritto privato dell’amministrazione, in Giust. civ. 2000, 6, p. 307.
16 Per Cons. Stato, Sez. VI, 28 novembre 2003 n. 7798 (in Foro amm. CdS 2003, p. 3419), ad esempio, “le procedure di
selezione del personale, da assumere al fine dell’erogazione dell’utilità alla collettività in cui si sostanzia la gestione del
servizio pubblico, devono essere sottoposte all’esercizio del diritto di accesso siccome potenzialmente incidenti sulla qualità
del servizio stesso. Si tratta, invero, di procedure tese a garantire che i soggetti privati, i quali gestiscono un servizio
pubblico, scelgano le persone più idonee, e, quindi, pur sempre di attività funzionalmente collegata all’organizzazione del
servizio; organizzazione che non ha solo riflessi interni, essendo strumentale alla gestione ed all’erogazione del servizio, ossia
al soddisfacimento di interessi collettivi cui deve tendere il servizio”.
17 Confini individuati, secondo la nota schematizzazione delineata dall’Adunanza plenaria con le citate decisioni n. 4 e n. 5
del 1999 (cit. a nt. 15, che precede), nella finalità di organizzazione del pubblico servizio che deve connotare l’attività
investita dall’istanza di accesso e nella procedimentalizzazione della stessa, alla stregua della disciplina legislativa o sulla base
di una autonoma decisione dell’ente societario.
18 Così Cons. Stato, Sez. VI, 24 maggio 2002 n. 2855 (in Foro amm. CdS 2002, 1325): “la particolare conformazione
pubblicistica di taluni gestori (nella specie si trattava di Poste Italiane s.p.a.) unitamente a talune anomalie di struttura e di
funzionamento sintomatiche del persistente e stretto legame tra gli stessi e la mano pubblica, oltre che della reale capacità di
quest’ultima di incidere dall’esterno sull’attività del gestore, non possono non condizionare l’individuazione delle operazioni
che, pur non riguardanti la gestione in senso stretto, sono da considerare unite alla stessa da un nesso di strumentalità; in
altri termini, la strumentalità delle residuali attività rispetto all’efficace gestione va intesa in senso più elastico allorché
l’organismo societario deputato all’espletamento del servizio sia sottoposto - in forza dello statuto giuridico che disciplina i
profili soggettivi dell’ente, prima ancora che quelli oggettivi concernenti l’attività - ad un vincolo di scopo, attestante la sua
necessaria funzionalizzazione ad un interesse, di tipo spiccatamente pubblico, definito sulla scorta di determinazioni proprie
di soggetti estranei alla compagine societaria”. Va sottolineato che oggetto della controversia era la questione, risolta in senso
affermativo dal Consiglio di Stato, concernente l’esperibilità del diritto di accesso con riguardo ad una istanza con la quale
un dipendente aveva chiesto il trasferimento ad altro ufficio nella cui pianta organica sarebbe esistito un posto vacante, con
cambio di qualifica ai sensi dell’art. 11 L. n. 101 del 3 aprile 1979.
19 Basti pensare a tutta l’attività di organizzazione interna del soggetto societario, esplicantesi nell’adozione di atti
(deliberazioni assembleari, atti degli amministratori, verbali dei collegi sindacali) collocati a monte di quelli che direttamente
concretano l’esercizio delle funzioni pubbliche attribuite al concessionario. Si veda invece, quanto ai poteri di controllo
interni all’organismo societario, U. Belviso, L'informazione dei soci nelle società con azioni quotate (art. 130 D.lgs. 24 febbraio 1998, n.
58), in Riv. soc. 2000, 5, p. 828.
6
conferite in concessione secondo canoni di regolarità ed efficienza: basti pensare, a mo’ di esempio,
all’art. 8, comma 2, D.lgs. n. 112 del 1999, a tenore del quale “i verbali delle riunioni e degli
accertamenti del collegio sindacale del concessionario concernenti irregolarità nella gestione delle
società concessionarie, ovvero violazione delle norme che ne disciplinano l'attività, sono trasmesse in
copia al Ministero delle finanze entro dieci giorni dalla data dell’atto a cura del presidente del collegio
sindacale stesso”.
I documenti in questione, invero, potranno essere acquisiti dai terzi interessati (purché
qualificati ai sensi dell’art. 22, comma 1, L. n. 241 del 1990) anche prima che, con la loro trasmissione al
Ministero competente, siano entrati a far parte della documentazione amministrativa utile allo
svolgimento, da parte dell’autorità di vigilanza, dei controlli previsti dalla legge.
Come accennato, nel tratteggiato quadro interpretativo la soggezione dei concessionari della
riscossione alla normativa sull’accesso non trova la sua giustificazione nella strumentalità – da verificare
in occasione di ogni singola controversia instaurata per conseguire l’accesso denegato - dell’attività
oggetto di ostensione rispetto alle esigenze gestionali del servizio20, ma nel rapporto di affinità che lega i
soggetti suindicati – dal punto di vista organizzativo, funzionale, operativo - alle entità pubbliche
tradizionalmente intese: una affinità di grado senz’altro superiore a quella che la giurisprudenza ha
ravvisato quando ha esaminato la questione della applicabilità del diritto di accesso alle società rivenienti
dal processo di privatizzazione degli enti pubblici economici, perché fondata – oltre che sui nessi
organizzativi con l’apparato ministeriale e su profili di ordine teleologico, collegati al perseguimento di
un interesse pubblico – sulla connotazione propriamente pubblicistica, perché costituente esplicazione
di una pubblica funzione, dell’attività svolta dai concessionari della riscossione.
Così ragionando, del resto, si supera anche uno dei profili di incongruenza che connotano la
consolidata qualificazione della pretesa all’accesso come diritto soggettivo21.
Invero, la costruzione che fonda l’esplicazione dell’accesso agli atti detenuti dai gestori di
pubblici servizi sulla sua strumentalità al perseguimento dei valori di trasparenza ed imparzialità che
devono compenetrarne l’attività presta il fianco all’obiezione per la quale, concepito l’accesso come
oggetto di un diritto soggettivo, l’interesse puramente individuale che ne impronta la struttura manifesta
tutta la sua eterogeneità rispetto alle predette finalità.
In altre parole, se la fisionomia tipica dell’interesse legittimo consente che ad un interesse di
carattere generale se ne affianchi uno di ordine personale, la figura del diritto soggettivo si rivela invece,
da questo punto di vista, meno elastica: esigendo essa l’assoluta coincidenza tra la finalità ultima,
tipicamente individuale, che ne fonda l’astratto riconoscimento da parte dell’ordinamento e l’interesse
sostanziale imputabile a chi ne sia concretamente titolare.
E’ pur vero che il rapporto di strumentalità richiesto dalla giurisprudenza serve essenzialmente a
delimitare l’ambito dei documenti accessibili, senza incidere sulla configurazione della situazione di chi
esperisce l’accesso: tuttavia, l’esigenza di condurre in sede giurisdizionale un rigoroso accertamento
della esistenza di quel rapporto rende difficile configurarlo come completamente estraneo alla struttura
della posizione soggettiva dell’accedente, con i conseguenti problemi ricostruttivi cui si è appena fatto
cenno.
A diverse conclusioni deve pervenirsi qualora si fondi l’applicazione della disciplina in tema di
accesso sulla soggezione ad essa – per diretta volontà normativa, e non sulla base di incerte ed
estemporanee ricostruzioni funzionali – dei concessionari della riscossione: ciò sulla base della
riconducibilità (analogica) degli stessi al novero soggettivo degli “enti pubblici” e della qualificazione
pubblicistica (e non strutturalmente privatistica) dell’attività svolta.
Invero, alla pervasività dell’interesse pubblico nell’organizzazione dei soggetti in discorso,
discendente dai compiti (strutturalmente e funzionalmente) pubblicistici da essi esercitati, non può non
corrispondere una altrettanto ampia dilatazione del raggio operativo dell’accesso.
Peraltro, le incertezze interpretative connesse al concetto di “strumentalità” sono ben rappresentate da Cons. Stato, Sez.
VI, 5 marzo 2002 n. 1303, in Foro amm. CdS 2002, p. 397.
21 Cfr., sulla vexata quaestio relativa alla natura della situazione giuridica dell’accedente, C. Cacciavillani, Il diritto di accesso è
interesse legittimo, in Dir. proc. amm. 2000, 1, p. 154. In giurisprudenza si veda invece, nel senso della qualificazione dell’accesso
come oggetto di un diritto soggettivo, Cons. Stato, Sez. VI, 27 maggio 2003 n. 2938, in Dir. e Giust. 2003, f. 25, p. 66.
20
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Quanto poi ai concreti confini operativi della disciplina sull’accesso, ai fini della sussumibilità
dell’atto oggetto di accesso nella nozione di “documento amministrativo”, essi, attesa la generale – ed
operante in via di principio - soggezione alle regole di trasparenza degli atti del concessionario della
riscossione, derivante dalla sua specificità organizzativa e funzionale, sarebbero essenzialmente definiti
“in negativo”: nel senso di escludere dall’accesso i documenti rispetto ai quali emergerebbe indiscussa
ed assoluta la causa privatistica (si pensi alla delibera assembleare avente ad oggetto un aumento di
capitale).
Una lettura, quella proposta, che trova per di più nella legge sul procedimento un rilevante
addentellato di ordine terminologico, correlato all’impiego dell’espressione “documento
amministrativo” – senza ulteriori qualificazioni legate alla natura pubblica o privata dell’amministrazione
cui inerisce - ed alla necessità di interpretarlo in maniera evolutiva: con la conseguenza che non
potrebbe escludersi l’assoggettamento all’accesso, ad esempio, della delibera adottata da un
amministratore della società ed inerente all’organizzazione dell’attività di riscossione.
Al giudice amministrativo poi, adito ai sensi dell’art. 25, comma 5, L. n. 241 del 1990, non
rimane che accertare la titolarità, da parte del richiedente l’accesso nei confronti di un concessionario
della riscossione, della situazione legittimante di cui all’art. 22, comma 1, L. n. 241 del 1990, senza
ulteriori verifiche concernenti la strumentalità degli atti interessati dall’accesso rispetto al servizio
espletato: con il significativo beneficio di restituire coerenza e linearità alla prospettazione della
situazione dell’accedente come diritto soggettivo.
4. L’ACCESSO ALLA CARTELLA ESATTORIALE
Con la sentenza che si commenta, il Tribunale fonda il diritto di accesso della ricorrente, nei
riguardi della cartella esattoriale di cui ella si afferma destinataria e della relazione di avvenuta notifica,
sul richiamo sia della disposizione generale in tema di accesso ai documenti amministrativi (art. 22 e seg,
L. n. 241 del 1990) sia della previsione normativa specificamente dedicata alla cartella di pagamento (art.
26, comma 4, D.P.R. 29 settembre 1973 n. 602).
I giudici hanno evidentemente ritenuto che le due disposizioni concorressero nell’offrire
protezione all’interesse conoscitivo fatto valere: non traspare tuttavia, dal percorso argomentativo
rispecchiato nella motivazione della sentenza, se ciascuna delle citate previsioni normative sia stata
ritenuta sufficiente a sancire la meritevolezza della pretesa ostensiva esercitata dalla ricorrente.
Si impone quindi l’esigenza di verificare quale rapporto sia instaurabile tra esse, ed in particolare
di stabilire se siano destinate - sul piano interpretativo - a sovrapporsi, ad intersecarsi o invece ad
operare in termini di reciproca autonomia ed indipendenza nella disciplina dei rapporti giuridici.
La risposta al quesito richiede alcune preliminari considerazioni con riguardo alla natura del
diritto di accesso e dell’interesse che vi è sotteso.
Il diritto di accesso, come configurato dalla legge sul procedimento amministrativo, costituisce
invero espressione della particolare conformazione giuridica che l’esigenza conoscitiva, sottesa in via
generale a qualunque tipo di attività socio-economica, assume quando ricorrono alcune ben definite
condizioni: la natura pubblicistica (accertabile secondo canoni interpretativi variamente formulabili) del
soggetto depositario delle informazioni da acquisire e la consacrazione di queste ultime in appositi
supporti riconducibili, nella loro varietà materiale, alla categoria dei “documenti amministrativi”.
La fisionomia che l’interesse alla conoscenza assume quando si veste dei panni del diritto di
accesso, tuttavia, non esaurisce le forme di tutela del valore giuridico della trasparenza.
Infatti, l’importanza della disponibilità delle conoscenze ai fini di una efficiente ed ordinata
dinamica delle relazioni socio-giuridiche, si è andata progressivamente affermando nella sfera
dell’ordinamento, traducendosi nella predisposizione di strumenti atti a favorire l’efficiente circolazione
delle informazioni e la loro uniformazione a canoni di correttezza e completezza22.
Basti menzionare, in via puramente esemplificativa, il principio di chiarezza che deve ispirare la redazione del bilancio
delle società commerciali (art. 2423 c.c.), i principi di trasparenza che devono ispirare l’esercizio delle funzioni di vigilanza
della Banca d’Italia e della CONSOB (art. 5 D.lgs. 24 febbraio 1998 n. 58), il diritto dei consumatori “ad una adeguata
informazione e ad una corretta pubblicità” oltre che “alla correttezza, trasparenza ed equità nei rapporti contrattuali
22
8
Ebbene, proprio la consapevolezza della sostanziale unità del bene giuridico protetto impone di
non disperdere gli elementi di differenziazione delle molteplici figure giuridiche nelle quali il valore della
trasparenza trova realizzazione: ciò allo scopo di non sacrificare la volontà normativa, di cui quegli
elementi rappresentano sintomo evidente, di adattare la tutela del bene predetto alla diversità dei
rapporti nei quali venga in rilievo.
In tale ottica, non sembra corretto ravvisare una deminutio di tutela allorquando, pur essendo
coinvolto un soggetto pubblico (comunque inteso), la realizzazione delle istanze conoscitive venga
rinvenuta al di fuori del contesto normativo delineato dalla L. n. 241 del 1990.
In particolare, proprio la presenza di specifiche previsioni volte a riconoscere il valore della
trasparenza, ulteriori rispetto a quella rinvenibile nell’art. 22 ss L. n. 241 del 1990, denota l’intento
dell’ordinamento di arricchire, rendendo disponibile un grimaldello atto a scardinare le barriere alzate da
una parte contro le ambizioni conoscitive della controparte, lo strumentario di cui i soggetti del
rapporto dispongono per far valere i propri interessi.
Le osservazioni svolte meritano a questo punto di essere calate nella realtà delle disposizioni che
vengono in rilievo ai fini della presente analisi.
In particolare, quattro sono i punti di interesse nell’ottica dei quali condurre l’indagine
successiva: l’ambito normativo nel quale le disposizioni in parola si trovano inserite, la definizione dei
presupposti soggettivi legittimanti – nei rispettivi contesti - la richiesta di ostensione, la qualificazione
della posizione dell’accedente e le modalità di esercizio della pretesa ostensiva.
Quanto al primo profilo, la previsione dell’obbligo del concessionario di esibire “la matrice o la
copia della cartella con la relazione dell’avvenuta notificazione o l’avviso del ricevimento”, contenuta
nell’art. 26, comma 4, D.P.R. n. 602 del 1973, si inserisce in un rapporto giuridico ben delineato nei suoi
riferimenti soggettivi ed oggettivi, fondato sull’avvio del procedimento di riscossione nei confronti del
soggetto debitore ad iniziativa del concessionario deputato alla esazione delle entrate di pertinenza di
enti pubblici.
La richiesta di ostensione, in tale quadro, germina da una relazione giuridica in atto, punteggiata
di situazioni giuridiche facenti capo ad entrambe le parti e dagli atti che ne accompagnano lo
svolgimento: lo stesso riferimento normativo alla copia della cartella non è isolato, ma si associa a
quello concernente la prova dell’avvenuta ricezione nella sfera di conoscenza del destinatario (“la
relazione dell’avvenuta notificazione o l’avviso di ricevimento”), a dimostrazione ulteriore dell’attualità
operativa del meccanismo di riscossione e della immediatezza delle esigenze di tutela che vi si associano.
A diverse conclusioni deve pervenirsi allorché si sposti il fuoco dell’attenzione sulla previsione
di cui all’art. 22 L. n. 241 del 1990: l’esercitabilità del diritto di accesso, secondo le coordinate tracciate
dalla legge, al di fuori di ogni necessario conflitto di interessi (potenziale o attuale) tra l’amministrazione
custode dei documenti ed il promotore della istanza di accesso pone bene in evidenza l’autonomia
giuridica dell’interesse conoscitivo, che non si innerva su nessun altro rapporto pendente tra i soggetti
coinvolti23.
concernenti beni e servizi”, presidiato da appositi strumenti di tutela collettiva (art. 5 L. 30 luglio 1998 n. 281), l’obbligo del
professionista di redigere le clausole inserite nei contratti con i consumatori “in modo chiaro e comprensibile” (art. 1469
quater c.c.), gli obblighi di informazione imputati all’operatore commerciale nell’ipotesi di contratti stipulati fuori dei locali
commerciali (art. 5 D.lgs. 15 gennaio 1992 n. 50). Si veda in particolare, sul rilievo della trasparenza nei rapporti in cui sia
coinvolta la figura del “consumatore”, A.M. Azzaro, Tutela del “consumatore” e regolazione del mercato, in Giust. civ. 2003, 6, p.
237, nonché G. Benedetti, Tutela del consumatore e autonomia contrattuale, in Riv. trim. dir. proc. civ. 1998, 1, p. 17.
23 Del resto, pur nell’ambito della dinamica dei rapporti amministrativi, quando il legislatore ha inteso collegare il diritto di
accesso ad altra relazione giuridica in corso tra l’amministrazione ed il privato lo ha fatto mediante una espressa ed
autonoma previsione della predetta situazione giuridica (cfr. art. 10, lett. a, L. n. 241 del 1990, in tema di diritto di accesso
agli atti del procedimento da parte dei soggetti che hanno titolo ad intervenirvi). L’autonomia del diritto di accesso rispetto a
qualunque altra dinamica relazionale tra l’amministrazione ed il richiedente l’accesso è ben scolpita dalla unanime
giurisprudenza: “la posizione che legittima l’accesso non deve possedere tutti i requisiti che legittimerebbero al ricorso
avverso l’atto lesivo della posizione soggettiva vantata, ma è sufficiente che l’istante sia titolare di una posizione
giuridicamente rilevante e che il suo interesse si fondi su tale posizione. Con l’introduzione dell’azione a tutela dell’accesso ,
infatti il legislatore ha inteso assicurare all'amministrato la trasparenza della p.a., indipendentemente dalla lesione, in
concreto, di una determinata posizione di diritto o di interesse legittimo; l’interesse alla conoscenza dei documenti
9
I rilievi svolti introducono il secondo aspetto dell’analisi che si va svolgendo: quello inerente il
titolo atto a legittimare la proposizione dell’istanza di accesso.
La norma contenuta nel D.P.R. n. 602 del 1973 definisce in termini netti la veste giuridica che
deve assumere il richiedente l’accesso: deve trattarsi cioè del “contribuente”.
Nessun’altra valutazione si rende necessaria al fine di verificare la soddisfacibilità dell’interesse
conoscitivo: in particolare, la nettezza con la quale la norma ritaglia la situazione del soggetto legittimato
induce a ritenere assorbita, quindi esorbitante ai fini dell’applicazione giurisdizionale della disposizione,
ogni indagine concernente l’interesse concreto che l’accesso mira a realizzare24.
Di diverso tenore l’art. 22, comma 1, L. n. 241 del 1990: esso infatti, nel precisare i requisiti
soggettivi che devono qualificare la posizione dell’accedente, demanda all’interprete l’individuazione
delle situazioni atte a supportare l’istanza conoscitiva.
Esula dalle circoscritte finalità del presente commento la ricostruzione dei criteri che la
giurisprudenza amministrativa ha delineato per concretizzare la nozione di “situazione giuridicamente
rilevante”: tuttavia, la rilevata differenza induce ad impostare in termini differenziati la stessa questione
concernente la qualificazione giuridica della posizione di chi avanzi la domanda di accesso.
Non vi è dubbio, infatti, che l’aver risolto in via normativa il problema concernente la
legittimazione all’esercizio dell’accesso (come accade con riferimento all’art. 26, comma 4, D.P.R. n. 602
del 1973) implica, in sede applicativa, il compimento di una operazione meramente ricognitiva: fondata
cioè sulla verifica circa il ricorrere dei presupposti rigidamente prefigurati a livello regolamentare.
Ebbene, la qualificazione dell’interesse ostensivo, direttamente operata dalla norma suindicata,
costituisce la base per ricondurlo alla categoria dei diritti soggettivi: né rileva che la fonte da cui si
origina la predetta qualificazione abbia rango secondario, essendo indubbio che anche la volontà
dell’amministrazione, tanto più se espressa in chiave normativa, sia idonea a fondare la titolarità di diritti
soggettivi.
Diverso il meccanismo che contraddistingue l’accertamento concernente la legittimazione
all’esercizio del diritto di accesso secondo i lineamenti ad esso assegnati dalla legge sul procedimento
amministrativo.
In tale quadro, infatti, secondo schemi tipici delle vicende in cui la qualificazione dell’interesse
scaturisce dall’incontro tra potere pubblico e istanze private, la misura della tutela riconoscibile alla
pretesa conoscitiva va desunta dal grado di vicinanza del suo promotore rispetto alla vicenda
amministrativa cui ineriscono i documenti richiesti: quanto più concreto ed immediato si presenta il
legame tra l’una e l’altro, tanto maggiormente percepibile si fa la meritevolezza dell’istanza di accesso25.
amministrativi viene elevato a bene della vita autonomo, meritevole di tutela separatamente dalle posizioni sulle quali abbia
poi ad incidere l’attività amministrativa, eventualmente in modo lesivo” (Cons. Stato, Sez. VI, 9 gennaio 2004 n. 14).
24 Né sarebbe corretto osservare che in tal modo, laddove la questione si ponesse in ambito processuale, verrebbe derogata
la norma di cui all’art. 100 c.p.c., secondo cui “per proporre una domanda o per contraddire alla stessa è necessario avervi
interesse”, dal momento che l’interesse atto a legittimare l’istanza di accesso, ed idoneo ad essere soddisfatto nell’ipotesi di
accoglimento della domanda, si incentra appunto nell’acquisizione del documento oggetto di esibizione.
25 Come si evince dal testo, la linea di demarcazione tra diritto soggettivo ed interesse legittimo viene fondata su criteri
diversi da quelli usualmente elaborati a tal fine. Secondo le tradizionali teorizzazioni, infatti, l’interesse legittimo si distingue
dal diritto soggettivo perché non “garantisce” al titolare il risultato perseguito, ovvero il conseguimento (o la conservazione)
dell’utilità in ordine alla quale l’ordinamento conferisce all’amministrazione un potere unilaterale di disposizione. La
progressiva trasformazione dei moduli operativi cui si conforma l’azione amministrativa, non più ispirati a canoni autoritativi
ma aperti all’impiego di strumenti marcatamente privatistici, rende tuttavia non più praticabile la suddetta impostazione.
Aumentano infatti le ipotesi in cui l’amministrazione non è in grado di decidere unilateralmente ed autoritativamente
l’assetto da dare agli interessi coinvolti. Si impone quindi la ricerca di un diverso metodo di individuazione delle situazioni
meritevoli di tutela giurisdizionale, praticabile pur nelle ipotesi in cui non sia coinvolto alcun potere amministrativo
tradizionalmente inteso. Torna utile, in questa prospettiva, una definizione dei contorni dell’interesse legittimo affrancata
dalla necessaria sussistenza di una posizione di potestà in capo all’amministrazione, ed incentrata sulle modalità mediante le
quali l’ordinamento dimostra di riconoscere protezione ad un determinato interesse sostanziale: modalità che, secondo la
prospettiva qui accolta, danno luogo ad una posizione di diritto soggettivo quando è lo stesso ordinamento, con norme
puntuali, a dettare in maniera rigida e diretta i criteri di qualificazione dell’interesse, e mettono capo invece ad una situazione
di interesse legittimo quando viene rimessa all’interprete l’indagine (pur condotta secondo criteri di ordine giuridico ed
avvalendosi dei dati offerti dall’ordinamento) circa il grado di meritevolezza che l’interesse presenta. Giova solo aggiungere
che meno decisiva si presenta invece la questione concernente il grado di vincolatività del dovere dell’amministrazione di
10
Deve accennarsi, per concludere, alle modalità di espressione dell’interesse conoscitivo.
Al riguardo occorre infatti osservare che l’art. 26, comma 4, D.P.R. n. 602 del 1973 limita le
facoltà dell’accedente alla “esibizione” della cartella di pagamento: resta in tal modo preclusa l’ulteriore
manifestazione modale del diritto di accesso, correlata all’acquisizione di copia dei documenti ex art. 25,
comma 1, L. n. 241 del 1990.
Ebbene, quali che siano le motivazioni della scelta normativa di restringere nel modo suddetto
le possibilità esplicative della pretesa conoscitiva, essa concorre a differenziare - insieme agli ulteriori
dati fin qui analizzati - l’accesso alla cartella di pagamento rispetto all’omologo istituto contemplato
dalla legge sul procedimento.
E’ probabile che la scelta interpretativa sulla quale si fonda la sentenza in commento, volta a
ritenere sostanzialmente affini se non sovrapponibili la previsione di cui all’art. 26, comma 4, D.P.R. n.
602 del 1973 e quella di cui all’art. 22 L. n. 241 del 1990, derivi proprio dalla sensibilità del giudicante
verso l’esigenza di non limitare le modalità di ostensione a quella consistente nella mera esibizione del
documento.
Del resto, ove si ritenga che le disposizioni in esame siano riconducibili ad una radice comune,
risulta difficile resistere alla suggestione interpretativa di configurare la previsione di cui all’art. 26,
comma 4, D.P.R. n. 602 del 1973 come una anticipazione, imperfetta ed embrionale, dell’istituto più
compiutamente disciplinato dalla L. n. 241 del 1990: opzione ermeneutica, quest’ultima, che facilmente
assumerebbe i toni della obbligatorietà, ove si pensi che, altrimenti opinando, si finirebbe con
l’ammettere la derogabilità della legge sul procedimento, al di fuori dei casi espressamente ammessi, ad
opera di fonti di rango inferiore.
Tali suggestioni, tuttavia, appaiono resistibili ove si ascrivano le previsioni in esame a diversi
ambiti operativi: ambiti che, pur nella sostanziale identità del bene giuridico protetto, si distinguono per
la diversità degli specifici e concorrenti interessi che il redattore delle norme ha avuto di mira nel
congegnare i rispettivi strumenti di ostensione, e nella conseguente diversità della formula adoperata per
comporli26.
Se così è, quindi, e se si tengono presenti le differenze riscontrate tra le menzionate previsioni
normative, non appare irragionevole affermare – a conferma della ipotesi formulata all’inizio del
paragrafo - che l’istituto contemplato dall’art. 26, comma 4, D.P.R. n. 602 del 1973 si traduce, sul piano
delle situazioni giuridiche soggettive, nella integrazione del rapporto tra concessionario della riscossione
e debitore mediante una posizione ulteriore ed omogenea (sul piano della sua configurazione giuridica,
sub specie di diritto soggettivo), specificamente rivolta ad offrire tutela all’interesse conoscitivo del
secondo.
La tesi, così sintetizzata, conduce inevitabilmente all’affermazione della separazione tra i
rispettivi ambiti applicativi delle disposizioni in parola: da un lato, il diritto soggettivo alla conoscenza
quale strumento di rafforzamento della posizione del debitore il cui patrimonio sia aggredito dal
concessionario della riscossione, dall’altro lato, l’interesse legittimo alla conoscenza come mezzo di
controllo sull’esercizio imparziale della funzione amministrativa.
Essa tuttavia, prima di essere incondizionatamente abbracciata, merita di essere sottoposta al
vaglio delle seguenti, ulteriori riflessioni.
fare esibizione dei documenti richiesti: seppure infatti l’art. 26, comma 4, D.P.R. n. 602 del 1973 si esprime nel senso che il
concessionario “ha l’obbligo di fare esibizione” della cartella di pagamento, non diversa si presenta – una volta che sia stato
accertato il ricorrere della situazione legittimante – la posizione dell’amministrazione a fronte di una istanza di accesso
presentata ex art. 22 L. n. 241 del 1990.
26 Basti considerare, per spiegare la minore espansione – quanto a modalità operative - dell’accesso nell’ambito del D.P.R. n.
602 del 1973, che la posizione intrinsecamente conflittuale che assumono le parti nella vicenda di riscossione rende
agevolmente prospettabile, al fine di offrire piena tutela agli interessi coinvolti, l’intervento giurisdizionale: se così è, quindi,
la limitazione dell’ostensione all’esibizione della cartella di pagamento trova giustificazione nella acquisibilità processuale del
documento, tema questo irrilevante ai fini dell’applicazione dell’art. 22 L. n. 241 del 1990 in ragione dell’autonomia della
posizione dell’accedente rispetto a qualsivoglia relazione conflittuale nei confronti dell’amministrazione detentrice del
documento.
11
5. LA CARTELLA DI PAGAMENTO QUALE “DOCUMENTO AMMINISTRATIVO” ACCESSIBILE
AI SENSI DELLA L. N. 241 DEL 1990
La pretesa di agganciare, in via esclusiva, l’autonomia delle disposizioni in esame agli elementi
differenziatori fin qui analizzati potrebbe non apparire fondata su solide basi argomentative.
Se con riguardo al profilo concernente la diversa qualificazione della situazione soggettiva
dell’accedente basterebbe osservare che la natura della situazione giuridica tutelata dalla L. n. 241 del
1990 è tuttora incerta (atteso il mai sopito dibattito interpretativo in ordine alla veste formale – diritto
soggettivo o interesse legittimo - che ad essa deve attribuirsi), a non diverse conclusioni dovrebbe
pervenirsi in relazione al criterio differenziatore incentrato sulle peculiari e specializzanti connotazioni,
in specie soggettive, della situazione modellata dall’art. 26, comma 4, D.P.R. n. 602 del 1973.
Tale impostazione, in particolare, lascia emergere i suoi palesi punti di debolezza allorché la
posizione del destinatario della cartella venga posta a confronto con quella di tutti gli altri ipotetici
soggetti interessati ad acquisirla: mentre infatti il primo dovrebbe esercitare la sua pretesa nel quadro
regolativo scolpito dall’art. 26, comma 4, D.P.R. n. 602 del 1973, con i connessi evidenziati limiti
modali, i secondi, sia perché titolari di una situazione non direttamente correlata al rapporto esistente
con il concessionario, sia perché non potrebbero ammettersi vuoti di tutela (una volta esclusa
l’applicabilità nei loro confronti dell’art. 26, comma 4, D.P.R. n. 602 del 1973), sarebbero legittimati ad
avvalersi dei più ampi orizzonti operativi riconosciuti dall’art. 25, comma 1, L. n. 241 del 1990.
Né varrebbe obiettare che questi ultimi incontrerebbero pur sempre un limite nell’esercizio del
diritto di accesso tale da ricondurlo di fatto alle possibilità esplicative – circoscritte all’esibizione della
cartella – contemplate dall’art. 26, comma 4, D.P.R. n. 602 del 1973, sulla base della considerazione
secondo la quale l’interferenza dell’accesso con la riservatezza del titolare della cartella farebbe
indefettibilmente scattare la clausola di salvaguardia di cui all’art. 24, comma 2, lett. d) L. n. 241 del
199027.
Invero, non potrebbe non risultare insoddisfacente una soluzione che fondasse la sua coerenza
sulla episodica e non sempre consapevole – da parte del conditor iuris – armonizzazione delle disposizioni
di dettaglio.
Un criterio risolutore può dunque essere offerto dall’ultimo degli elementi costitutivi della
fattispecie generatrice del diritto di accesso ex lege n. 241 del 1990: il documento oggetto della richiesta
di ostensione.
Deve al riguardo sottolinearsi che il dibattito concernente la natura del documento ostensibile ai
sensi della legge sul procedimento ha gravitato essenzialmente intorno alla sua assegnazione all’area
privatistica o strettamente autoritativa: in tale ottica, è ormai generalmente condivisa la tesi secondo cui
l’alternativa in discorso non incide sulla questione inerente all’accessibilità del documento, essendosi
riconosciuto che la qualificazione formale dell’attività cui inerisce il documento da esibire non mortifica
la sua sostanziale appartenenza all’area amministrativa, cui devono ricondursi tutte le attività legate al
perseguimento del pubblico interesse e come tali soggette alla inderogabile applicazione dei principi
costituzionali di buon andamento ed imparzialità.
Tale orientamento, come è noto, è all’origine della tesi favorevole all’estensione del principio di
trasparenza alle attività consistenti nella erogazione di pubblici servizi: attività solitamente esplicate
secondo moduli privatistici e tuttavia funzionali al raggiungimento di interessi di rilevanza generale.
La distinzione tra attività privatistica ed attività pubblicistica, tuttavia, non è la sola a venire in
rilievo nella difficile opera di delimitazione dell’area entro la quale vanno collocati i documenti
accessibili: al di là e, si potrebbe dire, a monte della stessa vi è infatti la ripartizione tra attività
strettamente amministrative ed attività ulteriori, variamente qualificabili e sempre connotate dallo ius
imperii, espletate da soggetti riconducibili (in via più o meno diretta) all’apparato pubblico.
Alla stregua della norma citata, come è noto, l’accesso che impinge nella riservatezza è circoscritto alla “visione” degli atti
relativi ai procedimenti amministrativi, la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere gli interessi giuridici
dell’accedente.
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Si rende necessario, prima di procedere nel discorso, tentare di definire il proprium dell’attività
amministrativa: iniziando dalla sua più immediata definizione di attività intesa alla concreta realizzazione
degli interessi generali così come tipizzati dal legislatore.
La centralità del concetto di funzionalizzazione al perseguimento dei pubblici interessi per
definire l’attività amministrativa, anche ai fini della sua sottoposizione alle norme sull’accesso, è tale che,
come si è detto, l’individuazione dei documenti ostensibili, tra quelli detenuti dai gestori di pubblici
servizi, avviene solitamente, ad opera della giurisprudenza, mediante la verifica della connessione
esistente tra essi e l’attività direttamente strumentale alla gestione del servizio.
Tale prospettiva, del resto, deriva coerentemente dalla costruzione della trasparenza
amministrativa come valore funzionale alla più piena e diffusa affermazione dei principi di imparzialità e
buon andamento nella cura dei pubblici interessi.
E’ del tutto condivisibile, da questo punto di vista, che le modalità – privatistiche o
pubblicistiche – mediante le quali avviene il perseguimento degli interessi pubblici non rilevino al fine di
considerare una determinata attività come soggiacente alle norme sull’accesso, non venendone intaccate
le connotazioni finalistiche della stessa.
Ebbene, non sembra che i caratteri evidenziati ricorrano con riguardo all’attività di riscossione.
Se infatti è vero che anche tale attività realizza il perseguimento del pubblico interesse (tale non
potendo non reputarsi quello avente ad oggetto la corretta e tempestiva riscossione delle pubbliche
entrate), appare tuttavia difficile considerarla attività di amministrazione in senso stretto, correttamente
intesa come attività finalizzata alla cura “concreta” ed “immediata” di interessi pubblici.
Essa, da tale punto di vista e specialmente nei suoi sviluppi coattivamente esecutivi, non è
concettualmente diversa da quella che gli organi all’uopo preposti (in specie, gli ufficiali giudiziari cui si
rivolge il comando ex art. 475, comma 3, c.p.c. 28), richiesti nelle forme prescritte dalla legge, pongono
in essere per realizzare forzatamente le pretese dei privati che trovino riconoscimento nei titoli all’uopo
configurati dall’ordinamento: con la differenza che, in tal caso, l’amministrazione creditrice gode di un
apparato esclusivamente dedicato alla realizzazione dei suoi crediti 29.
Trattasi in altre parole di attività che, nel complesso finalizzata al soddisfacimento del pubblico
interesse, si puntualizza in singole procedure di esecuzione non ad altro ispirate se non alla realizzazione
dell’interesse patrimoniale sotteso ai diritti di credito portati di volta in volta a coattiva attuazione30.
Né varrebbe osservare che sono molteplici le ipotesi in cui l’attività amministrativa, pur non
traducendosi nella diretta realizzazione di interessi della collettività, evoca nondimeno concrete esigenze
di controllo sul suo corretto svolgimento (si pensi alle procedure di aggiudicazione di appalti intesi
all’acquisizione di beni e servizi indispensabili per l’esercizio di funzioni pubbliche).
Invero, se in tali vicende resta pur sempre configurabile e giuridicamente apprezzabile la
posizione di soggetti terzi interessati a verificare che l’attività si ispiri effettivamente ai canoni
costituzionali di buon andamento ed imparzialità (basti pensare alle imprese non aggiudicatarie), nella
fattispecie che si esamina non sembrano prospettabili esigenze conoscitive, imputate a soggetti non
direttamente interessati dalla specifica procedura esecutiva, che non si risolvano nel generico ed
indifferenziato (e per questo non tutelabile) interesse al controllo del legittimo e corretto esercizio
dell’azione pubblica.
Se poi si sposta l’attenzione sulla posizione del soggetto coinvolto nella procedura di
riscossione, non può non osservarsi che essa, più che chiamare in causa esigenze pubblicistiche di
controllo, si riduce alla situazione tipica di qualunque soggetto debitore sottoposto ad azione esecutiva:
con la conseguente titolarità di strumenti di difesa tipicamente processualcivilistici (con i limiti imposti
dall’art. 57 D.P.R. n. 602 del 1973).
Trattasi della formula apposta sul titolo ai fini della sua spedizione in forma esecutiva: “Comandiamo a tutti gli ufficiali
giudiziaria che ne siano richiesti e a chiunque spetti, di mettere a esecuzione il presente titolo…”.
29 Peraltro, è lo stesso art. 49, comma 3, D.P.R. n. 602 del 1973 a prescrivere che “le funzioni demandate agli ufficiali
giudiziari sono esercitate dagli ufficiali della riscossione”.
30 Le considerazioni svolte nel testo potrebbero apparire in contrasto con la natura amministrativa dello strumento – la
concessione – utilizzato per conferire le funzioni in discorso. Va tuttavia osservato che la concessione attiene ad un piano
diverso - l’organizzazione amministrativa, di cui realizza un’ulteriore articolazione - da quello concernente la natura giuridica
delle funzioni di cui l’apparato pubblico, pur soggettivamente amministrativo, è titolare.
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Concorre nella illustrata direzione interpretativa, del resto, anche il carattere servente dell’attività
di riscossione rispetto ad una molteplicità di pretese creditorie, traenti origine da rapporti aventi la causa
più diversa: tale caratteristica di “neutralità” causale dell’attività di riscossione si presta, invero,
senz’altro a giustificare la fondazione di una categoria autonoma cui ricondurne, sul piano ricostruttivo,
le concrete manifestazioni.
Ebbene, e sulla scorta dei rilievi svolti, la qualificazione che più immediatamente si attaglia
all’attività del concessionario è quella che ne pone in risalto la matrice latamente processuale (rectius, la
natura alternativa alla vera e propria azione esecutiva, di cui quindi condivide l’essenza almeno da un
punto di vista funzionale), desunta dalla sua illustrata strumentalità alla realizzazione delle pretese
patrimoniali dell’apparato pubblico31: dal che è consequenziale ricavare che gli atti del concessionario, e
quindi i documenti nei quali si trasfonde il relativo contenuto, appaiono esulare dalla nozione di
“documento amministrativo” recepita dalla L. n. 241 del 1990, restando l’esibizione degli stessi
esclusivamente disciplinata dall’art. 26, comma 4, D.P.R. n. 602 del 197332.
Tale conclusione non è in alcun modo disarmonica rispetto ai risultati raggiunti in sede di analisi
della natura giuridica dell’attività del concessionario della riscossione ed in occasione della
delimitazione, con riguardo a tale soggetto, dell’ambito operativo della disciplina sull’accesso.
Dal primo punto di vista, infatti, occorre osservare che la valenza pubblicistica dell’attività del
concessionario (sulla quale si è fondata la sua qualificazione come soggetto investito dell’esercizio di
“pubbliche funzioni”) non resta inficiata dalle considerazioni appena sviluppate, che hanno piuttosto lo
scopo di evidenziarne l’estraneità alla sfera propriamente amministrativa33.
Quanto al secondo aspetto, invece, va detto che la disciplina sull’accesso, inidonea a garantire la
trasparenza con riguardo all’attività che trova espressione nelle puntuali e frammentarie procedure di
esazione, conserva la sua capacità applicativa nei confronti di tutti gli altri aspetti, organizzativi e
funzionali, dell’operare del concessionario della riscossione.
La qualificazione proposta nel testo potrebbe risultare non pertinente se riferita alla cartella di pagamento, che non ha una
finalità immediatamente esecutiva assolvendo alla funzione di intimazione nei confronti del debitore affinché provveda al
pagamento. Tuttavia, se da un lato può ragionevolmente sostenersi l’equivalenza dell’atto de quo all’atto di precetto ex art.
479 c.p.c., dall’altro lato non può non osservarsi che, nell’ipotesi di perdurante inadempimento del debitore, l’avvenuta
notifica della cartella rappresenta un presupposto per l’accesso del concessionario alla fase propriamente esecutiva (art. 50,
comma 1, D.P.R. n. 602 del 1973): sì che, se in tal caso la cartella si manifesta come un anello indispensabile della procedura
esecutiva, non sembra che essa perda tale natura qualora il debitore provveda allo spontaneo adempimento, facendosi
altrimenti dipendere la soluzione della questione concernente la natura dell’atto de quo dallo svolgersi degli eventi
successivamente alla sua formazione.
32 Analogo percorso argomentativo si trova sviluppato in quelle sentenze che, con riguardo alla natura del fermo
amministrativo ex art. 86 D.P.R. n. 602 del 1973, ne affermano la stretta inerenza alla procedura esecutiva. Si veda da ultimo
T.A.R. Napoli, Sez. I, 16 settembre 2004 n. 12025, secondo cui “il fermo amministrativo è riferibile alla serie degli atti che
concretano l’esecuzione forzata tributaria, nel cui ambito esso costituisce un istituto speciale caratterizzato dalla medesima
finalità di realizzare coattivamente la pretesa creditoria del Fisco”. In particolare, per sostenere l’estraneità dell’istituto in
questione all’ambito della vera e propria attività amministrativa, afferma il Tribunale che “la scelta dello strumento di
coazione in discorso, rimessa dall’articolo 86, nuovo testo, al concessionario (“il concessionario può disporre il fermo”),
costituisce espressione dello jus eligendi ordinariamente riconosciuto nelle procedure esecutive al creditore procedente tra i
diversi mezzi di aggressione del patrimonio dell’esecutato o tra diversi beni passibili di esecuzione forzata; questo potere di
scelta nulla ha a che vedere con il concetto di discrezionalità amministrativa, che attiene alla selezione, ponderazione e
comparazione degli interessi coinvolti nell’affare amministrativo al fine della scelta del mezzo più idoneo al perseguimento
del fine di cura di interessi pubblici affidato all’amministrazione procedente nella sua funzione di amministrazione attiva”.
33 In particolare, rimane immutata la valenza pubblicistica della cartella di pagamento, così come di tutti gli atti successivi
della procedura esecutiva, messa in evidenza allorché si è accennato alle ipotesi in cui la cartella funge da veicolo dell’attività
di accertamento posta in essere dall’ente creditore, non altrimenti manifestatasi all’esterno: tale caratterizzazione dell’atto in
discorso, tuttavia, non ne modifica la sostanza di mezzo di affermazione di una pretesa economica (pur munito della forza
giuridica che rende permeabile rispetto ad esso, nel concorso degli ulteriori adempimenti previsti dalla legge, il patrimonio
del soggetto debitore) e quindi estraneo all’ambito dell’attività amministrativa propriamente intesa.
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6. LA
GIURISDIZIONE SULLE CONTROVERSIE IN TEMA DI ACCESSO ALLA CARTELLA DI
PAGAMENTO : CONCLUSIONI
I rilievi svolti non possono che approdare alla questione, puramente processuale, concernente
l’individuazione del giudice munito di giurisdizione in ordine alla domanda intesa ad ottenere
l’esibizione della cartella di pagamento, negata dal concessionario della riscossione.
Deve in primo luogo escludersi che di tale potestà sia munito il giudice amministrativo:
l’estraneità della materia in esame all’ambito applicativo del diritto di accesso come disciplinato dalla L.
n. 241 del 1990, che si è cercato di dimostrare, impone di pervenire alla medesima soluzione con
riguardo alla questione concernente la riconducibilità dell’actio all’ambito giurisdizionale delineato
dall’art. 25, comma 4, L. n. 241 del 1990.
Si pone a questo punto il quesito incentrato sull’appartenenza della domanda, alternativamente,
al giudice munito di potestas decidendi in ordine alle tematiche litigiose innescate dal rapporto di base
(quello, cioè, cui si correla il credito oggetto di riscossione) ovvero al giudice individuabile attraverso
l’applicazione dei consueti criteri risolutori dei conflitti di giurisdizione.
La prima soluzione non appare condivisibile: ciò per un duplice ordine di considerazioni.
In primo luogo, invero, occorre ribadire quanto già osservato con riguardo alla netta
“separatezza”, strutturale e funzionale, tra l’attività di riscossione – cui inerisce l’emanazione della
cartella di pagamento – ed il rapporto sostanziale da cui si origina il debito oggetto di esecuzione34.
Inoltre, e per limitarsi all’esempio più illuminante, oltre che di più diffusa ricorrenza, occorre
evidenziare che l’actio ad exhibendum esula dal novero delle azioni proponibili dinanzi al giudice tributario
(art. 19 D.lgs. 31 dicembre 1992 n. 546), deputato a decidere le liti in cui si controverta dell’an e del
quantum del debito tributario.
Non resta pertanto che fare appello agli ordinari schemi di riparto della giurisdizione, fondati
sulla ricognizione della natura della situazione giuridica tutelata.
Ebbene, l’evidenziata connotazione di diritto soggettivo ascrivibile alla posizione delineata in
capo al destinatario della cartella di pagamento dall’art. 26, comma 4, D.P.R. n. 602 del 1973 non
consente soluzione diversa da quella che ravvisa la cognizione del giudice ordinario: né rileva che la
giurisdizione del giudice amministrativo, così come radicata dall’art. 25, comma 5, L. n. 241 del 1990,
abbia carattere esclusivo, difettando, come si è visto, con riferimento alla fattispecie dell’esibizione della
cartella di pagamento, i requisiti oggettivi che consentono la sua attrazione alla “materia” dell’accesso ai
“documenti amministrativi”.
Ezio Fedullo
Magistrato T.A.R.
E’ pur vero che, generalmente, la cartella di pagamento è atto impugnabile dinanzi al giudice del rapporto (si veda, ad
esempio, l’art. 19, comma 1, lett. d) D.lgs. n. 546 del 1992): essa tuttavia rileva, in tale contesto, non come atto della
procedura esecutiva, ma come momento di qualificata affermazione della pretesa sostanziale, atta a radicare l’interesse ad
agire in capo all’attore che intenda contestarne l’esistenza.
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