Chirurgia-placebo: sorprese e problemi etici Oggi
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Chirurgia-placebo: sorprese e problemi etici Oggi
Vol. 97, N. 2, Febbraio 2006 Pagg. 69-73 Oggi Chirurgia-placebo: sorprese e problemi etici Giorgio Dobrilla Riassunto. Il placebo ha un potenziale terapeutico ormai noto e ciò è la ragione per cui gli studi controllati contro placebo sono considerati necessari quando si voglia stabilire l’efficacia, e in minor misura la sicurezza, di un nuovo farmaco. Tuttavia, vi sono anche chiari esempi di una chirurgia-placebo di non trascurabile efficacia in diversi ambiti di patologia (cardiaca, osteoarticolare, vertebrale, post-traumatica, addominale, cerebrale) che suggerirebbero l’opportunità, almeno in certi casi, di studi placebo-controllati pure per le terapie chirurgiche. L’attuazione di questi studi solleva, però, una serie di riserve e di questioni etiche che doverosamente devono essere valutate con attenzione. Il bilancio dovrebbe riguardare sia la possibile ineticità di placebo chirurgici (inevitabilmente contrassegnati dall’attuazione di un’anestesia e da un carattere invasivo), sia l’ineticità di interventi condotti (anch’essi previa anestesia, invasivi e non esenti da rischi) sprovvisti di qualsiasi prova d’efficacia. Parole chiave. Bioetica, chirurgia, insufficienza coronarica, osteoartrosi, placebo. Summary. Placebo surgery: surprises and ethical questions. Placebo has a well-known therapeutic potential and this explains why placebo-controlled trials are considered necessary for showing the efficacy (and to a lesser extent the safety) of a new drug treatment. However, there are clear examples of a potent surgical placebo-effect in several pathological fields (cardiology, osteoarthropathy, slipped disk, post-traumatic lesions, abdominal adhesions, Parkinson’s disease). The efficacy of the placebo surgery would suggest the advisability of placebo-controlled studies also for some surgical treatments. This type of trials, however, raises a number of reservations and ethical questions. In particular, it is necessary to consider the possible unethical nature of placebo surgery as against the unethical nature of surgical operations lacking any evidence of “specific” efficacy (i.e. being better than placebo). Key words. Bioethics, coronary insufficiency, surgery, osteoarthosis, placebo. Introduzione Il placebo ed il suo sorprendente potenziale terapeutico sono oggetto di un’attenzione sempre crescente1 e le basi biochimiche che lo sostengono, in particolare per quanto attiene alla placeboanalgesia, sono state trattate anche in questa rivista2. Ci sono pure prove che l’effetto placebo venga ulteriormente potenziato se sulla scena della prestazione che coinvolge medico e paziente sono presenti anche alcuni strumenti, perché l’ambiente e la coreografia hanno la loro importanza. Il fonendoscopio, lo sfigmomanometro, una radiografia fissata ad un diafanoscopio acceso, l’ecografo, il macchinario della TC o della RM sono componenti dal ruolo tutt’altro che indifferente. Se dunque la fiducia nell’atto medico e l’aggiunto potenziale suggestivo di strumenti e macchinari è fondamentale nell’evocare la reazione globalmente positiva del nostro organismo (in primis del no- stro cervello), non può allora sorprendere che l’intervento chirurgico possa promuovere un effetto placebo di particolare portata, dato che in genere nessuno si fa operare se non ne è profondamente convinto. La chirurgia nel suo complesso è di per sé un “ p o w e r f u l s y m b o l o f h e a l i n g ” , u n p o t e n t e s i mbolo di guarigione. Se così non fosse, qualcuno si è chiesto come si spiegherebbe la scomparsa dei sintomi addominali, registrabile in molti pazienti cui è stata tolta una cistifellea o un’appendice, considerate colpevoli dei disturbi ma trovate normali sia dal chirurgo in corso di intervento sia dall’anatomopatologo che ha esaminato successivamente il pezzo operatorio. Primario Emerito di Gastroenterologia, Ospedale Regionale, Bolzano; Professore a contratto, Università, Parma. Pervenuto il 3 ottobre 2005. 70 Recenti Progressi in Medicina, 97, 2, 2006 Chirurgia-placebo in patologia cardiaca Le problematiche varie, incluse quelle delicatissime di natura etica, relative all’impiego e alla necessità o meno della “falsa chirurgia” (“sham operation”) negli studi controllati riguardanti le terapie chirurgiche, si sono proposte con particolare forza dopo la pubblicazione di due studi indipendenti, in doppio cieco contro placebo, in cardiopatici affetti da grave angina pectoris. Un gruppo di pazienti veniva operato di legatura bilaterale dell’arteria mammaria interna, mentre al gruppo placebo veniva praticata la sola incisione cutanea, ma non la legatura arteriosa. L’intervento, in base ad uno studio italiano che suggeriva l’esistenza di connessioni tra le arterie mammarie interne (ramo delle succlavie) e coronarie (dato, per altro, di cui non si trova traccia in importanti testi di anatomia), avrebbe dovuto comportare un maggiore afflusso di sangue al cuore ischemico. Gli esiti riuniti dei due trial erano sorprendenti (tabella 1): 6 mesi dopo, un significativo miglioramento clinico era, sì, registrabile nel 67% degli operati sottoposti al legatura arteriosa, ma anche nell’83% dei pazienti non sottoposti ad alcuna legatura3,4 e ciò senza significative variazioni elettrocardiografiche. Pure la necessità di ricorrere ai coronaro-dilatatori si riduceva sensibilmente in ambedue i tipi di trattamento (34% e 42%). Tabella 1. - Effetti della legatura “vera” e “falsa” delle arterie mammarie interne in pazienti affetti da grave angina pectoris (insufficienza coronarica). Riduzione del dolore anginoso Significativo Lieve Legatura vera Legatura falsa (placebo) 67% 33% 83% 17% A causa del protocollo, e in particolare delle modalità del consenso dei pazienti (in pratica non informati a dovere), questi studi non sarebbero stati approvati oggi da alcun Comitato Etico. Di fatto però, dopo la pubblicazione dei rispettivi risultati, la legatura dell’arteria mammaria interna come trattamento dell’insufficienza coronarica refrattaria è stato completamente abbandonata. Fosse continuato, numerosi pazienti sarebbero stati sottoposti ad una anestesia generale, alla sezione della cute, all’esposizione e alla legatura delle arterie mammarie senza averne specifico beneficio. Altrettanto clamorosi sono i risultati di uno studio controllato riguardante gli interventi di rivascolarizzazione transmiocardica laser-indotta. Il razionale di questo tipo di intervento è il seguente: creando mediante scariche laser alcuni microcanali (“punctures”) a livello dell’area ischemica del cuore (raggiunta dall’esterno per via transtoracica o dall’interno mediante catetere), il sangue fluirebbe in questi piccoli vasi neoformati e riendotelizzati, correggendo così l’ischemia e quindi la sintomatologia anginosa. Anche il rischio di infarto o di reinfarto dovrebbe risultare ridotto. Dopo che centinaia di interventi di questo tipo erano stati eseguiti, Ruth SoRelle riporta i risultati dello studio controllato presentati dal dottor Martin Leon, cardiologo al Lenox Hill Heart and Vascular Institute di New York, al Congresso dell’American College of Cardiology del 20005. In questo trial, 300 pazienti di età media 65 anni, il 90% dei quali già sottoposti a bypass e tutti sottoposti ad angioplastica per grave angina pectoris, venivano avviati ad uno studio controllato con laser (in due “dosi” diverse) contro placebo. Nei cardiopatici di questo gruppo sottoposti a “sham surgery” la procedura (anestesia, cateterismo fino al ventricolo sinistro del cuore) era la stessa, ma in essi non si attuava alcun bombardamento con il laser e non si creava quindi nessun microcanale (tabella 2). Tabella 2. - Rivascolarizzazione mediante laser e laserplacebo in pazienti con angina pectoris da grave insufficienza coronarica. Miglioramento significativo a 6 mesi Laser 20-25 microcanali Laser 10-15 microcanali Laser-placebo nessun microcanale 25% 33% 39% La tabella 2 mostra che un terzo dei pazienti migliorava soggettivamente, ed in modo significativo, quale che fosse il trattamento. In molti di essi inoltre, oltre alla scomparsa/riduzione dei sintomi, si registrava pure un miglioramento evidente del tracciato elettrocardiografico e dei dati ecocardiografici, ma anche questi esiti oggettivi erano gli stessi sia per i laser-trattati che per i placebo-trattati. Altro trattamento che merita considerazione in ambito cardiochirurgico è l’intervento di bypass, nel quale, com’è noto, con un segmento vascolare venoso o arterioso prelevato in altro distretto si crea un “ponte” che consente di aggirare l’ostruzione presente nella coronaria occlusa o sub-occlusa. Non c’è dubbio che per questo tipo di cardiochirurgia oggi ci sia sufficiente evidenza anche in assenza di studi placebo-controllati in doppio cieco al riguardo. Dopo gli anni ’70, gli innesti vascolari si sono perfezionati risultando in particolare più duraturi e attualmente i beneficî soggettivi sono registrabili nell’80-90% dei casi. Inoltre, è anche oggettivamente dimostrabile un frequente miglioramento elettrocardiografico ed un migliore apporto ematico in ambito cardiaco6. Nei soli Stati Uniti circa 600.000 interventi di bypass sono stati attuati con successo nell’anno 2002. Non ci sono dunque dubbi sulla portata terapeutica del bypass. G. Dobrilla: Chirurgia-placebo: sorprese e problemi etici Tuttavia, non può non sconcertare il fatto che la riduzione del dolore anginoso risultava della stessa entità anche prima del 1970, quando gli innesti vascolari erano scadenti, meno o non funzionanti e quando l’ECG e i test di perfusione non rivelavano alcun miglioramento dell’irrorazione cardiaca7,8. Come spiegazione si è invocato l’effetto placebo o la possibile necrosi di zone miocardiche ancora vitali, e quindi potenzialmente algogene o, ancora, la enervazione attuata involontariamente in corso di intervento. Chirurgia-placebo in patologia extracardiaca La chirurgia-placebo non manca di stupire anche in patologie extracardiache. Studi controllati ne suggeriscono infatti i beneficî in molti altre malattie. La tabella 3 sintetizza i risultati di uno studio controllato contro placebo in pazienti affetti da dolori addominali persistenti. Il confronto era tra la lisi praticata previa laparoscopia delle aderenze endoaddominali (ipotizzate a seguito di pregressi interventi sull’addome e ritenute responsabili dei dolori), ed il placebo rappresentato in questo caso dalla sola laparoscopia senza lisi alcuna delle aderenze. Dalla tabella 3 risulta che il sensibile miglioramento rilevabile in circa un terzo dei pazienti è ascrivibile alla laparoscopia di per sé e non alla lisi delle aderenze9. Tabella 3. - Lisi “vera” e lisi “falsa” delle aderenze in 100 pazienti con dolori addominali persistenti. Risultato Scomparsa del dolore Qualità della vita Lisi vera Lisi falsa 27% 27% Molto migliorata Molto migliorata Nella tabella 4 sono invece riportati i risultati di uno studio controllato in doppio cieco condotto con trattamento artroscopico contro placebo in pazienti affetti da artralgia del ginocchio secondaria a gonartrosi: anche in questa esperienza l’intervento per via endoscopica condotto secondo due modalità risulta non più efficace del non intervento10. Tabella 4. - Trattamento artroscopico “vero” e “falso” in 165 pazienti affetti da artrosi del ginocchio. Punteggio medio del dolore A 12 mesi A 24 mesi Rimozione Semplice artroscopica lavaggio detriti endoscopico intra-articolari 51,7 51,4 54,8 53,7 Incisione cute (placebo) 48,9 51,6 71 Analoga dimostrazione di non superiorità di procedure chirurgiche o endoscopiche o comunque invasive rispetto a trattamenti-placebo o non-trattamenti emerge da altri trial placebo-controllati condotti in pazienti sofferenti di gomito del tennista (placebo a 6 mesi meno efficace, ma a 12 mesi più efficace della fisioterapia e del cortisone intraarticolare)11, o affetti da ernia del disco (pazienti con rachialgie e sciatalgia diventati asintomatici dopo semplice esposizione ma senza alcun trattamento dei dischi vertebrali, risultati tra l’altro privi di alterazioni)12. «Piano col bisturi!» I risultati relativi alla chirurgia-placebo, non hanno un significato generale e assoluto e analoghi interventi per analoga patologia potrebbero anche risultare significativamente più efficaci del placebo in altre mani chirurgiche, dato che – particolarmente in chirurgia – l’abilità, l’esperienza ed il carisma dell’operatore possono giocare un ruolo molto importante e talora decisivo. Queste segnalazioni fanno tuttavia riflettere e insegnano ad evitare interpretazioni semplicistiche e sicurezze indebite. E aiutano soprattutto a esigere di essere informati dal proprio medico, o dal chirurgo chiamato eventualmente in causa, in modo esauriente e dettagliato prima di accettare di sottoporsi ad una procedura chirurgica o comunque invasiva, tanto più quanto più la patologia risulta oggettivamente poco rilevante. Forse anche questo era uno dei messaggi che voleva lanciare un quasi introvabile libro di più di 30 anni fa dall’inquietante titolo: «Piano col bisturi!»13. Anche la chirurgia, insomma, al di là delle emergenze che impongono una decisione immediata, deve non accontentarsi di un razionale anche se di per sé plausibile, ma deve cercare quando possibile le prove della propria efficacia. Naturalmente, e purtroppo, gli studi controllati contro placebo nel caso di trattamenti di tipo chirurgico sollevano problemi peculiari, in primis questioni di tipo etico, contrassegnate da posizioni alquanto contrastanti ampiamente dibattute in letteratura14-17. Problemi etici Le questioni sono “esasperate” principalmente dal fatto che la chirurgia-placebo è inevitabilmente contrassegnata da un carattere invasivo. L’anestesia, l’endoscopia o il bisturi del chirurgo, cui anche il gruppo placebo viene sottoposto, sono evidentemente cosa ben diversa dal placebo costituito da un finto farmaco. Una pregiudiziale invalicabile, comunque, è che il consenso del paziente sia veramente e particolarmente informato e che siano massimamente esplicitati non solo i beneficî ma anche i rischi potenziali sia del previsto atto chirurgico che della sua mancata attuazione. 72 Recenti Progressi in Medicina, 97, 2, 2006 C’è chi è tuttavia dell’avviso che «le obiezioni etiche non supportano una proibizione assoluta all’uso della chirurgia-placebo quando essa risulti metodologicamente necessaria per poter rispondere a quesiti clinici di grande rilevanza»15. Evidentemente i limiti etici entro cui si deve o si dovrebbe muovere la chirurgia-placebo sono di definizione complessa, da un lato estesi da un possibile eccesso di spregiudicatezza e, dall’altro, limitati da un eccesso di prudenza e di garantismo, eccessi che influenzano negativamente la decisione terapeutica la quale - invece – non deve essere né precipitosa né ritardata. Per i già citati editorialisti del New England Journal of Medicine15, negli studi riguardanti procedure chirurgiche non richieste da situazioni di emergenza, un confronto contro placebo dovrebbe doverosamente essere condotto prima del diffondersi di queste terapie come trattamenti standard, dato che un “successo di pubblico” può essere decretato da fattori molto diversi da quelli che solo contano: e cioè l’efficacia e la sicurezza nell’interesse del paziente. Non si può del resto ignorare che in un bilancio etico equilibrato deve essere attentamente considerata anche la grave ineticità di anestesia e di atti chirurgici, che non sono mai privi di rischi, attuati senza prova della loro efficacia. Molto indicativo al riguardo è il problema recentemente sollevato da una “nuova” terapia del morbo di Parkinson. Tale nuova strategia non farmacologica e invasiva prevede l’innesto bilaterale – guidato stereotatticamente – nella substantia nigra del corpo striato, di cellule staminali fetali, previa perforazione della scatola cranica18. Queste cellule embrionarie dopaminergiche agirebbero in quanto capaci di proliferare e quindi di sostituire i neuroni dopaminergici rarefatti nella substantia nigra dei malati di Parkinson. Ciò determinerebbe un significativo incremento nel corpo striato di dopamina, mediatore alla cui riduzione principalmente si attribuiscono i sintomi neuromuscolari del Parkinson19. Ebbene, gli stessi chirurghi che, anche sulla scorta di altri trial aperti, avevano ipotizzato l’efficacia di questa terapia intracranica, attuavano pochi anni dopo uno studio placebo-controllato randomizzato ed in doppio cieco di 24 mesi su 34 pazienti suddivisi in tre gruppi di trattamento: due gruppi ricevevano l’innesto bilaterale di cellule fetali, rispettivamente da uno e quattro donatori, mentre nel gruppo placebo, dopo la craniotomia, non veniva attuato alcun innesto20. Il risultato complessivo non era significativamente a favore dell’innesto e gli autori avanzavano fondati sospetti che i risultati potessero in gran parte conseguire al solo effetto placebo, concludendo che «fetal nigral transplantation currently cannot be recommended as a therapy for PD based on these results». Sono comprensibili le riserve di chi inorridisce che in questo trial i pazienti del gruppo placebo, anche se consenzienti, avessero subìto una trapanazione del cranio non seguita da innesto di staminali nel putamen, ma anche le riserve di chi inorridisce che trapanazione cranica e innesto in profondità di cellule fetali siano effettuati in pazienti parkinsoniani senza una chiara prova di beneficî e con il non improbabile rischio di conseguenti effetti peggiorativi. Soprattutto questa preoccupazione giustificherebbe uno studio placebo-controllato in tali pazienti e ne garantirebbe pienamente l’eticità21. Le perplessità al riguardo non fanno che aumentare dopo che recenti ricerche italiane dimostrano come anche i pazienti con morbo di Parkinson possano rivelarsi buoni placebo-responders quando sollecitati ad avere aspettative favorevoli dal trattamento22. Conclusioni Dopo aver definito a priori paletti morali ben precisi e ben ponderati nell’interesse inviolabile dell’individuo che deve comunque essere protetto da ogni circuizione, dovrebbero esserci riserve circa la necessità, quando ciò fosse possibile anche sotto il profilo etico, di convertire suggestioni, opinioni o ipotesi in prove convincenti. A questi imperativi non dovrebbe sottrarsi alcuna disciplina medica o chirurgica tradizionale (e, tanto meno, la medicina cosiddetta complementare/alternativa), se l’obiettivo è quello di traghettare qualsiasi terapia dal versante della magia, dell’arte e della semplice plausibilità a quello della scienza. Sembra adatta, come chiusa, la riflessione di un autorevolissimo neuroscienziato, Vilayanur Ramachandran23: «La speculazione teorica è legittima, purché conduca a previsioni verificabili e purché l’autore chiarisca quando sta pattinando sul ghiaccio sottile della teoria e quando procede sulla terra ferma». Bibliografia 1. Dobrilla G. 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