Capitolo Quinto - Unitre Val di Cornia

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Capitolo Quinto - Unitre Val di Cornia
Capitolo Quinto : Apicio e le ricettine.
Abbiamo detto che Apicio è la nostra fonte principale per conoscere la cucina romana antica. Ma Apicio non
è un cuoco, è un letterato, gaudente, ma un letterato.
E non scriveva certo ricette per le ricche matrone romane ne per i cuochi. Scriveva per esaltare la
gastronomia, per raccontare l’arte del mangiar bene (tessera Slow Food n° 0).
Era un filosofo, con uso di cucina, mica un ricettatore.
Ed infatti non c’è una misura che sia una. Mai che dica 1 Kg di farina, un bicchiere di latte. Non gli
interessava minimamente.
Ma il bello viene ora; come tutti i libri arcaici noi non abbiamo gli originali, ma le copie che durante i secoli bui
i monaci trascrissero.
E nel trascrivere hanno combinato un bel casino.
Intanto di due libri ne hanno fatto uno solo, e fin qui passi.
Ma i censori ecclesiastici si sono anche esercitati a togliere delle ricette che consideravano immorali, ma
soprattutto ad aggiungerne altre. Delle 478 ricette non più di 300 sono attribuibili ad Apicio.
E di quelle originali hanno spesso confuso gli ingredienti, riducendoli e semplificando, perché i nostri monaci
trascrivevano per i nuovi signori della loro epoca e quindi avevano in mente i loro potenziali lettori e non il
rigore filologico.
Poi, dobbiamo dirlo, i libri di Apicio ebbero delle critiche feroci, quando “uscirono”.
Critiche feroci da Seneca e da Plinio: roba da stroncare anche Aldo Busi.
Comunque Apicio trascrive “ricettine” tutto sommato praticabili, con quella ventina di ingredienti-base.
Devo ripetere che le ricette di Apicio e soprattutto i racconti di Petronio si riferiscono ai banchetti memorabili
dei ricchi della Roma imperiale, e dei ricchi parvenu, spesso.
I ricchi di antica famiglia conservavano una forte moralità e raramente si lasciavano andare a questi eccessi
scandalosi.
Fu infatti il Senato, spinto dai Padri della Patria a varare a più riprese le leggi “suntuarie” contro gli sprechi e i
lussi eccessivi, ma non ci fu nulla da fare.
Ma allora come era la cucina romana, o almeno quella dei banchetti “ spettacolari”.
Ecco, era una cucina spettacolare, fatta non tanto per mangiare ma soprattutto per meravigliare, per dare
l’immagine del proprio status, per sorprendere.
Mi sembra che quasi quasi ci siamo anche oggi, magari con piatti che sembrano quadri astratti,
composizioni artistiche.
Ma i romani in più non praticavano il contrappunto, ma la somma dei sapori.
Il contrappunto, che è la caratteristica della cucina moderna, consiste nella presentazione di un ingrediente
principale che viene esaltato, messo in evidenza, da ingredienti secondari e da profumi.
I Romani, ma poi vedremo che lo farà anche tutta la cucina sino alla rivoluzione francese, si basano invece
sulla somma, sulla sovrapposizione di sapori.
Questo naturalmente in linea generale. Ci sono ricette che anche oggi sono ripetibili, ma dei “rifacimenti”
parleremo dopo, abbiate pazienza.
Per noi comunque è difficile capire come si possa apprezzare e distinguere ogni singolo sapore quando ve
ne sono alcuni molto forti, capaci di ammazzare un cinghiale imbestialito.
Per esempio la ruta, che io ho in giardino, e che anche al solo sfiorarla emette un puzzo notevole, tanto che
la mia nonna ne preparava un infuso adatto a sverminare i bimbi.
Allora perché mai la tengo in giardino ? Già, perché ?????
Non ho bambini con i vermi. E anche a lombrichi son messo male.
Ma loro la mettevano nei piatti, mica la tenevano, magari inutilmente, in un angolo del giardino.
La cosa si spiega con il fatto che gli aromi e gli ingredienti, avevano soprattutto il compito di sottolineare la
ricchezza del piatto e quindi di chi aveva organizzato il banchetto, specie quando si trattava di spezie
esotiche e costose.
A questo si aggiunga la passione dei cuochi per le sorprese.
Si esercitavano molto, e come gli piaceva presentare una cosa con l’aspetto di un’altra ! come ci godevano.
E non erano Adrian Ferran con il suo gelato di parmigiano o con il brodo fritto.
Al suo cuoco Augusto fece erigere una statua, ma era capace di preparare una carpa in modo che
guardandola sembrasse un pollo. Micoglioni !
Filetti di maiale acconciati a gamberoni o a piccioni, cervelli (molto usati) travestiti da testicoli ( se si parlasse
di persone si capirebbe meglio anche ora), prosciutti fatti a tortora ecc.
Tanto che uno dei divertimenti era quello di riconoscere cosa fosse realmente quello che arrivava in tavola.
Polpette, gelatine, passati di carne manicaretti sminuzzati erano poi molto comodi. Provate voi a mangiare
una fiorentina con l’osso stando sdraiati e con un gomito appoggiato sul materasso.
Ci siete stati ai pic-nic, no ?
Allora i simposiarchi ( quelli che mangiavano) avevano bisogno di cibi che si potevano prendere con una
mano sola.
Per i pezzi più grandi si servivano ……. Di un coltello, diranno i miei quattro lettori.
No, di uno schiavo.
E non di uno schiavo sottile o con una acuta intelligenza, ma munito, lui, di coltello.
Che con mossettine e gesti appropriati sminuzzava i pezzi grossi e li porgeva al commensale di turno.
Ma ritorniamo ai cibi, che dell’organizzazione del banchetto parleremo poi.
Sentite questo pezzetto della Cena di Trimalcione : Infine, fu portato un vassoio con un enorme cinghiale.
Trimalcione lo fissò dritto negli occhi gridando “ma come? Il cinghiale non è stato pulito? Gli Dei mi sono
testimoni, non lo e ! Chiamatemi il cuoco !”
Quando il cuoco si avvicinò alla tavola, con fare preoccupato e disse che si era dimenticato di pulirlo,
Trimalcione lo apostrofò : “ Come sarebbe a dire dimenticato ? Spogliatelo!” Senza frapporre indugi il cuoco
fu spogliato ed attendeva timoroso fra le guardie.
Tutti allora iniziarono ad intercedere per lui. Il volto di Trimalcione si rasserenò e disse: “E va bene ! visto che
hai una così cattiva memoria, pulisci questo cinghiale qui, sotto i nostri stessi occhi” Ed il cuoco rivestì la
tunica, prese il coltello da cucina e con mano insicura incise il cinghiale da una parte all’altra del ventre. E
subito dalle incisioni, dilatatesi per la spinta di quello che stava all’interno, sgorgò una grande quantità di
salciccie arrostite e sanguinacci”
Ma gli scherzi potevano essere anche più pesanti.
Anche la qualità dei cibi era tesa a mostrare lo spreco.
Tra le leggi suntorie una puniva chi uccideva le scrofe gravide pochi giorni prima del parto, con conseguente
morte dei maialini, per ricavare, dalle mammelle piene di latte, dei piatti da mostrare nel banchetto.
Si hanno notizie di piatti preparati con le lingue di pappagallini africani, con cervelli di uccelletti minuscoli,
insomma con quegli ingredienti che facevano fare un “ohh “ di meraviglia ai grezzi e ricchi invitati.
Ma anche descrizioni chiaramente “barocche” di un cinghiale ucciso al primo levarsi dei venti di zefiro, di
triglie pescate nel mare interno di Marsiglia, di frutti di mare provenienti da zone particolarissime del
mediterraneo davano il segno di questo gusto per l’eccessivo, lo scenografico, l’iperbole.
Tiberio, ricevuta in dono una triglia di quattro libbre, la mise praticamente all’asta tra i crapuloni dell’Urbe.
Vinse Ottavio che scucì 5.000 sesterzi.
Quanto valevano? non si sa, non ci hanno mandato la governativa macchinetta-trappola per la conversione
sesterzi/euro.
Marziale, nell’epigramma XIII 71 scrive a proposito dei fenicotteri: Le mie penne rosse mi danno il nome, ma
la mia lingua piace ai golosi. E se la mia lingua sapesse parlare ?
Io la tiro per le lunghe e alle ricette non ci siamo ancora arrivati.
Via, eccone una per chiudere il capitolo.
Ed appunto vi trascrivo la ricetta per cucinare un fenicottero, caso mai ne aveste comprato qualcuno in più
alla coop. Ci si risente, gente !
Spenna il fenicottero, lavalo, preparalo per la cottura e mettilo in una pentola insieme ad acqua, sale, aneto
e un poco di aceto. A mezza cottura aggiungi – affinché cuocia insieme al resto – un mazzetto di erbe
aromatiche (porro e coriandolo). Poco prima che la cottura sia completa bagna con defrutum che lo colorirà.
Ora pesta in un mortaio pepe, cumino, coriandolo, radice di laserpizio, menta e ruta, aggiungi aceto , dei
datteri e bagna con il suo sugo. Versalo nella stessa pentola e lega la salsa con fecola. Quindi versa sulla
carne e servi.
La stessa ricetta è adatta anche per cucinare pappagalli.