Prof.Celan_Seminario 26nov2013

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Prof.Celan_Seminario 26nov2013
Una manovra figlia del pensiero corto
Come il popolo delle scimmie nel Libro della Jungla, la classe dirigente
dimentica il passato e ripete discorsi su punti che sembravano acquisiti, senza
mostrare alcuna capacità di proiettarsi verso il futuro. La Legge di stabilità
non sfugge a questa logica
Valerio Selan*
Avete presente lo spessore di una fetta di lime messa di costa sul bordo di un bicchiere di
tequila? Questa è un'efficace rappresentazione visiva delle dimensioni del "pensiero
corto", caratteristico delle classi dirigenti del nostro Paese. Il pensiero corto consiste
nell'eliminare, nelle impostazioni teoriche e nelle conseguenti scelte operative, una larga
parte delle conoscenze del passato e del prevedibile futuro.
Una precisazione preliminare è opportuna. Il termine "classe dirigente" non può e non
deve riferirsi unicamente alla classe politica: devono essere inclusi i vertici della pubblica
amminustrazione e delle aziende partecipate, gli imprenditori, i sindacati, la intellighenzia
(o quella che si autoreputa tale), i responsabili dei mass-media e, last but not least, i
cosiddetti opinion makers.
La "fetta" di passato affiorata è molto ampia. Sembra che vi sia una sorta di damnatio
memoriae nei confronti dei risultati delle grandi battaglie intellettuali che hanno visto
opporsi nel diciannovesimo e per buona parte del ventesimo secolo le scuole liberista e
socialista. L'esito di questi antagonismi si tradusse in una serie di punti fermi nelle teorie
economiche e sociali. Queste conquiste del pensiero attenuarono la policromia delle scelte
in un quadro di tinte più sfumate, in cui l'alternarsi delle maggioranze nei Paesi non
totalitari modificava le tendenze di fondo senza brusche svolte e ne rendeva altre
irreversibili. In Italia ne fu un esempio il giolittismo.
Nell'attuale fase storica abbiamo la sensazione che il processo decisionale sia
paragonabile a quello del popolo delle scimmie che, secondo quanto Kipling fa dire a
Mowgly nel Libro della Giungla, ripete ogni giorno gli errori di quello precedente perché
privo di memoria. Né si può dire, con battuta naive, che il pensiero corto sia figlio del
cosiddetto "secolo breve". Il trentennio postbellico fu caratterizzato da avanzamenti
metodologici condivisi, almeno in Italia, dal quasi intero arco dello schieramento politico.
Sono proprio questi i punti sui quali periodicamente sembrano riaccendersi i fuochi fatui di
un dibattito che come in un eterno ritorno sembra partire ogni volta da zero.
Li ricordiamo brevemente. Cominciamo dal tipo e dal livello della tassazione. Era pacifico il
criterio della progressività rapportata alla capacità contributiva, ma moderata nei confronti
delle imprese perché al processo di accumulazione anche le sinistre più radicali
attribuivano un valore sociale. Si era consolidato il criterio della detrazione delle spese
per la produzione del reddito. Non si erano ancora verificate quelle distorsioni elusive,
comprovate da statistiche recenti, per cui gli imponibili dichiarati di certe professioni
finiscono per essere inferiori a quelli del lavoro dipendente.
Si era convenuto, sia pure con gradazioni diverse, che lo Stato e gli enti pubblici avessero
un ruolo nella copertura dei costi costanti sociali e negli investimenti a produttività diffusa
e/o lungamente differita. Anche il socialismo europeo aveva accettato la selezione
meritocratica, temperata però da una tendenziale eguaglianza delle condizioni di partenza
e dal solidarismo sociale nei confronti dei più deboli: al quale con un pizzico di cinismo
veniva riconosciuto il merito di contribuire allo sviluppo equilibrato, alimentando una
componente della domanda aggregata. Anche i problemi delle economie sottosviluppate
avevano trovato soluzioni equilibrate. Se fossero state tenacemente perseguite, anziché
ritornare ad un colonialismo commerciale di rapina, si sarebbero forse potute arginare le
emorragie migratorie. Alcune di queste conquiste intellettuali trovarono una consacrazione
politica nel Congresso di Bad Godesberg della socialdemocrazia tedesca: causa non
ultima dell'ordinato sviluppo socioeconomico di questo grande Paese.
Anche nel più controverso campo dei rapporti di lavoro le polemiche si erano stemperate,
approdando a soluzioni ragionevoli. Lo slogan barricadero del salario come variabile
indipendente si era tradotto in una più equilibrata correlazione tra produttività del lavoro,
intensità di capitale, economie di scala e livello di organizzazione. Il che è quanto dire che
il salario dipende anche dalla capacità degli imprenditori e non solo da quella dei
lavoratori. Prima degli uragani neoliberisti, delle bolle finanziarie e del lungo inverno della
crisi, anche un altro slogan come "lavorare meno per lavorare tutti" stava sfociando nelle
turnazioni con orari accorciati in grado di accrescere il coefficiente di utilizzo del capitale
fisso. Lo stesso dilemma tra monopolio e concorrenza aveva trovato composizione, per
fruire dei vantaggi delle economie di scala, nei modelli della "workable competition" (poco
applicata in Italia dove il feudalesimo economico e il familismo imprenditoriale hanno
continuato ad imperare).
Queste conquiste condivise del pensiero socio-economico sono state travolte dallo
tsunami del neoliberismo e dell'individualismo etico. Questo ventennio grigio - che in Italia
ha assunto i caratteri tragicomici della Commedia dell'Arte - ha generato la società
molecolare, nella quale il pensiero corto è anche causa ed effetto del declino di quei partiti
di massa che offrivano occasione non solo di rielaborazioni culturali, ma anche di rapporti
umani. L'individualismo ha generato la solitudine dei numeri primi. Le certezze
assolutistiche della libertà economica si sono tradotte nella stupita contemplazione delle
macerie della struttura sociale, in un panorama al quale ben si appone la definizione
tacitiana "desertum faciunt et pacem appellant".
Il sapere acquisito sembra dimenticato, come dimostrano le baruffe chiozzotte che
punteggiano il dibattito quotidiano. Ciò è tanto più strano in quanto - pur attraverso il
mutare delle istituzioni e delle tecniche - esistono negli aggregati umani uniformità
comportamentali addirittura plurisecolari. Ricordo gli sguardi corrucciati dei miei più
anziani colleghi quando sostenevo che le scienze economiche, a diversità di quelle
tecniche, non avevano compiuto, da Aristotele in poi, progressi sostanziali. Assistiamo,
dunque, ad una coazione a ripetere, con la riscoperta e la ridiscussione delle certezze del
passato. Forse anche l'informatica ha una sua parte di responsabilità: i clic ed i "mi piace"
non contribuiscono all'elaborazione del pensiero critico. Anche l'afflusso dei quisdam de
populo pentastellati, dopo la valanga degli amici dei potenti, non ha elevato il livello di
memoria storica dei nostri parlamentari. In questo contesto la classe dirigente nell'aprire le
danze delle grandi scelte non privilegia né il tango appassionato né il valzer vorticoso, ma
il ballo del mattone.
Ancor più grave la brevità della proiezione nel futuro. Secondo molti analisti, quel cluster di
innovazioni previsto parecchi anni fa per il 2015 è praticamente arrivato (il cfr. il "Progetto
per un nuovo Rinascimento scientifico e culturale": lettera aperta congiunta di L. Fontana,
professore di Medicina a Washington e V. Atella, economista e direttore del Ceis di Tor
Vergata, su "La Stampa" del 9/10/2013). Un vasto patrimonio di invenzioni, nuovi materiali,
processi e prodotti è già disponibile nei laboratori di ricerca di tutto il mondo, Italia
compresa. Nelle Facoltà scientifiche giovani ricercatori scalpitano, come puledri di razza.
Tra di essi vi è certamente un Nobel di domani. Vi sono covate di scoperte scientifiche e di
cervelli geniali che si stanno schiudendo. L'incubatore più congeniale per accelerare la
realizzazione di queste aspettative è, come dimostrano i casi degli Stati Uniti e della Cina,
l'intervento pubblico.
All'indomani dell'approvazione da parte del CdM della Legge di Stabilità sarebbe
ingeneroso non riconoscere al governo uno sforzo per porre un piede sul predellino del
treno dello sviluppo. Si avverte una leggera brezza redistributiva ed una pressione,
commisurata alla scarsità di risorse, sul desueto tasto del costo del lavoro (che, lo
ricordiamo, pesa solo per l'8-10% sul valore del prodotto delle imprese a tecnologia
avanzata). Qualche carta è stata tenuta coperta, come l'entità dell'accordo con la
Svizzera, gli introiti fiscali della rivalutazione del capitale della Banca d'Italia e i possibili
margini di un ulteriore calo dello spread. Al di là delle scontate critiche di sindacati e
imprenditori (ci voleva "ben altro"...) per l'insufficienza della manovra, non si può non
constatare che essa è tipicamente figlia del pensiero corto.
Provate ora ad immaginare quale sarebbe stato, anche sotto il profilo psicologico, l'impatto
sull'economia italiana se una dirigenza meno short-sighted avesse destinato la totalità o
gran parte delle somme stanziate ad una manovra a tenaglia con due leve principali: a)
l'acquisto di brevetti e licenze di nuove tecnologie, attingendo alla cornucopia innovativa
già disponibile e la cessione alle imprese più ricettive; b) la concessione, alle stesse
imprese di benefici fiscali pluriennali per il loro impegno in ricerca e sviluppo e per l'avvio
della produzione di scala. Gli effetti sarebbero probabilmente così ampi da creare le
condizioni per un cosiddetto "salto della tecnica". La selezione dei brevetti potrebbe
essere affidata a un team di tecnologi ed esperti di marketing tratti da centri di ricerca
pubblici e privati. Quanto agli effetti occupazionali, le esperienze della Sylicon Valley
dimostrano che per ogni nuovo addetto nel settore di punta se ne creano 5 nell'indotto.
Quanto agli effetti redistributivi, i notevoli incrementi di valore aggiunto generati dalle
innovazioni, soprattutto strategiche, dovrebbero offrire spazio per manovre di
perequazione sociale.
Potremmo chiederci, in conclusione, se vi siano sintomi dell'apparire di dirigenti in grado di
pilotare una manovra così audace. In questo momento i mass media tambureggiano il
nome di qualche homo novus. Di quello più noto si potrebbe forse dire quel che Andreotti
affermò prima dell'unificazione tedesca: taluni lo apprezzano tanto da augurarsene due, e
molto diversi, uno per la propaganda e un altro per il governo. Ma tant'è. Travolti da
frenesia citazionista, diremo che "in terra caecorum, orbus rex".
(18/10/2013)
articolo riproducibile citando la fonte: http://www.eguaglianzaeliberta.it
*Prof. Valerio Celan
Docente di Scienza delle Finanze e Statistica
Facoltà di Scienze Politiche
Università degli Studi di Macerata