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REPORT sul conflitto israelo-palestinese.
Prospettive per la risoluzione e la riconciliazione.
Il contesto storico.
Coordinamento: Marcello Flores
Gruppo di lavoro: Barbara Bertoncin
Sara Valentina Di Palma
Francesco N. Moro
Siena, 5 novembre 2005
Questo Report costituisce un tentativo di fare il punto, prevalentemente sul
terreno storico, delle problematiche connesse al conflitto israelo-palestinese.
Si è voluto fornire una sorta di cronologia storica ragionata e fortemente
problematizzata per permettere di leggere le vicende odierne con una
conoscenza riassuntiva ma indispensabile degli avvenimenti. Questi sono
stati analizzati prevalentemente attraverso una schematica sintesi dei fatti e il
punto di vista e la percezione che ne hanno avuto i principali attori e
protagonisti.
Le parti in corpo più grande costituiscono il filo conduttore necessario ad
avere un quadro d’insieme succinto ma indispensabile; quelle in corpo più
piccolo dei tentativi di approfondimento e ampliamento della narrazione.
Pur presentando tutte le problematiche connesse al conflitto e i punti di vista
differenti esistenti, questo Report ha cercato di offrire un’informazione su tutto
lo spettro delle problematiche affrontate dai protagonisti del conflitto. Su
questa base sarà possibile, se lo si riterrà opportuno, affrontare un’indagine
più approfondita su alcuni aspetti che possono costituire non solo elementi di
analisi ma indicazioni di comprensione e intervento più puntuali (ad esempio il
tema della riconciliazione: che potrebbe meritare in futuro un’analisi
comparata con esperienze già svolte o in corso di svolgimento in diverse parti
del mondo).
M.F.
Le origini
1.1 ALCUNE DEFINIZIONI
Il termine Palestina deriva dal popolo dei filistei e indica in origine la
zona a nord e sud di Gaza; nella Bibbia compare come Peleshet ma gli ebrei
chiamano il paese Eretz Israel – la Terra di Israele che prende tale nome dal
patto stretto da Moshe con la divinità durante la fuga dall’Egitto – o Giudea e
Israele (i due regni successivi alla morte di re Salomone). Sono i romani a
chiamare Palestina, dal 63 prima dell’Era Corrente, la nuova provincia che
annettono ai territori da essi amministrati.
Fino alla fine del mandato britannico sulla Palestina, palestinesi sono
chiamati gli autoctoni sia ebrei sia arabi, anche se sotto gli inglesi il termine
arabo inizia a connotare sempre più i musulmani e i cristiani di lingua araba
rispetto agli ebrei – che soprattutto con l’immigrazione di massa precedente la
seconda guerra mondiale sono sempre meno arabi e sempre più askenaziti
europei in fuga dal nazismo ed impropriamente identificati con i sionisti.
Arabi non sono solo gli ebrei palestinesi di lingua araba, ma anche tutti
gli ebrei delle cosiddette comunità orientali - le Edot ha Mizrah del Nord Africa
e dell’Asia, impropriamente chiamate sefardite e che in gran parte
immigreranno in Israele negli anni Cinquanta. Palestinesi ma non arabi sono,
invece, gli autoctoni di altre comunità come armeni, greci, siriani, etiopi,
templari.
Sino al 1948, sionisti sono coloro che hanno l’ideale politico di costruire
lo stato ebraico, mentre una volta nato lo Stato di Israele si definiscono come
sionisti quanti riconoscono che esso non appartiene solo ai suoi cittadini ma a
tutto il popolo ebraico. Israeliani sono invece tutti coloro che detengono la
cittadinanza dello stato di Israele, indipendentemente dalla loro appartenenza
etnica, linguistica e religiosa. È quindi israeliano, ad esempio, un ebreo
yemenita (delle Edot ha Mizrah, quindi arabo), come un druso, un armeno, un
cristiano arabo, un musulmano arabo, un greco ortodosso (cristiano ma non
arabo), eccetera.
La nascita del nazionalismo palestinese, inteso come opposizione antibritannica e
antisionista, risale all’inizio delle immigrazioni sioniste a fine Ottocento ma si sviluppa in pieno
dopo il primo conflitto mondiale, quando da un lato la dichiarazione Balfour del 1917 e l’inizio
del mandato britannico nel 1922, dall’altro la crescente immigrazione degli ebrei in fuga dal
nazionalsocialismo incrinano gli equilibri geopolitici dell’area.
Il progetto di costruire un’entità nazionale palestinese, infatti, è una risposta al
movimento coloniale sionista in Palestina e avanza con il crollo dell’impero ottomano e con la
spartizione colonialista del mondo arabo, per crescere quando il peso del sionismo in
Palestina prende ad essere riconosciuto internazionalmente. Iniziano ora ad esserci
palestinesi consapevoli di una propria identità specifica in quanto palestinesi e in quanto
arabi. Senza costruire un progetto per la futura società palestinese, l’elite si impegna in
questo periodo solo a contrastare l’immigrazione ebraica e a non riconoscere il diritto agli
ebrei di fondare un proprio stato in Palestina.
1.2 LA DIVISIONE DELLA PALESTINA E LA NASCITA DI ISRAELE
Il contesto.
La nascita dello stato di Israele e’ da molti punti di vista un evento legato
all’azione politica delle grandi potenze, con importanti ripercussioni sullo
scenario regionale. Per questo, una pure concisa ricapitolazione degli eventi
che hanno portato alla creazione di Israele e’ necessaria per comprendere il
ruolo degli attori esterni nella questione palestinese. La questione della
Palestina, abitata da Arabi ed Ebrei (circa un terzo della popolazione che
possedeva il 6% della terra) e luogo di rivolte e scontri, sotto mandato
Britannico dalla fine della Prima Guerra Mondiale e con la dissoluzione
dell’impero ottomano, fu oggetto di una delle prime azioni delle neonate
Nazioni Unite. Nel 1947 viene costituita l’UNSCOP (United Nations Special
Committee on Palestine) al fine di preparare un piano per la partizione della
terra fra i due popoli.
Due Modelli di Partizione. Nel frattempo, le Grandi Potenze pur non presenti
nell’UNSCOP (tale presenza, era l’opinione degli stessi Stati Uniti, avrebbe
messo in dubbio la “neutralita’” della Commissione) avevano elaborato delle
loro visioni sulla questione palestinese. In realta’, le proposte dell”UNSCOP
riflettono, almeno fino ad un certo punto, queste visioni ed in particolare quella
americana, che gia’ nel 1946 riteneva che la soluzione consistesse nella
formazione di due Stati e nella neutralizzazione di Gerusalemme. La
posizione della Gran Bretagna si discostava tuttavia almeno in parte per
quanto riguarda la percezione degli interessi in gioco nell’area. Il piano
Morrison-Grady, formalmente congiunto ma in realta’ preparato dal Foreign
Office britannico, che proponeva una soluzione federale basata piuttosto sulla
autonomia provinciale piuttosto che la creazione di due unita’ autonome, fu
infatti rigettato dal presidente Truman.
Il piano dell’UNSCOP (piano 181),1 presentato il 31 agosto 1947, fu approvato
dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 29 novembre dello stesso
anno, con una netta maggioranza (33-13, con 10 astenuti) ma con
l’opposizione degli stati arabi ed islamici rappresentati. Il piano prevedeva la
formazione di uno Stato di Israele (esteso sul 55% della terra della Palestina)
e di uno Stato Arabo Palestinese (vedi Mappa in appendice) che includesse
tra l’altro lo West Bank, la Striscia di Gaza (collegata all’interno da un
corridoio all’interno), una ampia parte della terra fertile al centro e la
internazionalizzazione di Gerusalemme sotto la guida di un governatore che
non fosse ne’ arabo ne’ ebreo. Una minoranza all’interno dell’UNSCOP aveva
proposto la creazione di uno stato federale composto dalle due comunita’
politiche araba ed ebraica.
Il Conflitto Arabo-Israeliano 1948-9. I giorni seguenti l’adozione del piano
furono caratterizzati da un escalation di violenza a Gerusalemme che
sfuggono al controllo britannico e la cui crescente intensita’ porta la Gran
Bretagna a ritirarsi dalla zona in corrispondenza con la scadenza del mandato
(e ben prima che il piano della partizione fosse portato a termine), il 14
maggio 1948, cui segue immediatamente la proclamazione della nascita dello
Stato di Israele. A questo evento segue una polarizzazione delle posizioni
degli attori internazionali. Stati Uniti ed Unione Sovietica riconoscono
immediatamente lo Stato di Israele, mentre i paesi arabi dichiarano il loro
supporto (…). Lo scontro “interno” diviene cosi’, come lo sara’ a piu’ riprese
negli anni successivi, il teatro di una guerra che coinvolge direttamente i paesi
arabi (Libano, Egitto, Siria, Transgiordania) e in maniera diversa le due
superpotenze emerse dalla seconda guerra mondiale.
Conseguenze interne. Il conflitto, concluso l’anno seguente con la vittoria
israeliana, ridisegna il problema palestinese nel suo contesto interno ed
internazionale. A livello interno, la sconfitta araba segna l’impossibilita’ per la
popolazione araba palestinese di costruire un proprio stato. Con il conflitto, lo
Stato di Israele si espande sul 78% del territorio palestinese, mentre la
Striscia di Gaza e lo West Bank sono occupati rispettivamente da Egitto e
1
Partecipanti UNSCOP (1947): Australia, Canada, Cecoslovacchia, Guatemala, India, Iran, Olanda,
Peru, Svezia, Uruguay, Yugoslavia.
Transgiordania. La sconfitta crea anche il problema dei rifugiati (circa 700000)
ai quali viene impedito il ritorno nelle proprie terre e che popolano da allora
campi di rifugiati e che rimane un problema costante del processo di pace. Lo
status di Gerusalemme, divenuta con la guerra capitale (1950) del nuovo
stato, resta parimenti un nodo centrale di qualsiasi tentativo di risoluzione del
conflitto.
Conseguenze internazionali. A livello internazionale, la nascita di Israele si
intreccia a molti temi. In primo luogo, l’incapacita’ delle Nazioni Unite di
funzionare come agente efficace di cambiamento, piuttosto che
semplicemente come forum internazionale. Le varie attivita’ promosse anche
durante il conflitto, fra le quali spicca il lavoro dell’inviato Folke Bernadotte (il
mediatore delle N.U. in Palestina), hanno funzione di intervento ‘umanitario’
piuttosto che di risoluzione politica. Lo stesso si puo’ dire per il lavoro della
UNRWA (Nations Relief and Works Agency for Palestine Refugees in the
Near East). Il lavoro di implementazione anche di quelle proposte che sono
condivise e’ infatti lasciato agli stati che sono capaci di agire sul campo, e
quindi in ultima analisi alla loro volonta’. Il ritiro britannico e’ esemplare di
questa tendenza. Del resto, tale ritiro segna la progressiva erosione del
potere della Gran Bretagna nell’area. Il ruolo centrale viene presto assunto
dagli Stati Uniti, che tuttavia in questo caso non possono (e’ il momento di
ritiro dagli impegni della seconda guerra mondiale) o non vogliono (perche’
non hanno ancora chiara l’importanza strategica dell’area, o perche’ non
vogliono sbilanciarsi troppo verso Israele, data l’importanza dei paesi Arabi
come fornitori di petrolio) essere protagonisti diretti nella regione. Ambiguo e’
anche il ruolo dei paesi arabi, che in ultima analisi, dopo aver sostenuto con le
armi la causa dello “Stato unito della Palestina”, hanno annesso (nel caso di
Egitto e Transgiordania) al loro territorio parte della Palestina. La questione
dell’espansione territoriale di questi stati, anche in funzione di contrappeso
alla crescente superiorita’ militare di Israele, diventa un ulteriore fattore di
complicazione nel risolvere il problema dello stato palestinese.
1.3 CONFLITTO ARABO-ISRAELIANO E QUESTIONE PALESTINESE
Per numerosi aspetti la guerra dei Sei Giorni ha caratteristiche a sé nel
panorama dei quattro conflitti arabo-israeliani del 1948 (guerra di
indipendenza, secondo la definizione israeliana), 1956 (guerra di Suez), 1967
(appunto, guerra dei Sei Giorni) e 1973 (guerra del Kippur), soprattutto per la
rapidità della vittoria israeliana nonostante l’inferiorità numerica delle proprie
forze in campo e per le conseguenze politiche e sociali della vittoria stessa2.
Alla provocazione egiziana costituita dal blocco navale del canale di Aqaba – unico
accesso al porto israeliano di Eilat attraverso il Mar Rosso – e dal contemporaneo
schieramento delle truppe egiziane nel Sinai, gli israeliani rispondono con un attacco a
sorpresa, la mattina del 5 giugno 1967, che distrugge in poche ore l’aviazione di Siria, Egitto
e Giordania.
A causa della tracotanza degli egiziani sicuri di vincere la guerra senza difficoltà Siria
e Giordania intervengono in ritardo; forti della supremazia aerea e puntando sul fattore
velocità per impedire il collegamento tra le forze arabe, in tre giorni le truppe di terra
israeliane conquistano il Sinai, la cosiddetta West Bank e la parte giordana di Gerusalemme
(7 giugno); infine l’esercito israeliano penetra nel siriano Golan e giunge a 45 kilometri da
Damasco.
Da circa 22.000 kilometri quadrati, in soli sei giorni Israele si trova a controllarne oltre
100.000; la sua popolazione musulmana passa da 200.000 a oltre un milione di abitanti; le tre
capitali arabe nemiche sono tutte a meno di 100 kilometri dalle truppe israeliane e per la
prima volta il paese si sente non soltanto sorpreso della propria efficacia bellica, ma anche in
una posizione di forza inedita e difficilmente scalfibile.
La vittoria israeliana porta all’occupazione del Sinai, della Striscia di Gaza
(Egitto), dello West Bank (Giordania), e delle Alture del Golan (Siria),
incrementando notevolmente il territorio israeliano ed aumentando la
popolazione araba sotto il diretto controllo di Israele di circa un milione di
persone. Tale cambiamento demografico non ha carattere soltanto
quantitativo, ma rappresenta anche la base del ‘salto qualitativo’
nell’organizzazione della popolazione palestinese.
Le Nazioni Unite mantengono una posizione ambigua, emanando una
risoluzione (la 242 del 22 novembre 1967) in cui si parla genericamente di
rispetto per la sovranità, l’integrità territoriale e l’indipendenza politica di ogni
stato dell’area.
Mentre gli stati arabi continuano a rifiutare il riconoscimento di Israele, gli israeliani
pongono come condizioni per la pace negoziati diretti e formali con ogni singolo governo
2
Sul conflitto arabo-israelo-palestinese si possono consultare, oltre ai testi discussi in
bibliografia, anche B. KIMMERLING, J. S. MIGDAL, I Palestinesi: la genesi di un popolo, ed.
it., Milano, La Nuova Italia, 1994 (ed. or. 1993); X. BARON, I Palestinesi. Genesi di una
nazione, ed. it., Milano, Baldini & Castoldi, 2002 (ed. or. 1984); D. FROMKIN, Una pace
senza pace: la caduta dell’impero ottomano e la nascita del Medio Oriente moderno, ed. it.,
Milano, Rizzoli, 2002 (ed. or. 1991; prima ed. it. 1992); A. GRESH, Israele, Palestina. La
verità su un conflitto, ed. it., Torino, Einaudi, 2004 (ed. or. 2002). Quest’ultimo testo è però
fazioso e sposa spesso acriticamente la causa palestinese.
arabo, nonché un progetto di pace per l’intera area e il ritiro dai territori non secondo il
progetto di spartizione ONU del 1947 ma sulla base dei nuovi confini.
Sul piano internazionale, per la prima volta l’Unione Sovietica rompe le relazioni con
Israele (riallacciate solo negli anni Novanta) equiparando il sionismo al razzismo sino a
rendersi complice di un nascente antisemitismo, e decretando la convergenza tra
panarabismo e comunismo; i palestinesi si emancipano sempre più dai paesi arabi che hanno
3
poco interesse nell’affrontare seriamente il problema dei rifugiati e dei profughi – oltre
700.000 in Giordania, oltre 300.000 a Gaza, più di 160.000 in Libano e quasi 145.000 in Siria
–; l’opposizione araba ad Israele muta da anticolonialista e antimperialista a politico-islamica,
decretando la penetrazione del fanatismo religioso e del concetto di guerra santa tra le
masse.
La guerra del 1967 offre anche un chiaro quadro del posizionamento internazionale riguardo
al conflitto. Stati Uniti e in maniera minore Gran Bretagna sono apertamente schierati con
Israele, mentre l’Unione Sovietica fornisce armi e aiuti ai paesi arabi. Questa netta
contrapposizione si ripercuote anche nelle Nazioni Unite. La risoluzione 242 del 22 novembre
1967 rappresenta questa necessita’ di compromesso fra le parti. Se da un lato viene
richiamata l’illegalita’ dell’occupazione israeliana e la necessita’ del ritiro dalle zone occupate,
dall’altro tale ritiro viene condizionato alla rinuncia da parte di tutte le parti di pretese sulle
altre e sulla garanzia reciproca del rispetto dell’integrita’ territoriale e indipendenza politica.
Benche’ la risoluzione 242 e i negoziati che sono seguiti non abbiano portato a soluzioni, tale
atto rimane centrale nella gran parte delle proposte internazionale per la risoluzione del
conflitto arabo-israeliano, ed inevitabilmente in qualsiasi tentativo di risoluzione della
questione palestinese, in quanto i territori ‘redenti’ sono almeno in parte gli stessi su cui uno
stato palestinese potrebbe sorgere.
OLP e Paesi Arabi. L’Organizzazione per la Liberazione della
Palestina e’ costituita dal Consiglio Nazionale Palestinese (CNP, il
‘parlamento’ palestinese in esilio) formalmente all’inizio degli anni ’60 come
‘ombrello’ delle varie organizzazioni palestinesi, e si dota di un esercito
(Esercito per la Liberazione della Palestina). Nato nel 1964 dalla fusione di
varie correnti tra cui prevale il Movimento di Liberazione Palestinese Al Fatah
fondato nel 1959 da Arafat, nel 1967 l’OLP diviene il referente politico di quasi
tutti i gruppi in lotta per l’indipendenza palestinese e dal 1969 è presieduto da
Arafat stesso, il quale determina un salto di qualità nella lotta anti israeliana.
Alla base di tale ‘rinascita’ di un diretto attivismo palestinese sta
principalmente la convinzione da parte dei leader delle diverse formazioni
palestinesi che la promozione della causa dello stato palestinese dovesse
diventare primaria di fronte alle resistenze degli altri stati arabi (dimostrate
con le annessioni del 1949) e al fallimento dei tentativi di ‘unificazione’ della
nazione araba (nel 1961 fallisce l’unificazione, durata tre anni, fra Siria ed
Egitto con la Repubblica Araba Unita). La costituzione di una entita’ autonoma
in questo contesto preoccupa alcuni stati, in particolare la Giordania, che
teme, nonostante le iniziali indicazioni contrarie presenti nel primo statuto
3
Sulla distinzione tra rifugiati e profughi palestinesi si veda il paragrafo Problemi aperti.
dell’OLP (1964), che questa organizzazione possa ambire a controllare lo
West Bank, allora territori giordano. La creazione di uno Stato Palestinese
diviene l’obiettivo primario dell’OLP.
La sconfitta degli stati arabi nella guerra del 1967 e l’inclusione, con un ruolo
di guida, dell’organizzazione Fateh (fra i cui leader emergeva Yasir Arafat)
nell’OLP segnano un cambiamento qualitativo rilevante nella strategia
dell’organizzazione. Se il supporto degli stati arabi veniva considerato
centrale, per quanto problematico, per la costruzione di uno stato palestinese
nei primi anni di vita dell’organizzazione, l’adozione della guerriglia (anche
sostenuta dagli stati arabi) diventa il principale strumento di lotta. La nuova
autonomia dell’OLP diventa presto problematica per gli stati arabi, ed in
particolare per la Giordania, che conteneva la gran parte dei rifugiati
palestinesi e sede dell’OLP. Il “settembre nero” in Giordania (1970), che
coincide con l’attacco da parte di re Hussein del quartier generale palestinese
ad Amman e di alcuni campi di rifugiati testimoniano l’opposizione netta di
uno stato arabo che si trova a convivere con l’OLP, uno ‘stato nello stato’. A
queste azioni segue una guerra, che coinvolge anche la Siria, segue
l’espulsione di molti rifugiati palestinesi e della leadership verso il Libano e, in
parte, verso lo West Bank israeliano.
OLP e Comunita’ Internazionale. Il problema palestinese, inteso non piu’
soltanto come questione umanitaria legata ai rifugiati, ma come piu’ ampio
problema legato alla ricerca da parte del popolo palestinese di una propria
autonomia politica emerge nelle Nazioni Unite a partire dalla fine degli anni
’60 e poi, con piu’ forza, negli anni ’70. In una risoluzione (3237) del 22
novembre 1974, l’Assemblea Generale riconosce il diritto del popolo
palestinese all’autodeterminazione e, un mese dopo, lo status di ‘osservatore’
viene riconosciuto al’OLP. Nel 1975, viene istituita una “Commissione per
l’esercizio dei diritti inalienabili del popolo palestinese”. Le raccomandazioni
che emergono dai lavori della commissione indicano nel diritto al ritorno dei
rifugiati alle loro abitazioni e nel riconoscimento al diritto di indipendenza e
sovranità’ nazionale palestinese le due strade da percorrere nel processo di
pace.
Il rapporto con gli Stati Uniti in questi anni e’ al contrario condizionato dagli
eventi che occorrono in Libano a partire dal 1973, e che vedono la
disintegrazione dello stato ed una violenta guerra civile in cui intervengono a
piu’ riprese molti attori esterni, Siria ed Israele in primis. Fra il 1977 e il 1978
il Segretario di Stato americano Cyrus Vance, in due viaggi in Medio Oriente,
riconosce l’importanza della risoluzione 242 come punto di partenza per i
negoziati, e il ruolo dell’OLP come interlocutore principale in qualsiasi
negoziato ed accordo sulla pace nella regione, insieme alle altre nazioni
arabe. Anche se Arafat sembra disposto ad accettare (pure con modifiche) la
proposta di massima americana, il perdurare del conflitto, la divisione interna
alla leadership dell’OLP, il rischio che i gruppi piu’ radicali emergano, e
l’importanza del sostegno sovietico (in funzione di contrasto al rapporto Stati
Uniti-OLP) alla resistenza palestinese in Libano fanno sfumare la possibilita’
di procedere in accordo con gli Stati Uniti.
Nel frattempo, il controllo militare dei territori conquistati nel 1967 diviene sempre più
dispendioso e difficile a causa della crescente resistenza palestinese, che si manifesta prima
sotto forma di scioperi, poi con la guerriglia armata dei fedayin (quelli che si sacrificano:
combattenti con basi in Giordania da cui fanno incursioni in Israele) che per lo più aderiscono
all’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, l’OLP. Fino al 1970, l’OLP rifiuta
qualsiasi risoluzione politica e la sua lotta viene condotta militarmente dai fedayin, ma dopo il
sanguinoso “settembre nero” – quando re Hussein di Giordania attacca i campi profughi
palestinesi nel suo territorio per ridimensionare l’autonomia dei fedayin massacrando la
guerriglia palestinese – i fedayin rimasti riparano in Siria e in Libano, e alla tattica delle
incusioni in territorio israeliano prevale la linea dell’esportazione della violenza antisionista e
antiebraica all’estero, culminata con la strage della squadra olimpica israeliana a Monaco nel
settembre 1972 per mano del gruppo armato Settembre Nero, sorto in memoria della strage
di due anni prima. Dal 1973 si aggiungerà anche una componente politico-ideologica, volta a
rivendicare l’autonomia del popolo palestinese.
Anche in Israele i cambiamenti causati dalla guerra dei Sei Giorni sono molteplici:
nascono movimenti politico-religiosi, poi convogliati nel Gush Emunim (Blocco della Lealtà,
creato nel 1967 e istituito formalmente nel 1974) che sostengono la commistione di politica e
religione e premono per l’invio di coloni nelle terre annesse; con il tempo anche i religiosi più
moderati si lasceranno affascinare dalla lettura messianica della vittoria israeliana intesa
come segno divino e indizio verso il ritorno degli ebrei su tutto il territorio biblico. La questione
del diritto naturale all’esistenza di Israele inizia inoltre ad essere posta nei termini di legittimità
della guerra per preservare l’indipendenza nazionale.
Il movimento mondiale giovanile del 1968 acquista in Israele toni particolari in seguito
alla Guerra dei Sei Giorni e favorisce anche qui l’emergere di gruppi prima marginalizzati che
iniziano ad avanzare richieste di parità di diritti, dagli omosessuali alle donne. Gli ebrei
orientali, soprattutto yemeniti, i musulmani israeliani, gli ultrareligiosi fanno parte di quanti
emergono e acquistano lentamente il consenso dell’opinione pubblica.
Molti dei luoghi dal 1967 in mano ad Israele, prima tra tutte la parte orientale di
Gerusalemme con la città vecchia e il Kotel (il Muro Occidentale del Tempio) per quasi
vent’anni sotto il controllo giordano, sono tacitamente annessi nella convinzione che in quanto
luoghi sacri debbano essere protetti e custoditi nonostante l’ostilità del mondo intero; il
sentimento di isolamento nel contesto internazionale favorisce l’emergere di atteggiamenti
solidali nei confronti dei primi coloni, che simbolicamente riscattano gli ebrei assassinati nei
pogrom musulmani degli anni Venti, Trenta e Quaranta – nel 1948 a Gush Etzion a sud di
Bethlehem, nel 1929 a Hebron.
Alla fine di giugno del 1967 la Knesset appoggia la creazione di insediamenti ebraici
nei territori, in particolare nel Golan, lungo la valle del Giordano, nelle colline intorno a
Gerusalemme, nella depressione di Rafiah a nord-est del Sinai. Tra il 1967 e il 1973 sorgono
45 centri abitati; inizia a farsi strada l’idea che l’occupazione dei territori possa essere
permanente, anche perché sembra realizzarsi la Grande Israele biblica comprendente il
Giordano. Tuttavia, se dopo il 1967 i laburisti concedono la creazione di insediamenti con le
giustificazioni più svariate, dalle indagini archeologiche alle escursioni temporanee, è solo
dopo il 1977 che la colonizzazione assumerà caratteri programmatici.
1.4 GUERRA DEL KIPPUR E SUMMIT DI GINEVRA
Il nuovo attacco stabilito nel settembre 1973 da Egitto, Siria e
Giordania con l’aiuto della Libia è sferrato a sorpresa il 6 ottobre 1973, giorno
della più sacra e solenne festa ebraica, l’espiazione di Yom Kippur in cui tutta
la vita pubblica del paese si ferma. L’Egitto invade il Sinai e la Siria il Golan,
ma gli israeliani riescono velocemente a riprendersi sia contrattaccando nel
Sinai sia giungendo a 30 kilometri da Damasco. Di fronte alla minaccia dei
paesi dell’OPEC (Organization of the Petroleum Exporting Countries) di un
rincaro del greggio per tutti i paesi filo israeliani, le grandi potenze intimano ad
Israele di fermare l’avanzata.
La risoluzione 338 del 1973, con cui il Consiglio di Sicurezza che invita al
cessate il fuoco nella guerra dello Yom Kippur (l’ultimo confronto diretto fra
Egitto ed Israele) ribadisce con una formula legalmente piu’ vincolante (e’ una
“decisione” del Consiglio di Sicurezza, non una “risoluzione”) l’importanza
della risoluzione 242 nel processo di pace, e viene da quel momento citata
accanto a tale risoluzione negli incontri fra le parti. La conferenza di pace a
Ginevra che segue le ostilita’, comunque, non vede la partecipazione
dell’OLP, e non segna passi avanti nel processo di pace.
Nonostante la vittoria, più lenta e faticosa del previsto e con un
consistente numero di perdite umane (quasi 3.000 su 3 milioni di abitanti), in
Israele l’opinione pubblica e i militari contestano la superficialità con cui
segnali preparatori della guerra non erano stati presi sufficientemente in
considerazioni dal ministero della difesa e per la prima volta dalla guerra dei
Sei Giorni il paese non si sente più invulnerabile.
Il governo laburista di Golda Meir è costretto alle dimissioni e anche il
carisma del ministro della difesa Moshe Dayan ne esce sgretolato. Inoltre, il
paese si ritrova di nuovo politicamente isolato a livello internazionale, anche
per il ricatto della sospensione di forniture petrolifere. Le ingenti spese militari
e la diminuzione delle esportazioni a causa dell’embargo sui prodotti israeliani
fiaccano l’economia causando un’inflazione tale da costringere il governo
Rabin a svalutare la moneta nel 1974 e nel 1975.
Mentre la visibilità
internazionale di Arafat cresce e l’Olp viene
riconosciuta da numerosi governi, sul piano diplomatico la nuova risoluzione
delle Nazioni Unite n. 338 ribadisce quanto espresso nella precedente 242
senza apportare nessun contributo sostanziale, mentre l’accordo più
importante è raggiunto nel gennaio 1974 tra Israele ed Egitto e rinnovato a
dicembre nella conferenza di pace di Ginevra.
Le due parti si impegnano a rispettare la tregua, Israele a togliere
l’assedio a Suez e l’Egitto a riaprire il canale. La ripresa delle relazioni
diplomatiche tra Egitto e Israele è sancita dalla coraggiosa decisione del
presidente egiziano Mohammed Anwar al-Sadat di recarsi nel 1977 a
Gerusalemme e di parlare alla Knesset invocando una pace duratura. Lo
stesso anno, per la prima volta alle elezioni il partito di destra Likud, nato nel
1973 (e in cui sono confluiti l’Herut fondato nel 1948 dallo stesso Begin e il
Partito Liberale nato nel 1961) sconfigge i laburisti dopo trent’anni di dominio
ininterrotto.
Anche in Israele iniziano a levarsi molteplici voci che chiedono la pace:
nel 1978, 348 militari scrivono una lettera aperta al nuovo primo ministro
Menahem Begin per dichiararsi contrari alla creazione di insediamenti oltre la
linea verde, e danno vita al primo movimento pacifista israeliano, Shalom
Ahsciav (pace adesso), che porta 10.000 persone a manifestare per la pace
con l’Egitto.
Con la mediazione del presidente americano Jimmy Carter, nel
settembre 1978 Sadat incontra per la prima volta Begin a Camp David e nel
marzo del 1979 entrambi firmano il trattato di pace, che sancisce la reciproca
distensione e la restituzione del Sinai all’Egitto – con lo smantellamento delle
colonie ebraiche sorte nel frattempo e la smilitarizzazione del territorio. Da
parte sua, l’Egitto riconosce il diritto all’esistenza dello stato di Israele e
garanzie per il confine meridionale, assicurando che non dispiegherà truppe
nella zona. Israele si impegna a restituire parte della West Bank, attraverso
trattati a parte con gli altri governi arabi che siano disposti ad intavolare
trattative.
Nonostante dal 1947 si tratti della prima possibilità di negoziare sulla
questione palestinese, nessuno tra i paesi arabi accetta, e anzi l’Egitto viene
estromesso dalla Lega Araba – alleanza politica, economica e militare dei
paesi arabi nata nel 1945 in senso antisionista – per aver intrapreso relazioni
con Israele. Inoltre, Sadat pagherà tale passo con la morte, nel 1981, per
mano del fondamentalismo islamico dei Fratelli Musulmani.
Tra il 1975 e il 1977, anche la Comunità Europea riprende rapporti
commeciali con Israele, mentre da parte palestinese la conseguenza della
distensione tra Israele ed Egitto è la ripresa della guerriglia e del terrorismo,
sia in Israele sia all’estero. Due successi politici internazionali per i paesi arabi
sono l’esclusione di Israele dall’Unesco nel 1974 grazie al peso delle
pressioni arabe e terzomondiste, e l’anno seguente la risoluzione ONU 3379
che condanna il sionismo come forma di razzismo.
1.5 DALLA PRIMA INTIFADA AGLI ACCORDI DI OSLO
Gli Accordi di Camp David (1978). La pace fra Egitto ed Israele firmata a
Camp David nel 1978 monopolizza la scena mediorientale fra la fine degli
anni ’70 e l’inizio degli anni ’80. Si risolve con Camp David la principale fonte
di conflitto internazionale in Medio Oriente dalla seconda guerra mondiale,
cioe’ la relazione fra Israele e la potenza guida del mondo arabo, l’Egitto, che
ancora nel 1973 si erano scontrate (guerra dello Yom Kippur). Gli accordi di
Camp David contengono anche un riferimento alla risoluzione 242 delle
Nazioni Unite e alla questione di Gaza e dello West Bank. A proposito di
questi ultimi, l’accordo rappresentava una cornice all’interno della quale il
‘vero’ accordo, concluso non solo fra Israele e ed Egitto ma anche con
rappresentanti palestinesi e giordani, sarebbe consistito in un processo di
transizione basato sull’elezione di rappresentanti degli abitanti delle due aree,
che avrebbero poi deciso quale forme dare al proprio auto-governo. Accanto
a cio’ le parti avrebbero riconosciuto il diritto alla sicurezza da parte di Israele.
Per quanto gli eventi in Libano abbiano impedito la realizzazione di questa
parte del piano di pace, i tre elementi periodo transitorio, auto-governo
palestinese e sicurezza di Israele rimarranno cruciali nei tentativi successivi di
soluzione del conflitto.
OLP e Israele nell’intreccio libanese. Nel piu’ specifico contesto della
questione palestinese, il problema principale e’ l’espansione delle colonie
ebraiche nello West Bank e nella Striscia di Gaza sotto l’impulso del ministro
dell’Agricoltura e poi della Difesa israeliano Ariel Sharon. Accanto a questo,
rimane centrale il conflitto aperto che le forze israeliane combattono con
quelle palestinese (ed altre) al confine col Libano (che costituisce la base per
le operazioni palestinesi nel nord d’Israele). L’intervento di Israele, limitato nel
1978 ad una parziale occupazione dell’area di confine col Libano, si trasforma
nel 1982 in un intervento militare diretto col fine di distruggere le strutture
militari dell’OLP la sua leadership. Nel frattempo, la diplomazia internazionale
e’ attiva nel cercare di portare aiuti in Libano e cercare di interrompere lo
stallo creatosi con l’assedio israeliano di Beirut: nell’agosto 1982 una forza
multinazionale sotto l’egida delle Nazioni Unite contribuisce a negoziare
l’interruzione dell’assedio in cambio dell’evacuazione della leadership
palestinese, che viene trasferita in Tunisia il 1 settembre dello stesso anno. In
questo periodo, la proposta dell’Arabia Saudita (1981) che chiedeva il ritiro di
Israele dai territori occupati nel 1967, in cambio del riconoscimento al diritto
“per tutti gli stati della regione di vivere in pace”, che pure e’ il primo tentativo
di conciliazione da parte araba (Egitto escluso) non ha possibilita’ di
successo, persa fra le divisioni della comunita’ araba e internazionale e la
totale mancanza di comunicazione e fiducia fra Israele e OLP.
In Israele la vittoria del Likud, meno propenso al dialogo rispetto ai laburisti, porta ad
un’involuzione politica tale da portare Begin a sostenere che l’autonomia palestinese può
riguardare il profilo amministrativo ma non quello territoriale, essendo quel suolo sacro per
ogni ebreo.
Pare persino che saputa la vittoria del proprio partito alle elezioni del 1977 Begin
abbia esclamato “Non una, ma cento Elon Moreh!”, riferendosi alla colonia di Nablus fondata
nel 1973 da sionisti religiosi intenzionati ad insediarsi in tutti i territori sacri menzionati nella
Bibbia. Non più West Bank dunque, ma le bibliche Giudea-Samaria. Ed Eretz Israel, la Terra
di Israele, non si tocca.
Il Likud, attraverso il ministro della difesa Ariel Sharon e dell’edilizia David Levy,
teorizza anzi l’esproprio dei terreni pubblici non coltivati nella West Bank e la creazione di 75
nuovi insediamenti ebraici e i coloni ricevono sostegno economico e agevolazioni fiscali. Le
colonie, inoltre, sono autorizzate all’autodifesa militare e sono potenziate le infrastrutture per
favorire gli insediamenti.
Nel 1980 la Knesset vota una legge che dichiara Gerusalemme capitale unica ed
indivisibile dello stato di Israele. Nel 1981 gli israeliani annettono definitivamente il Golan; a
tale data si sono estesi sul 30% del territorio della West Bank, triplicando la popolazione
ebraica nella zona sino alle 20.000 unità. Al posto delle colonie nel ceduto Sinai, dunque, il
governo si adopra per nuove colonie nel Golan e nella West Bank.
La tensione tra Israele e paesi arabi riesplode in Libano nel 1982, nel contesto di una
guerra civile iniziata già nel 1974 e in cui ai contrasti politico-religiosi interni si sommano le
interferenze delle tensioni regionali. Già nel 1978 Israele, in risposta all’ennesimo grave
attentato terroristico, era penetrata in Libano per smantellare le basi del terrorismo
palestinese e per arginare le mire siriane sul territorio anche in vista dell’instaurazione di un
governo cristiano filo israeliano. L’attentato all’ambasciatore israeliano a Londra segna
l’avvio, il 6 giugno 1982, della cosiddetta operazione “Pace in Galilea” voluta dal governo
Begin e dal ministro della difesa Sharon con l’intento di garantire il controllo israeliano in
Libano lungo la frontiera con Israele ed impedire i continui attacchi dei fedayin alla Galilea.
Gli israeliani penetrano in Libano sino alla periferia di Beirut, dove i palestinesi si
sono asserragliati e rifiutano di arrendersi, e l’operazione militare israeliana si trasforma in
una vera e propria guerra culminata nel massacro efferato ad opera dei falangisti maroniti
cristiano-libanesi (cui gli israeliani lasciano via libera) di migliaia di profughi palestinesi nei
campi dei quartieri di Sabra e Chatila, nella notte tra il 16 e il 17 settembre 1982.
La scoperta del massacro sconvolge l’opinione pubblica europea che si scatena
inopportunamente in un attacco indiscriminato contro Israele cui fanno seguito numerosi e
violenti episodi antisemiti, mentre in Israele il governo nomina una commissione di inchiesta
che esclude ogni partecipazione attiva israeliana al massacro, ma accusa di averlo favorito o
di non aver fatto nulla per impedirlo il ministro della difesa Sharon, costretto a dimettersi, oltre
al ministro degli esteri Ytzhak Shamir, allo stesso primo ministro Begin e al capo di stato
maggiore e ai vertici militari.
Il coinvolgimento militare israeliano in Libano costituisce per molti israeliani un
“Vietnam israeliano”, sia per l’elevato numero di vittime nello Tzahal fino al ritiro del 2000, sia
per l’indignazione contro i massacri di Sabra e Chatila e la nascita di una accesa opposizione
al conflitto. Nel 1983, a causa delle pressioni interne e delle critiche internazionali, anche il
primo ministro si dimette.
Come afferma lo storico israeliano Benny Morris,
E’ chiaro che l’obiettivo di “quarant’anni di pace” lungo la frontiera col Libano, cui
miravano Begin e Sharon, era stato completamente mancato. A breve termine,
l’invasione danneggiò Israele nella guerra di propaganda combattuta sulle pagine dei
giornali e degli schermi televisivi dell’Occidente, anche se non compromise in modo
permanente la reputazione del Paese. Inoltre creò una profonda e aspra divisione in
4
seno alla società, e lasciò il governo e i militari con un senso di fallimento .
Negli anni seguenti, la truppe israeliane di stanza in Libano divengono oggetto di
attacchi regolari da parte dei fedayin palestinesi e dei musulmani libanesi, sino a comportare
negli anni un numero di vittime israeliane superiore alle perdite subite in tutte e quattro le
guerre israelo-palestinesi sommate, mentre il controllo siriano sul paese cresce.
All’intervento israeliano in Libano i palestinesi rispondono con
l’esportazione e la diffusione internazionale del terrorismo – i fatti più eclatanti
riguardanti l’Italia sono l’attentato alla sinagoga di Roma nel 1982, il
dirottamento della nave Achille Lauro con l’assassinio di un passeggero ebreo
americano anziano e invalido nel 1985 (e la crisi diplomatica con gli Stati Uniti
nella base Nato di Sigonella dove il governo italiano rifiuta di consegnare gli
attentatori agli americani), l’attentato all’aeroporto di Fiumicino nel dicembre
dello stesso anno.
La guerra in Libano crea per la prima volta in Israele la nascita di
un’opinione pubblica contraria al conflitto, interpretato come non necessario e
provocato. Non era mai accaduto che numerosi soldati rifiutino di andare al
4
In B. MORRIS, Vittime. Storia del conflitto arabo-sionista 1881-2001 , ed. it., Milano, Rizzoli,
2001 (ed. or. 1999), p. 696.
fronte e siano messi agli arresti; che un colonnello, Eli Geva, chieda di essere
rimosso dal comando perché non accetta la presa di Beirut con la forza; che
un dimostrante pacifista di Shalom Ahsciav, Emil Grinzweig, sia ucciso da un
estremista di destra in una manifestazione di massa senza precedenti, che
vede la partecipazione di 400.000 israeliani ad una protesta per il massacro di
Sabra e Chatila.
Alle elezioni del 1984 si presenta un nuovo partito ultrareligioso, lo Shas (Guardiani
della Torah), primo schieramento apertamente orientale – costituito da ebrei delle Edot ha
Mizrah.
Le sue politiche populiste, i suoi attacchi al laicismo, il suo sistema sociale di scuole e
aiuti finanziari per la popolazione ebraica povera e soprattutto la sua difesa della tradizione
ne decretano un successo inaspettato e soprattutto mostrano all’opinione pubblica come
decenni di malcontento degli ebrei orientali – insoddisfatti per un inserimento insufficiente
nella società israeliana in cui sono immigrati dall’inizio degli anni Cinquanta – siano sfociati in
una profonda spaccatura tra askenaziti ed ebrei orientali.
Le elezioni sono vinte dai laburisti di Shimon Peres, che però non riesce a costruire
una coalizione stabile e opta per un governo di unità nazioanale con il Likud, guidato ora da
Shamir – in base all’accordo, Peres è premier per i primi due anni e Shamir ministro degli
esteri, e viceversa per il biennio successivo. Il governo laburista decide il ritiro dal Libano,
dove però viene lasciata una presenza militare per 30 kilometri entro il confine. Per arginare
la crisi economica e l’inflazione, negozia inoltre con le parti sociali alcune misure di controllo
salariale e dei prezzi.
Per quanto riguarda invece il processo di pace, se nei primi due anni la gestione
laburista riesce a contenere i fondi destinati agli insediamenti ebraici e intavola trattative
informali e private con la Giordania per la questione dei rifugiati e dei profughi, il successivo
biennio gestito dal Likud interrompe le trattative. Anche dalle elezioni del 1988 non emerge
alcuna maggioranza forte e Likud e laburisti sono costretti ad un secondo governo di unità
nazionale.
Ad infiammare la tensione con la popolazione palestinese interviene un fattore
esterno, vale a dire la decisione di Hussein di Giordania, esasperato sia dall’intransigenza
dell’OLP e dalla sua condotta terroristica, sia dall’opposizione della destra israeliana alle
ipotesi di accordo, di rompere le relazioni con Arafat – già in difficoltà per il contrasto con il
neonato movimento rivale di Hamas (ardore, ma anche acronimo di Movimento Islamico per
la Resistenza), una commistione di socialismo e tradizione coranica sostenitore della violenza
politica, sorto a Gaza con il sostegno dei paesi del golfo e vicino ai Fratelli Musulmani come
5
già il Jihad Islamico per la Palestina – e contemporaneamente di tagliare i finanziamenti alle
comunità palestinesi della West Bank.
INTIFADA
L’intifada e’ una rivolta spontanea che si sviluppa dal 1987 nei territori
israeliani abitati dalla popolazione palestinese (principalmente, West Bank e
Gaza), come forma di protesta contro l’espansione delle colonie israeliane e
5
Tra le organizzazioni sorte per la lotta anti israeliana e dedite al terrorismo, oltre a Hamas e
al Jihad per la Palestina Islamica (PIJ), si ricordano la Guardia Rivoluzionaria di Fatah (FRC),
il Comando Generale del Fronte per la Liberazione della Palestina (PFLP – GC) e le Brigate
dei Martiri di Al Aqsa. Tra i movimenti e i partiti, alcuni dei quali hanno fatto uso del
terrorismo, vanno menzionati il marxista-leninista Fronte Popolare per la Liberazione della
Palestina (PFLP), il Fronte Democratico per la Liberazione della Palestina (DFLP), il Fronte di
Liberazione Arabo (ALF), il Fronte Popolare per la Lotta Palestinese (PPSF), il Partito
Comunista Palestinese (PCP) e il Fronte di Liberazione Palestinese (PLP).
la brutalita’ dell’esercito israeliano nel mantenere l’ordine in quelle aree.
Presto la protesta, venata da sentimenti nazionalistici, viene sostenuta
dall’OLP. L’escalation della violenza, che presto trasforma la protesta in una
guerriglia strisciante alla quale si affiancano atti di terrorismo (in questo
periodo emerge con forza l’organizzazione radicale Hamas), puo’ essere
interpretata come risposta da parte della leadership e della popolazione
palestinese (o di una parte di questa) al crescente sentimento di abbandono
della causa nazionale palestinese da parte degli altri stati arabi, percepiti
come interessati principalmente a mantenere lo status quo territoriale e nei
loro rapporti con Israele e con il principale alleato israeliano, gli Stati Uniti.
L’intifada rappresenta un’occasione per l’OLP per asserire nuovamente la sua
leadership sul movimento palestinese, e uscire dal limbo e dall’inattivita’ che
seguono l’esilio di Tunisi. Nel 1988, un documento che riconosce il diritto alla
sicurezza per Israele insieme a quello ad una terra per il popolo palestinese
viene presentato dai vertici dell’OLP al Summit della Lega Araba ad Algeri.
Questa posizione permette un riavvicinamento dell’OLP ai regimi ‘moderati’
egiziano e giordano e in seguito agli Stati Uniti. Di seguito alla rinuncia da
parte della Giordania di qualsiasi rivendicazione sullo West Bank, il Consiglio
Nazionale Palestinese proclama la costituzione dello Stato Palestinese.
Queste proposte si scontrano con l’opposizione del governo israeliano
guidato da Shamir (leader del Likud, il partito principale della destra
israeliana), che continua a far fronte alla rivolta nei territori occupati.
Nata per caso a seguito di un incidente stradale in cui un camion addetto al trasporto
di carri armati urta alcuni pulmini di pendolari palestinesi uccidendone quattro e alcuni ragazzi
palestinesi reagiscono lanciando sassi contro i soldati israeliani, l’intifada canalizza la
decennale percezione palestinese di un’occupazione umiliante. La radicalità, la rapida
diffusione e l’organizzazione della protesta, che in poche settimane si diffonde in tutti i villaggi
palestinesi, sorprende sia Israele sia i vertici stessi dell’OLP.
La disobbedienza civile si diffonde in tutte le classi sociali; oltre 70.000 lavoratori
scioperano paralizzando soprattutto l’agricoltura israeliana e la popolazione si ribella non
pagando più le tasse e boicottando l’economia israeliana. In Israele le ripercussioni sono
serie, sia per la crescita delle spese militari sia per il calo del turismo sia infine per la perdita
della manovalanza palestinese.
Il lancio di sassi contro i militari israeliani diviene il principale strumento della lotta
palestinese, e Hamas evita inizialmente le armi da fuoco sapendo bene che su tale terreno gli
israeliani sono in vantaggio, e soprattutto che la vera arma è la copertura massmediatica del
conflitto – grazie alla quale il sostegno dell’opinione pubblica occidentale va prevedibilmente
alla causa dei palestinesi, spesso neppure adolescenti, armati di sole pietre contro la potenza
dell’esercito israeliano.
A questo tipo di lotta di stampo simile alla guerriglia, inoltre, i militari israeliani sono
impreparati e reagiscono in maniera talvolta spropositata rispetto agli attacchi dell’intifada,
sino a giungere ad alcuni pestaggi di palestinesi. Di solito lo Tzahal cerca di non sparare ai
bambini nemmeno con proiettili di plastica, ma spesso durante le sollevazioni la gran parte
dei lanciatori di sassi ha tra i sei e i quattordici anni.
Anche se nel corso dei primi tre anni i palestinesi contano oltre 700 vittime e gli
israeliani oltre 100, per i palestinesi il maggior successo dell’intifada consiste proprio nella
sua risonanza internazionale e nella diffusione della simpatia per la causa palestinese nel
mondo, accelerando il processo che porta il Consiglio nazionale palestinese, nel novembre
1988 ad Algeri, alla dichiarazione simbolica della nascita di uno stato palestinese a Gaza e
nella West Bank con Gerusalemme capitale. A Ginevra Arafat, con una tanto abile quanto
ambigua dichiarazione, afferma di accettare le risoluzioni ONU 242 e 338 ma allo stesso
tempo non cancella dalla Carta palestinese il proposito di annientare Israele.
Le dichiarazioni di Arafat sono comunque accolte con soddisfazione nello scenario
internazionale, tanto che sia gli Stati Uniti di Regan accettano di incontrare l’OLP, sia l’Unione
Sovietica di Gorbacev interpreta positivamente il nuovo corso e intraprende i primi passi per
riavvicinarsi ad Israele – con cui l’Unione Sovietica non ha rapporti dal 1967.
Con l’intifada Israele si trova invece a dover fronteggiare, per la prima volta dalla
creazione del paese, da un lato una lotta non contro stati arabi ma contro musulmani locali,
dall’altro il dilemma tra le ragioni di sicurezza che impongono il controllo militare nei territori e
la comprensione che la presenza nella West Bank deve mutare forma ed entità per non
essere e non apparire un dominio coloniale. Anche in seno all’esercito si scontrano due
fazioni, una contraria all’uso eccessivo e indiscriminato della forza contro la popolazione civile
palestinese e in particolare contro donne e bambini, e l’altra promotrice di una linea dura in
cui spesso nella violenza sono incanalate paura, frustrazioni personali, vendetta, odio,
sicurezza dell’impunità e senso di potere su gente indifesa.
Alcuni toni della protesta palestinese, ad ogni modo, fanno pensare agli israeliani che
il problema non sia solo la contesa sui territori, ma l’esistenza stessa dello stato di Israele,
dato che i palestinesi iniziano proprio ora a celebrare annualmente il lutto della nakba –
catastrofe: la fondazione dello stato ebraico – al posto della simultanea festa di indipendenza
di Israele, Yom Atzmaut.
Nel 1989, il governo Shamir approva una proposta di pace che prevede tra l’altro
libere elezioni nei territori, ma nei due anni successivi alcuni attentati terroristici palestinesi
non condannati dall’OLP congelano le trattative tra le due parti e le tensioni in seno alla
politica israeliana portano il partito Laburista di Peres ad uscire dal governo di unità nazionale
nel 1990, mentre il Likud risponde alla violenza palestinese accentuando la penetrazione
israeliana nella West Bank.
L’episodio più grave non per il numero di vittime ma per il significato simbolico
antiebraico che assume è, l’8 ottobre 1990, il lancio di pietre dal Monte del Tempio (nome
ebraico per una zona sacra a musulmani ed ebrei, nota comunemente Spianata delle
Moschee) sui sottostanti ebrei in preghiera al Muro Occidentale in occasione della festa
ebraica di Sukkot – tra l’altro, alla repressione della polizia israeliana fa seguito una condanna
delle Nazioni Unite, che criticano Israele ma non anche i palestinesi, secondo la logica di
6
tenere unito in seno all’ONU stessa il fronte anti iracheno nella seconda guerra del Golfo .
NEGOZIATI A MADRID (1991).
La rottura del processo di pace si compie definitivamente proprio con
l’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq nell’estate del 1990. Il sostegno
acritico della popolazione palestinese e dell’OLP al regime iracheno di
Saddam Hussein, che all’inizio del 1991 lancia missili sulle città israeliane pur
non essendo in guerra con Israele, fa perdere alla causa palestinese le
simpatie internazionali sorte con l’intifada.
6
La guerra occorsa nel 1991 tra una coalizione di 29 Paesi capeggiati dagli USA e Iraq.
Seconda, ovviamente, considerando come prima guerra del Golfo quella scoppiata tra Iran e
Iraq negli anni 1980-1988; la terza guerra del Golfo sarà invece quella del 2003 tra un’altra
coalizione guidata dagli Stati Uniti e Iraq.
La Guerra del Golfo del 1991 e’ l’evento che sembra cambiare questa
situazione di stallo, con profonde divisioni che caratterizzano le politiche sia
dell’OLP di fronte al rischio di perdere il controllo dell’Intifada a favore di
organizzazioni radicali sia di Israele (la divisione fra partito laburista e Likud)
che degli Stati Uniti, dove un’apertura alle posizioni palestinesi era stata fatta
dall’amministrazione americana (che aveva dichiarato la sua opposizione a
nuove installazioni dei ‘coloni’). Il supporto dato dall’OLP a Saddam Hussein
priva l’organizzazione dei fondi dei paesi arabi (in particolare Kuwait e Arabia
Saudita) e la indebolisce fortemente dal punto di vista politico: i rappresentanti
palestinesi invitati alla conferenza di pace in Medio Oriente a Madrid non
fanno parte dell’OLP (per quanto almeno in parti si coordinino con Arafat).
Madrid vede in ogni caso per la prima volta la partecipazione diretta delle due
delegazioni isrealiana e palestinese. Ma i risultati maggiori della conferenza
sono relativi alle relazioni arabo-israeliane (fra cui il trattato di pace fra
Giordania ed Israele), mentre non vengono fatti passi avanti nella questione
palestinese.
Grazie anche alla mancata risposta militare israeliana alle provocazioni irachene,
l’appoggio delle superpotenze va ad Israele, tanto che nel 1991 riprendono ufficialmente le
relazioni con l’Unione Sovietica – da cui, tra l’altro, iniziano ad immigrare in Israele numerosi
ebrei prima impossibilitati dal comunismo sia a professare la propria fede sia a lasciare
l’URSS per emigrare in Israele.
La guerra del Golfo segna un’importante svolta strategica nella percezione israeliana
della questione mediorientale: i missili iracheni fanno comprendere di essere sotto tiro e che il
pericolo può venire anche da lontano, non solo dai paesi immediatamente confinanti. Un
processo di pace con i palestinesi sembra la sola possibilità di instaurare buoni rapporti
anche con tutti i vicini arabi e di mantenere la sicurezza sia dei confini sia più in generale
dell’intera area.
Il nuovo corso nelle relazioni con Israele e nella volontà internazionale di risolvere il
conflitto israelo-palestinese è ben espresso dalla conferenza di pace indetta a Madrid per la
fine del 1991: qui Bush, Gorbacev e i rappresentanti di Israele, Libano, Siria e giordanopalestinesi avviano un dialogo volto a trovare un accordo per il Medio Oriente. Con la
conferenza di Madrid cambiano le modalità della lotta palestinese: diminuisce la portata
dell’intifada (che continuerà sino al 1993), mentre aumenta il terrorismo fondamentalista che
mira ad ostacolare il processo di pace.
Mentre a Madrid i rappresentanti palestinesi e libanesi appaiono più moderati –
interessa ai primi discutere la situazione dei profughi dal 1967, ai secondi il ritiro dell’esercito
israeliano dalla zona di sicurezza in Libano – più intransigente è la Siria, disposta a trattare
solo dopo il ritiro israeliano dal Golan. Shamir chiede invece il riconoscimento dello Stato di
Israele da parte di tutti i paesi confinanti, mentre appare disposto sia a mutare parzialmente la
politica degli insediamenti sia ad ipotizzare una futura autonomia palestinese nei territori.
Nonostante tali aperture nei confronti dei palestinesi, la linea politica generale del
Likud in materia di creazione di insediamenti nella West Bank e a Gaza non cambia, e il
prezzo da pagare è la sconfitta elettorale nel 1992 (la più netta da quando la destra ha vinto
nel 1977), quando i laburisti di Rabin vincono le elezioni grazie soprattutto ai voti degli
immigrati dall’URSS, poco favorevoli ai partiti dell’estrema destra religiosa.
Il governo Rabin, attraverso il suo ministro degli esteri Peres, anche per porre fine
all’intifada riprende il dialogo iniziato senza molto successo a Madrid nel 1991; anche da
parte palestinese il timore di Arafat di non riuscire a controllare i gruppi fondamentalisti in
seno al movimento porta a cercare un’intesa con gli israeliani.
Una serie di incontri segreti svoltisi in Norvegia porta nell’agosto del 1993 alla stesura
della prima bozza di una “dichiarazione di principi” in cui Israele afferma di essere pronta a
ritirarsi da Gaza e da Jerico entro la fine dell’anno, e in altri cinque anni dalla West Bank – pur
mantenendovi il controllo giudiziario e sulla sicurezza interna. La dichiarazione è ratificata a
settembre da Al Fatah e approvata dal Comitato esecutivo dell’OLP che
contemporaneamente riconosce ad Israele il diritto a vivere in pace e in sicurezza, mentre a
sua volta Israele riconosce l’OLP come rappresentante del popolo palestinese. Sono infine
poste le basi per l’ANP, l’Autorità Nazionale Palestinese che ha l’incarico di svolgere le
funzioni provvisorie di governo nella West Bank e a Gaza.
OSLO(1): CONTESTO.
Non e’ tuttavia a Madrid, segnata dalle continue violenze nei territori ‘occupati’
(quelli corrispondenti alle conquiste israeliane del 1967) e in Libano (dove
Israele rimane presente militarmente) che si gioca la partita piu’ importante.
Dal 1993, una serie di negoziati segreti ha luogo ad Oslo. Il successo di
questi negoziati e’ dovuto principalmente a due fattori. Il primo e’ la
‘normalizzazione’ dei rapporti fra Israele e la gran parte dei paesi arabi, che
almeno in parte scioglie il complesso intreccio fra questione palestinese ed
interessi nazionali di questi paesi. Il secondo e’ la conclusione a cui giungono
sia gli Stati Uniti che Israele (sotto la guida del premier laburista Rabin) che
l’OLP, anche in un momento di debolezza, rimane l’interlocutore piu’
importante e piu’ affidabile per qualsiasi negoziato, anche al fine di isolare i
gruppi palestinesi piu’ estremisti che sono in prima linea nelle violenze di
questa fase dell’intifada. In questo contesto, Oslo nasce come dialogo
‘privato’ ed informale, sponsorizzato dal governo norvegese, fra
rappresentanti delle due parti, e gli accordi che vengono siglati sono il frutto
del dialogo che le delegazioni palestinese ed israeliana avevano avviato a
partire dal 1991 a Madrid. Gli accordi vengono ufficialmente firmati in una
cerimonia pubblica a Washington il 20 agosto 1993 da Shimon Peres e
Mahmoud Abbas, alla presenza di Arafat, Rabin, del presidente americano
Clinton, e di un rappresentante russo.
Oslo (2): Sinossi degli accordi.
Il principio generale che sta dietro agli accordi e’ quello “land for peace”, per
cui da un lato Israele riconosce il diritto del diritto palestinese all’autogoverno
sotto la neonata Autorita’ Palestinese (AP), mentre l’OLP dichiara di
riconoscere lo Stato di Israele e di rinunciare al terrorismo come strumento di
lotta politica. L’autogoverno sarebbe stato raggiunto con un periodo di interim
di 5 anni durante il quale lo status definitivo del governo sarebbe stato deciso.
•
Territorio: Israele si sarebbe ritirata da West Bank, Gaza, e dall’area di
Gerico. Nel periodo transitorio, West Bank e Gaza sarebbero state
divise in tre zone: zona A, sotto il controllo completo dell’AP; zona B,
sotto il controllo politico dell’AP e il controllo militare israeliano; zona C,
sotto il controllo israeliano.
•
Organizzazione politica: l’AP si sarebbe organizzata in modo
democratico, con elezioni libere sotto la supervisione di osservatori
internazionali. L’AP avrebbe costituito una propria forza di polizia per
garantire l’ordine pubblico nelle zone della sua giurisdizione, mentre la
difesa del territorio da minacce esterne sarebbe stata garantita da
Israele.
•
Dispute: una commissione congiunta si sarebbe formata per la
risoluzione delle dispute nell’esecuzione degli accordi e delle
controversie fra le parti.
Oslo II. Firmato a Oslo nel settembre 1995, l’Accordo Provvisorio sullo West
Bank e la Striscia di Gaza riconosce la creazione del Consiglio Palestinese
come organo dell’autogoverno palestinese, e la sua giurisdizione su
Betlemme, Hebron, Jenin, Nablus, Qalqilya, Ramallah, Tulkarm, e circa 450
villaggi.
LA STORIA RECENTE
2.1 DA OSLO A CAMP DAVID (2000)
Problemi degli Accordi di Oslo. Per quanto storici, gli accordi di Oslo
presentano numerosi problemi, alcuni dei quali sono in un’ultima analisi
all’origine della loro stessa crisi. Il dialogo di Oslo e’ basato su un dilemma
tipico dei negoziati del processo di pace: alcuni temi non sono inseriti negli
accordi perche’ porterebbero ad uno stallo, tuttavia senza la risoluzioni degli
stessi problemi, gli accordi non hanno molta possibilita’ di resistere a lungo. In
particolare, i principali problemi riguardano:
•
Il ritorno dei rifugiati dai paesi arabi nei territori sotto la giurisdizione
dell’Autorita’ Palestinese.
•
Lo status di Gerusalemme, dato che la parte est della citta’ fa parte dei
territori occupati dello West Bank.
•
Il futuro delle colonie israeliane nell’area.
•
L’esatta definizione dei confini delle aree sotto controllo dell’AP e di
Israele.
Accanto a questi problemi, la situazione economica in particolare dell’area di
Gaza rimane particolarmente critica, aggiungendo motivi di risentimento
economici a quelli di carattere politico.
Il ruolo dell’Unione Europea: cooperazione economica. Dal 1995,
l’Autorita’ Palestinese e’ inclusa negli accordi MEDA, che regolano la
cooperazione fra UE e paesi dell’area mediterranea. Questa data segna la
formalizzazione di un rapporto fra UE e questione palestinese il cui inizio e’
datato al 1971, con le prime donazioni dell’allora Comunita’ Europea
all’UNRWA. Nel 1981, la Comunita’ Europea aveva espresso nella
Dichiarazione di Venezia il suo sostegno alla causa palestinese, riconoscendo
il diritto all’auto-determinazione del popolo palestinese, e fornendo aiuti ad
organizzazioni non governative nei settori della salute, dell’agricoltura, della
formazione. Il ruolo dell’UE in questi anni si caratterizza per il contributo
economico (circa 1 miliardo di dollari fra il 1994 e il 2002, oltre a 500 milioni
donati all”UNRWA) che si lega al rafforzamento delle strutture organizzative
palestinesi.
Camp David. Fra il 1993 e il 2000, il processo di pace attraversa il momento
di massimo successo, che si rivela tuttavia destinato ad essere effimero. Nel
1998, il Wye River Memorandum, sponsorizzato dagli Stati Uniti, e’ diretto a
risolvere alcune delle questioni principali riguardo alla sicurezza israeliana,
con particolare riguardo al problema del terrorismo (che e’ riconosciuto ‘fuori
legge’ dalle parti) e stabilisce una serie di iniziative volte alla conciliazione
degli eventuali problemi fra le parti. Le forme di cooperazione previste sono
quella ‘bilaterale’ e quella ‘trilaterale’, nella quale a israeliani e palestinesi si
affiancano gli Stati Uniti. In questa fase, sotto l’impulso americano, le parti
sono piu’ volte portate a riavviare il dialogo e l’implementazione degli accordi
di Oslo. I quali, oltre che da alcune debolezze degli accordi stessi, sono
tuttavia anche minati da problemi interni alle parti. L’uccisione di Rabin nel
1995 ad opera di un radicale israeliano contrario agli accordi, l’elezione di
Benjamin Netanyahu del Likud (che si opponeva ad alcune concessioni fatte
da Rabin ad Oslo) segnalano le divisioni interne ad Israele sugli accordi di
pace e sulle priorita’ del processo di pace. Cosi’, da parte palestinese, la
leadership di Arafat, e la sua capacita’ di controllare i gruppi piu’ radicali che
si oppongono agli accordi e ricorrono al terrorismo, viene messa in dubbio.
Nonostante gli accordi di Oslo e di Wye River, infatti, gli anni fra il 1993 e il
2000 continuano ad essere segnati dalla spirale di violenza fra attentati
terroristici palestinesi e dure repressioni da parte dell’esercito e delle forze di
sicurezza israeliane.
Il summit a Camp David del luglio 2000 rappresenta l’estremo tentativo di
rivitalizzare gli accordi di Oslo ed il processo di pace. L’incontro che si svolge
fra il premier israeliano Ehud Barak ed Arafat nella residenza del presidente
americano Clinton. Il summit si conclude senza un accordo, e le parti, per
quanto riconoscano formalmente che le risoluzioni 242 (e 338) sono il punto
di partenza per ogni soluzione del conflitto, rimangono divise proprio sui
problemi irrisolti ad Oslo. La delegazione palestinese in particolare si oppone:
•
Al conferimento della ‘custodia’ del Monte del Tempio a Gerusalemme
(sul quale chiede la sovranita’).
•
Alla proposta americana ed israeliana sui territori occupati, che
prevedeva il mantenimento della sovranita’ israeliana su circa il 10%
dello West Bank e di una altra parte della Cisgiordania tramite una
clausola di affitto di lungo periodo.
•
Alla mancata risoluzione del problema dei rifugiati, di fronte alla non
accettazione da parte di Israele del “diritto di ritorno”, e d ella mancata
volonta’ di Israele di dichiarare formalmente la propria responsabilita’
nella creazione del problema.
Il primo accordo di Oslo, simboleggiato dalla stretta di mano tra Rabin e Arafat a
Washington, rappresenta una svolta storica nelle relazioni tra Israele e Palestina, che per la
prima volta si riconoscono reciprocamente come aventi diritto alla sovranità e alla sicurezza –
nel 1979 a Camp David si era parlato di autonomia ma non di sovranità. Ad accordi
successivi, previsti inizialmente per il 1998 e poi slittati all’estate del 2000, sono invece
rimandate per l’opposizione israeliana questioni più delicate come lo status di Gerusalemme
e degli insediamenti e il problema dei rifugiati e dei profughi – e quindi anche il
riconoscimento israeliano delle proprie responsabilità.
La Dichiarazione dei principi di Oslo, del resto, è ratificata dopo accesi dibattiti sia
nella Knesset sia nell’OLP, ed è seguita da violenze da ambo le parti – un regolamento di
conti uccide a Gaza e nella West Bank i due capi militari di Hamas ed esplode la protesta del
fronte del no avverso all’accordo con Israele; all’inizio del 1994 il colono Baruch Goldstein,
militante del partito fondamentalista ultrareligioso Kach uccide nella moschea di Hebron
ventinove palestinesi in preghiera; nel giugno 1994 in risposta agli attacchi continui degli
hezbollah (terroristi integralisti sciiti nati in Libano nel 1982 per scacciare gli stranieri) Israele
bombarda un campo di addestramento; a Buenos Aires i palestinesi mettono una bomba
nella sede di un’associazione israelo-argentina provocando numerosi morti.
Nonostante ciò e nonostante incomprensioni tra le parti sull’applicazione dell’accordo
– al Cairo, nel dicembre 1993 Arafat e Rabin non trovano un consenso sul ritiro dei militari
israeliani da Gaza e da Jerico – il senso della svolta storica è sancito sia dalla firma del
trattato di pace con la Giordania alla fine del 1994, sia tra 1993 e 1994 dal riconoscimento
reciproco tra Israele e Vaticano, e dall’avvio di relazioni diplomatiche tra i due paesi.
I successivi negoziati dell’aprile 1994 a Parigi e di maggio al Cairo portano
rispettivamente a definire i rapporti economici tra Israele e OLP e al piano per l’attuazione del
ritiro israeliano da Gaza e Jerico. Le truppe israeliane iniziano il ritiro, e il controllo delle due
aree passa in mano palestinese per la prima volta dal 1967.
La violenza palestinese si fa se possibile ancora più intensa con un attentato suicida
su un autobus a Tel Aviv nell’ottobre 1994; nella sconvolta Israele si riapre il dibattito
sull’opportunità dei negoziati di pace e la destra del Likud, insieme ai partiti ultrareligiosi,
inizia a sostenere la necessità della afradah (separazione; dunque non integrazione) e della
non concessione dei territori che appartengono ad Eretz Israel. Il governo chiude per qualche
settimana la striscia di Gaza e la West Bank, mentre Arafat viene accusato di ambiguità nei
confronti del terrorismo.
Nei territori amministrati dai palestinesi, del resto, esplodono tensioni tra Autorità
palestinese e gruppi integralisti islamici, tanto che in novembre Arafat contestato è costretto a
lasciare la moschea di Gaza e la polizia palestinese apre il fuoco sugli integralisti di Hamas,
sostenitori del Jihad (la guerra santa).
Anche i continui attacchi terroristici dell’inizio del 1995 – che si apre con un grave
attentato suicida vicino a Netanya, presso Bet Lid, davanti ad un carcere dove sono detenuti
numerosi palestinesi tra cui il leader spirituale di Hamas, lo sceicco paraplegico Ahmed
Yassin – dividono l’opinione pubblica israeliana e mettono a dura prova il processo di pace;
persino il presidente israeliano Ezer Weizmann, solitamente conciliante, chiede la
sospensione dei colloqui con i palestinesi.
Il governo Rabin promette misure di sicurezza straordinarie, tra cui il rafforzamento
della linea di demarcazione tra Israele e West Bank mediante la costruzione di una recinzione
metallica lungo i 500 kilometri di confine, misura che infiamma la destra che vi legge sia un
riconoscimento dei confini di un futuro stato palestinese, sia un’incuria per i coloni degli
insediamenti nella West Bank. Nonostante il crescente dissenso interno Rabin prosegue i
colloqui di pace, incontrandosi in febbraio al Cairo con Arafat, re Hussein di Giordania e il
presidente egiziano Muhammad Hosni Murarak.
Il problema principale da affrontare, tuttavia, non è tanto il rapporto tra Israele e OLP
nel processo di pace quanto il terrorismo islamico integralista su cui Arafat sembra non
riuscire ad esercitare controllo alcuno, come mostrano i continui attentati contro Israele che
sembrano impedire la firma dell’estensione dell’ANP nella West Bank.
Tuttavia, il cosiddetto secondo accordo di Oslo è ugualmente siglato a Taba e firmato
a fine settembre a Washington dopo dure trattative nella Knesset e forti tensioni nel Paese
che segnano l’isolamento politico di Rabin, accusato dalla destra del Likud, dal Gush
Emunim, dai movimenti ultrareligiosi extraparlamentari come il Kahane hai e dai coloni di
essere un traditore. In numerosi volantini Rabin appare in caricature che lo mostrano
travestito da arabo, in divisa nazista o abbracciato ad Arafat, per tutto l’anno il primo ministro
è chiamato pubblicamente traditore e accusato da alcuni rabbini e dagli avversari politici, tra
cui Sharon e Netanyahu, di cedere agli arabi le vite e i beni degli ebrei, di scegliere tra quali
ebrei proteggere e quali “dare in pasto ai cani”, di essere un Quisling.
Con l’accordo Oslo II del 1995, la West Bank è divisa in tre aree: l’area
A (il 18% della West Bank) completamente sotto il controllo dell’Autorità
Palestinese, l’area B (il 22%) con controllo congiunto israelo-palestinese per
la sicurezza, l’area C (il 60%, comprendente la gran parte delle risorse
agricole palestinesi e delle risorse idriche) sotto il completo controllo
israeliano.
Di fatto, il futuro stato palestinese è diviso in quattro aree: a nord quella
di Nablus e Jenin, al centro quella di Ramallah, al sud quella di Bethlehem e
Hebron, infine Gaza. In questo schema, Israele si espande dal 78% del
territorio che possiede dall’armistizio del 1949 – il territorio che l’ONU nel
1947 aveva diviso nel piano di spartizione assegnando il 54% agli ebrei e il
46% ai palestinesi, che con la guerra del 1948 si riduce al 22% per i
palestinesi – al 90%, mentre lo stato palestinese residuo resta confinato al
10% del territorio. Israele decide, inoltre, la chiusura permanente dei territori
per garantire la propria sicurezza, ma il provvedimento si rivelerà contro
producente in quanto accresce l’isolamento e la frustrazione palestinese.
Nonostante il clima teso con cui il paese ha accolto l’attentato suicida
vicino a Netanya su un autobus israeliano nel gennaio 1995 e i continui
successivi attacchi terroristici, gli accordi raggiunti da Ytzhak Rabin e Yasser
Arafat a Taba e ratificati a Washington a fine settembre dello stesso anno
(ulteriore ritiro israeliano da città palestinesi, secondo la linea intrapresa dagli
accordi del Cairo del maggio 1994 per il ritiro da Gaza e da Jerico) isolano
politicamente Rabin e provocano una violenta reazione del Likud di Benjamin
Netanyahu e dei piccoli partiti della destra estremista ultrareligiosa che
deridono e insultano pesantemente il primo ministro.
Ad ogni modo, il cosiddetto secondo accordo di Oslo firmato a
Washington e le successive proteste non lasciano neppure lontanamente
paventare che possa verificarsi l’assassinio di un ebreo israeliano – generale
della guerra dei Sei Giorni del 1967, premio Nobel per la pace nel 1994,
statista degli storici accordi di pace del 1994-1995 – per mano di un altro
ebreo israeliano. Da questo punto di vista, il 4 novembre 1995 segna non solo
una brusca interruzione del processo di pace, ma anche e soprattutto una
frattura emotiva nella società israeliana ad oggi non ancora sanata.
2.2 LA MORTE DI RABIN
La generazione degli adolescenti di allora, ricordando il 4 novembre
1995, tuttora si commuove per la morte del primo ministro per mano di Ygal
Amir, un giovane militante di uno dei tanti gruppi extraparlamentari
ultrareligiosi – forse Eyal, organizzazione ebraica combattente, o Mafdal,
partito religioso nazionale attivo dal 1956; ma anche per la violenza di quel
gesto, per il sangue di un ebreo israeliano versato da un altro ebreo israeliano
e per le implicazioni etiche e sociali che ne conseguono, infine per la
sensazione che qualcosa di importante e di fondamentale sia stato interrotto
bruscamente e senza possibilità di rimedio.
Pochi minuti dopo aver cantato l’inno pacifista Shir la Shalom con le
oltre 100.000 persone che erano giunte a Tel Aviv per unirsi nella più grande
manifestazione per la pace dalla guerra del Libano in Kikar HaMelachim (oggi
Kikar Rabin), il senso di costruire tutti insieme un futuro diverso si è infranto
sotto i colpi di Amir, costringendo a prendere atto che anche nel cuore della
società israeliana potesse essere coltivata la violenza contro Israele stessa.
Secondo la vedova dello statista, Lea Rabin, il marito è vittima di una trama eversiva
che ha come attori principali gli ultrareligiosi non disposti a cedere la sacra terra di Eretz
Israel di cui la West Bank fa parte, ma anche i leader politici della destra, Sharon e
Netanyahu per primi, che hanno assecondato il fondamentalismo ebraico per accrescere i
propri consensi, minando il sistema democratico israeliano.
Ancora da chiarire, in effetti, è il reale mandante politico dell’assassinio del primo
ministro, poiché è ormai accertato che Amir è stato un esecutore materiale, e forse neppure il
solo. In particolare, non è stata fatta luce sul ruolo dello Shin Bet (il servizio di sicurezza
interno) che non impedisce ad un noto e potenziale terrorista di appostarsi armato nelle
vicinanze del premier, non spara sull’attentatore come vorrebbe la prassi, non l’allerta
l’ospedale Ichilov sull’arrivo di Rabin ferito, tiene la moglie all’oscuro dei fatti conducendola
nella propria sede invece che all’ospedale, ha tra i propri dipendenti il migliore amico di Amir
e altrettanto pericoloso finanziatore di attività eversive, l’“Agente Champagne” Avishai Raviv.
Tuttavia, a nessuno interessa ricostruire la verità: la sinistra ha un comodo capro
espiatorio nell’ultrareligioso Amir ed è impegnata a formare il nuovo governo e a condurre la
campagna elettorale per le elezioni della primavera del 1996, mentre i coloni ultrareligiosi da
un lato negano di aver istigato Amir, dall’altro tendono a suggerire il ruolo dello Shin Bet
nell’organizzare l’attentato per incolpare la destra.
Rabin si è trovato, per primo, a dover contrastare insieme gli ultrareligiosi e i
nazionalisti più oltranzisti, entrambi portatori di un’idelogia antidemocratica e antioccidentale –
che tornerà alla ribalta nel 2004 e nel 2005 con l’opposizione al piano Sharon per il ritiro da
Gush Katif – che vede il rifiuto della equiparabilità tra Israele e qualsiasi altri stato, e il primato
della religione sulla politica.
La morte di Rabin, infine, simboleggia la vanificazione degli accordi di Oslo, che di
fatto non avviano un reale e duraturo processo di pace.
Oslo II segna teoricamente una tappa fondamentale nel processo di pace, poiché
stabilisce il ritiro israeliano dai territori conquistati nel 1967, anche se inizialmente solo dai
principali centri – Jenin, Nablus, Tulkarem, Kalkilya, Ramallah, Bethlehem, esclusa parte di
Hebron che essendo luogo sacro anche per gli ebrei è nodo cruciale e questione rimandata
insieme a Gerusalemme. Nel gennaio del 1996, inoltre, le prime elezioni libere palestinesi
indette grazie agli accordi di Oslo II vedono il prevalere di Al Fatah e dunque la vittoria della
linea moderata di Arafat, mentre Hamas e le altre formazioni più estremiste boicottano il voto.
Tuttavia, il processo di pace che deve iniziare con gli accordi di Oslo subisce nei fatti
rallentamenti e intoppi, sino ad arrestarsi di fronte alla recrudescenza del terrorismo
palestinese da un lato, della nuova linea dura del Likud che vince le elezioni del 1996
dall’altro.
La morte di Rabin colpisce la società civile moderata israeliana sia laica sia religiosa,
i palestinesi, gli occidentali, e pone Israele di fronte a dubbi laceranti sulla propria identità,
sulla stabilità della democrazia, sulla sanabilità delle molteplici fratture interne – sinistra e
destra, laici e religiosi e ultrareligiosi, askenaziti ed ebrei orientali, borghesi e proletari, ebrei e
cristiani e musulmani –, sul valore del sionismo e sulla contrapposizione tra neo e post
sionismo (rispettivamente di destra e di sinistra), sulla laicità dello stato e sul significato e le
caratteristiche dello status di ebreo.
Del resto, la percezione della minaccia è motivata dai continui e sanguinosi attentati
terroristici di Hamas che si intensificano nella primavera del 1996 a ridosso delle elezioni
israeliane – quattro attentati suicidi tra fine febbraio e inizio marzo a Gerusalemme e Askelon,
seguiti ad una settimana di distanza da un nuovo e devastante attentato suicida su un
autobus gerosolimitano ancora della linea 18, e neppure due giorni dopo un altro attentato
suicida presso il centro commerciale Dizengoff a Tel Aviv.
Le risposte del governo Peres appaiono troppo deboli, come screditato è anche
Arafat il quale solo dopo l’attentato di Tel Aviv condanna il terrorismo, procede ad alcuni
arresti, smantella le strutture di Hamas nelle moschee e dichiara fuori legge i gruppi armati.
In Israele tuttavia la violenza continua a causa delle incursioni degli hezbollah
sostenuti dall’Iran e del lancio di missili contro i civili in Galilea. Con l’operazione militare
Furore, alla fine di marzo del 1996 lo Tzahal penetra in Libano e si spinge sino a bombardare
i quartieri sciiti di Beirut. Per errore, gli israeliani colpiscono il campo ONU a Kefar Kana,
uccidendo un centinaio di civili libanesi che vi si erano rifugiati per sfuggire ai bombardamenti.
Solo alla fine di aprile Libano e Israele giungono ad un accordo per il cessate il fuoco.
All’incertezza della situazione, alla violenza e al trauma emotivo dell’assassinio di
Rabin, gli israeliani rispondono, alle elezioni di maggio votando per Netanyahu. Il Likud vince,
sia pure con pochi voti più dei laburisti, grazie ad una coalizione che include i partiti della
destra religiosa contrari al processo di pace, e soprattutto grazie ad una campagna elettorale
incentrata sul senso di paura e di minaccia alla sicurezza e ai confini.
Il nuovo governo Netanyahu, formato da uno schieramento assai vario e
comprendente i sionisti laici, i nuovi movimenti degli immigrati e i partiti dell’estrema destra
religiosa, conferma la priorità alla sicurezza e alla sovranità su Gerusalemme e continua ad
espandere gli insediamenti e a costruire dentro o vicino Gerusalemme Est, violando gli
accordi di pace. Sulla base dei criteri di sicurezza e di reciprocità riprendono tuttavia a Erez i
colloqui con Arafat, subito interrotti a fine settembre dallo scoppio di una nuova violentissima
protesta palestinese causata da un pretesto politico-religioso.
Il completamento del restauro del plurisecolare tunnel di Asmoneo sottostante il Muro
Occidentale, infatti, nonostante sia solo un passaggio turistico, non rivesta alcun significato
religioso e non tocchi la zona sacra per i musulmani, viene usato dagli estremisti di Hamas
per fomentare la popolazione a ribellarsi contro Israele; la protesta si estende ai territori con
scontri, morti e feriti. All’assalto di civili e militari palestinesi alla tomba di Josef a Nablus,
Netanyahu risponde inviando i carri armati; i palestinesi rispondono a loro volta con una
rivolta sanguinosa a Gerusalemme dopo la preghiera del venerdì alla moschea Al Aqsa.
Il processo di pace riprende comunque nel gennaio 1997, con
l’accordo di Erez su Hebron, che prevede il passaggio dell’80% del territorio al
controllo palestinese; una polizia congiunta israelo-palestinese avrà il compito
di vegliare sui luoghi santi. Tuttavia, la tensione sale nuovamente in
primavera, quando il governo israeliano decide di proseguire la costruzione a
Har Homa, un quartiere nei confini municipali a sud di Gerusalemme, nella
parte orientale (musulmana) della città – nonostante tale iniziativa non sia in
contrasto con i due accordi di Oslo, che rimandano la discussione sullo status
di Gerusalemme, comporta l’acquisizione di terra musulmana ed è pertanto
ritenuta illegale e osteggiata non solo dai palestinesi ma anche dagli Stati
Uniti e dall’Unione Europea.
Al divieto di immettere la propria popolazione nel territorio occupato di
un altro stato, sancito dal diritto internazionale, Israele ha sempre opposto
l’affermazione della ‘provvisorietà’ dell’occupazione e della ‘legalità’ delle
colonie – sulla base di un’interpretazione discrezionale delle leggi di
pianificazione territoriale risalenti al mandato britannico e tuttora vigenti: le
terre sono definite agricole e quindi non edificabili; le abitazioni palestinesi ivi
costruite sono considerate illegali ed abbattute, ma Israele si riserva a sua
volta il diritto di edificazione, una volta espropriate le terre e acquisitele come
patrimonio pubblico, grazie ad una clausola di deroga per l’amministrazione
civile contenuta nella medesima legislazione mandataria.
Il risorgere della questione di Gerusalemme fa riesplodere il terrorismo
suicida in una strage a Tel Aviv durante la festa di Purim; una nuova ondata di
violenza palestinese tra marzo e aprile interrompe i dialoghi di pace perché
Arafat rifiuta di impegnarsi contro il terrorismo e di arrestare i militari di Hamas
da poco rilasciati dall’Autorità palestinese. Anche i paesi della lega araba
riunitisi al Cairo ribadiscono la linea dura verso Israele.
Nell’estate del 1997, alla decisione israeliana di costruire case nella
parte musulmana di Gerusalemme risponde prima una strage provocata da
un attentato suicida nel mercato alimentare di Mahane Yehuda nel cuore di
Gerusalemme, poi un devastante triplice attentato kamikaze nella più centrale
strada gerosolimitana, Ben Yehuda. Netanyahu reagisce chiudendo i territori
e prendendo misure di sicurezza senza precedenti, mentre anche i laburisti
accusano Arafat di collusione con il terrorismo; mai il prestigio del leader
palestinese è stato tanto basso.
Nel gennaio 1998 Netanyahu e Arafat sono sollecitati dal presidente
statunitense Bill Clinton a ritirarsi progressivamente dalla West Bank il primo,
e a garantire la sicurezza in Israele arginando il terrorismo il secondo, il quale
tuttavia in febbraio non riesce a controllare la violenza pro irachena e anti
israeliana con cui i palestinesi manifestano la loro solidarietà al regime
iracheno che rifiuta le ispezioni ONU in merito agli armamenti – le prime
manifestazioni si svolgono anzi in seno ad Al Fatah.
In marzo, alcuni riservisti tra cui l’ex capo di stato maggiore Zvi Gur
scrivono una lettera aperta a Netanyahu in cui chiedono la ripresa delle
trattative di pace in nome del carattere democratico dello Stato di Israele.
Gli incontri tra Netanyahu e Arafat, fortemente sostenuti
dall’amministrazione Clinton, si concretizzano nell’ottobre 1998 nell’accordo di
Wye Plantation (nel Maryland) sulle modalità del ritiro israeliano dalla West
Bank. Nonostante il peso dei movimenti nazionalisti e di quelli ultrareligiosi nel
governo israeliano e il sospetto dei coloni, dunque, anche l’oltranzista
Netanyahu si mostra realista e riesce a portare avanti una linea conciliatrice
che tuttavia scontenta tutti a causa dello smembramento della West Bank.
Più che un accordo, Wye appare un compromesso insoddisfacente, in
cui Israele mantiene il 70% del controllo militare e civile, mentre il 20% è sotto
il parziale controllo palestinese e solo il 10% è totalmente gestito dai
palestinesi.
La ripartizione geografica crea i problemi maggiori: di fatto si creano
cinque zone separate – Gaza, il nord della West Bank, l’area metropolitana di
Gerusalemme, l’area centrale di Bethlehem e il sud della West Bank – tenute
insieme da una strada chiamata “corridoio di sicurezza”, mentre le vie di
accesso a città e villaggi palestinesi si snodano con strade di aggiramento
degli insediamenti ebraici formando cantoni privi di integrità geografica. I
blocchi e gli accerchiamenti finiscono quindi per riguardare non solo i
palestinesi, ma anche i coloni israeliani.
L’accordo Hebron del 1997 e quello di Wye Plantation del 1998 sono
passi diplomatici importanti, ma restano aperti numerosi problemi, quali le
relazioni con la Siria di Hafiz al Assad, gli attacchi degli hezbollah dal Libano
meridionale, il terrorismo di Hamas contro la popolazione civile israeliana, la
questione di Gerusalemme, la realtà degli insediamenti, i confini di Israele e
della Palestina, il ritorno dei rifugiati e dei profughi, infine il riesplodere
dell’antisemitismo sia nel mondo musulmano sia in Europa.
Da parte palestinese, del tutto insufficienti e inadeguati sono gli appelli di Arafat alla
messa in minoranza del fondamentalismo di Hamas e degli altri gruppi che si richiamano al
jihad, e in seno alla società si è determinata una spaccatura tra i moderati che sostengono il
processo di pace e gli oltranzisti ultrareligiosi contrari a qualsiasi accordo con Israele. Da
risolvere restano poi ancora temi importanti, primo tra tutti il ruolo dell’Autorità palestinese,
ma anche il rafforzamento della democrazia e delle istituzioni e la limitazione
dell’autoritarismo di Arafat e della corruzione in seno alla sua dirigenza politica, infine il
problema della violazione dei diritti umani nelle carceri palestinesi.
Nella gestazione dello stato palestinese restano una contraddizione – al concetto di
“stato” è preferito quello di “rivoluzione”, ma il programma rivoluzionario non può farsi stato –
e numerosi problemi: l’accentramento dei poteri nelle mani della cerchia di Arafat e un
sistema corrotto dal clientelismo. Arafat, inoltre, ha creato un apparato pubblico mastodontico
nel tentativo di far coesistere le diverse fazioni tribali della società, ma appesantendo in tal
modo la burocrazia e gravando enormemente sul bilancio.
Anche sotto il profilo economico, il modello prevalente è quello del dirigismo
autocratico tipico degli stati arabi, cui si aggiunge una preoccupante concentrazione
monopolistica. Il potere di Arafat è accresciuto poi da un’anomalia giuridica, in base alla quale
l’OLP detiene ogni incarico diplomatico in nome dell’ANP, che non è ancora un governo
sovrano.
Inoltre, dal punto di vista amministrativo la costruzione dello stato è ferma alla
promulgazione della legge elettorale del 1995, che ha stabilito il principio liberal-democratico
della sovranità del popolo palestinese ma sulla base del diritto musulmano e della sharia –
per evitare contraddizioni, le leggi dell’ANP non possono contrastare con la sharia,
penalizzando la democratizzazione del corpus giuridico. L’influenza esercitata dall’Egitto sulla
striscia di Gaza e quella giordana sulla West Bank hanno determinato, infine, un problema di
omogeneizzazione del codice civile palestinese.
Su Arafat pesa poi la responsabilità di una mancata presa di posizione contro il
terrorismo fondamentalista: per non inimicarsi quanti nel suo popolo, in numero sempre
crescente, vedono la violenza di Hamas e del Jihad Islamico per la Palestina come unica via
efficace di lotta di liberazione, il leader palestinese non frena la violenza.
Anche la società israeliana appare divisa: nel febbraio 1999, per protesta contro
alcune sentenze della Corte Suprema che antepongono i diritti civili alla legge religiosa –
obbligo per gli studenti delle scuole religiose di prestare il servizio militare, da cui finora erano
stati esonerati; riconoscimento della rappresentatività del giudaismo liberale; diritto concesso
ai kibbutz di tenere aperti i propri negozi durante Shabbat – lo Shas organizza a
Gerusalemme un’imponente manifestazione di ultrareligiosi, cui risponde una contro
manifestazione di giovani provenienti da kibbutzim, di pacifisti e di femministe.
In vista delle elezioni, la campagna elettorale del maggio 1999 si caratterizza per gli
aspri toni del confronto tra lo sfidante laburista, l’ex generale Ehud Barak – nell’anomalia della
democrazia israeliana molti sono gli ex generali, tra cui Rabin e Sharon per citare gli esempi
più noti, che proseguono la loro carriera in politica e sono accreditati per le loro conoscenze
in campo militare e quindi in materia di sicurezza – e il primo ministro conservatore
Netanyahu, con una polarizzazione sul tema della pace e della difesa nazionale intesi come
concetti inconciliabili, e con il confronto acceso sui rapporti tra stato e religione.
La destra, in particolare, cita a sostegno di una fallimentare politica laburista in
materia di sicurezza le statistiche sulle vittime israeliane di attentati: i morti in attentati
salgono nel 1992, anno in cui Rabin sale al potere e apre il dialogo con l’OLP, crescono
ancora l’anno seguente in cui sono conclusi gli accordi di Oslo per calare solo dal 1997,
quando il potere è ormai nelle mani di Netanyahu.
Il neoeletto primo ministro Barak si trova nella difficile situazione di una vittoria debole
e pesantemente condizionata dalla frammentazione della rappresentanza politica in
parlamento, tanto che il nuovo governo include, oltre ai laburisti, sei partiti di cui quattro
avevano fatto parte del precedente governo Netanyahu, avevano sostenuto la campagna
elettorale del primo ministro uscente e auspicavano una linea politica assai diversa da quella
laburista, sia per quanto riguarda il processo di pace sia in relazione alla laicità dello stato.
Nel settembre del 1999 Barak riesce comunque a giungere ad un
nuovo accordo di pace firmato a Sharm el Sheik con Arafat; il leader
palestinese si impegna a non dichiarare unilateralmente l’indipendenza dello
stato palestinese, mentre il primo ministro israeliano libera duecento
prigionieri palestinesi e successivamente fa sgombrare i circa cinquecento
coloni estremisti dall’insediamento di Maon nella West Bank. A fine anno, la
spaccatura del governo sulla questione del finanziamento alle scuole religiose
mette in difficoltà il premier israeliano, che riesce comunque a ricomporre la
crisi ma perde la maggioranza dopo la defezione di alcuni ministri.
2.3 LA QUESTIONE LIBANESE, LA VIOLENZA, IL TERRORISMO
All’inizio del 2000 Barak si trova a dover affrontare una questione ben
più grave, ovvero l’intensificarsi del terrorismo hezbollah dal Libano
meridionale. Già in campagna elettorale, Barak aveva promesso che entro
l’estate del 2000 avrebbe fatto rientrare in Israele tutti i militari presenti nella
cosiddetta fascia di sicurezza presidiata dall’esercito israeliano in Libano dal
1982, e in assenza di proficue trattative con la Siria lo sgombero inizia
unilateralmente, in maggio, tra le proteste di parte della popolazione che teme
una maggiore esposizione alla violenza proveniente dall’esterno, e con
l’opposizione della Siria, per la quale i militari israeliani sono un bersaglio
facile degli hezbollah, e con cui i rapporti diplomatici restano tesi.
Il ritiro dal Libano, vissuto dalla destra come un pericoloso precedente
per gli integralisti islamici fautori della linea dura contro Israele, appare come
una precipitosa ritirata ma è, invece, visto con sollievo da quanti ritengono
che la difesa della Galilea settentrionale possa avvenire meglio dall’interno
del proprio confine che non in territorio nemico.
A sostegno del ritiro, oltre ai laburisti guidati da Yossi Beilin, si sono
distinti il movimento dei Parents Circle (associazione israelo-palestinese
pacifista nata nel 1994 e costituita da persone che hanno perso congiunti nel
conflitto) e soprattuto quello delle Quattro Madri – associazione creata dalle
donne che in Libano hanno perso un figlio sotto le armi. Il movimento delle
Quattro Madri ha raccolto il consenso di numerosi familiari degli oltre 1.200
militari caduti e di parte della società civile e ha probabilmente accelerato, con
le sue manifestazioni di dissenso dal 1998 e la crescente visibilità mediatica, il
processo di disimpegno dal territorio. Negli anni seguenti, il ritiro si rivelerà in
realtà, dal punto di vista della crescita della minaccia hezbollah e della
percezione palestinese di poter ottenere la vittoria grazie alla linea dura del
terrorismo, un insuccesso.
Nel luglio del 2000 iniziano nuovi negoziati a tre a Camp David tra
Barak e Arafat – la cui leadership è indebolita rispettivamente da un governo
debole e dal radicalismo palestinese – con la mediazione di Clinton. Pur
partendo ambedue da posizioni intransigenti, Barak si mostra in seguito più
duttile proponendo la restituzione di quasi il 90% dei territori, un passaggio
riservato alla Spianata delle Moschee a Gerusalemme, il rimpatrio di 10.000
rifugiati – ma non il diritto al ritorno di tutti i profughi invocato dai palestinesi –
e la cessione di Gerusalemme Est ai palestinesi.
Barak non cede però sull’incorporazione in Israele delle colonie
concentrate territorialmente vicino alla linea verde – la linea armistiziale del
1949, oltrepassata con l’avanzata del 1967 – e sul controllo militare israeliano
sulla zona tra Gerusalemme, che il premier sta ingrandendo verso sud, e
Jerico, tagliando in due il futuro stato palestinese. Infine, Israele chiede il
controllo sui varchi di frontiera del futuro stato palestinese con Egitto e
Giordania, decretando dunque una sovranità palestinese limitata.
La proposta di Barak è in sostanza mortificante per qualsiasi futuro
stato palestinese, il quale avrebbe sì il possesso del 90% del territorio, ma
non la piena sovranità e il controllo su di esso, dato che Israele vuole
mantenere i blocchi di insediamenti (in continua espansione), le aree ebraiche
di Gerusalemme Est e quindi la maggior parte di questa zona, il controllo delle
vie di comunicazione e della mobilità, nonché il controllo dello spazio aereo.
Arafat rifiuta ogni intesa sulla cosiddetta “generosa offerta” di Barak
ufficialmente con la motivazione che i palestinesi non hanno partecipato alla
stesura delle proposte di accordo e che gli israeliani hanno delegato la
trattativa agli Stati Uniti. Il leader palestinese, forte del sostegno degli stati
arabi e dei fedeli musulmani, non vuole essere considerato debole sulla
difesa dei luoghi santi dell’Islam, di cui la Spianata delle Moschee è il terzo.
Il nodo conteso dei luoghi sacri ha delle ripercussioni sul problema
della sicurezza e del controllo palestinese della violenza anti israeliana:
mentre gli israeliani bloccano più volte i tentativi di accesso degli ultrareligiosi
che vogliono costruirvi il Terzo Tempio o dei coloni fanatici in manifestazione
(ultima in ordine di tempo quella del 10 aprile 2005 contro il piano Sharon di
ritiro da Gush Katif), Israele rifiuta all’ANP ogni concessione dell’area,
memore di episodi violenti perpetrati dai palestinesi dall’alto della Spianata
sugli ebrei presso il sottostante Muro Occidentale.
I tentativi di mediazione successivi, in particolare sullo status di
Gerusalemme, comprese proposte provenienti da altri paesi come l’Egitto e la
Francia, sono rifiutati da ambo le parti e il fallimento di Camp David è sancito,
il 28 settembre 2000, dalla provocatoria visita del capo del Likud Sharon alla
Spianata delle Moschee.
La cosiddetta “passeggiata” di Sharon, programmata pubblicamente,
provoca l’immediata e spontanea reazione di numerosi musulmani che
attaccano la polizia con lanci di pietre; il giorno seguente scoppiano disordini
su vasta scala nel recinto delle moschee e in tutta la città, e la polizia presa a
sassate interviene sparando sulla folla e provocando alcuni morti e numerosi
feriti.
Il 30 settembre 2000 la protesta si espande all’intera West Bank: è
l’inizio della cosiddetta seconda intifada, che Arafat battezza immediatamente
“intifada Al Aqsa” dal nome della moschea presso cui sono iniziati i disordini.
La scelta non è casuale, poiché la coloritura religiosa del nome vuole
mobilitare sentimenti filopalestinesi in tutto il mondo islamico e sfruttare
l’emotività del tema religioso per rafforzare il nazionalismo palestinese e
incanalarlo in senso anti israeliano.
Mentre esplode la seconda intifada si rafforza in Israele l’idea, prospettata da Barak
già nel 1999 e consolidata dopo il ritiro unilaterale dal Libano del sud nella primavera del
2000, della costruzione di una barriera di sicurezza. È infatti dopo il ritiro dal Libano e il
sostanziale fallimento degli accordi di Camp David che si afferma l’idea di una pace possibile
solo al prezzo della separazione fisica con i territori amministrati dall’Autonomia palestinese.
Già nel 1967, ad ogni modo, in Israele si era iniziato a pensare alla realizzazione di un muro
che segua il tracciato della linea verde ma il progetto, ripreso negli anni successivi da diversi
governi, non si concretizza sino ad ora.
Nasce la dottrina del disimpegno, che evolve da quella del ritiro unilaterale (seguito in
Libano): da un punto di vista strategico, infatti, si tratta sia di un ritiro sia di un trinceramento,
possibile anche al prezzo di abbandonare i territori in mano palestinese e all’eventuale
crescita del terrorismo. Un muro di separazione, infatti, dovrebbe impedire, insieme a
qualsiasi contatto con la popolazione palestinese, anche eventuali infiltrazioni terroristiche.
Per frenare il terrorismo, il muro deve prefigurare le future frontiere orientali di Israele, senza
seguire la linea verde ma deviando in più punti verso i territori.
Il percorso del muro viene definito entro il 2001. Osteggiato violentemente dalla
destra che vede così fallire il progetto della Grande Israele e isolare al di là della barriera gli
insediamenti dei coloni, esso prevede comunque l’annessione di fatto del maggior numero di
colonie della West Bank, lo spezzettamento dei territori in modo che il futuro stato palestinese
non costituisca una minaccia, e infine l’assicurazione di un collegamento diretto con gli
insediamenti strategici della valle del Giordano, Maleh Adumim per primo.
Ciò è esemplificato dalla lettura dei dati: l’80% dei coloni sarà incluso nel muro,
mentre degli 875.000 palestinesi 263.000 saranno confinati in piccole enclaves circondate
dalla barriera, 210.000 residenti di Gerusalemme Est saranno isolati dal resto della
popolazione palestinese della West Bank, e 402.000 palestinesi saranno rinchiusi nelle tre
aree di Bethlehem, Jerico e Ramallah. Di fatto, la barriera includerà in territorio israeliano tra il
25% e il 45% della West Bank, comprese le aree agricole più fertili e con gli uliveti migliori.
100 villaggi palestinesi resteranno separati dal loro terreno agricolo; circa 350.000 palestinesi
stretti tra la frontiera e il muro soffriranno gravi conseguenze socioeconomiche; intere città
7
come Kalkilia e Tulkarem saranno circondate .
Se da un punto di vista giuridico Sharon non aveva alcun impedimento a recarsi sulla
Spianata, il gesto assume un significato simbolico provocatorio ma che non è tanto la causa
quanto il pretesto della nuova intifada, la cui rapida diffusione e la cui organizzazione
immediata fanno comprendere come fosse in preparazione da tempo e incanalasse un
malcontento decennale, acuito dalla disillusione per il sostanziale fallimento degli accordi di
Oslo, che avevano alimentato la speranza di un rapido e oggettivo miglioramento politico,
sociale ed economico per la popolazione palestinese dei territori.
Rispetto alla precedente scoppiata nel 1987 e sostanzialmente conclusa nel 1993
con gli accordi di Oslo, la nuova protesta si caratterizza per l’uso di armi da fuoco invece che
pietre, grazie al raccordo di alcuni settori fondamentalisti e la dirigenza politica palestinese, la
quale non frena il terrorismo armato.
Se a parole Arafat dichiara pubblicamente di condannare la violenza, di fatto non solo
non interviene per reprimerla, ma arriva anzi ad assistere o a schierarsi apertamente in suo
favore, come accade a Nablus in occasione della profanazione e distruzione della tomba di
Josef (8 ottobre 2000) e a Ramallah, dove il 12 ottobre 2000 sono linciati e mutilati tre
riservisti israeliani sotto gli occhi delle telecamere della televisione pubblica palestinese. In
entrambi i casi, le forze di sicurezza palestinesi non si limitano ad assistere alla violenza della
folla, ma vi partecipano attivamente.
La seconda intifada, inoltre, si caratterizza per l’appoggio attivo dei musulmani (oltre
800.000 persone, quasi il 14% della popolazione israeliana) con passaporto israeliano al
jihad, preoccupando Israele sia per la solidarizzazione tra cittadini israeliani e palestinesi dei
territori in nome di una rinnovata identità islamica che la causa palestinese infiamma, sia e
soprattutto per la radicalizzazione dell’insofferenza di una popolazione che da tempo si sente
priva di pieni diritti.
L’appoggio dei musulmani israeliani all’intifada Al Aqsa ha due esiti immediati: la
sconfitta elettorale di Barak alle elezioni del febbraio 2001, quando i musulmani disertano i
seggi o votano scheda bianca per protesta contro politiche laburiste che appaiono loro
allineate con la linea di Sharon; la presenza di un terrorismo interno – per la prima volta, nel
settembre 2001, un musulmano israeliano, Haj Mohammed Shaker Habeishi si fa esplodere a
Naharya, nel nord del paese. L’emozione in Israele è forte, anche perché Habeishi,
cinquantacinquenne padre di famiglia, imprenditore candidato al consiglio comunale, sembra
l’ultima persona potenzialmente attratta dalla violenza fondamentalista. Del resto, già dal
novembre 2000 le autorità israeliane scoprono cellule di arabi israeliani, non solo musulmani,
reclutati dagli hezbollah libanesi per missioni terroristiche e di spionaggio.
La frustrazione di una comunità sì israeliana ma che sconta decenni di
emarginazione, difatti, è il frutto del mancato riconoscimento di uno status collettivo e della
permanenza di situazioni discriminatorie, riassumibili nell’espropriazione di terre sino agli anni
Sessanta; nell’esclusione dal servizio militare (per la difficile questione del reclutamento
femminile e per la delicata gestione delle crisi israelo-palestinesi, dunque secondo un
principio orientato alla sicurezza che considera i propri musulmani potenziali nemici) quando
l’esercito rappresenta un forte strumento di integrazione e di promozione culturale, sociale ed
economica; infine sino alla fine degli anni Novanta nella esclusione dei musulmani da posti
chiave come quello di giudice di Corte Suprema e di membri dei più importanti comitati
parlamentari tra cui Difesa e Affari Esteri.
Si è però anche verificata una lenta conquista di diritti, grazie ai principi liberal
democratici che pensano all’integrazione o “israelizzazione”: piena cittadinanza con diritto di
voto attivo e passivo e status di lingua ufficiale per la lingua araba (usata in tutte le scuole
musulmane finanziate dallo stato). Dal 1969 i cittadini arabo israeliani possono iscriversi
all’Histadrut, la Confederazione Generale dei Lavoratori Ebrei di Eretz Israel fondata nel
1920, una specie di centrale sindacale.
7
In J. HALPER,
Obstacles to Peace. A Re-Framing of the Palestinian-Israeli Conflict
Bethlehem, PalMap, 2004 (first ed. 2003), pp. 14-15.
,
L’integrazione dei musulmani israeliani – che sembra accentuarsi dopo gli accordi di
Oslo, quando il processo di pace pare avviato e la solidarietà con la causa dei palestinesi dei
territori diviene meno necessaria – subisce quindi un duro colpo con l’eslodere della seconda
intifada e la crescita dell’opposizione a Israele nei musulmani e del sospetto e della
dicriminazione negli ebrei.
Un ulteriore aspetto dell’intifada Al Aqsa consiste nelle diverse modalità tattiche di
scontro: mentre la prima intifada era caratterizzata da brevi attacchi improvvisi contro lo
Tzahal – esposto da più parti e la cui repressione si attua tramite pestaggi e arresti – seguiti
da rapide ritirate, ora invece la polizia palestinese controlla parte del territorio e quindi gli
attacchi sono localizzati nelle periferie dei centri urbani; palestinesi e israeliani si affrontano
per lunghi periodi di tempo; aumenta il numero dei morti e soprattutto dei feriti; diminuiscono
le possibilità di arrestare i palestinesi che riescono a riparare in zone in cui lo Tzahal non
penetra.
Di fatto, la portata dello scontro si intensifica a causa di alcuni fattori significativi:
l’attacco alle colonie ebraiche seguendo l’esempio degli hezbollah con le città della Galilea
settentrionale; la risposta armata e radicale dei coloni che antepongono l’autodifesa alla
protezione dell’esercito; la rivendicazione esplicita di un’indipendenza da conquistare con le
armi, dal momento in cui il ritiro unilaterale del 2000 dal Libano è propagandato come un
successo della resistenza armata hezbollah – alimentata dall’appoggio siriano e iraniano.
Ne consegue che l’intifada Al Aqsa è militarizzata, con numerosi e
pesanti attentati prevalentemente suicidi contro obiettivi civili – tra i quali se
ne ricordano diversi a Netanya sulle strisce pedonali nell’ora di punta come
davanti a centri commerciali o vicino a scuole; su autobus o alla fermata di
autobus a Gerusalemme; in locali pubblici delle città israeliane; infine quello
che è diventato il simbolo della violenza mirata contro la società e contro la
vita, l’attentato del 1 giugno 2001 tra i giovani in fila davanti alla discoteca
Dolphinarium sul lungomare di Tel Aviv.
Gli attentati sono a parole condannati da Arafat ma nei fatti avallati
dalla dirigenza palestinese, che non attua nessuna forma di controllo e di
repressione del jihad, rispondendo alle pressanti richieste israeliane di
fermare il terrorismo o con toni provocatori – come dopo l’attentato del 14
febbraio 2001 all’incrocio di Azur Holon a sud di Tel Aviv, quando un
attentatore lancia un autobus contro un gruppo di militari e Arafat replica che
si è trattato solo di un incidente stradale – o minimizzando le proprie
possibilità di intervento. Lo stesso atteggiamento ambiguo di Arafat, che si
presenta alternativamente come capo o repressore della rivolta, suscita
interrogativi tra i palestinesi moderati e nell’opinione pubblica internazionale.
La novità radicale della seconda intifada concerne infine l’uso dei mass
media, che ancora più rispetto al 1987 aggregano il consenso internazionale
per la causa palestinese. Ora, infatti, i palestinesi possiedono media
elettronici governativi e privati, e possono inoltre contare sulle stazioni
satellitari arabe e sulla vera e propria guerra di immagini da esse condotta –
emblematico è l’episodio, a fine settembre 2000, dell’uccisione del dodicenne
Muhammad al Dura tra le braccia del padre sotto lo sguardo di una
televisione francese con un operatore arabo che imputa direttamente ai
militari israeliani una responsabilità tuttora non chiarita; l’immagine del
bambino morente abbracciato al padre si diffonde rapidamente in tutto il
mondo arabo e diviene l’icona della seconda intifada.
È proprio grazie alle immagini delle televisioni che sanno quando accorrere in vista di
una risposta israeliana ad atti di violenza improvvisati e non ripresi da nessuno, e alla
propaganda palestinese, la quale dall’inizio dell’intifada definisce le violenze come una guerra
provocata da Israele tacendo sulle continue provocazioni attuate dai propri agitatori sino a
mentire più volte sulla reazione dei militari israeliani di solito molto controllate (come a
proposito del presunto uso di proiettili all’uranio contro i civili), che nell’ottobre 2000 il
Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite condanna quello che definisce “uso eccessivo della
forza contro i palestinesi”.
Le risposte israeliane all’intifada sono di diverso tipo: inizialmente, con fuoco contro
gli edifici da cui proviene il fuoco palestinese, poi dal novembre 2000 iniziano ad essere
praticate su vasta scala, nonostante le proteste di alcuni settori della sinistra israeliana e delle
organizzazioni arabe per i diritti umani, le uccisioni mirate dei comandanti e degli operativi
delle organizzazioni locali sospettate di preparare gli attacchi – Al Fatah, Jihad Islamico e
Hamas.
Ad una risposta militare israeliana che resta comunque contenuta e che nel possibile
limita l’uso della forza si accompagna intanto a ottobre del 2000, sotto il profilo diplomatico,
un nuovo tentativo statunitense di porre fine al conflitto in un incontro tra Barak e Arafat a
Sharm el Sheik. Il leader israeliano accetta infine di intavolare le trattative, nonostante le
violenze da parte palestinese non siano cessate, sia per approfittare degli ultimi mesi della
presidenza Clinton interessata alla mediazione mericana, sia per evitare che in assenza di un
accordo alle elezioni previste per la primavera seguente sia eletto un premier di destra.
Le proposte di Clinton – restituzione del 95% dei territori; sovranità palestinese sulla
Spianata delle Moschee e israeliana sul Muro Occidentale e sul suolo sottostante;
Gerusalemme Est capitale del futuro stato palestinese; riconoscimento israeliano delle
sofferenze inflitte al popolo palestinese dal 1948; no al ritorno di tutti i profughi palestinesi in
Israele ad eccezione di 100.000 rifugiati, mentre gli altri saranno assorbiti dallo stato
palestinese; riconoscimento formale di entrambi gli stati del diritto al ritorno dei rifugiati e dei
profughi da essi tanto invocato – sono accettate da Barak a Taba nel gennaio 2001, mentre i
palestinesi oppongono un netto rifiuto su Gerusalemme e sul problema dei rifugiati e dei
profughi, affossando il miglior accordo mai offerto ad Arafat.
In seguito agli insulti palestinesi a Davos in Svizzera (dove Arafat accusa Israele di
essere fascista, colonialista, assassino, affamatore del suo popolo e utilizzatore di proiettili
all’uranio) e alla sensazione che da Oslo sia stato vanificato quasi un decennio di tentativi,
Barak sospende le trattative e decide di concentrarsi sulla campagna elettorale per le elezioni
di febbraio.
Il fallimento delle trattative di pace, insieme allo scoppiare della seconda intifada e al
crescere della violenza, sposta il consenso di gran parte dell’opinione pubblica israeliana che
accorda il proprio voto al leader del Likud, Ariel Sharon, eletto con una oltre il 60% delle
preferenze. Come già nel 1996, la destra sconfigge i laburisti anche grazie ai continui attentati
suicidi e alla sensazione che i governi di sinistra non abbiano saputo garantire la sicurezza di
Israele, nonché al già ricordato astensionismo dei musulmani israeliani. Infine, pesa non poco
la divisione della sinistra, che a Barak imputa sia il fallimento del processo di pace sia le
concessioni ai partiti religiosi nel tentativo di tenere unita la coalizione di governo.
L’intransigenza di Arafat nel respingere il piano Clinton e nel favorire in
tal modo la caduta di Barak e con essa la possibilità di un reale accordo è
pagata subito con la messa a punto della strategia dei raid mirati contro i
terroristi palestinesi, cui risponde la ripresa degli attentati suicidi. Attentati e
rappresaglie israeliane si susseguono sino a condurre, all’inizio di aprile 2001,
ad una guerra vera e propria che porta Israele sia a bombardare le postazioni
della guerriglia palestinese e a demolire abitazioni civili con la giustificazione
che sono illegali, sia ad esportare il conflitto con il più grave attacco in Libano
dal 1982, bombardandovi una postazione radar siriana e facendo temere una
risposta della Siria.
Per la prima volta da Oslo, inoltre, in risposta a lanci di missili di
Hamas sulla città ebraica di Sderot, Israele rioccupa parte della striscia di
Gaza, mentre in seguito a continui e disattesi appelli di Arafat al cessate il
fuoco contro gli israeliani, il leader palestinese scioglie Al Fatah, ormai fuori
controllo. Tuttavia, la violenza non si ferma: all’inizio di maggio del 2001,
grande orrore suscita il ritrovamento di due ragazzini ebrei linciati nella West
Bank, mentre i colpi di mortaio sui kibbutzim israeliani nel sud del paese non
si fermano e lo Tzahal entra per la quinta volta in poche settimane nella
striscia di Gaza.
Nuova è pure la reazione israeliana all’ennesimo attentato kamikaze
davanti ad un centro commeciale a Netanya: una rappresaglia in cui è
utilizzata anche l’aviazione per bombardare postazioni dell’ANP. Persino
paesi arabi moderati come Giordania ed Egitto sospendono le relazioni
diplomatiche con Israele, e gli Stati Uniti si convincono ad intervenire
nuovamente nell’area elaborando una proposta per il cessate il fuoco e la
ripresa delle trattative di pace.
Prende così forma il piano Mitchell, che prevede da parte israeliana la
cessazione dell’espansione degli insediamenti e dell’uso di armi letali, il
rispetto del transito dei lavoratori palestinesi e delle linee di accordo discusse
a Sharm el Sheik alla fine del 2000; da parte palestinese la sospensione
dell’intifada e del terrorismo comprese le provocazioni e la rinuncia alla
propaganda fondamentalista. L’incapacità dell’OLP di controllare la violenza
estremista si manifesta nelle immediate e violente reazioni con cui le frange
radicali palestinesi accolgono il piano Mitchell: tra fine maggio e giugno, una
serie interminabili di attentati suicidi sconvolge Israele, mentre fallisce anche
un tentativo di mediazione vaticana.
Tra giugno e luglio 2001, un nuovo progetto di pace americano, il piano
Tenet, viene accettato da Sharon e con riserva da Arafat portando ad una
breve tregua nei combattimenti ma non alla fine degli attentati, e mentre il
premier israeliano dichiara di continuare la linea dei raid mirati ma di non
volere un’offensiva generale contro l’ANP, il Comitato dell’Intifada dichiara
decaduta la tregua. Israele intensifica le azioni per colpire i responsabili e i
mandanti delle azioni terroristiche dei movimenti islamici Hamas e Jihad
Islamica, uccidendo esponenti di primo piano ma spesso anche cittadini che
non hanno alcun legame con il terrorismo, come bambini e donne.
In un quadro generalizzato di violenti attentati suicidi e di rappresaglie israeliane,
dopo l’ennesimo e gravissimo attentato in un fast food a Gerusalemme, il 10 agosto 2001 gli
israeliani scacciano i palestinesi dalla sede dell’ANP e dell’OLP a Gerusalemme Est, l’Orient
Huose, issandovi la bandiera israeliana. Anche il presidente americano George W. Bush
condanna l’assalto ad un simbolo del dialogo, mentre a fine mese a Durban (Sud Africa) alla
conferenza ONU sul razzismo esplode la polemica sull’equiparazione tra razzismo e sionismo
avanzata dai palestinesi e ufficializzata nel documento ufficiale delle organizzazioni non
governative, che giungono a parlare di Israele come stato “razzista e che pratica la pulizia
etnica” processando così un popolo intero e cadendo nell’antisemitismo invece di limitarsi a
8
condannare gli insediamenti, l’occupazione della West Bank e la politica di Sharon .
Del resto, la maggior parte delle organizzazioni non governative per i diritti umani
identificano i palestinesi come vittime e gli israeliani come aggressori; le maggiori ONG –
Human Rights Watch, Amnesty, Oxfam, Christian Aid, the International Commission of Jurists
9
– hanno assunto un ruolo sempre più rilevante nella rete di sostegno ai palestinesi .
La cancellazione del paragrafo incriminato dal documento finale si risolve nella
riserva di alcuni stati arabi e nella sostanziale scontentezza di tutti, dato che il testo parla
genericamente del diritto a tutti i popoli dell’area alla sicurezza e al rispetto dei diritti umani.
L’attacco terroristico dell’11 settembre 2001 alle Twin Towers di New York ridisegna
gli equilibri geopolitici mondiali influenzando anche la realtà mediorientale. Arafat,
diversamente da quanto accaduto con la seconda guerra del Golfo, condanna nettamente il
terrorismo fondamentalista di Al Qaeda e le esultanze dei palestinesi, e l’8 ottobre per la
prima volta la sua polizia spara sui fondamentalisti di Hamas in una manifestazione pro Al
Qaeda; il 2 ottobre gli Stati Uniti riconoscono formalmente la legittimità dello stato
palestinese, mentre Sharon prospetta la creazione di uno stato palestinese anche nella fase
ad interim.
Il 17 ottobre 2001, l’assassinio del ministro del turismo israeliano rompe la tregua,
alza i toni della polemica con Sharon che imputa ad Arafat la responsabilità di questo e di tutti
gli atti terroristici nei territori, e riporta gli scontri nelle città, con l’esercito israeliano che entra
a Ramallah, Jenin e Bethlehem – da dove cecchini israeliani e palestinesi si sparano tra i
quartieri storici.
La crisi penetra in seno al governo israeliano, con un premier sostenuto da un alto
consenso popolare ma conteso tra le sinistre – guidate dal ministro degli esteri Peres e da
alcuni leader laburisti – che chiedono il ritiro unilaterale e i militari e le destre, contrari a
qualsiasi tipo di ritiro dai territori. I laburisti e Peres in particolare si trovano nella difficile
situazione di dover convivere con Sharon per evitare la messa in minoranza del primo
ministro da parte di chi lo contesta da destra con il sostegno degli ultrareligiosi, Netanyahu.
Contro il governo è forte anche la voce del Meretz, il partito di sinistra capeggiato da
Yossi Sarid, e parole di fuoco per la politica di Sharon e del suo ministro degli esteri Peres
vengono anche da Uri Avnery, leader storico dell'estrema sinistra – famoso dal 1982, quando
8
Vedi le dichiarazioni dello storico Zeev Sternhell in U. DE GIOVANNANGELI,
«Che errore
processare un popolo, dovevano attaccare Sharon», in “l’Unità”, 4 settembre 2001.
9
Vedi G. M. STEINBERG, NGOs make War on Israel , in “The Middle East Quarterly”, XI, 3,
summer 2004.
in piena guerra si era recato a Beirut per incontrare Arafat, e che nel 1993 ha fondato Gush
Shalom (Blocco della Pace).
Di fronte alle richieste statunitensi di cercare una soluzione pacifica, Sharon inzia il
ritiro delle truppe dalle sei città palestinesi occupate – Bethlehem, Jenin, Tulkarem, Ramallah,
Bet Jalla e Kalkilya. Nei mesi seguenti, di fronte alle ipotesi di una distensione il terrorismo
palestinese si fa se possibile anche più violento, e ai durissimi attentati dell’inizio di dicembre
a Gerusalemme e Haifa non solo Israele, ma anche gli Stati Uniti e il Segretario dell’ONU Kofi
Annan, reagiscono intimando ad Arafat di fermare il terrorismo.
Anche la linea politica del primo ministro israeliano muta radicalmente rotta. Complice
l’11 settembre e la lotta ingaggiata dagli USA al terrorismo islamico, in quella che per gli
israeliani appare come l’unica forma di difesa da una violenza fondamentalista volta a
cancellare qualsiasi via negoziale, all’inizio di dicembre Sharon affronta la questione
nuovamente con la forza, bombardando il quartier generale di Arafat a Gaza e colpendo
ancora Jenin e Ramallah, dove Arafat assediato è lasciato sempre più solo dai
fondamentalisti che non controlla e dalla maggioranza dei palestinesi irritata dalle sue
ambivalenze.
Mentre anche nel mondo arabo moderato iniziano a levarsi numerose voci che
accusano la debolezza e la mancanza di progettualità politica dell’ANP e che si riflettono nelle
critiche ad Arafat mosse dalla Lega Araba riunita al Cairo a fine dicembre, a nulla valgono i
tardivi tentativi del leader palestinese di porre rimedio chiudendo gli uffici di Hamas e Jihad:
Sharon chiude definitivamente i rapporti con Arafat dichiarando che non è più interlocutore
degli israeliani, e lo lascia confinato a Ramallah impedendogli di lasciare la città. Sono
distrutti l'antenna della radio palestinese e il radar dell'aeroporto di Gaza; i territori vengono
rioccupati.
Una conferma della compromissione della dirigenza palestinese giunge subito dopo,
quando il 3 gennaio 2002 i servizi israeliani intercettano nel Mar Rosso una nave che sta
illegalmente importando tonnellate di armi acquistate dall’ANP – e l’esorbitante costo del
carico, 15 milioni di dollari, fa supporre che solo Arafat, unico in grado di autorizzare una
spesa tanto grande, fosse a conoscenza della vicenda. In seguito le evidenti prove fornite da
Israele inducono l’amministrazione Bush a chiedere spiegazioni formali ad Arafat, che fa
arrestare tre dirigenti dell’ANP ma smentisce il proprio coinvolgimento personale.
La linea dura di Sharon si riconferma il 10 gennaio 2002 quando, dopo un attentato di
Hamas, lo Tzahal distrugge con i bulldozer il campo profughi dei kamikaze lasciando senza
casa oltre 700 persone e suscitando la riprovazione della sinistra israeliana, mentre Al Fatah,
Hamas e le Brigate Martiri di Al Aqsa rilanciano l’intifada, con nuovi attentati kamikaze tra cui
per la prima volta, il 27 gennaio, quello compiuto da una donna.
Il 12 marzo 2002, per la prima volta dal ritiro unilaterale dal Libano del 2000, gli
hezbollah compiono un’incursione in Israele uccidendo dei civili e mostrando che i confini non
sono sicuri. L’insicurezza della popolazione accresce l’intransigenza del governo, sempre più
criticato internazionalmente e il cui senso di isolamento è accresciuto anche dalla sensazione
di essere incompreso dal resto del mondo. A tali dinamiche contribuiscono, del resto, anche
decisioni improvvide come quella dell’Unione Europea, che nel dicembre 2001 ha rifiutato di
includere il movimento hezbollah nella propria lista ufficiale di organizzazioni terroristiche
internazionali. Israele respinge anche la proposta di pace avanzata dalla Lega Araba nel
vertice di Beirut in primavera.
La politica israeliana di annientamento della resistenza palestinese è
riconfermata in un discorso del premier alla Knesset del 5 marzo 2002 in risposta
all’ennesimo sanguinoso attentato di Pesach che ha provocato 20 morti e 130 feriti a
Netanya, e nelle successive operazioni militari tra fine marzo e metà aprile (operazione Muro
Difensivo):
bombardamenti massicci dei campi profughi e sventramento delle case – la distruzione di
alcune infrastrutture finanziate dall’Unione Europea ne provoca la protesta –; controllo sulla
circolazione delle ambulanze e dei mezzi di soccorso per verificare che trasportino veri feriti,
con la conseguente protesta della Croce Rossa Internazionale. La Basilica di Bethlehem dove
si sono rifugiati numerosi palestinesi, di cui alcuni sospetti fondamentalisti, viene assediata,
mentre la battaglia più dura si combatte a Jenin, che viene bombardata e dove si configura un
drammatico scenario da guerriglia urbana, con combattimenti casa per casa.
I giornalisti e gli osservatori internazionali incontrano spesso ostacoli nella loro
attività, mentre il centro di informazione israeliano sui diritti umani Btzelem denuncia casi di
esecuzioni sommarie e di tortura. Ramallah viene conquistata e il quartier generale di Arafat
circondato. La violenza di Tzahal la cui potenza bellica è spropositata rispetto a quella
palestinese, la sofferenza della popolazione civile che conta numerosi morti e feriti, le
immagini dei bombardamenti e della guerriglia suscitano l’indignazione dell’opinione pubblica
mondiale. Il premio Nobel per la letteratura José Saramago in visita nella zona paragona la
West Bank Ad Auschwitz, suscitando numerose polemiche, mentre manifestazioni anti
israeliane si registrano in molti paesi arabi e in Europa. Gravi atti di antisemitismo si
verificano in Francia, dove vengono bruciati tre templi, e in Belgio.
Il rappresentante dell'ONU critica l'operato dell'esercito israeliano a Jenin e lo accusa
di non aver concesso, per ben undici giorni, la possibilità a soccorsi e aiuti umanitari di
entrare nel campo profughi. Israele si difende smentendo le accuse di "massacro" e mettendo
in risalto il fatto che a Jenin si è combattuto contro una forte resistenza dei gruppi islamici.
Israele sottolinea inoltre che per evitare stragi l'esercito non ha utilizzato bombardieri e aerei
caccia (tattica militare usata da americani e eserciti europei nelle guerre del Kosovo e
Afghanistan). La fanteria e gruppi speciali hanno combattuto casa per casa, trovandosi
spesso di fronte a gruppi armati che usavano la popolazione civile come scudo umano, e si
evidenzia che anche tra i soldati israeliani ci sono state vittime. Il rapporto ONU pubblicato il 1
agosto decreterà che a Jenin non c’è stato alcun massacro.
Negli uffici del finanziere di Arafat nella Mukataa di Ramallah, gli israeliani trovano
appunti sul costo delle cinture esplosive. La notizia suscita grande scalpore in Israele e
all’estero, e il primo ministro Sharon si sente autorizzato a proseguire sia in un atteggimento
di intransigenza nei confronti dell’Autorità Palestinese, sia nella linea dura contro la
popolazione palestinese. L’aumento degli attentati terroristici da parte di kamikaze palestinesi
fa inoltre riemergere la proposta del muro, e in tarda primavera iniziano i lavori per una vera e
propria barriera difensiva che contrasti le infiltrazioni dei terroristi. Il muro dovrà svilupparsi
per centinaia di chilometri e circondare Gerusalemme, compresa la parte araba. Intanto, a
giugno l'inflazione in Israele sale al 4,9% in soli cinque mesi, e il dollaro americano arriva ad
essere cambiato a più di 5 shekel.
Nel luglio del 2002, l’ennesimo omicidio mirato dell'aviazione israeliana a Gaza uccide,
oltre al terrorista ricercato, anche parte della sua famiglia e altri civili, tra cui 10 bambini. In
Israele e nel mondo viene criticata l'azione, decisa da Sharon. Il primo ministro è duramente
contestato anche dallo Shas e dai laburisti in seno al governo, quando a fine agosto passa la
proposta di tagli al bilancio e sono decurtate le indennità alle famiglie numerose.
Dopo una sanguinosa estate di attentati, mentre lo Tzahal prosegue nell’occupazione
delle principali città palestinesi nei territori amministrati dall’ANP, parte della popolazione in
Israele e membri stessi dell'esercito condannano la politica di Sharon e molti soldati iniziano a
rifiutarsi di presentare servizio. Il partito dei laburisti lascia il governo a causa di contrasti sul
bilancio statale, e Sharon presenta le dimissioni. Tuttavia le scelte politiche del primo
ministro, che sembrano vincenti nel contrastare il terrorismo palestinese e le incertezze di
Arafat, portano Sharon a vincere nuovamente le elezioni politiche anticipate del 28 gennaio
2003, mentre il partito laburista esce dai seggi pesantemente sconfitto.
2.4 LA ROAD MAP E GLI ACCORDI DI GINEVRA
Ad un mese dall’inizio della guerra condotta dagli Stati Uniti e dai suoi alleati
contro l’Iraq di Saddam Hussein, su sollecitazione americana il 30 aprile
2003 viene pubblicata la Road Map, una proposta congiuta di USA, Russia,
ONU e Unione Europea (il cosiddetto ‘quartetto’). Il documento prevede la fine
dell’occupazione israeliana e la creazione in tre fasi, sino al 2005, dello stato
palestinese.
Il piano saudita. In questo contesto, il primo piano ad essere presentato e’
quello del principe ereditario saudita Abdullah, nel marzo del 2002 al summit
della Lega Araba a Beirut. Il piano, pur non avendo seguito, e’ rilevante in
quanto mostra i due principi che i paesi arabi ritengono fondamentali per
qualsiasi soluzione della questione palestinese:
•
Il rispetto delle risoluzioni 242 e 338 del Consiglio di Sicurezza delle
Nazioni Unite.
•
Il mantenimento dello status quo territoriale per i paesi arabi con la
creazione dello Stato Palestinese.
Road Map (1):
attori coinvolti . La prima azione della comunita’
internazionale dopo lo scoppio della seconda Intifada e’ l’istituzione di una
Commissione d’inchiesta (nota come “Commissione Mitchell”, dal nome del
senatore americano che la presiede) nel 2001. Il report della commissione,
sostenuto dal Segretario Generale delle Nazioni Unite Kofi Annan, invita le
parti ad un accordo basato sulla fine della espansione delle colonie israeliane
e sulla denuncia del terrorismo. A questo tentativo, segue nel giugno 2002 la
dichiarazione del presidente americano George Bush, che chiede la
costituzione di uno Stato Palestinese in cambio della pace per lo Stato di
Israele. Questa dichiarazione rappresenta l’inizio della cosiddetta Road Map
for Peace. Accanto agli Stati Uniti, le Nazioni Unite, la Russia e l’Unione
Europea costituiscono il “Quartetto” sono gli attori che formulano il piano e
verificano la sua implementazione.
Road Map (2): piano. Il piano presentato dal Quartetto si sviluppa in tre fasi,
con conclusione prevista nel 2005 (un termine che, come noto, non e’ stato
rispettato).
•
Fase 1: fine delle violenze da parte palestinese, istituzionalizzazione e
democratizzazione (con elezioni libere da tenersi al piu’ presto)
dell’Autorita’ Palestinese. Fine della costruzione di nuovi insediamenti
israeliani nei “territori occupati” e inizio del ritiro.
•
Fase 2: creazione di uno Stato Palestinese, con monitoraggio
internazionale e prima Conferenza Internazionale.
•
Fase 3: seconda Conferenza Internazionale avente come oggetto la
risoluzione delle controversie sul tema dello status di Gerusalemme,
“diritto di ritorno” per i rifugiati”, coloni israeliani.
Road Map (3): implementazione. La nomina di Abu Mazen (o Mahmoud
Abbas) primo ministro da parte di Arafat (per la prima volta), anche di fronte
alla decisa opposizione americana a trattare con Arafat. Nonostante un
incontro avvenuto fra Abu Mazen e Sharon nel luglio del 2003 a
Gerusalemme, nel quale entrambi i leader sostengono la road map, la
mancata fine delle violenze con attentati terroristici a cui seguono dure
rappresaglie israeliane impedisce di fatto il raggiungimento degli obiettivi della
prima fase del piano di pace.
Summit di Ginevra (ottobre 2003). L’incontro informale avvenuto fra
rappresentanti palestinesi ed israeliani a Ginevra nello stesso anno, pur non
portando a nessun risultato concreto, presenta delle proposte sui temi piu’
controversi nel processo di pace, cercando di offrire soluzioni per uno “status
permanente”. In particolare:
•
Riconosce le risoluzioni 242 e 338 del Consiglio di Sicurezza delle
Nazioni Unite, il “processo di Oslo”, e le proposte contenute nella Road
Map come basi per l’accordo.
•
Stabilisce l’importanza della Comunita’ Internazionale nel processo di
pace, con la proposta d’istituzione di un gruppo di “verifica e
implementazione” composto dagli stessi membri del Quartetto, diretto
da un “Gruppo di Contatto”.
•
Stabilisce che Israele: 1. si occupi del ritorno nel suo territorio dei
coloni e delle forze armate dai territori dello West Bank e di Gaza,
trasferendo all’Autorita’ Palestinese il controllo sulle infrastrutture
dell’area; 2. Lasci, sotto la propria sovranita’, un corridoio
permanentemente aperto che colleghi le due aree sotto controllo
palestinese.
•
Stabilisce che lo Stato Palestinese garantisca: 1. il controllo degli
attentati terroristici; 2. il controllo delle frontiere (in cooperazione con
Israele).
•
Per quanto riguarda Gerusalemme: 1. la divisione della citta’, che
diventerebbe capitale dei due stati; 2. l’istituzione di un controllo
internazionale (con membri del Quartetto e dell’Organizzazione dei
Paesi Islamici) sul Monte del Tempio (per i palestinesi: al-Haram al-
Sharif); 3. La creazione di una commissione congiunta per
l’amministrazione della “citta’ vecchia”.
•
Per quanto riguarda i “rifugiati”: 1. ai rifugiati viene offerto la “scelta del
luogo di residenza permanente”, quindi la possibilita’ di scegliere il
ritorno nello stato palestinese o la permanenza negli attuali stati di
residenza o Israele (in questi casi, a discrezione degli stati ospiti); 2. il
diritto dei rifugiati a ricevere un indennizzo per il danno subito; 3.
l’istituzione di una commissione internazionale che decida sull’entita’
degli indennizzi e sulle eventuali controversie.
3. Attualita’ e Prospettive: il ritiro da Gaza e Oltre
3.1 IL SUMMIT A SHARM EL-SHEIK (2005)
L’inizio del 2004 vede uno spostamento della posizione Americana, che
diventa piu’ apertamente favorevole a quella israeliana. In particolare, il
presidente americano Bush ammette l’impossibilita’ della data del 2005 per la
risoluzione del conflitto e la creazione dello Stato Palestinese, di fronte al
perdurare delle violenze terroristiche. Inoltre, Bush nota come il ritorno ai
confini del 1948 sia ‘irrealistico’, e che quindi Israele ha il diritto di rivedere
almeno in parte il proprio territorio includendo alcuni dei territori acquisiti nel
1967, facendo poi notare come in ogni caso qualsiasi modifica debba essere
fatta col consenso delle parti. Alla fine del 2003, Bush aveva criticato la
decisione di Sharon di costruire un ‘muro’ per proteggere Israele dagli attacchi
terroristici, decisione che,a nche in virtu’ della scelta di includere una parte
ampia delle colonie israeliane nel perimetro di sicurezza, aveva causato una
condanna pressoche’ unanime a livello internazionale. Nella situazione fluida
che segue la morte di Arafat, e con l’elezione di Abu Mazen (che era stato
uno degli artefici dei precedenti accordi da Oslo in poi), le parti, con il
sostegno di Stati Uniti (che non partecipano direttamente al summit),
Giordania, e del Presidente egiziano Mubarak, si accordano per partecipare
ad un summit per ravvivare la Road Map. L’incontro, avvenuto l’8 febbraio del
2005, si e’ concluso con la dichiarazione della volonta’ delle parti di riprendere
il cammino indicato dal piano, e segna formalmente la fine della Seconda
Intifada, o almeno del sostegno alle attivita’ da parte dei vertici palestinesi.
Reazioni internazionali . La risposta al piano da parte degli Stati Uniti e’
molto positiva, e in uno scambio di lettere dell’aprile 2004 il presidente Bush
riconosce il piano come una mossa che va nella stessa direzione della Road
Map. Le reazioni europee al piano sono state in prima battuta ambigue e se
da un lato hanno espresso preoccupazione per il piano, visto come
un’operazione unilaterale, anche se in un secondo momento hanno
riconosciuto che il piano conduce nella stessa direzione della Road Map
sostenuta dall’Unione Europea, come e’ stato notato da Javier Solata (EU
“foreign representative”) in un incontro con Sharon nel luglio 2004. Le reazioni
dei paesi arabi, ed in particolare quella dell’Egitto, sono state caratterizzate
dal tentativo di mantenere una posizione equilibrata, di fronte alle critiche
palestinesi e alle pressioni americane in favore del piano. Il presidente
Mubarak, in occasione di un incontro con Bush, ha sottolineato come da un
lato “ogni ritiro dai territori occupati e’ molto apprezzato”, le azioni di Israele
dovrebbero essere coordinate con le autorita’ palestinesi ed essere inserite
direttamente nel processo di pace indicato dall Road Map. Una posizione
simile a quella egiziana e’ stata espressa dal re Abdallah di Giordania. La
reazione della Siria, non di aperta opposizione, mira a cercare di inserire il
problema delle Alture del Golan (in possesso di Israele dal 1967) e vede nel
ritiro da Gaza uno spiraglio per le proprie ambizioni. Piu’ critica e’ invece la
posizione dell’Arabia Saudita, che vede nel perdurare dell’occupazione dello
West Bank una continua fonte di conflitto, ed ha una posizione
tradizionalmente meno compromissoria nei confronti di Israele.
Implementazione. Il ritiro dalla Striscia di Gaza e dai quattro insediamenti
dello West Bank e’ cominciato il 15 agosto 2005 e la popolazione e’ stata
trasferita, nonostante qualche incidente, entro il 23 agosto. Nei giorni
seguenti, le forze armate e di polizia israeliane hanno proceduto alla prevista
demolizione delle abitazioni di coloni, lasciando il territorio in mani palestinesi
il 12 settembre, dopo 38 anni di occupazione. Per il momento, le violenze
contro obiettivi israeliani sono state limitate ad atti spontanei che hanno
portato alla distruzione di alcune sinagoghe, e non sono state dirette contro le
forze israeliane o altri obiettivi particolarmente sensibili. Tuttavia, le attivita’ di
polizia da parte delle forze israeliane contro i gruppi radicali palestinesi
(principalmente legati ad Hamas), sono continuate.
Israele accetta la Road Map – nel luglio del 2003 gli israeliani iniziano a
ritirarsi dalla striscia di Gaza passando il controllo alla polizia palestinese,
come previsto – ma con sostanziali riserve. La prima concerne l’uso del
termine ‘occupazione’ per i territori, per cui ha sempre usato il vocabolo
‘amministrazione’; e porre fine alla presenza israeliana nei territori non
significa l’automatico rientro nella linea armistiziale del 1949 (la linea verde),
ma il rifiuto a cedere le zone in cui ci sono insediamenti israeliani. Quindi, la
seconda riserva verte sul diritto al ritorno dei rifugiati e dei profughi, non
accettabile se parte delle terre su cui vorrebbero ritornare è divenuta
israeliana perchè vi sono insediamenti.
L’Autorità palestinese accoglie la Road Map e proclama il cessate il
fuoco (30 giugno 2003), ma la pressione di Israele sulla West Bank scredita il
debole governo del primo ministro palestinese Abu Mazen (Mahmud Abbas),
che il 6 settembre si dimette e quattro giorni dopo è sostituito da Ahmed Qurei
(Abu Ala).
Per rispondere alla una nuova ondata di terrorismo che tra settembre e
ottobre colpisce il paese, Israele decide di colpire una base del Jihad Islamico
in Siria, vicino a Damasco. La Siria protesta all'ONU, mentre il presidente
americano Bush dichiara che lo stato di Israele ha il diritto di lottare contro il
terrorismo. Il 1 ottobre, la Knesset vota il prolungamento del muro di
sicurezza, che ha quasi raggiunto i 180 km di lunghezza. Diverse sono le
tipologie di costruzione: dalle muraglie in cemento armato ai reticolati, dai valli
ai terrapieni con sistemi di protezione elettronica. Lungo il suo percorso, il
muro taglia in due molti paesi palestinesi, alcuni dei quali si ritrovano
totalmente isolati dal territorio circostante.
Tra le misure contro il terrorismo, Israele decide di sferrare in ottobre una campagna
militare a Rafah – nella striscia di Gaza, al confine con l'Egitto – per distruggere le gallerie
sotterranee costruite dai palestinesi per importare clandestinamente armi dall'Egitto. Sono
distrutte molte abitazioni al confine con l'Egitto e fatti saltare in aria tre passaggi sotterranei,
ma nell’operazione muoiono anche civili palestinesi innocenti.
A fine ottobre, alcuni paesi arabi chiedono che il Consiglio di Sicurezza dell’ONU
denunci come illegale la barriera, ma gli Stati Uniti pongono il veto perché nella risoluzione
manca una condanna specifica agli atti terroristici contro Israele. L’Unione Europea presenta
una nuova risoluzione all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, in cui si afferma che la
costruzione del muro è contraria alle leggi internazionali; nello stesso tempo si chiede ai
palestinesi di bloccare gli atti di terrorismo. Israele e l’Autorità Palestinese sono invitati al
rispetto della Road Map e ad impegnarsi per la costituzione dello Stato palestinese entro il
2005. Secondo un’inchiesta dell’OCHA (l’Ufficio di Coordinamento per i problemi umanitari
delle Nazioni Unite), il muro segue solo per l’11% la Linea verde, requisisce il 14% della West
Bank e causa sofferenze a 680 mila palestinesi.
A dicembre, in Israele l'inflazione raggiunge per la prima volta il valore negativo 1,19% annuo, e su proposta di Netanyahu la Knesset vara un programma economico che
grava molto sulla classe media e bassa. I costi dell’intifada e del conseguente calo di turismo,
nonchè delle spese militari e per la costruzione della barriera difensiva nuociono all’economia
del paese.
Le ipotesi di pace sembrano proseguire a Ginevra, dove il 1 dicembre 2003 alcuni
rappresentanti palestinesi e israeliani – tra cui Yasser Abdel Rabbo, vicino ad Arafat, e alcuni
dirigenti laburisti israeliani come Yossi Beilin e Amram Mitzna – firmano un accordo di pace
basato sui risultati di Taba del gennaio 2001.
Il nuovo piano regola tutte le questioni in sospeso: definizione delle frontiere,
spartizione di Gerusalemme, colonie, diritto dei rifugiati e dei profughi, costituzione di uno
stato palestinese indipendente su tutti i territori occupati nel 1967. Il patto di Ginevra cerca di
rispondere alla politica di Sharon con una prospettiva politica e non militare, mostrando che
interlocutori disposti a chiudere il conflitto esistono in entrambi gli schieramenti.
A fine marzo 2004 un nuovo assassinio mirato elimina lo sceicco Yassin, leader
spirituale di Hamas, e il mese seguente con la stessa tecnica è ucciso il suo sostituto, Abdel
Aziz Rantisi. Entrambe le uccisioni provocano la protesta internazionale, mentre tra i militari
israeliani aumentano gli obiettori, che contestano le azioni dell’esercito contro i civili
palestinesi.
La sofferenza per l’occupazione dei territori emerge proprio nello stesso esercito
israeliano, come mostra il fenomeno dell’aumento dei soldati suicidi denunciato da un
rapporto del ministero della riferito al 2003-2004. Secondo il rapporto, reso noto da “Maariv” il
15 luglio 2004, il suicidio è stato nel 2003 la prima causa di mortalità in Tzahal, con 43 morti
rispetto ai 30 periti in operazioni militari – un incremento del 30% di suicidi rispetto al 2002.
I soldati impegnati in prima linea contro i gruppi armati palestinesi, infatti, sono
soprattutto giovani in servizio di leva, quasi sempre diciottenni appena usciti dalla scuola
superiore posti di fronte ad una guerra violenta, condotta senza quartiere contro civili, sino a
giungere spesso all’abbandono di ogni codice comportamentale regolamentato dal diritto
militare.
Non solo i più giovani e inesperti vivono con disagio le operazioni militari nei territori:
27 piloti tra riservisti ed effettivi scrivono a Sharon nel settembre 2003 per rifiutare di prestare
servizio in missioni aeree che danneggiano la popolazione civile palestinese nei territori, e a
fine anno anche alcuni membri del corpo speciale Saieret Maktal scrivono al primo ministro
dichiarando il proprio rifiuto a continuare a violare i diritti umani di milioni di persone.
Tra aprile e maggio del 2004, Sharon preme per il ritiro da Gaza nonostante forti
dissensi in seno al Likud, in cui sembra rafforzarsi l’estremista Netanyahu. Ci sono intanto
manifestazioni di israeliani contro la distruzione di abitazioni civili a Gaza, dove la demolizione
dovrebbe servire ad evitare il contrabbando di armi che si svolge tramite tunnel scavati nel
sottosuolo vicino al confine meridionale. I dirigenti palestinesi più moderati propongono un
ritiro di Israele entro i confini del 1967, senza insistere sul ritorno dei profughi palestinesi.
Il 18 maggio, la squadra di calcio Hapoel Sachnin della seconda divisione,
rappresentante la città palestinese israeliana di Sachnin, vince la finale di Coppa di Israele
battendo l'Hapoel Haifa 4 a 1. Per la prima volta nella storia della competizione nazionale
vince il triofeo una squadra rappresentante una citta' palestinese-israeliana e tutti i
commentatori la definiscono una vittoria della società israeliana.
Ma fuori dal mondo sportive le tensioni crescono già il giorno seguente, quando un
elicottero e un carroarmato israeliano sparano su una folla di manifestanti a Rafah uccidendo
almeno dieci persone, la maggioranza giovani e bambini. Le reazioni dal mondo e in Israele
sono dure ed esprimono grosse preoccupazioni.
Il 20 luglio 2004 una risoluzione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite critica
Israele per la costruzione del muro di sicurezza, in ottemperanza ad una sentenza della Corte
internazionale di giustizia dell’Aja che il 9 luglio aveva chiesto lo smantellamento dei tratti di
barriera esistenti giudicandoli illegali. Il muro, tra l’altro, ha un tracciato che non tiene conto
delle esigenze della popolazione palestinese e divide proprietà, taglia in due villaggi,
distrugge pozzi e terreni agricoli devastando la già fragile economia palestinese e
aggravando le sofferenze della gente.
Alla fine dell'ottobre 2004, dopo un lungo dibattito alla Knesset, il
governo di Sharon ottiene la maggioranza alla mozione di ritiro dalla striscia di
Gaza, da attuare entro il 2005. Per vincere, il premier ha dovuto piegare la
resistenza dei suoi compagni di partito, primo tra tutti il ministro delle finanze
Netanyahu.
3.2 LA MORTE DI ARAFAR E IL RITIRO DA GAZA
L’11 novembre 2004 scompare a Parigi, dove era ricoverato, il leader
storico della lotta palestinese, il presidente dell’ANP Yasser Arafat, confinato
da quasi tre anni nel suo bunker di Ramallah. Il 9 gennaio 2005 Abu Mazen,
dopo che il leader di Al Fatah della West Bank Marwan Barghuti ha ritirato la
propria candidatura, è eletto a sostituire Arafat. Sul nuovo presidente pesa
l’eredità di Arafat, responsabile di una gestione che non ha saputo e voluto
combattere né
il terrorismo né la corruzione interna, contribuendo a
indebolire la società palestinese e a screditarla agli occhi dell’opinione
pubblica internazionale.
Una parte consistente degli stessi palestinesi denuncia da tempo
l’inefficienza e i traffici illegali della dirigenza dell’ANP, ma a discapito dei
gruppi più moderati, messi in ombra dalla radicalizzazione della protesta
popolare sfruttata dal fondamentalismo di Hamas, che ha visto crescere il
proprio consenso. Soprattutto per i giovani, cresciuti solo nei campi profughi,
Hamas ha il triplice volto di organizzazione militare che predica la distruzione
di Israele, di un sistema assistenziale capillare e trasparente, infine di partito
politico forte.
Il problema principale che il governo palestinese dovrà affrontare nei
prossimi anni è proprio quello del controllo della violenza e della rivalità con
Hamas, che grazie al sostegno hezbollah e alla convergenza con Al Qaeda
cerca di egemonizzare la lotta di liberazione palestinese trasformandola in
un’islamizzazione crescente della società e in una radicalizzazione finalizzata
alla distruzione di Israele.
Dal movimento hezbollah, del resto, Hamas ha mutuato non solo la
tecnica kamikaze e la esaltazione religiosa, ma anche un capillare sistema di
assistenza alla popolazione più povera – attraverso sussidi e la costruzione di
asili, scuole, ospedali e altri servizi sociali – attraendone il consenso. La
vittoria di Hamas alle prime elezioni amministrative della striscia di Gaza, nel
gennaio 2005, aumenta il suo potere nei confronti del presidente dell’ANP.
Abu Mazen si trova quindi nella difficile posizione di ricostruire e
rafforzare la leadership dell’Autorità palestinese, di emarginare i gruppi
fondamentalisti soddisfacendo le richieste di Israele e accreditandosi come
interlocutore di una reale volontà di pace, infine di risolvere i problemi
strutturali connessi alla creazione dello stato. Sulla sua credibilità pesa poi un
imbarazzante tesi di dottorato al Collegio Orientale di Mosca,
dall’emblematico titolo L’altro lato, le relazioni segrete tra i nazisti e il
movimento sionista, in cui nel 1982 l’attuale premier palestinese cita
facendole proprie le tesi del negazionista francese Robert Faurisson –
secondo il quale le camere a gas nazionalsocialste non servivano ad
assassinare gli ebrei ma solo per disinfettare ed evitare epidemie – per
disquisire sul numero degli ebrei periti nella Shoah asserendo che possa
anche essere inferiore al milione.
Alla richiesta di spiegazioni sulle tesi ivi sostenute – che il movimento
sionista abbia convinto l’opinione pubblica su una cifra esagerata rispetto al
reale per avvantaggiarsene e che tra nazismo e sionismo vi siano numerose
convergenze – Abu Mazen risponde oggi che all’epoca i palestinesi erano in
guerra con Israele, mentre oggi non vuole parlare del passato ma pensare
solo al processo di pace10.
Nel dicembre del 2004, la Knesset vota favorevolmente la proposta di
Sharon di coinvolgere nel governo i laburisti di Peres, e in gennaio nasce un
governo di unità nazionale. Il nuovo governo Sharon è composto, oltre che dal
Likud, dai laburisti di Shimon Peres e dal piccolo partito ortodosso Fronte
della Torah. L'accordo di coalizione dà a Sharon una chiara maggioranza
10
Vedi P. DI MOTOLI, L’uomo che vuole la pace, in “Diario”, IX, 48, 17 dicembre 2004.
nella Knesset dopo mesi in minoranza, e prevede l'applicazione del piano di
ritiro unilaterale dalla striscia di Gaza e di quattro colonie ebraiche dal nord
della West Bank.
Dopo quattro anni di guerra, il vertice di Sharm el Sheik del febbraio
2005 apre nuovi spiragli di pace: Sharon e Abu Mazen, indeboliti entrambi da
dissensi interni ai rispettivi popoli, annunciano la fine delle ostilità e il
raggiungimento di un accordo sul ritiro dell'esercito israeliano da Jerico,
mentre sono avviati negoziati per la riconsegna di altre quattro città alle
autorità palestinesi.
Alla fine di marzo alla Knesset il fronte contrario al ritiro da Gaza e che
chiede un referendum in merito subisce una pesante batosta – 72 voti contrari
al referendum, o meglio ad un disegno di legge che avrebbe autorizzato la
possibilità di indire referendum del genere, e solo 39 a favore – nonostante
alcune defezioni di primo piano all'interno del Likud, dove il ministro delle
finanze Netanyahu, il titolare degli esteri Silvan Shalom e quello
dell'educazione Limor Livnat si sono schierati con l'ultradestra e i coloni.
Contro il referendum, dunque a favore del piano Sharon, hanno votato, oltre a
poco più della metà dei rappresentati del Likud, l'intero gruppo laburista, i
radicali di sinistra del Meretz, il piccolo partito comunista, i deputati arabiisraeliani.
Il 9 giugno la Corte Suprema Israeliana boccia il ricorso dei coloni contro
lo smantellamento degli insediamenti nella striscia di Gaza e nel nord della
West Bank con una sentenza storica: per la prima volta è infatti stabilito che i
territori, in quanto occupati nel corso di una guerra, non fanno parte dello
Stato di Israele. Tuttavia, la popolazione israeliana e' divisa: 46% per il ritiro
dalla striscia di Gaza, 36% contro, 18% gli indecisi.
A fine mese esce allo scoperto davanti alle telecamere il primo
refusenik, un obiettore che ha accolto l’appello rabbinico a rifiutarsi di
partecipare alle operazioni di sgombero delle colonie. È il caporale
diciannovenne Avi Bieber, di stanza con la sua unità nella colonia di Shirat
HaYam a Gaza: quando scopre che l’esercito lo ha destinato a partecipare
allo smantellamento di alcune abitazioni per evitare che siano occupate
abusivamente dai contrari al disimpegno, rifiuta di obbedire agli ordini e viene
arrestato.
Nei mesi immediatamente precedenti l’hitnatkut, infatti, alcune migliaia
di persone rispondono all’appello dei coloni perché vadano in loro soccorso e
confluiscono a Gaza, dove creano insediamenti provvisori che contrastino lo
sgombero. Tzahal provvede a smantellare i nuovi avamposti dei coloni e
chiude le vie di accesso alle colonie per impedirvi l’arrivo di rinforzi esterni.
Il 15 agosto inizia il ritiro di Sharon – che chiarisce essere un ritiro
unilaterale, non l’inizio della Road Map – da Gaza con lo smantellamento
delle 21 colonie sorte dopo la guerra dei Sei Giorni, e da 4 colonie della West
Bank. Il 12 settembre alle 7 della mattina gli ultimi soldati israeliani si
chiudono alle spalle i cancelli e se ne vanno. Lo stesso giorno, la popolazione
palestinese che si riversa nelle ex colonie distrugge le sinagoghe.
Nonostante il timore di attentati compiuti da kamikaze ultrareligiosi ebrei e di una
violenta resistenza allo Tzahal che conduce le operazioni, l’hitnatkut è compiuto con tafferugli
ma senza gravi incidenti. La maggior parte della popolazione abbandona le abitazioni
pacificamente; solo in alcune occasioni giovani provocatori di estrema destra rendono le
operazioni di sgombero difficili alle forze dell'ordine. I media israeliani, a segnalare anzi
l’unione di un popolo in un momento tanto difficile, si soffermano sulle immagini di soldati in
lacrime abbracciati a coloni piangenti.
Il disimpegno dai territori non è solo una questione politico-diplomatica relativa da un
lato al consenso internazionale e alla risoluzione del conflitto con i palestinesi, dall’altro alla
sicurezza interna di Israele. Vi sono, infatti, anche degli aspetti economici che non possono
essere sottovalutati, come indica il rapporto steso dal sociologo Shlomo Swirski nello studio
The Price of Occupation. The Cost of Occupation to Israeli Society, premettendo che “Il
prezzo più alto che stiamo pagando oggi è il prezzo dell’arroganza” seguita alla vittoria
11
militare nella Guerra dei Sei Giorni del 1967 .
Sebbene gli israeliani stessi si siano a lungo interrogati sugli aspetti morali, religioni e
politici dell’occupazione del 1967, hanno spesso tralasciato di considerare i costi della
presenza militare nei territori – e, agli investimenti nei territori, vanno aggiunte anche le
perdite, come l’incidenza del costo della repressione delle due intifade sulla crescita del
prodotto nazionale.
Se, infatti, fino al 1987 il costo della presenza israeliana nei territori è stato limitato
grazie ad un contenimento della presenza dei militari e delle spese governative e all’afflusso
di manodopera palestinese sul mercato israeliano, con la prima intifada ad un aumento
enorme dei costi dell’occupazione si è aggiunta una lunga recessione in Israele. La seconda
intifada, da questo punto di vista, ha un impatto ancora più devastante sull’economia
israeliana, con la più lunga recessione nella storia israeliana e perdite stimate intorno ai
50.000 miliardi di NIS.
Una prima cesura è però individuata da Swirski vent’anni prima, con la guerra dei Sei
Giorni: è da allora che l’integrazione degli immigrati diviene meno prioritaria della creazione di
colonie e delle spese militari, mentre la presenza dell’esercito nella West Bank penalizza lo
sviluppo dell’economia palestinese – dal 1967 al 2003, le perdite per la West Bank e Gaza
sono quantificate in 2.400 miliardi di dollari e sono dovute alla chiusura dei territori, alla
disoccupazione, al danneggiamento delle infrastrutture. Oltre 4.000 miliardi di dollari sono
stati persi negli introiti economici, mentre il 70% delle fabbriche ha chiuso o smesso di
produrre. Il 75% della popolazione vive sotto la soglia della povertà e il 30% dei bambini sotto
12
i 5 anni di età soffre di denutrizione .
11
S. SWIRSKI, The Price of Occupation. The Cost of Occupation to Israeli Society , Tel Aviv,
Adva Center, 2005, p. 5. Trad. it. mia.
12
Christian Aid’s report Losing Ground, 2003.
Ai costi quantificabili si aggiungono quelli non quantificabili come l’instabilità politica e
la perdita di immagine di un’istituzione come Tzahal, con la conseguente nascita di un
movimento di obiezione di coscienza tra i giovani che non vogliono opprimere i palestinesi dei
territori.
La stessa politica di disimpegno di Sharon si rivela assai dispendiosa, sia per la
costruzione del muro di separazione – che tra l’altro non si attesta sulla linea verde ma
penetra nella West Bank e segue un andamento non lineare (155 Km) ma molto tortuoso
(700 km), per includere in territorio israeliano alcuni insediamenti ebraici della West Bank, e il
cui costo è stimato in quasi 2.000 miliardi di dollari – sia per l’hitnatkut, l’indennizzo ai coloni
evacuati e lo spostamento delle basi militari smantellate da Gaza.
Per i coloni che accettano il piano, infatti, il governo approva uno stanziamento tra
550 e 670 milioni di dollari in due anni fiscali, da cui sono esclusi solo quanti oppongono una
resistenza attiva al trasferimento – ma non quelli che restano a Gaza anche dopo lo scadere
del termine previsto e sono fatti allontanare dall’esercito. I coloni che lasciano gli insediamenti
volontariamente riceveranno ulteriori sgravi fiscali e benefici. Il mantenimento delle proprie
infrastrutture a Gaza (rete idrica, elettrica, fognaria e di telecomunicazione) affittate ai
palestinesi e la fornitura di energia costituiscono tuttavia un introito che compensa in parte le
spese per gli indennizzi ai coloni.
Il ritiro da Gaza ha infine un’implicazione importante nei rapporti con l’Egitto, poiché i
due paesi devono mutare alcune clausole degli accordi di pace del 1979 in vista di un
riposizionamento di truppe egiziane nel Sinai per vigilare su Gaza restituita all’ANP. La
disponibilità di Sharon ad accettare la parziale rimilitarizzazione del Sinai dimostra
l’importanza che per Israele rivestono la sorveglianza su Gaza e anche la fiducia nell’Egitto –
il quale però, pur proclamando l’importanza della pace con Israele, ha provveduto ad un tale
incremento ed ammodernamento delle proprie forze armate.
3.3 ATTORI E PROSPETTIVE
DEL PROCESSO DI PACE
Israele.
Il completamento del ritiro secondo il Piano Sharon pone Israele in una
situazione relativamente favorevole dal punto di vista internazionale e segnala
allo stesso tempo l’effetto che le divisioni interne alla societa’ israeliana
possono avere sul processo di pace. A livello internazionale, nonostante
alcune voci contrarie, il ritiro da Gaza e’ stato visto come una prova della
volonta’ di Israele di fare rinunce a favore della comunita’ palestinese che
vanno nella direzione indicata dagli accordi di pace e in particolare dall Road
Map. Al ritiro da Gaza e’ seguito un certo attivismo della diplomazia israeliana
nei confronti dei paesi arabi, con un viaggio del ministro degli Esteri israeliano
Shalom alle Nazioni Unite a New York in cui ha incontrato leader dei paesi
arabi (e il presidente del Pakistan Musharraf, i cui rapporti nei confronti di
Israele sono tradizionalmente ostili). A questi incontri e’ seguito un primo
passo verso la ricostruzione dei legami diplomatici con la Tunisia.
A livello interno, tuttavia, il piano di ritiro da Gaza ha polarizzato la politica
israeliana. Il piano ha trovato sostegno da parte della leadership del partito
Laburista, ed in particolare di Shimon Peres (entrato a far parte del governo
nel gennaio 2005 per garantire un ampio sostegno al piano di ritiro).
L’ingresso laburista nel governo e’ stato fondamentale per l’approvazione del
piano (e per respingere le proposte di posporre il ritiro) di fronte alla
contrarieta’ di una parte del partito Likud di Sharon, il quale proprio all’interno
del proprio partito e’ stato sconfitto a riguardo del piano. L’attitudine contraria
al ritiro del Likud e di alcuni partiti di matrice religiosa, con particolare
riguardo di quelli particolarmente popolari fra i coloni, mettono in luce che il
proseguimento del processo di pace trova l’opposizione di una parte rilevante
della societa’ israeliana. Tale opposizione sembra emergere con particolare
forza e raccogli maggiori consensi nel caso venga ridiscusso lo status di
Gerusalemme o di fronte al successo che gruppi legati ad attivita’ terroristiche
(come Hamas) hanno all’interno della leadership palestinese.
Autorita’ Palestinese.
Il principale problema che l’attuale leadership palestinese si trova ad
affrontare rimane quello della forza dei gruppi radicali come Hamas. Fateh, il
partito di Abu Mazen, rimane maggioritario ma le recenti elezioni municipali
(vinte da Fateh) hanno mostrato la solidita’ di Hamas nell’elettorato (Hamas
ha ottenuto il controllo di 28 delle 104 municipalita’). Di fronte al rifiuto
israeliano di riconoscere il risultato delle future elezioni legislative palestinesi
(che si terranno nel gennaio 2006) in caso di partecipazione di Hamas a tali
consultazioni, la leadership palestinese si trova a giocare una complicata
battaglia: la ricerca della legittimita’ e di un largo consenso sono almeno
parzialmente in conflitto con la possibilita’ di trovare un interlocutore ben
disposto non solo in Israele, ma anche negli Stati Uniti (che hanno inserito
Hamas nella loro lista delle organizzazioni terroristiche).
Nazioni Unite.
Il ruolo delle Nazioni Unite nel processo di pace ha subito un certo
ridimensionamento nel corso dei decenni. Benche’ presente nel “Quartetto”, il
ruolo delle Nazioni Unite non e’ apertamente propositivo. Due funzioni
sembrano essere destinate a perdurare, e forse ad aumentare d’importanza,
all’attuale stadio di sviluppo del processo di pace. La prima funzione e’ quella,
tradizionale, di forum per la discussione delle proposte, luogo d’incontro
‘neutrale’. Il recente viaggio del ministro degli Esteri israeliano Shalom al
Palazzo di Vetro ne e’ un esempio. Tuttavia questa funzione, almeno per
quanto riguarda la sede delle Nazioni Unite a New York, potrebbe essere
messa in dubbio dall’emergere di una leadership palestinese piu’ radicale. Nel
1988, per esempio, il Dipartimento di Stato americano ha negato il visto a
Yasser Arafat, il quale non ha potuto partecipare all’Assemblea Generale
delle Nazioni Unite.
Il secondo ruolo delle Nazioni Unite potrebbe essere quello di costituire il
punto di riferimento per il monitoraggio delle misure di implementazione della
Road Map e piu’ in generale degli accordi di pace. In particolare, le Nazioni
Unite hanno gia’ avuto un ruolo come organizzatore delle elezioni
presidenziali palestinesi del gennaio 2005, e avranno un ruolo simile nelle
prossime elezioni legislative. Quando non direttamente impegnate
nell’organizzazione, e’ probabile che le Nazioni Unite avranno lo status di
osservatore. La neutralita’ dell’ONU la rende l’attore ideale anche per
interventi piu’ complessi: dalla costituzione di commissioni al fine di valutare
l’esecuzione degli accordi all’invio di truppe (con funzioni di stabilizzazione),
che rimane un’eventualita’ specialmente se la prosecuzione del processo di
pace portasse a toccare temi ‘sensibili’ quali lo status di Gerusalemme.
Stati Uniti. Gli Stati Uniti rimangono l’attore esterno principale del processo di
pace. Questo sia per la loro posizione di “unica superpotenza” nello scenario
internazionale e in quello mediorientale, sia per il particolare legame con
Israele. Inoltre, le proposte di risoluzione del conflitto che hanno avuto
maggior successo sono sempre state sponsorizzate, piu’ o meno
direttamente, dagli Stati Uniti. Questo e’ accaduto nonostante l’acuta
percezione da parte di una parte rilevante della popolazione palestinese (e
della leadership) che gli Stati Uniti siano fortemente pro-Israeliani. Il sostegno
americano per la nuova leadership palestinese segnala la volonta’ legare il
processo di pace e la pressione americana su Israele alla lotta di Abu Mazen
contro gli elementi radicali che sponsorizzano il terrorismo. Come maggior
partner commerciale, fornitore di aiuti civili e militari, e alleato di Israele nella
regione, gli Stati Uniti appaiono l’unico attore seriamente in grado di
influenzare la leadership israeliana. Almeno in parte, dunque, le promesse
fatte agli Stati Uniti da parte di Sharon relativamente alla volonta’ di ritirarsi
progressivamente dallo West Bank dovrebbero servire da garanzia anche alla
leadership palestinese.
In questo contesto, tuttavia, l’ostilita’ della popolazione palestinese nei
confronti delle politiche americane rappresenta un ostacolo al fatto che gli
Stati Uniti possano giocare ‘da soli, il ruolo di garante del processo. Questa
riflessione guida la scelta americana del Quartetto che comprende anche
Nazioni Unite, Unione Europea, e Russia nel sostegno della Road Map. Tale
riflessione guida anche il tentativo americano di coinvolgere i paesi arabi
‘moderati’ (Giordania, Egitto in primis), e piu’ recentemente anche la Siria, nel
processo di pace. La presenza di tali paesi dovrebbe garantire la posizione
palestinese. Inoltre, la guerra in Iraq, e la sua impopolarita’ fra la popolazione
araba, potrebbe portare gli Stati Uniti ad investire di piu’ su un ruolo come
“honest broker” nel processo di pace. In ultima analisi, la posizione americana
rimane legata alla Road Map come l’unico piano in grado di portare avanti il
processo di pace con la costituzione di due stati separati.
Unione Europea. Il ruolo principale dell’UE nel processo di pace e’ stato
quello di fornire aiuti di carattere economico alla Palestina. In precedenza, le
Dichiarazioni di Berlino (1999) e di Siviglia (2002) avevano espresso una
posizione ufficiale basata sui seguenti principi:
•
Centralita’ del negoziato, esclusione della violenza come mezzo di
risoluzione delle controversie.
•
Creazione di uno Stato Palestinese, sovrano e democratico, che
riconosca e conviva pacificamente con lo Stato di Israele.
La posizione ufficiale dell’UE oggi continua ad essere di equidistanza fra le
parti in conflitto, e di sostegno alla Road Map. La partecipazione dell’UE al
Quartetto rappresenta un segno di un effettivo mutamento qualitativo del ruolo
dell’Unione, da donatore e fornitore di assistenza economica a partner nella
proposizione di progetti per la risoluzione del conflitto. Recentemente, dopo
una iniziale incertezza, l’UE ha ufficialemente espresso il proprio sostegno
alla scelta di Israele di ritirarsi da Gaza e da parte dello West Bank, come un
primo fondamentale passo verso il completamento della Road Map.
Il principale limite dell’azione europea puo’ essere rintracciato nell’ancora
basso livello di coordinamento delle politiche estere dei paesi europei e del
limitato ruolo che l’UE puo’ giocare come attore unitario in questo settore. La
politica europea nel processo di pace risente delle differenze tradizionalmente
esistenti sulla questione palestinese fra i principali stati dell’Unione, ed in
particolare tra Francia e Gran Bretagna. Mentre la politica francese verso la
Palestina e’ caratterizzata da una tendenza al sostegno della causa
palestinese, quella britannica e’ piu’ vicina alle posizioni americane e in
sostegno di Israele.
Paesi arabi e islamici.
La posizione dei paesi arabi ed islamici a riguardo del processo di pace dopo il ritiro
israeliano da Gaza, aldila’ delle dichiarazioni congiunte (di generale e ‘generico’ sostegno alla
causa e alla popolazione palestinese) varia a seconda dei rapporti bilaterali con Israele di
ciascuno stato. La normalizzazione dei rapporti fra Egitto ed Israele e fra Giordania ed Israele
nel 1994 rende le relazioni di questi paesi piuttosto aperte al compromesso e ad accettare le
aperture israeliane, specie quando queste sono legate anche al miglioramento dei rapporti
con gli Stati Uniti. I principali problemi, in particolare per la Giordania, sono il ruolo
dell’opinione pubblica (esiste in Giordania una forte componente palestinese), talvolta
apertamente anti-israeliana, e la questione dei rifugiati. La creazione dello Stato Palestinese
porterebbe a dover ridiscutere il problema dei rifugiati giordani, il che quantomeno darebbe
luogo ad un complesso processo negoziale. I principali problemi che caratterizzano la
relazione fra Siria ed Israele sono il possesso delle Alture del Golan e, almeno finora, la
questione libanese. E’ su questi due campi che si misurano le capacita’ negoziali delle parti,
ed in ultima analisi il sostegno siriano ad elementi radicali palestinesi, che ha caratterizzato a
lungo la politica della Siria e che ha creato i maggiori problemi con Israele.
Arabia Saudita e Pakistan, che non hanno diretti interessi territoriali in gioco nel processo di
pace, hanno tradizionalmente adottato una politica di maggiore intransigenza nei confronti di
Israele, dettata principalmente dalla percezione delle elite dei due paesi che le rispettive
opinioni pubbliche (pure di diversa composizione etnica; una e’ araba e una no) fossero molto
sensibili alla causa palestinese. Nonostante alcune aperture negli ultimi mesi, il Pakistan ha
recentemente rifiutato gli aiuti offerti da Israele in occasione del terremoto occorso nell’ottobre
2005. In ogni caso, il Pakistan, per quanto possa essere una “spia” dello scarso sostegno che
Israele gode nell’opinione pubblica musulmana, non gioca un ruolo centrale nel processo di
pace. Per l’Arabia Saudita, che invece esercita un ruolo centrale nel mondo arabo, il rapporto
con gli Stati Uniti e’ una variabile fondamentale da considerare quando si tratta di tradurre
dichiarazioni e retorica in azioni politiche concrete.
La posizione dell’Iran, di tradizionale avversione ad Israele, e di sostegno a gruppi (anche
terroristici) come gli Hezbollah in Libano con chiare funzioni di opposizione ad Israele,
potrebbe diventare, specialmente in caso di acquisizione da parte iraniana di armi nucleari,
centrale per il processo di pace. Un Iran in possesso di armi nucleari aggiungerebbe una
variabile alla complessa equazione su cui si basa la sicurezza israeliana nella regione, e
dunque complicare il processo di pace, cosi’ come questo e’ stato complicato nei decenni
passati dalle rivalita’ territoriali fra Israele e i paesi arabi vicini. Per quanto riguarda l’Iraq, in
passato fonte di preoccupazione per Israele, la fluida situazione al momento impedisce di
caratterizzarlo come un attore importante del processo.
La società israeliana tra Medinat Israel e Medinat Halakah
Stato di Israele – questo è il nome dello stato ebraico sorto il 14 maggio 1948 – o
stato della legge religiosa e della tradizione giuridica che determina la pratica normativa?
Qual è il peso effettivo della destra ultrareligiosa, sia dei nazionalisti sia degli anti sionisti che
rinnegano lo stato di Israele e un’identità israeliana? L’interrogativo, emerso più volte nella
breve storia di Israele, è tornato alla ribalta tra il 2004 e il 2005, dopo la nascita di una
violenta opposizione della destra ultrareligiosa e dei coloni alla decisione di Sharon di ritirarsi
unilateralmente da Gaza.
Che la società israeliana sia divisa e incerta sulla propria identità e sul proprio futuro
appare anche da un sondaggio di “Yediot Ahronot” pubblicato a maggio del 2005, in cui
emerge che il 58% degli intervistati vede nella costruzione delle colonie nei territori il
principale errore politico israeliano, ma se il dialogo con i palestinesi è auspicato dal 30% c’è
anche un 20% che vorrebbe l’espulsione di massa degli arabi e un 4,3% giunge ad
auspicarne lo sterminio o una vita in ghetti.
L’equilibrio della società israeliana è assai delicato, a causa di cinque grosse fratture
che la attraversano: religiosità, diverse posizioni politiche spesso agli estremi, etnie,
nazionalità – in questi due ultimi ambiti, vi sono grosso modo sei gruppi, riassumibili in Edot
ha Maarav o comunità occidentali o askenaziti; orientali (a loro volta suddivisi in numerose
etnie, tra cui spiccano gli etiopi per la recente immigrazione e il non ancora completo
assorbimento); russi; ultrareligiosi; straneri e musulmani.
Gli aspetti di religiosità laica del sionismo laburista, se così si può chiamare, vale a
dire l’assunzione di concetti religiosi piegati alle nuove esigenze laiche dello stato,
permangono nella formazione delle istituzioni israeliane. Il sionismo stesso è ambiguo nella
sua commistione di elementi illuministi (i valori liberali; un sistema politico democratico; la
fede nella scienza e nella capacità umana di costruire il proprio futuro) e romantici (il ritorno
alla patria atavica, Eretz Israel, preferito a qualsiasi altro luogo; la costruzione di simboli
nazionali).
Se però il sionismo laburista di Ben Gurion ha cercato un compromesso tra
concezione religiosa e geopolitica dello stato, la destra nazionalista di Zeev Jabotinsky e del
successivo Herut di Begin ha avanzato con forza la concezione religiosa del popolo ebraico
insediato su entrambe le rive del Giordano, la Grande Israele.
Il problema risiede nel rapporto tra comunità religiosa e comunità nazionale, eterna la
prima e moderna la seconda, figlia della secolarizzazione. In Israele il processo di
secolarizzazione non è completo, e lo stato è nato con caratteri duplici, sia tradizionali
religiosi, sia laici. Ne è un esempio la presenza simultanea di un doppio sistema educativo
laico e religioso – la più grande concessione ai religiosi insieme all’esenzione dal servizio
militare.
Israele è, sotto questo profilo, l’unico stato etnico nel mondo occidentale, dichiarando
di essere la patria naturale dei soli ebrei e non ponendo limiti all’immigrazione ebraica
diversamente dalle altre. L’assunzione della nazionalità israeliana, infatti, è automatica per
tutti gli ebrei che vogliono immigrare in Israele, secondo la Legge del Ritorno del 1950 e
quella sulla Nazionalità del 1952. Lo stesso concetto di aliah (salita), termine specifico per la
sola immigrazione ebraica, ha un significato religioso profondo (l’ascesa verso la terra
spiritualmente superiore), che i sionisti fanno proprio insieme al mito del chalutz (pioniere)
che coltiva la terra addomesticandola e rendendola fertile.
Un emendamento del 1970 definisce chi è ebreo – colui che è nato da madre ebrea o
che si è convertito all’ebraismo secondo la corrente ortodossa e non pratica altra religione –
consentendo l’immigrazione a non ebrei figli, nipoti o pronipoti di ebrei per favorire il
ricongiungimento familiare con i parenti in occasione della prima ondata immigratoria russa.
L’emendamento del 1970, tuttavia, riconosce come ebrei anche ebrei che per la Halakah non
sono tali, come gli immigrati indiani, i falascia etiopi e parte degli immigrati dall’ex Unione
Sovietica, per cui sono state richieste conversioni all’ebraismo.
Vi sono poi casi controversi, come quello di figli di madre ebrea convertita ad altra
religione, atei, ebrei convertiti ad altra religione ma che a livello culturale continuano a
ritenersi ebrei pur essendo rifiutati come tali dal diritto rabbinico. Quando, nell’attentato alla
discoteca Dolphinarium di Tel Aviv, sono morti adolescenti immigrati dall’ex Unione Sovietica,
un acceso dibattito ha accolto le perplessità rabbiniche sulla sepoltura ebraica per alcuni
ragazzi.
Israele parla l’ebraico relegando l’arabo ad una condizione inferiore, ha simboli e
festività esclusivamente ebraici, è endogamica. Tuttavia, le istanze laiche sono altrettanto forti
di quelle religiose, e per questo la comunità nazionale israeliana ha visto convivere e sempre
più spesso scontrarsi le due componenti religiosa e secolare.
Tutti gli ebrei fanno parte del ‘popolo di Israele’, mentre la definizione ‘popolo
israeliano’ indica tutti i cittadini israeliani, compresi i non ebrei. Il ‘popolo di Israele’ è una
comunità religiosa, il ‘popolo israeliano’ una comunità nazionale in costruzione; l’israeliano è
sempre più ebreo giacchè membro della nazione ebraica, ma il processo laicizzante ne
farebbe sempre meno un ebreo inteso come aderente alla religione ebraica, se non vi fosse
la crescente opposizione degli ultrareligiosi.
L’assemblea costituente eletta all’inizio del 1949 non riesce ad emanare una
costituzione a causa della forte opposizione dei partiti religiosi, che riconoscono come legge
suprema solo quella divina, e David Ben Gurion accetta il compromesso di adottare solo leggi
ordinarie evitando il controllo della Corte Suprema – si ricorda per inciso che tuttora la
giurisdizione israeliana si basa su una serie di Leggi Fondamentali e non su una costituzione.
L’adozione di una costituzione è avversata da molti, per vari motivi: solamente una
minoranza del popolo ebraico si trova all’epoca in Israele e un testo di legge rigido è
difficilmente piegabile alle esigenze sociali future derivanti dall’immigrazione ebraica. Inoltre, i
partiti religiosi vedevano, nella adozione di una costituzione, un pericolo per la legislazione
religiosa – in particolare per una sua presumibile sottoposizione a controllo di costituzionalità,
che avrebbe probabilmente portato all’annullamento di alcuni precetti come incostituzionali.
Quando, alle prime elezioni del gennaio 1949, nessun partito ottiene la maggioranza
alla prima Knesset, il Mapai di Ben Gurion – Partito Laburista della Terra di Israele, nato nel
1930 e che nel 1968-1969 diventerà, con il socialista Mapam, Partito Laburista – decide di
allearsi ai partiti religiosi, contrari ad una costituzione, invece che al Mapam, favorevole.
Il leader laburista concede ampi poteri ai tribunali rabbinici, che le feste religiose
siano festività nazionali, il rispetto della casherut (prescrizioni rituali sulla preparazione e sul
consumo degli alimenti) per tutti gli enti e gli organismi pubblici, sovvenzioni statali e completa
autonomia al sistema educativo religioso. Durante lo Shabbat e le feste ebraiche, i trasporti
pubblici non funzionano e vengono chiuse molte strade che attraversano i quartieri religiosi.
Gli scavi archeologici nei luoghi considerati sacri dagli ultrareligiosi sono il più possibile
limitati. In cambio, il rabbinato riconosce la supremazia dello stato e della Knesset.
Questa alleanza con i partiti religiosi influenzerà notevolmente il futuro del paese per
il peso crescente delle rivendicazioni religiose contrapposte alle necessità laiche, anche
perché una parte sempre più vasta della popolazione ebraica, anche laica, accetta alcuni
valori religiosi (compresa la santità di Eretz Israel) che pesano sulle scelte politiche dello stato
e la delega di ampi poteri civili e politici ad organi religiosi – il rabbinato ortodosso ha il
controllo del sistema educativo, della sepoltura dei morti e dei cimiteri, del diritto di famiglia
che regola matrimoni e divorzi.
Nella Dichiarazione di Indipendenza, Israele si definisce contemporaneamente stato
ebraico (“la rinascita dello Stato Ebraico in Eretz Israel”) fondato sulla fedeltà alla propria
identità spirituale e religiosa – come vorrebbe il richiamo finale del testo, aspramente
dibattuto in fase preparatoria, alla “roccia di Israele”, uno degli appellativi divini – e fedele
all’insegnamento dei Profeti, ma anche uno stato che nasce per ragioni storiche in quello che
era il luogo di origine (non la terra finalisticamente promessa) del popolo ebraico. Il principio
etnico di appartenenza con cui nasce lo stato di Israele si rafforzerà non solo con
l’acquisizione della memoria della Shoah, ma anche a causa dei conflitti con i paesi arabi.
Dunque, il diritto ad insediarsi in questo territorio è visto come naturale, religioso e
storico, con un miscuglio di istanze religiose e laiche, e anche il concetto di diritto storico
diventa problematico poiché rimanda ad una presenza ebraica lontana migliaia di anni: gli
ivrim (ebrei: venuti dall’altro lato ovvero dall’altra parte dell’Eufrate) provengono da oriente e
si stanziano in Mesopotamia circa 2.000 anni prima dell’Era Corrente, inziando a chiamare la
terra su cui si insediano Eretz Israel.
Se le ragioni religiose si rifanno all’alleanza con la divinità sancita durante il
passaggio dall’Egitto e consolidata nei millenni fino al galut, l’esilio seguito alla seconda
distruzione del Tempio nel 70 dell’Era Corrente, quelle storiche si richiamano ad una
presenza ebraica sul territorio di fatto mai interrotta ma che cresce molto a fine Ottocento con
l’immigrazione di quanti lasciano l’Europa sulla spinta del sionismo.
Se già dal galut, infatti, vi sono vari movimenti nazionalisti per il ritorno a Sion (una
delle sette colline di Gerusalemme dove è sepolto re Davide), la questione ebraica di una
patria e il sionismo vero e proprio nascono a metà Ottocento, sulla scorta dei nazionalismi
europei e del timore di assimilazione seguito all’acquisizione di diritti decretata dalla
Rivoluzione Francese, e dopo che il tradizionale antigiudaismo si trasforma in teoria razziale
antisemita.
La scelta sionista ricade sulla patria biblica sia per il legame atavico spirituale con
tale luogo, sia per la possibilità di acquistare terra in questa zona periferica dell’impero
ottomano. I movimenti socialisti ebraici sionisti hanno poi un peso influente nella creazione
dell’ideale pioniere di ritorno alla terra, da conquistare con il lavoro, per costruire
materialmente una patria dopo secoli di passivo immobilismo nell’esilio europeo.
Se piccole immigrazioni iniziano già nel Settecento soprattutto dall’Europa orientale,
l’utopia del ritorno diviene progetto politico concreto nel secolo successivo, grazie alle
influenze dell’illuminismo, che diffonde le richieste di emancipazione individuale e di
uguaglianza dei cittadini, e del romanticismo, tramite il quale si affermano il principio di
emancipazione nazionale e l’idea di patria.
Oltre che sull’immigrazione sionista iniziata a fine Ottocento e che subito caratterizza
il movimento in senso coloniale, le ragioni storiche della presenza ebraica sul territorio si
basano poi sulla politica britannica di consenso ad una patria ebraica in Palestina (con la
Dichiarazione Balfour del 1917) e sulle decisioni internazionali successive alla Seconda
Guerra Mondiale influenzate dal senso di colpa degli alleati per non aver fermato la Shoah
anche quando era possibile intervenire, mentre gli arabi scontano la loro politica filonazista e i
palestinesi la debolezza e le rivalità interne al proprio movimento coloniale.
Nel 1948, grazie a queste premesse, le forze sioniste riescono a rispondere
all’attacco dei paesi arabi scacciando – complici anche gli appelli della dirigenza araba a
lasciare le case e a fuggire – quasi un milione di palestinesi, ovvero la maggioranza della
popolazione autoctona, dalla propria terra. A seguito della guerra del 1948, lo stato ebraico si
trova in possesso di quasi l’80% della Palestina mandataria, e l’intero apparato statale si
mobilita per acquisire legalmente la terra araba lasciata dai palestinesi e per distribuirla ai
nuovi immigrati che stanno arrivando in massa nei primi anni Cinquanta.
È soprattutto per i nuovi immigrati che sono edificati numerosi kibbutzim e
13
mosciavim , che però rispondono anche ad un’altra esigenza: collocati nelle zone di confine
e in quelle periferiche, i nuovi insediamenti hanno una funzione militare di cuscinetto. Non a
caso, inoltre, i nuovi immigrati che devono colonizzare la terra provengono soprattutto da
paesi musulmani e fanno parte di quelle Edot ha Mizrah a lungo discriminate perché
considerate ‘arabe’ e tuttora non integrate appieno nella società israeliana.
Gli ebrei delle Edot ha Mizrah sono stati marginalizzati spazialmente nelle periferie
urbane, nei quartieri poveri (da cui partiranno le rivolte, a partire da Wadi Salib a Haifa nel
1959) e nelle città di sviluppo sorte in aree periferiche e nel deserto. Da qui, oltre che
dall’assenza di politiche capaci di promuoverne l’istruzione e l’integrazione, è iniziata
l’emarginazione sociale, economica e culturale della comunità orientale.
Il progetto sionista prevede, infatti, la giudeizzazione del territorio, con un progetto
etnocratico basato su tre divisioni fondamentali – arabi/ebrei, askenaziti/orientali,
laici/religiosi. Dal 1967, Israele può essere definito un’etnocrazia (ebraica) con due
etnonazioni (ebrei e palestinesi) e diverse etnoclassi (ebraiche con askenaziti, orientali, russi;
14
palestinesi con musulmani e beduini, cristiani, drusi) .
Dalla nascita di Israele e dal compromesso di Ben Gurion con i partiti religiosi, al
favore accordato dagli ebrei emarginati delle Edot ha Mizrah e dai movimenti ultrareligiosi a
Begin nelle elezioni del 1977, il passo è breve. Dopo la vittoria del Likud, ai movimenti
religiosi e alla loro idea di Eretz Israel come Grande Israele sarà concesso uno spazio
sempre crescente e che entra inevitabilmente in contrasto con qualsiasi ipotesi di pace e di
uno stato palestinese nella stessa West Bank che dovrebbe costituire la Grande Israele.
La medesima radicalizzazione che nel 1995 porta all’assassinio di Rabin ostacola
oggi il ritiro unilaterale da Gaza e il progetto politico di Sharon in generale. Nell’aprile 2005
sono profanate le tombe di Lea e Ytzhak Rabin a Har Hertzl a Gerusalemme e di David Ben
Gurion a Sede Boker, chiamandoli “Hitler” e “cani assassini” come nelle nuove scritte che sui
muri di Gerusalemme attaccano il primo ministro: “Sharon, Rabin ti aspetta” è la minaccia
comparsa nei pressi dell’ufficio del premier e che si aggiunge ad altre minacce di morte che
da mesi insistono sul richiamo alla sorte del fautore degli accordi di Oslo: “Prima Rabin, ora
tocca a Sharon”, “auguri di cuore al prossimo assassino”.
A montare l’odio, come nel 1995, sono i rabbini della destra ultrareligiosa, tra cui si
distinguono Avraham Shapira, il quale si appella ai riservisti perché disertino la chiamata di
Tzahal in vista del ritiro da Gaza, e Josef Dayan, già responsabile della stessa maledizione
cabalistica che minaccia contro Sharon e che aveva fatto contro Rabin un mese prima della
sua uccisione, la Pulsa de Nura (staffilata di fuoco).
13
Il kibbutz (adunanza, riunione) è un insediamento agricolo collettivo stabile, nato tra gli anni
Dieci e gli anni Venti del XX secolo, che coniuga l’ideologia socialista alle esigenze tattiche di
creare nuclei autonomi in grado di difendersi e di coltivare la terra; il mosciav è simile ma
applica solo alcuni dei principi collettivisti – approvvigionamento e smercio collettivi;
produzione e consumo privati – e le sue scelte economiche non sono fondate sull’ideologia
socialista.
14
O. YIFTACHEL , «Etnocrazia». La politica della giudeizzazione di Israele-Palestina
, in J.
HILAL, I. PAPPE (a c. di), Parlare con il nemico cit., pp. 96-131.
Il piano del ritiro da Gaza e la sua attuazione hanno portato lo scontro sociale tra laici
e pragmatici da una parte, ultranzisti religiosi dall’altra, anche nell’esercito. 10.000 soldati,
corrispondenti a circa 1/16° degli effettivi, hanno hanno raccolto l’appello dei rabbini
all’obiezione religiosa nell’attuazione, mentre un’inchiesta di “Maariv” rivela che il 36% dei
soldati religiosi non intende partecipare attivamente allo sgombero dei coloni.
Se fino a poco tempo fa sembrava impensabile che una guida spirituale esortasse
alla disobbedienza nei confronti di un’istituzione quale Tzahal, che per decenni (soprattutto
con la guerra dei Sei Giorni) è stato per gli ultrareligiosi uno strumento di attuazione della
volontà divina verso Eretz Israel, oggi non solo questo accade, ma è anche aggravato dal
peso che proprio gli ultrareligiosi hanno nell’esercito, in cui sono confluite due generazioni di
giovani educati nei collegi rabbinici alla colonizzazione.
Diversamente dagli obiettori di sinistra – i quali non hanno mai ricevuto il sostegno di
organizzazioni pacifiste come Shalom Ahsciav e men che meno un appoggio politico ufficiale,
a causa del profondo rispetto per l’esercito e per le istituzioni statali – quelli di destra godono
del sostegno del rabbinato ultrareligioso e delle organizzazioni dei coloni. Se il refusenik
(renitente) di sinistra rifiuta dunque l’arruolamento per ragioni di coscienza individuale, vale a
dire opporsi all’occupazione che opprime il popolo palestinese – al pari dei sarvanim, i
riservisti che non vogliono prestare servizio nei territori – e si offre spesso di svolgere in
cambio un servizio civile, quello di destra gode della protezione del movimento ultrareligioso.
I progetti della destra eversiva israeliana non si limitano ad ostacolare il disimpegno
da Gaza, ma mirano nel lungo periodo a creare un autonomo Regno di Giudea formato dalle
colonie ebraiche della West Bank e dagli ebrei di Gerusalemme Est, sottratti al controllo dello
stato di Israele – uno stato considerato sempre più occidentale e corrotto e sempre meno
ebraico. Il regime del nuovo regno dovrebbe essere monarchico, assistito da un sinedrio che
dal 2004 si riunisce regolarmente, e difeso militarmente dall’esperienza e dalle armi dei
coloni.
Se già agli inizi degli anni Ottanta il terrorismo eversivo di destra progetta attentati
alla Spianata delle Moschee per riconquistarla all’ebraismo, lo spettro della guerra civile
acquista peso negli anni Novanta, se non in termini propriamente militari certamente sotto il
profilo culturale: agli israeliani, considerati spregiativamente solo come gentili che si
esprimono in ebraico ma che potrebbero appartenere a qualsiasi altro popolo, sono
contrapposti ora gli ebrei (anzi gli Ebrei) ancorati ai precetti biblici e predestinati al potere
politico.
La manifestazione dei 10.000 ultrareligiosi al Monte del Tempio, organizzata per il 10
aprile 2005 in protesta per l’hitnatkut e bloccata da agenti israeliani, si inserisce in un
contesto di continue provocazioni che mirano sia ad acquistare risonanza mondiale, sia con il
tempo a modificare lo status quo della Spianata delle Moschee prima con il diritto per gli ebrei
di pregarvi e poi con la costruzione di una sinagoga, provocando uno scontro irrimediabile
con la comunità musulmana e la fine del processo di pace.
Le preoccupazioni per una fattura crescente tra l’oltranzismo degli ultrareligiosi – che
si allontanano sempre più dal rispetto delle istituzioni, dello stato e della democrazia – e la
società civile impegnata nella ricerca della laicità dello stato è ben espressa dallo scrittore
Amos Oz:
In questi giorni il primo ministro Ariel Sharon tenta una sorta di putsch a danno della
supremazia dei coloni. Un tentativo di ripristinare l'autorità del governo eletto. Se il
tentativo andasse a buon fine, il sogno dei coloni potrebbe risentirne e quello degli
israeliani laici potrebbe sorgere a nuova vita. La battaglia di Gaza non è una battaglia
tra l'esercito e i coloni, né tra falchi e colombe. No, è una battaglia tra Chiesa e Stato
(per essere più precisi, tra Sinagoga e Stato). […] In questi ultimi giorni a Gaza
abbiamo assistito a quella che un domani, a posteriori, potrebbe apparirci la prima
battaglia tra Sinagoga e Stato nella storia di Israele, la prima occasione di fare
chiarezza sul significato dell' Ebraicità dell'unico Stato Ebraico. Siamo, prima e
15
soprattutto, una religione o una nazione?
Il primo a porsi l’interrogativo e a cercare di orientare la società israliana perché fosse
una nazione più che una religione è statoYtzak Rabin – e per questo è stato ucciso.
15
In A.OZ, Noi liberi dai coloni, in “il Corriere della Sera”, 20 agosto 2005.
L’assassinio di Rabin, infatti, matura in un paese in cui si intrecciano strettamente
due esigenze: quella esterna di trovare una soluzione al conflitto con il popolo palestinese, e
quella interna di trasformare in senso democratico il sistema dei partiti politici – cristallizzati
su posizioni di contrapposizione tra ‘noi-ebrei’ e ‘loro-arabi’, e anche su una falsa distinzione
tra destra e sinistra, quando in realtà entrambi gli schieramenti uniscono a progressi nel
processo di pace l’espansione territoriale.
Rabin inizia invece reali riforme interne in relazione al sistema scolastico, alla sanità
e all’occupazione, costringendo entrambi gli schieramenti a confrontarsi in modo pragmatico
con problemi attuali e a rinnovarsi. Con la sua morte, tuttavia, c’è un regresso tale che porta
sia il Likud sia i laburisti a schierarsi di nuovo in termini ideologici.
La peculiarità di Israele consiste in quella che è considerata la mancata definizione
del rapporto tra interno ed esterno, vale a dire che sono ancora assenti i quattro elementi
istituzionali costitutivi delle precondizioni fondamentali in ogni paese pienamente democratico
– confini, estensione della piena cittadinanza a tutta la popolazione sottoposta alle leggi
statali, separazione tra stato e religione, separazione tra potere politico e potere militare.
Rabin ha tentato di portare avanti, insieme, un processo di pace e uno di
democratizzazione: la definizione dei confini esterni di Israele è stata una meta dei negoziati
di Oslo, e avrebbe preparato il terreno, se il processo fosse stato concluso, per l’esclusione
dei militari dalla vita politica, per la separazione tra stato e religione, e per una discussione sui
diritti dei cittadini palestinesi in Israele.
Una volta fissati i confini territoriali esterni, quando ci saranno i trattati di pace con
tutti i paesi arabi e quando lo stato palestinese sarà una realtà, sarà più facile limitare il peso
dei militari sulle scelte politiche relative alla sicurezza e la loro ascesa a cariche governative
non avrà più necessità, mentre resterà da decidere la questione dei confini ‘interni’, ovvero il
fatto che anche i non ebrei godano della piena cittadinanza, con l’abolizione di ogni
distinzione etnica da parte dello stato.
Gli ultrareligiosi si sono radicalizzati proprio perché hanno compreso che il processo
di pace era di fatto legato all’indebolimento dello statuto della religione ebraica in Israele –
ponendo fine, con il riconoscimento dei pieni diritti politici dei palestinesi e quindi della loro
religione e della loro cultura, alla discriminazione in negativo dei palestinesi e a quella in
positivo della religione ebraica.
L’assassinio di Rabin ferma sia il processo di pace sia quello di democratizzazione, in
realtà inscindibili l’uno dall’altro, e solo per caso il primo ministro è ucciso nel luogo e nella
circostanza in cui pace e democratizzazione si identificano – con una folla multietnica in
16
manifestazione per la pace e contro la violenza sia dei coloni sia degli estremisti islamici .
Ultrareligiosi e coloni
La frattura tra laici e religiosi da un lato, ultrareligiosi (haredim) dall’altro è uno degli
elementi più preoccupanti nella società israeliana attuale a causa dell’acceso nazionalismo
con cui, soprattutto dalla guerra dei Sei Giorni del 1967, gli haredim difendono l’idea della
Grande Israele e la colonizzazione dei territori. Gli haredim tacciano i laici di antisemitismo, i
laici accusano gli haredim di condizionare il processo di pace con la loro intransigenza sulle
colonie.
Rispetto ad una precedente fase di colonizzazione – con cui dai primi anni Cinquanta
sono costruiti città di sviluppo, kibbutzim e moshavim in zone prossime ai confini e a forte
concentrazione musulmana sia nel nord sia nel sud del paese soprattutto per assorbire i
nuovi immigrati – dopo il 1967 vi sono due diverse modalità di creazione di insediamenti. I
primi, sin dalla colonia del settembre 1967 a Kfar Etzion, sono creati dai laburisti (sino al
1977, quando perdono le elezioni) in funzione difensiva – un po’ come quelle precedenti per
gli immigrati orientali che fungevano loro malgrado da cuscinetto –; gli altri sono fondati dagli
ultrareligiosi in nome di Eretz Israel.
I primi hanno una concezione ancora collettivista della vita e del lavoro comunitario,
mentre i secondi si rifanno all’idea biblica e non produttiva del territorio sin dalla creazione
della loro prima colonia nel 1968, Kiriat Arba, cui si aggiunge nei primi anni Settanta, grazie al
sostegno politico parlamentare del Gush Emunim, un programma di colonizzazione per
16
Vedi L. L. GRINBERG, La pace dirottata. Assassinio di Rabin, democrazia e piattaforma
del dopoconflitto, in J. HILAL, I. PAPPE (a c. di), Parlare con il nemico cit., pp. 44-83.
decongestionare le città e offrire ai giovani abitazioni a prezzo minore che nei centri urbani;
nel 1975 nasce pertanto l’idea dello yishuv kehillati, l’insediamento dormitorio.
Con il ruolo attivo di uno schieramento politico come il Gush Emunim è sempre meno
necessario ricorrere a stratagemmi per creare nuove colonie, come invece avvenuto a Ofra e
a Elon Moreh, dove i coloni sono insediati nel 1975, presentandoli come archeologi, poi come
civili alloggiati provvisoriamente in basi militari – l’affermazione della provvisorietà della
colonizzazione, tra l’altro, è l’unica scappatoia legale al divieto internazionale di immettere
popolazione in territori occupati. Si configura, inoltre, una situazione inedita, per cui nei
territori vivono due popolazioni dallo status giuridico differente, dato che i coloni sono cittadini
israeliani diversamente dai palestinesi. Ciò è anomalo per una democrazia, che dovrebbe
essere l’organizzazione di tutti i cittadini che si trovano in determinati confini, non solo di quelli
considerati cittadini in uno stato etnico.
Anche a Gerusalemme nel 1967 inizia la colonizzazione della parte Est della città e
nel 1975 vi nasce la colonia oggi più grande di tutti i territori (Maleh Adumim, con 32.000
abitanti), mentre dagli anni Ottanta alcuni gruppi estremisti predicano la costruzione di case
nelle zone musulmane di Gerusalemme Est secondo il piano Allon Plus, segreto fino al 1997
e basato sul piano Allon degli anni Settanta – creazione della Grande Gerusalemme
allargandone i confini municipali ad est, per dividere i territori in una zona nord e una zona
sud separate dalla città.
L’idea della Grande Gerusalemme, nata nella destra del Likud di Shamir all’inizio
degli anni Novanta anche per assorbire l’immigrazione russa, coinvolge la municipalità della
città e il ministero degli interni. Essa viene ripresa ma non attuata da Rabin nel 1995, anno in
cui gli espropri territoriali dal 1967 nella parte Est della città ammontano a due terzi. Il
governo di Netanyahu ripropone nel 1997 il piano Allon Plus, espropriando parte della collina
di Har Homa nel sud della città, mentre la popolazione ebraica nella parte orientale raggiunge
in numero la popolazione musulmana.
I palestinesi, invece, non possono vivere a Gerusalemme Ovest e sono soggetti a
politiche edilizie tali da confinarli nel 7% del territorio urbano di Gerusalemme Est, nonostante
rappresentino un terzo dell’intera popolazione gerosolimitana.
Se è soprattutto con i governi di destra, dal 1977 in poi, che la politica di
colonizzazione avanza quasi incontrastata, è tuttavia un leader laburista, Barak, ad
impiantare più colonie dello stesso Netanyahu, quasi ad indicare che in cambio di concessioni
ai palestinesi Israele amplia appunto le colonie. Tale linea si esprime tanto nell’operato di
Barak a Camp David nel 2000, quanto in quello di Sharon nel 2005, quando il ritiro unilaterale
da Gaza si accompagna all’ampliamento delle colonie.
Si delinea inoltre la cosiddetta Gerusalemme Metropolitana, esterna alla Grande
Gerusalemme e costituita da una rete di arterie e di infrastrutture tali da annettere di fatto nel
tessuto urbano un anello più ampio che include le aree di Bethlehem a sud e di Ramallah a
nord, in un sistema viario che permette a Israele di accerchiare e di sorvegliare le vie di
comunicazione palestinesi.
Il Gush Emunim – che dal 1977 dà vita all’A m a n a h (patto) per organizzare
istituzionalmente i coloni nei territori e inserire il movimento nel governo Begin –, coniugando
la religione al nazionalismo rivendica la propria appartenenza ai principi fondatori della
società israeliana e la propria continuità con essi, attraendo in questo modo ai coloni
consenso politico, e soprattutto avanzando rivendicazioni in aree di interesse strategico quali
il ministero dell’edilizia, della giustizia e dell’interno.
Sul piano politico, la definizione di un’Israele collocata nei luoghi biblici dell’ebraismo
è sostenuta da formazioni ultrareligiose clandestine come il Kach, il Kahane hai, l’Eyal e il
Mafdal, che trovano rappresentanza parlamentare non solo nella destra nazionalista religiosa
del Gush Emunim, ma anche nella formazione non sionista Agudat Israel, nello Shas dei
rabbini sefarditi e in Deghel HaTorah.
Il Kahane hai (Kahane vive) in particolare, è stato fondato dal figlio ed erede
spirituale dell’ideatore del movimento ultrareligioso Kach (è così), il rabbino Meir Kahane
assassinato nel 1990, il quale nel 1971 fonda il Kach per teorizzare l’irrinunciabilità dei territori
che considera riacquisiti nel 1967 e la necessità di deportare tutti gli arabi che vivono in
Israele. Dopo l’attentato compiuto da Goldstein nel 1994, entrambi i partiti sono messi fuori
legge ma continuano ad operare insieme ad altre formazioni clandestine che concorrono
all’assassinio del primo ministro Rabin nel 1995. Già nell'ottobre 1988, la Corte Suprema
aveva deciso di bandire il Kach dalle successive competizioni elettorali, in quanto di
orientamento "filonazista, antidemocratico e razzista".
Il Likud di Netanyahu del resto, pur condannando l’estremismo religioso a parole, fa
propria la linea di non cessione dei territori e di continua colonizzazione e concede ampi
poteri allo schieramento dei coloni – autorizzando a fine anni Novanta le trasmissioni della
loro radio Arutz 7 e di alcune emittenti rabbiniche dai toni anche minacciosi nei confronti di
esponenti politici di sinistra e di membri della Corte Suprema.
Dopo gli accordi di Oslo II, il rabbinato ultrareligioso ha accentuato il legame tra
religione e colonizzazione, soprattutto con l’ala dei giovani religiosi delle yeshivot esder
(scuole religiose) presenti in maniera consistente nell’esercito e nei servizi di sicurezza. Tali
scuole rivendicano, tra l’altro, il diritto dei soldati di disobbedire agli ordini politici e militari di
evacuare gli insediamenti nei territori. Si è poi sviluppato il filone dei religiosi anti sionisti, che
giungono a non riconoscere lo stato di Israele come stato laico.
Gli ultrareligiosi interferiscono anche con il funzionamento dello stato sociale, dal
momento che hanno consistenti sgravi fiscali e dedicandosi solo allo studio non svolgono
attività produttive. Lo stato, inoltre, finanzia le loro scuole e le loro istituzioni di carità in modo
sempre crescente dal 1977 in avanti, sino a sottrarre fondi ad altri organismi laici – ad
esempio, nel 1998 l’Alta Corte di giustizia interviene per imporre al ministero dell’educazione
17
di restituire alcuni fondi dirottati dai movimenti giovanili sionisti a quelli dei giovani haredim .
Negli ultimi anni, ad eccezione dei coloni laburisti di Maleh Efraim, i coloni si sono
radicalizzati su posizioni di estrema destra con l’obiettivo di estendere gli insediamenti
soprattutto in punti nevralgici da cui rallentare o impedire la presenza palestinese. Proprio per
questo, la seconda intifada ha inizialmente come primo obiettivo, oltre ai militari, gli
insediamenti dei coloni, e la gestione (non accrescimento o smantellamento) delle colonie
diventa una questione portante degli accordi di pace.
Grazie alla loro attenzione per una diffusione mediatica della propria causa, i coloni
dispongono oggi di otto siti internet sia in ebraico sia in inglese, pubblicazioni in ebraico, una
radio (Arutz 7) ascoltabile su tutto il territorio nazionale e un progetto avanzato per una
stazione televisiva a diffusione satellitare.
Come si è visto tra la primavera e l’estate del 2005 a proposito dell’hitnatkut, anche
se poco sostenuti dalla gran parte dell’opinione pubblica israeliana che pure partecipava
emotivamente al dolore dell’evacuazione, i coloni sono tuttavia riusciti ad imporsi tanto nelle
piazze israeliane quanto nei mass media mondiali, mentre lo Shin Bet denuncia il rischio di
kamikaze ebrei tra gli ultrareligiosi.
17
Vedi M. MORPURGO, Quelli che odiano lo Stato, ma vogliono il sussidio , in “Diario”, IV, 14,
7 aprile 1999.
I progetti di Ariel Sharon
Nel 2001, come di nuovo nel 2005, Ariel Sharon si trova duramente
contestato da Netanyahu a destra e appoggiato da Peres e dai laburisti.
L’alleanza tra il primo ministro e la sinistra è inevitabile, nel momento in cui è
il premier del Likud a portare avanti pragmaticamente un processo di pace
faticoso e contorto, e lasciarlo solo significherebbe riconsegnare il paese agli
oltranzisti. Del resto Sharon, che il filosofo Avishai Margalit ritiene provocatore
di professione e che il giornalista e “HaAretz” e biografo Uzi Benziman
definisce Non si ferma col rosso come ogni guidatore pazzo, non è il primo
leader di destra a cercare una soluzione per il Medio Oriente: nel 1979 era
stato Begin a negoziare a Camp David la pace con l’Egitto e a smantellare le
colonie ebraiche nel Sinai restituendolo agli egiziani.
“Dobbiamo ritirarci da Gaza per costruire Israele”, ha affermato Sharon
all’inizio di luglio del 2005. Il ritiro unilaterale da Gaza, ferocemente criticato
dalla destra del Likud, dagli ultrareligiosi e dai coloni ma approvato dalla
maggioranza della popolazione, risponde dunque a diverse strategie.
In agosto Sharon inizia il ritiro da Gaza – lasciandola nelle mani di un
debole governo palestinese, ora sotto i riflettori, anche per mostrare le sue
difficoltà nella gestione del territorio – ma allo stesso tempo e per ragioni
diverse porta avanti un piano di ampliamento degli insediamenti nella West
Bank con un’annessione di fatto dell’alta valle del Giordano e delle colonie di
Ariel e Talmon nel nord, Maleh Adumim ad est e Gush Etzion nel sud. Nei
progetti del primo ministro, il 75% dei coloni dovrebbe essere spostato in
queste tre aree, mentre il restante 25% verrebbe evacuato dalla West Bank,
con uno spostamento di popolazione e uno scambio di territori atti alla
separazione fisica dei due stati.
Le 3.500 nuove abitazioni la cui costruzione sta per iniziare a Maleh
Edumim, in violazione della Road Map, configurano una Grande
Gerusalemme che spezza in due il futuro stato palestinese, ridotto a due
sacche nella West Bank e a Gaza. Anche l’hitnatkut da quattro colonie
nell’estremo nord della West Bank (Ganim, Kadim, Homesh e Sanur) oltre
che dalle ventuno di Gaza segue la logica di lasciare gli insediamenti meno
difendibili per prendere in cambio le zone strategicamente più rilevanti e di più
facile annessione.
Sharon abbandona l’utopia della destra religiosa della Grande Israele –
“Avevamo un sogno. Non si è realizzato”, dichiara in televisione qualche
giorno prima dell’inizio dell’hitnatkut – per fare propria la ben più realistica
possibilità di una Grande Gerusalemme, il cui scopo è non solo dividere la
West Bank palestinese, ma anche impedire che la parte est della città, in cui
la popolazione ebraica cresce, diventi un giorno territorio e capitale
palestinese.
A Gerusalemme la barriera ricalca i confini orientali della città, e dove
non ci sono problemi legali – obiezioni di associazioni religiose cristiane per la
zona della tomba di Rahel, dubbi del ministero della giustizia, ricorsi alla Corte
Suprema – il muro è già stato costruito, come nel settore settentrionale; un
varco lasciato nella sezione orientale tra Al Ezaryia e Ahnata dovrebbe
permettere il ricongiungimento all’insediamento di Maleh Adumim e impedire
quindi la continuità territoriale palestinese tra le due zone della Samaria con
Ramallah a nord e della Giudea con Bethlehem a sud.
Con 32.000 abitanti sulla vasta area di 55 kilometri quadrati, Maleh
Adumim è in posizione strategica sulla strada che collega Gerusalemme – da
cui dista di pochi kilometri – con la depressione del Mar Morto e con la valle
del Giordano, che domina dall’alto. Nata nel 1975 per decisione del governo
laburista presieduto da Rabin, riceve sostegno politico e legalizzazione dalla
destra di Begin nel 1977, sino ad essere riconosciuta nel 1991 come prima
città ebraica dei territori.
Il governo Rabin pensa a costruire in quest’area già nel 1994 ma
l’opposizione statunitense fa decadere il progetto, ripreso negli ultimi anni da
Sharon che inizia i lavori nell’aprile del 2005, probabilmente anche per creare
un fatto compiuto e possibilmente irreversibile ai prossimi colloqui di pace.
L’estensione di Maleh Adumim ad ovest, infatti, ha due esiti: chiude
Gerusalemme Est tra la Gerusalemme ebraica ad Ovest e l’insediamento
stesso, facendo cadere l’opzione di Gerusalemme Est come capitale
palestinese; e rompe in due la continuità geografica della West Bank
palestinese impedendo che il futuro stato palestinese sia un pericolo
strategico per Israele.
Maleh Adumim è emblematica non solo per l’attenzione politica di cui
gode, ma anche per la composizione dei suoi abitanti. Se i coloni sono
fortemente politicizzati e schierati su posizioni sempre più vicine a quelle della
destra nazionalista e degli ultrareligiosi, diverso è infatti il caso degli abitanti di
Maleh Adumim, la cui popolazione (la più giovane delle città israeliane, con il
48% sotto i 18 anni) solidarizza oggi con i coloni evacuati da Gaza, ma è
composta per il 70% da non religiosi. Il 90% degli abitanti dichiara anzi di aver
scelto di vivere nella colonia non sulla spinta di ragioni ideologiche, ma per la
ricerca di una migliore qualità di vita o per pragmatismo, essendo
l’insediamento molto vicino a Gerusalemme ma più pulito ed economico18.
Di contro, da un bilancio dell’occupazione israeliana dei territori risulta
che tra il 1967 e la fine del 2003 è stata portata avanti la distruzione di oltre
11.000 abitazioni palestinesi (di cui 4.000 solo nella seconda intifada)
lasciando più di 70.000 persone senza casa19.
Israele sembra dunque portare avanti, dal 1967 e soprattutto dopo il
1977, una politica ‘del fatto compiuto’ che da un lato acconsente a colloqui e a
trattative di pace, ma dall’altro rende nei fatti sempre più irreversibile
l’occupazione dei territori – impossessandosi del 24% della West Bank e
dell’89% di Gerusalemme Est araba tramite espropriazione di terre palestinesi
per costruire insediamenti (oltre 200), installazioni militari, riserve naturali e
infrastrutture, strade e by-pass roads che incorporano la West Bank nel
sistema viario israeliano basato su un asse nord-sud, tramite una rete di
collegamento ‘a pettine’ ovest-est tra Israele e le colonie, che per aggirare i
villaggi palestinesi di fatto li isola gli uni dagli altri.
18
Vedi C. PAVONCELLO, Scrivi Ma’ale Adumim leggi grande Gerusalemme , in “Limes”, 3,
2005, pp. 59-66.
19
In J. HALPER, Obstacles to Peace cit., p.V.
All’indomani del ritiro unilaterale da Gaza, in ambito palestinese prevale una
forma di preoccupato attendismo. Ciò che rimane da verificare è infatti se si
tratta di un primo passo o di un’ultima concessione. Questa possibilità già
paventata anche da alcuni pacifisti israeliani. Il rischio mortale è infatti che
Gaza rappresenti nei disegni di Sharon merce di scambio con il West Bank,
dove infatti non solo lo smnantellamento delle colonie non pare più all’ordine
del giorno, ma anzi la loro costruzione continua, proprio nei punti critici tra
l’altro, che, se “occupati”, chiuderebbero definitivamente qualsiasi possibilità
di uno Stato palestinese “viable”, ovvero autonomo e praticabile anche dal
punto di vista del libero movimento di persone e merci.
Jeff Halper proprio in questi giorni ha scritto e fatto circolare un documento in
cui mette in guardia da questa seconda “generosa offerta”.
Il sistema di checkpoint e il muro ormai circondano ogni città del West Bank e
le hanno rese delle mini-enclave rendendo gli spostamenti davvero al limite
dell’impraticabilità.
Un rapporto recentemente pubblicato da B’Tselem, organizzazione umanitaria
israeliana, denuncia come la linea del muro di separazione, anziché seguire il
tracciato della “sicurezza”, avrebbe in realtà come priorità garantire la crescita
delle colonie ebraiche in Cisgiordania, e in qualche caso la creazione di nuovi
insediamenti.
Sulla strada principale di Gaza campeggiano le scritte “Dopo Gaza,
Gerusalemme e il West Bank”. Sono firmate Hamas. Il movimento
fondamentalista qui è molto popolare, sia per aver condotto l’Intifada (che per
l’84% dei palestinesi è all’origine del ritiro), ma soprattutto per i programmi
sociali in soccorso dei più bisognosi. Il timore è che con le elezioni di gennaio
il loro potere si consolidi anche sul piano istituzionale, nel qual caso Israele ha
già annunciato di fare ostruzionismo.
Allo stato attuale i palestinesi di Gaza restano separati da quelli del West
bank e quello che continua a prospettarsi, come denunciato anche da Zvi
Schuldiner sul Manifesto, più che uno Stato, è un “insieme di bantustan
destinati a formare un'entità debole, frammentata e dominata da Israele. La
presenza degli insediamenti israeliani rende impossibile l'unità territoriale
palestinese”.
All’Onu Sharon ha parlato della necessità di riconoscere uno Stato
palestinese e questo è senza dubbio un passo simbolico importante.
Forse le pressioni internazionali potrebbero essere d'aiuto per tenere il timone
e portare a negoziati più seri. E forse non è impossibile –come accaduto con
de Klerk in Sudafrica- che Sharon, anche suo malgrado, vada più lontano di
quel che sembrava all'inizio del processo.
Proprio per questo, ora più che mai palestinesi e pacifisti israeliani
ammoniscono a non lasciarsi prendere dall’entusiasmo e rimanere vigili
perché la realtà economica, sociale e politica di Gaza in particolare, e dei
palestinesi in generale, resta drammaticamente critica.
Sharon all’Onu ha anche in qualche modo dettato delle condizioni ad Abu
Mazen per il proseguimento dei negoziati, in primo luogo il controllo sui
mandanti degli attentatori suicidi. La scelta di Gaza, nota per l’anarchia sociopolitica che vi regna, oltre che per la povertà, come test di verifica della
capacità di governo della leadership palestinese rischia di essere un puro alibi
per proseguire un regime di apartheid.
Dopo le prima settimane in cui tutto è parso andare nel giusto verso, la
ripresa del lancio di missili Kassam da Gaza da un lato, e le relative azioni
militari da parte israeliana stanno già raffreddando molte delle aspettative.
Questo se da un lato ha scatenato la reazione della popolazione palestinese
contro il boicottaggio di Hamas (è di questi giorni la manifestazione al
parlamento palestinese di alcuni poliziotti contro le azioni compiute dai gruppi
fondamentalisti), dall’altra offre nuova plausibilità all’ipotesi che il ritiro avesse
come obiettivo anche avere letteralemte “campo libero” nella Striscia di Gaza
nel caso di rappresaglie e omicidi mirati.
Tuttavia la “liberazione” di Gaza apre effettivamente nuove possibilità. Forse
vale la pena spendere qualche parole sulla situazione di questo lembo di
terra, e sulle sue prospettive economiche, dato che molto della sua reale
autonomia e ripresa partirà inevitabilmente da qui.
Affinché Gaza abbia una chance servono due condizioni: l’accesso al mondo
esterno e la stabilità. Il primo fattore dipende dagli israeliani, il secondo dai
palestinesi, ma i due sono strettamente correlati.
Ephraim Kleiman, economista, già consulente economico per il governo israeliano durante i
negoziati con l’Olp del 1993-94 a Parigi, ha seguito l’evoluzione dell’economia palestinese
prima e dopo l’inizio degli attacchi suicidi, datato nel 1994, che con la conseguente chiusura
di Israele ha comportato un dimezzamento del numero dei palestinesi lì impiegati.
Ancora oggi difficilmente gli abitanti di Gaza riescono a entrare in Israele, che insiste per
mantenere un severo controllo su tutti i movimenti di persone e di merci, in entrata e in uscita
(sebbene non sia inconcepibile che il monitoraggio dei punti d’accesso alla Striscia di Gaza
venga in futuro affidato alla Sicurezza egiziana). Secondo Kleiman, è comunque difficile
immaginare, per i prossimi due anni, un ritorno all’impiego in Israele di manodopera di Gaza.
L’area di Gaza (appena due volte la città di Washington, cinque volte San Marino o poco più),
con quasi un milione e mezzo di abitanti, di cui più del 60% in campi profughi, è povera di
risorse naturali. Potrà quindi realizzare una crescita economica sostenibile nel lungo periodo
soltanto attraverso le esportazioni.
L’obiettivo di alleviare immediatamente la situazione di disoccupazione e povertà potrebbe
essere raggiunto soprattutto tramite la creazione di un’elevata domanda interna. In questi
casi, i progetti nel settore edilizio sono quelli che offrono il rimedio più rapido. Da un punto di
vista più positivo, ci si può attendere che Israele continui l’importazione di merci,
principalmente prodotti agricoli, provenienti dalla Striscia di Gaza. Potrebbe altresì continuare
a permettere l’utilizzo del porto di Ashdod e dell’aeroporto Ben Gurion per l’esportazione di
merci; inoltre, in assenza di atti ostili, potrebbe accettare un piccolo numero di lavoratori
provenienti da Gaza. Malgrado voci contrarie, pare che dopo il disimpegno, Israele continuerà
a fornire alla Striscia di Gaza elettricità ed acqua in misura pari a quanto fatto finora.
Il riferimento da parte ufficiale alla “complementarietà con l’economia egiziana” della Striscia
di Gaza fa tuttavia temere che Israele possa tentare di escludere Gaza, in maniera
unilaterale, dalla quasi-unione doganale che Israele ha in essere con i palestinesi.
Poi, nel caso la situazione politico-militare permettesse l’accesso al porto di Ashdod per le
merci prodotte nella Striscia di Gaza, si dovrebbe prendere in considerazione la costruzione
di una ferrovia che colleghi il porto alla Striscia di Gaza, utilizzando a questo scopo
manodopera locale. Integrandosi con l’esistente rete ferroviaria israeliana, questo progetto
richiederebbe solo un piccolo tratto addizionale per stabilire un collegamento con il West
Bank, inizialmente per il traffico merci e in seguito, possibilmente, anche per il traffico
passeggeri.
Resta però il problema che una piccola economia come quella di Gaza, per sopravvivere non
può pensare di produrre solo per l’autoconsumo, ma deve produrre per esportare. Ora, si
possono esportare prodotti, servizi oppure semplicemente lavoro. Ovviamente è preferibile
esportare merci anziché lavoro. Ma per esportare merci occorre l’accesso libero al mercato, e
torniamo così al punto di partenza, ma visto da un’ulteriore angolazione. L’accesso al
mercato mondiale comporta costi molto alti, cosa che l’economia palestinese non è in grado
di sostenere. Molte imprese di Gaza infatti riescono ad accedere al mercato mondiale solo
grazie alla mediazione di imprese israeliane, il che viene da più parti criticato. A Gaza ad
esempio ci sono molti subappalti: gli imprenditori israeliani esportano lì alcune fasi delle loro
lavorazioni dopodiché il prodotto, finito, o ancora semilavorato, torna nella sede israeliana
della multinazionale e da lì parte per gli Usa, dove gli viene apposto il marchio di fabbrica.
Questo è uno degli esempi ma ce ne sono molti altri. Gaza invece dovrebbe esportare merci
locali, prodotte da manodopera locale. Ma ciò richiederebbe la creazione di strutture
intermedie, società di marketing ad esempio, a cui potrebbero rivolgersi le aziende che non
sono in grado di avere tali strutture al loro interno, e i cui costi fissi attualmente scoraggiano i
piccoli produttori dall’esportare verso i mercati esteri.
E poi, né i contratti né tanto meno gli investimenti privati, si materializzeranno finché ai clienti
e agli investitori non verrà garantito il flusso regolare delle merci in entrata e in uscita da
Gaza. E torniamo sempre al problema di partenza: l’accesso ai mercati. Per esempio Gaza
ha sviluppato una produzione per l’Europa di pomodori, fragole e garofani. Ma nemmeno in
questo caso le merci possono partire direttamente da Gaza, senza intermediari, perché sono
deperibili per cui devono essere trasportate in aereo. Oltretutto per questo tipo di trasporti
servono aerei con stive molto ampie che quindi viaggiano su rotte molto trafficate. Per cui le
merci devono transitare attraverso l’aeroporto Ben Gurion, con grandi problemi di sicurezza.
Dall’inizio dell’intifada tempi e costi delle operazioni di sicurezza hanno subito un’impennata.
Il traferimento di merci in un camion dal West Bank a Gaza, se prima costava 1500 shekels
oggi ne richiede 7000.
Sono stati stanziati dei fondi per la costruzione di sistemi di scanner con cui ispezionare interi
convogli, ma come ha commentato un ufficiale israeliano, resta il fatto che un autista
palestinese continua a essere considerato un fattore di rischio. Si potrebbe ovviare a questo
con convogli scortati che facciano la spola, ma su queste come su altre questioni, la
posizione di Israele è molto altalenante.
Ad oggi passa ancora tutto attraverso la dogana israeliana.
I palestinesi, poi, parlano spesso della necessità di poter accedere al mercato arabo, che
però è piccolo (le importazioni di tutti i paesi arabi del Medio Oriente sommate equivalgono
alla metà di quelle dei Paesi Bassi) e oltretutto assai competitivo. Ci sono casi di successi
imprenditoriali, ad esempio un produttore di scarpe di Nablus che era riuscito ad avere una
commessa per rifornire di calzature l’esercito yemenita, ma rimangono casi isolati.
Non dimentichiamo che Gaza è il posto più densamente popolato del pianeta e con un tasso
di fertilità tra i più alti al mondo. In generale i palestinesi hanno un indice di crescita
demografico altissimo, per cui ogni anno bisogna creare circa 37.000 nuovi posti di lavoro, di
cui 15.000 a Gaza.
Va poi tenuto conto che Israele ha iniziato a far entrare lavoratori stranieri di altre nazionalità,
cinesi, o thailandesi, perché sono molto meno costosi. E poi, dopo la caduta del muro di
Berlino e la conseguente apertura al mercato dei paesi ex comunisti, è stata invasa da un
flusso di manodopera addirittura spropositata, e disposta a fare gli stessi lavori per la metà
dello stipendio. (Basti pensare che la popolazione israeliana è aumentata del 20% in meno di
dieci anni).
Oggi i disoccupati a Gaza sono circa 80.000 e i terreni agricoli lasciati liberi dal ritiro dei coloni
potranno soddisfare solo una piccolissima parte di loro. Così, anche se venisse abbandonata
la assai criticata decisione di chiudere la zona industriale di Erez, che occupava fino a poco
tempo fa circa 4000 lavoratori, sarebbe un ben piccolo rimedio rispetto alla gravità della crisi
occupazionale di Gaza. Il problema principale, infatti, è costituito dall’impossibilità degli
abitanti di Gaza di lavorare dentro i confini di Israele e, nel contempo, dalla mancanza di
mercati del lavoro alternativi. Per cui ora l’area è sovraffollata e i suoi abitanti sono ovunque
indesiderati perché considerati dei trouble makers dagli stessi palestinesi che vivono altrove.
Secondo studi della Banca Mondiale, una chance potrebbe venire dal favorire la
ricostruzione, o la ristrutturazione, delle case e delle infrastrutture danneggiate durante gli
anni dell’Intifada -principalmente le strade e, in subordine ai vincoli politici, l’aeroporto di
Gaza. E’ vero che, in termini puramente economici, l’edilizia residenziale impegna risorse
significative solo a breve termine, tuttavia, poiché un miglioramento consistente delle
condizioni di vita provoca un aumento dei livelli di produttività del lavoro e lo sviluppo di una
classe media, con un conseguente aumento della stabilità politica, una soluzione di questo
tipo potrebbe rivelarsi un buon investimento.
E poi intervenire sull’edilizia permetterebbe di eliminare i campi profughi, che oggi
assomigliano sempre più a delle baraccopoli. E’ un progetto che richiederebbe una modesta
pianificazione tecnica e potrebbe essere avviato quasi immediatamente.
Questo, però, in qualche modo pone il problema della rinuncia al diritto al ritorno. Potrebbe
infatti essere considerato un progetto “politicamente scorretto” per i palestinesi, perché
sembrerebbe implicare una rinuncia al diritto di ritorno alle proprie abitazioni pre-1948.
Probabilmente, l’opposizione sarebbe molto meno consistente se ci si limitasse a proporre il
miglioramento e l’ampliamento delle abitazioni distrutte (per esempio con la sopraelevazione
di un piano) nei campi profughi, cosa che non modificherebbe lo status di rifugiato. Sarebbe
inoltre necessario che l’Unrwa si impegnasse a continuare a fornire servizi sanitari ed
educativi, nonché altri servizi, agli abitanti dei campi profughi che accettassero di trasferirsi
nelle abitazioni nuove.
***
In un recente intervento, Ilan Pappe ha rilevato il “gap” tra le considerazioni perlopiù positive
dei media sul ritiro unilaterale da Gaza e invece la realtà sul terreno. In teoria il piano di
disimpegno in sé non preclude un miglioramento della vita e dei diritti dei palestinesi che
vivono nei Territori occupati nel ’67. La sola evacuazione delle colonie più ideologiche
potrebbe rendere più semplice la vita dei paletsinesi. Di più, a prescindere dalle reali
motivazioni, la mossa potrebbe aiutare la rivendicazione palestinese all’autodeterminazione.
C’è evidentemente qualcosa di vero in queste considerazioni, e tuttavia che il ritiro di per sé
porterà a un miglioramento della vita quotidiana dei palestinesi resta un dato da verificare.
Già nel 2004, nell’entourage di Sharon si era parlato del piano di disimpegno come di
un’azione dall’auspicabile effetto “formaldeide”, intendendo che qualsiasi processo politico coi
palestinesi sarebbe stato congelato. Anche l’enfasi sul “trauma nazionale” sarebbe volto a
indicare che non ce ne sarà un secondo.
Pappe teme addirittura che il ritiro vada perfettamente nel senso della Grande Israele che del
resto nei suoi piani escludeva Gaza –e però comprendeva quasi metà del West Bank.
Ma l’allarme principale rigurda l’impatto del piano di disimpegno sulla situazione dei diritti
umani nei Territori (ma anche in Israele). Pappe si chiede in primo luogo quali saranno le
reazioni dei leader palestinesi, come pure delle organizzazioni radicali e della popolazione,
qualora sul terreno venisse avvalorata l’ipotesi che il ritiro da Gaza, anziché una svolta
risolutiva, potrebbe sancire la fine del processo di pace. Anche qualora i palestinesi
continuassero un’Intifada di basso profilo, le conseguenti repressioni e ritorsioni israeliane
porterebbero a quadro piuttosto allarmante. Non è infatti escluso che l’enfasi sul “trauma
nazionale” per questo ritiro sia strategicamente tesa a diffondere l’idea che ai palestinesi vada
fatto pagare un prezzo per quanto fatto scontare agli israeliani in termini di perdita territoriale
e sofferenza psicologica.
Dato che i vertici militari israeliani già prevedono che il ritiro anziché diminuire farà aumentare
gli attacchi in arrivo da Gaza, è facile aspettarsi nuove azioni dimostrative con il conseguenze
circolo di vendetta e violenza.
3.4 I PALESTINESI TRA LAICISMO E FONDAMENTALISMO
Per la Palestina la scelta fra laicismo e fondamentalismo è una vecchia
questione già manifestatasi alla fine del XIX secolo e all’inizio del XX con il
risveglio del mondo arabo alla modernità.
Ma qual è oggi la situazione dei rapporti di forza sulla scena palestinese a più
di dieci anni dalla realizzazione degli Accordi di Oslo?
Walid Mustafa, dell’Università di Betlemme, studioso del ruolo della religione
nella definizione dell’identità araba in generale e palestinese in particolare ha
rilevato due polarizzazioni nel campo palestinese: la prima è rappresentata
dal movimento Fatah, di orientamento laico, la seconda dalla corrente politica
islamica che si riconosce nei due movimenti Hamas e Jihad Islamica, con al
fianco alcuni gruppi politico-religiosi di non grande rilievo.
In base a un sondaggio d’opinione effettuato negli ultimi dieci anni (19942003) dal Centro Comunicazione e Media di Gerusalemme (Jmcc),
considerato uno dei più attendibili per quanto riguarda i rilevamenti d’opinione
in Palestina, emerge in primo luogo come la percentuale di coloro che danno
la propria fiducia alle forze dell’Olp di orientamento laico è calata dal 55,6% al
26,5%, più della metà, nel decennio di governo dell’Autorità Palestinese.
Contemporaneamente la percentuale di coloro che danno fiducia alle forze
islamiche, nello stesso periodo di tempo, è invece aumentata dal 18,3% al
29,5%. La percentuale di coloro che non danno fiducia a nessuno o non
danno alcuna risposta è a sua volta aumentata dal 26% al 44%. La delusione
nei confronti delle forze politiche (sia laiche che islamiche) o l’esitazione nel
dare loro fiducia, caratterizza quindi quasi metà della società palestinese. La
tendenza generale, specialmente negli ultimi tre anni di Intifada, è il calo di
fiducia nelle forze dell’Olp di orientamento laico e la crescita invece della
corrente islamica.
Resta da capire se questa fiducia si basi veramente su un appoggio ai
postulati politici, sociali e religiosi della scuola politica islamica o non sia
piuttosto un appoggio che deriva dalla grande frustrazione dei palestinesi a
causa dell’Occupazione militare israeliana.
Ugualmente, la perdita di consenso per le forze di ispirazione laica può forse
essere imputabile al fallimento del processo di pace, il cui riflesso ha colpito
principalmente le forze che lo avevano sostenuto, nello specifico una fazione
dell’Autorità Palestinese, ovvero il movimento Fatah.
Ancora Walid Mustafa così elenca i fattori che sono stati di impedimento per le forze laiche in
Palestina:
1. Il traballante processo di pace: sono passati dieci anni dalla firma del degli Accordi di Oslo,
e non si può certo dire che la situazione dei palestinesi sia migliore rispetto a dieci anni fa,
anzi si può sostenere sia nettamente peggiorata.
E’ stato inevitabile che tutto ciò si riflettesse negativamente su coloro che avevano avviato il
progetto di Oslo, ovvero le forze laiche dell’Olp. Al contrario, i seguaci del progetto
alternativo, ovvero la corrente islamica ne hanno tratto beneficio.
2. Le autorità israeliane di Occupazione continuano a portare avanti una politica repressiva
che affligge la maggioranza della popolazione palestinese e che assume le forme di una vera
e propria punizione collettiva con la chiusura dei Territori, ormai isolati l’uno dall’altro dai
checkpoints militari sorvegliati da soldati che utilizzano vari metodi per impedire il movimento
degli abitanti verso i luoghi di lavoro, le scuole, gli ospedali, le famiglie o i propri campi. Non
bastasse questo, si aggiunge il Muro di segregazione. E’ anche così che si sono esasperati i
sentimenti dei palestinesi, spingendoli all’estremismo. Questi sentimenti hanno portato un’ala
di Fatah, promotore del processo di pace, le Brigate dei Martiri di Al-Aqsa, a emulare il
movimento islamico con azioni suicide “che hanno gravemente danneggiato la lotta
palestinese e distrutto la sua immagine nel mondo”.
3. Il fallimento dell’Autorità Palestinese nel porre le basi materiali e nel costruire le
infrastrutture per uno Stato di diritto, fondato sulle istituzioni, sui principi della democrazia e
dei diritti umani. Sebbene le circostanze siano state sfavorevoli all’Autorità Palestinese a
causa dell’impossibilità di esercitare a pieno il proprio potere sotto l’Occupazione israeliana,
la sensazione generale di molta parte della popolazione è che l’autorità non si sia mossa con
il livello di azione necessario.
4. La natura patriarcale della società palestinese, in cui l’istituzione della famiglia, della tribù e
della setta risultano determinanti, influenza anche la promozione del pensiero laico nei
confronti della separazione fra la religione e lo Stato, oltre alla posizione nei confronti delle
donne, delle libertà democratiche, dei diritti umani e del pluralismo delle forze politiche.
5. Anche la privazione, per la società palestinese -in 36 anni di Occupazione- della possibilità
di avere una vera vita culturale normale, che coinvolga gli interessi della popolazione, ha
giocato un ruolo negativo importante.
La Palestina sta abbandonando la corrente politica laica per adottare invece il percorso del
fondamentalismo?
Walid Mustafa esclude questa ipotesi. In campo economico e sociale le indicazioni formulate
dalle correnti politiche islamiche rimangono troppo generiche.
Una possibile soluzione consisterebbe allora in una maggiore audacia ed efficacia delle forze
laiche che dovrebbero innanzitutto assumere una posizione più radicale, ovvero con
caratteristiche di modernità e razionalità, anche rispetto alla condizione della donna.
Sarebbe poi auspicabile una vera e propria rivoluzione culturale che non riducesse il
problema semplicemente alla separazione tra religione e Stato ma che riempisse la laicità di
contenuti.
Anche la Palestina dovrebbe cioè far proprio il nuovo pensiero politico religioso che nel
mondo arabo oggi si definisce “Laicismo Credente” o “Nuova Riforma” che si fonda su un
Islam più tollerante, aperto alla modernità. Questo appunto significa ripristinare il carattere
laico presente nell’Islam, mettendo di nuovo insieme lo spirito critico e la razionalità presenti
nel pensiero islamico.
La separazione della religione dallo Stato non significa qui mettere al bando la religione.
Perché, conclude Mustafa: “L’Islam non è una religione in conflitto col pensiero e con il
laicismo. Ogni tentativo di presentare l’Islam come una religione fanatica, sorpassata e chiusa
in se stessa dovrebbe essere respinto”.
Infine un grande lavoro dovrebbe essere fatto sia sul piano culturale che istituzionale per
passare definitivamente da un concetto di cittadino-suddito a quello del cittadino indipendente
in cui è il popolo la base dell’autorità di governo e la garanzia della libertà di pensiero.
4. Conclusione: temi centrali e irrisolti.
Il ritiro israeliano da Gaza, da qualsiasi posizione si guardi, viene concepito
come una rottura dello stallo del processo di pace. Di seguito, sono elencati
schematicamente i nodi principali che la parti e la comunita’ internazionale si
trovano ad affrontare:
•
Sicurezza. La garanzia della sicurezza di Israele rimane forse il punto
singolarmente piu’ importante nel proseguimento del processo di pace.
Per Israele, due sono gli elementi fondamentali di questa sicurezza:
1.la sicurezza contro gli attacchi terroristici all’interno del proprio
territorio. Spesso, la ricerca della sicurezza dal terrorismo ha avuto un
carattere dilemmatico: a un attacco contro la popolazione seguiva una
repressione delle forze di sicurezza israeliane che dava origine ad
un’escalation di violenza. Tale violenza, in genere, ha avuto effetti
profondamente divisivi sulla societa’ israeliana, e rafforzato le parti
contrarie all’accordo. In questo contesto, la capacita’ dell’Autorita’
Palestinese e dei suoi nuovi vertici, soprattutto con le elezioni
(presidenziali, municipali, e in futuro legislative), di mostrare il controllo
sulle frange piu’ radicali e’ una delle sfide piu’ importanti della fase
attuale del processo di pace.
2. la sicurezza da attacchi esterni da parte di altri paesi della regione.
Fino a che non si sono normalizzate le relazioni fra Israele, Egitto, e
Giordania, la questione palestinese e’ stata troppo intrecciata alla
posta in gioco nel piu’ ampio conflitto arabo-israeliano. In questo
contesto, alcuni spiragli si sono recentemente aperti nelle relazioni con
la Siria (col ritiro di entrambi i paesi dal Libano), mentre sono ancora
difficile da comprendere le possibili ripercussioni sul processo di pace
della crescita del potere regionale dell’Iran, eventualmente dotato di
armi atomiche.
Terrorismo
La questione degli attentati suicidi dei palestinesi resta quanto mai intricata. L’attacco alle
Due Torri e la successiva campagna di Sharon per far assimilare il terrorismo palestinese a
quello di Al Qaeda, quando a tutt’oggi, per quanto la causa palestinese venga continuamente
sbandierata, non esiste alcun legame comprovato, hanno ulteriormente complicato qualsiasi
possibile analisi.
Accantonato quindi l’elemento del terrorismo internazionale, forse maggiori elementi
esplicativi vengono più dalla specificità di alcuni dati. La società palestinese è stata da
sempre considerata la più laica (oltre a quella con i maggiori tassi di istruzione) nel mondo
arabo. Come sottolineato dai risultati delle indagini proposte da Walid Mustafa, negli ultimi
decenni c’è stato tuttavia un’innegabile radicalizzazione, dovuta all’Occupazione e al
degradarsi della situazione materiale. Non dimentichiamo poi che Hamas per anni ha
costituito e in parte continua a costituire lo Stato sociale dei palestinesi: costruisce scuole,
ospedali, si occupa delle vittime di azioni dell’esercito israeliano (sostenendo anche i costi di
medicalizzazioni all’estero) e delle famiglie degli attentatori, spesso offrendo somme
considerevoli per il sacrificio pagato.
Oltre alla possibile manipolazione messa in atto dai vertici di Hamas sui giovani con meno
risorse (fenomeno contro il quale esistono però varie iniziative della stessa società civile
palestinese che in più di un’occasione ha accusato queste persone di mandare al macello i
propri figli mentre i loro sono a studiare in Europa), una delle chiavi di lettura più convincenti
resta quella della disperazione per l’assenza di un futuro e dell’esaurimento a fronte della
continua umiliazione patita, soprattutto dai propri cari.
Altro elemento di riflessione riguarda un dibattito tuttora in corso anche nell’ambito
internazionale rispetto al tentativo di dare una definizione, e uno stato giuridico anche, al
terrorismo, che si impatta con l’impossibilità di tracciare una linea netta tra terroristi e
resistenti o freedom fighter, specie quando ci si trova nel contesto di un movimento di
liberazione nazionale.
Certo l’emergere e l’aumento di questi episodi segnala un malessere diffuso nell’intera
società palestinese che chiama in causa anche il suo “stato di salute” generale.
Eyad El Sarraj, psichiatra, fondatore e direttore del Community Mental Health Programme di
Gaza (Gcmhp), membro della Commissione per i Diritti Umani in Palestina (posizione che nel
1998 ha portato al suo arresto da parte dell’Olp, in seguito alle aperte critiche volte all’Autorità
palestinese) e del Centro Internazionale per la Riabilitazione delle Vittime di Tortura, si
occupa da tempo della riabilitazione della popolazione palestinese, con particolare attenzione
ai bambini e adolescenti traumatizzati, e ai loro modelli educativi.
Forse su questo vale la pena di aprire una piccola parentesi. In base ai dati raccolti dal centro
di Sarraj, è stato durante la prima intifada che tanti bambini hanno cominciato a mettere in
atto dinamiche peculiari, inedite. Dalle successive ricerche in particolare risultò che quasi il
55% dei ragazzini aveva assistito al picchiaggio del padre. “Quando accade un fatto del
genere l’immagine del padre, il simbolo del potere, viene distrutta e, quasi fisiologicamente -è
un processo naturale e necessario- i bambini devono sostituirla, immediatamente. E’ un
processo inconscio. Ebbene, molti bambini palestinesi trasferirono allora l’identificazione dal
padre –dimostratori impotente- a un nuovo simbolo di potere che in quel caso era il soldato
israeliano”.
Così quando si mettevano i bambini a rappresentare “l’ebreo e l’arabo”, un gioco comune,
molti bambini palestinesi preferivano assumere il ruolo dell’ebreo, perché era il potente, il
vincente.
Ma questa scelta è evidentemente frutto di un processo traumatico: ti stai identificando col
nemico, non può essere indolore. Questo infatti ha poi portato a una reazione violenta, a un
rigetto.
“Con gli anni questi stessi bambini hanno continuato a cercare un sostituto del padre.
Avvicinandosi ai 18 anni, all’età adulta, alcuni di questi hanno trovato un movimento, Hamas,
che ha offerto loro un nuovo processo di dentificazione, con un nuovo padre. Un padre tra
l’altro direttamente legato a Dio”.
Firmatario di un appello di condanna rispetto agli attentati suicidi, Sarraj tuttavia è piuttosto
chiaro sull’inopportunità e l’insensatezza di denigrate queste persone.
“E’ impossibile, per qualsiasi palestinese, condannare i martiri. Rifiutiamo anche di chiamarli
attentatori suicidi, li chiamiamo martiri; perché è impossibile, per chiunque combatta in
qualsiasi guerra, disprezzare chi combatte nelle proprie truppe. In qualsiasi luogo nel mondo
si rende onore ai propri soldati. Le statue al milite ignoto sono presenti dappertutto. Anche
negli Stati Uniti, fuori dalla Casa Bianca, c’è un memoriale dei soldati morti durante la guerra
in Vietnam. Si rende loro onore. Per molti americani quella è stata una guerra sporca,
terribile, sbagliata e tuttavia non possono condannare quei soldati. Ecco, per noi, i palestinesi
che compiono queste azioni diventando dei martiri sono i nostri soldati. Non possiamo
condannarli. Possiamo non essere d’accordo con loro, per tanti motivi. Sul piano politico,
perché sono azioni controproducenti; sul piano dei diritti umani, perché vengono uccisi dei
civili; sul piano morale perché non è permesso; anche sul piano religioso, perché uno dei
doveri dell’islam è di proteggere le donne e i bambini in tempo di guerra. Allora si può
discutere e argomentare rispetto a tutto ciò, ma non ci si può chiedere di condannare queste
persone. Tra l’altro nella nostra società chi sacrifica la propria vita per il bene della nazione
viene elevato al rango divino, diventa una persona santa, e nessuno la può toccare. I martiri
sono più ‘sacri’ di Yasser Arafat, come di qualunque altro palestinese. Ripeto, diventano dei
santi”.
Palestinesi e democrazia
Il problema dei territori che costituiscono il futuro Stato Palestinese e’ stato oggetto di
numerosi negoziati, e mai pienamente risolto. Quello che emerge dalle recenti dichiarazioni
israeliane e dal supporto americano a queste ultime e’ la sostanziale volonta’ di evacuare,
oltre alla Striscia di Gaza, la quasi totalita’ dello West Bank. Una parte di terra inferiore al 5%
dello West Bank, adiacente al territorio israeliano, densamente popolato da insediamenti di
coloni, rimarebbe sotto la sovranita’ dello Stato di Israele. Una via “neutralizzata” per
garantire la continuita’ territoriale dello Stato Palestinese, dovrebbe essere costituita. Nel
2000, a Camp David, una linea di demarcazione simile era stata rifiutata da Arafat. La forza
con cui la nuova leadership palestinese emergera’ dalle prossime elezioni e’ un elemento
centrale per comprendere la sua forza negoziale (interna) e la sua capacita’ di accettare un
compromesso con Israele.
Le elezioni tenutesi dopo la morte di Arafat, come è stato fatto notare, hanno portato per la
prima volta a un risultato di non unanimità. Mahmud Abbas (Abu Mazen), candidato di Al
Fatah, ha vinto con una maggioranza non “bulgara”.
Senza voler entrare nel merito delle singole questioni, va ricordato che, negli ultimi anni in
particolare, ad Arafat è stata più volte mossa l’accusa che, per quanto limitato fosse il suo
spazio d’azione sotto Occupazione, l’Olp ha comunque fatto troppo poco per avviare un
processo democratico.
In particolare non si è sufficientemente attrezzato per garantire la tutela dei diritti umani e
civili, ancora ampiamente violati, per quanto varie realtà (anche israeliane) si stiano da anni
muovendo in questo senso.
Altro ostacolo al processo di democratizzazione, da tempo di dominio pubblico e al primo
fortemente connesso, è la dilagante corruzione che caratterizza ampie fascie dei dirigenti
dell’Olp.
Nei Territori poi ancora oggi convivono embrioni di società civile, anche molto attiva e
coraggiosa, a fianco di ampie aree in cui vige un ordine clanistico, quando non tribale. Ancora
nelle ultime settimane Le Monde ((11 settembre) ha pubblicato un reportage sull’esecuzione
di una donna di 32 anni a Taibe in Cisgiordania, incinta, da parte della sua stessa famiglia per
avere avuto una relazione sessuale fuori dal matrimonio con un uomo del villaggio vicino, ora
in carcere a Ramallah assieme ai due fratelli della donna, accusati di averla avvelenata.
Purtroppo sono episodi non così sporadici e che se in parte passano nella totale impunità,
dall’altra vengono appresi con orrore da una parte crescente della popolazione.
Abbas, tra le prime misure adottate per ridimensionare l’anarchia vigente specie nell’area di
Gaza, ha reintrodotto la pena morte.
Va poi ricordato che la piaga del collaborazionismo (alimentata dall’Occupazione) continua a
essere gestita con esecuzioni altrettanto sommarie.
Dello status delle donne, in continua oscillazione nella dinamica tra lotta di liberazione
nazionale e costruzione di uno Stato democratico, si è parlato altrove. Anche della deriva
fondamentalista si è già detto. Forse vale la pena sottolineare che, Abbas, anche nel suo
discorso di insediamento, ha condannato gli attacchi sia delle forze dell’Occupazione che di
alcune fazioni palestinesi, in quanto ostacolano il processo di pace
Il 2005 doveva essere anche l’anno delle elezioni locali, ora spostate al prossimo gennaio
2006.
Nella prospettiva della creazione dello Stato palestinese resta infine (last but not least) aperta
la questione di “quale” Stato. Da più parti infatti si è paventato il rischio della creazione di due
democrazie etniche, ovvero che il futuro Stato palestinese adotti un modello uguale e
speculare a quello israeliano.
Gerusalemme. L’unica soluzione che sembra percorribile e’ quella della divisione di
Gerusalemme in due parti, una sotto controllo israeliano e l’altra sotto controllo palestinese, e
la creazione della capitale di ciascuno dei due stati nella citta’. Non esiste, aldila’ della
proposta avanzata a Ginevra 2003, una soluzione condivisa per la partizione dei luoghi sacri
per le religioni Ebraica, Islamica e Cristiana.
La proposta avanzata da Clinton, durante
l’incontro di Camp David del 2000 (poi non messa in discussione), consiste nel dare allo Stato
Palestinese la sovranita’ sul Monte del Tempio, e ad Israele la sovranità’ sul Muro
occidentale, del quale il Muro del Pianto e’ una parte. Tuttavia, nessuna parte sembra
disposta ad accettare una spartizione nella quale l’altra ottiene la sovranita’ sul Monte del
Tempio. Del resto, alcune proposte tese alla sostanziale neutralizzazione dell’area, che cosi’
rimarrebbe sotto il controllo delle autorita’ congiunte di ciascuna religione, magari col
sostegno di una forza internazionale, trovano la netta opposizione sia palestinese che
israeliana.
Quale soluzione? Uno Stato, due Stati, due fasi?
Anche gli ultimi Accordi di Ginevra, facendo riferimento al ritiro delle colonie
ebraiche, senza il quale uno Stato palestinese non avrebbe alcun senso
territoriale, hanno perorato la causa dei due Stati.
Bisognerà ora valutare quanto il ritiro da Gaza ridisegni scenari e prospettive.
Certo, va ricordato che negli ultimi anni anche l’Autorità palestinese, nelle
parole di Yasser Araft, aveva sdoganato la formula dello Stato unico.
Dopo essere diventato una sorta di precetto, la soluzione dei due Stati, ad un
certo punto degli ultimi dieci anni, ha iniziato ad offuscarsi. Come ricordato
anche da Tony Judt nella New York Review of Books, le condizioni per uno
Stato palestinese indipendente sembrano oramai completamente distrutte
dall'avanzare inesorabile ed irreversibile delle colonie in Cisgiordania e
(allora) a Gaza. Per molti la soluzione dei due stati al conflitto israelianopalestinese sarebbe un'idea, e una possibilità, che ha finito il suo tempo.
In questi ultimi anni il progetto di un unico Stato binazionale o confederale, in
opposizione allo slogan di “due stati per due popoli”, ha così raccolto sempre
più consensi anche nella sinistra radicale israeliana.
Abdicare allo stato palestinese comporta però condizioni precise. Sari
Nusseibeh ha espresso il concetto con parole chiare: “La liberazione dal
nazionalismo deve essere preceduta dalla liberazione nazionale”. Il
nazionalismo infatti è una fase, è un gradino dello sviluppo di ogni popolo di
cui non si può fare a meno. Gli arabi di Palestina, come del resto accadde per
gli ebrei, desiderano anch’essi un proprio Stato.
Jeff Halper, già qualche anno fa, ha proposto una soluzione alternativa, in
grado però, nel lungo periodo, di inglobare entrambe le esigenze, quella
dell’autodeterminazione, irrinunciabile, e quella di una federazione che
comunque rispecchia un intreccio socio-economico, oltre che geografico,
innegabile e insormontabile.
La soluzione dello Stato unico vs i due Stati chiama in causa una questione di
fondo, ovvero la natura stessa dello Stato di Israele in quanto “Stato degli
ebrei”. Se infatti Israele è tradizionalmente definita l’unica democrazia del
Medio Oriente, d’altra parte in molti ormai denunciano come si tratti in realtà
di una “democrazia etnica” (nel senso che Israele è uno Stato democratico
solo per gli ebrei), un concetto che a sua volta ci interroga sui confini di una
democrazia, ovvero fino a che punto una democrazia possa continuare a
essere definita tale.
Senza voler esaurire la questione, alquanto intricata, riportiamo alcune sollecitazioni, a tratti
provocatorie.
Ancora Jeff Halper racconta che quando è invitato a parlare in ambienti ostili alle sue idee,
come alcune comunità ebraiche americane propone il seguente dilemma. Ci sono tre cose: lo
Stato degli ebrei, il territorio, la democrazia. Israele non può averle tutte, deve rinunciare a
una. Perché se vuole tenere la democrazia e l’intero territorio, non potrà essere lo Stato degli
ebrei –essendoci anche i palestinesi. Se vuole tenere la democrazia e lo stato degli ebrei,
dovrà cedere una parte del territorio ai palestinesi. Infine se vuole l’intero territorio e anche lo
Stato degli ebrei non potrà essere uno Stato democratico.
Lo stesso dilemma, la contraddizione interna della democrazia di Israele, è incarnata dallo
status dei palestinesi con cittadinanza israeliana.
Jamal Zahalka, arabo israeliano (ndt. In Israele si parla di “arabi” in riferimento ai palestinesi
con cittadinanza israeliana –come degli arabi si trovassero lì per caso- e più specificamente
di “palestinesi” per quelli dei Territori), membro della Knesset, per il Balad, coalizione araba
che lotta affinché Israele diventi lo stato di tutti i suoi cittadini, da anni si ostina a chiedere
conto del senso di una democrazia etnica. “Gli israeliani per sancire Israele quale Stato degli
ebrei e democratico si sono visti costretti a espellere gli arabi, facendoli ritirare dal loro
territorio. Così per cominciare c’è stata l’espulsione di una quota -e in questo il sionismo si è
trovato invischiato in un delicato dibattito interno-, ma poi era necessaria una separazione
anche fisica, il muro: noi stiamo qui, voi state là”.
La preoccupazione insomma era presto diventata quella di preservare Israele, intanto come
Stato degli ebrei, poi che fosse anche democratico già passava in secondo piano. Come
avrebbe ben detto Sharon: “Non siamo venuti qui per costruire un paese democratico, ci sono
molti paesi democratici nel mondo; noi siamo venuti qui per creare uno stato ebraico”.
Nel ’48 il dilemma per i sionisti si presentò in questi termini: se vogliamo dar vita a uno stato
ebraico democratico, non possiamo farlo con i palestinesi, perché sarebbe uno stato
democratico, ma non più “degli ebrei”.
D’altra parte se fosse stato “degli ebrei” non sarebbe più potuto essere democratico. “Ecco il
dilemma. E avevano due soluzioni: una era l’apartheid e l’altra la deportazione.
Evidentemente per mantenere la democrazia, la deportazione si rivelava l’ipotesi più
opportuna perché risolutiva.
Così possiamo dire che i palestinesi sono stati vittime non solo della politica repressiva di
Israele, ma anche della sua aspirazione democratica! Perché se si fossero limitati a volere
uno stato ebraico, certo ci sarebbe stato un regime di apartheid, ma almeno avremmo potuto
rimanere nel nostro paese”.
Per concludere va detto che sebbene la creazione di un unico Stato democratico in Palestina
sia entrato anche nel programma dell’Olp, per molti palestinesi esso rappresenterebbe
un’opzione veramente dolorosa. Anche con una maggioranza palestinese, uno Stato unitario
dovrebbe comunque incorporare una società, una cultura, un’economia e istituzioni israeloebraiche molto forti che, come nel caso degli europei in Sudafrica, non si limiteranno
semplicemente a scomparire. Al di là del fatto di dover condividere uno Stato con altri, e
quindi di non realizzare una piena autodeterminazione, alcuni palestinesi temono di diventare
cittadini di seconda classe nel loro stesso Stato. Così molti palestinesi sono restii ad
abbandonarla e a rinunciare alla soluzione dei due Stati.
Anche per gli israeliani la prospettiva di uno Stato unico è dolorosa. Anzi, dato che uno Stato
israeliano ebraico già esiste, la sua trasformazione in uno Stato unico a maggioranza
palestinese rappresenta per loro una minaccia ancora più grave. Significa la fine del
Sionismo. Tuttavia, come denuncia ancora Jeff Halper in un documento presentato all’Onu
sul rischio Apartheid, “di tutto ciò gli israeliani possono dare la colpa solo a loro stessi.
Nonostante i ripetuti avvertimenti provenienti dagli intellettuali del campo pacifista di
opposizione, essi hanno permesso ai vari governi che si sono succeduti, sia laburisti sia del
Likud, di cacciarli in una situazione così incresciosa”.
Di qui la proposta di una soluzione a “due fasi”, in cui a una prima fase di riconoscimento
dello Stato palestinese, ovvero del diritto all’autodeterminazione, ma anche alla creazione di
uno spazio culturale in cui i palestinesi possano sentirsi finalmente a casa propria e
sviluppare la propria identità, seguirebbe una seconda fase, per così dire, confederale, in cui
Israele e Palestina tornino a essere un unico spazio di mutui scambi economici e in cui
valgano gli stessi diritti.
Problemi aperti
La demografia
Le proiezioni demografiche ipotizzano una crescita maggiore della
popolazione musulmana in Israele rispetto alla popolazione ebraica. Il timore
diffuso è quello della cosiddetta “bomba demografica”, che porterebbe alla
scomparsa dello stato ebraico quando gli ebrei diventeranno una minoranza.
Se infatti in Israele gli ebrei sono l’80% della popolazione, grazie
all’immigrazione di massa raggiungono nel 1951 l’89%, dagli anni Sessanta la
percentuale della popolazione ebraica è in contunuo calo, sia a causa della
minore crescita naturale ebraica rispetto a quella musulmana, sia perché
l’immigrazione non è sufficiente a contrastare la bassa crescita naturale20.
Si stima che nel 2020 la popolazione ebraica in Israele raggiungerà i
6,5 milioni di persone, mentre i palestinesi saranno 10-12 milioni inclusi quanti
hanno la cittadinanza giordana. Gli ebrei, inoltre, hanno una media di 2,6 figli,
gli arabi di 4,5. La crescita demografica degli ultrareligiosi e dei coloni, che
hanno in media 5-6 figli contro i 2-3 del resto della popolazione ebraica,
contrasta solo in parte con la minor crescita della popolazione ebraica ma
pone nuovi problemi allo stato sociale, su cui ricade l’onere dei sussidi – non
adeguatamente sostenuti dall’imposizione fiscale sugli haredim – nonché
delle infrastrutture e dei servizi negli insediamenti.
La paura della bomba demografica unisce, nella visione della destra religiosa, i
musulmani israeliani con quelli dei territori, facendo prospettare non solo la separazione fisica
tra zone ebraiche e zone palestinesi nei territori, ma anche una redistribuzione della
popolazione ebraica in vista della creazione dello stato palestinese, aggregando ad Israele le
zone dei territori con le colonie più popolose. Rientra in tale piano l’ampliamento di alcune
colonie vicine a Gerusalemme, come Maleh Adumim, decretato da Sharon nel 2005 anche
come ‘risarcimento’ alla destra del Likud ostile al ritiro dalla striscia di Gaza, e insieme come
mezzo di penetrazione nei territori palestinesi.
Secondo il più autorevole demografo israeliano, Sergio Della Pergola, la
risistemazione dei coloni allontanati dai 21 insediamenti di Gaza e di 4 della West Bank
nell’estate del 2005 garantirà comunque ad Israele una maggioranza di popolazione ebraica
per i prossimi vent’anni, con il 56,8% di ebrei rispetto ai non ebrei.
Il problema demografico, del resto, non è solo un efficace strumento di consenso per
la destra oltranzista, ma una realtà che solleva il timore della perdita di controllo sulle risorse.
20
Vedi R. BACHI, The Population of Israel , Jerusalem, The Institute of Contemporary Jewry
Demographic Center, The Hebrew University of Jerusalem, 1977; C. GOLDSCHEIDER, D.
FRIEDLANDER, Reproductive Norms in Israel, in U. O. SCHMELZ, G. NATHAN (eds),
Studies in the Population of Israel. In Honor of Roberto Bachi, Jerusalem, The Magnes Press,
The Hebrew University, 1986, pp. 15-35.
Il tasso di crescita naturale della popolazione ebraica è stimato nel 2005 dell’1% annuo e ha
toccato negli anni di maggior immigrazione il 2%, mentre quello della popolazione musulmana
in Israele è del 3% e in alcuni anni ha raggiunto il 4,5%. La popolazione musulmana nella
21
striscia di Gaza ha una crescita stimata nel 2005 del 3-4%, e in alcuni anni ha toccato il 5% .
Si comprende quindi come Israele tema una pressione sulle risorse, sul controllo
strategico, sul mantenimento di standard di vita occidentali e sulla difesa della propria
economia, e come la sola risposta al pericolo demografico anche in presenza di una pace
totale sia la scelta del muro e della separazione – analogamente alle barriere occidentali nei
confronti dei migranti dai paesi sottosviluppati, come nel recentissimo caso (autunno 2005)
della barriera spagnola di Ceuta e Melilla in Marocco o di quella statunitense al confine con il
Messico.
I rifugiati e i profughi palestinesi
Tra tutte le questioni aperte nel conflitto tra israeliani e palestinesi, la
più delicata riguarda lo status dei rifugiati – termine applicato a quanti sono
stati costretti a lasciare le proprie case nel 1948, mentre ‘profughi’ sono
definiti quanti sono stati costretti ad entrare nei campi con la guerra del 1967.
Per i palestinesi stessi, del resto, esistono non solo due diverse realtà
politiche per quanti sono fuggiti nel 1948 e quanti si sono ritrovati sotto
l’occupazione israeliana nel 1967, ma anche due differenti concezioni della
terra: i primi la ritengono simbolo sacro di un paradiso perduto e si appellano
al diritto al ritorno, mentre i secondi insistono sul diritto a non lasciare la
propria terra.
La conferenza di Ottawa del luglio 1999 stabilisce che, sul piano
internazionale, la questione dei rifugiati palestinesi deve essere regolata dalla
risoluzione ONU 181 del 1947 che impediva ogni espropriazione di terra, e
sulla risoluzione 194 del 1948 che riconosce in linea di principio il diritto al
ritorno palestinese e al compenso per i danni subiti, nonché un risarcimento
anche per quanti decidano di non tornare.
Una recente (8 settembre 2005) dichiarazione della UNRWA ha
sostenuto l’importanza che il ritiro da Gaza puo’ avere nel risolvere almeno
per quanto riguarda le condizioni di vita la questione dei rifugiati. In caso di
ritiro dal West Bank, un miglioramento in questo settore e’ egualmente atteso.
Per il piu’ampio problema della soluzione politica del problema dei rifugiati,
l’unico accordo che proponeva un progetto definitivo e’ quello di Ginevra
2003. Lo status dei rifugiati ed il “diritto di ritorno” rimangono questioni a cui le
parti devono trovare una soluzione condivisa. Il ritiro da Gaza ha aperto le
21
A. SOFFER, Israel, Demography 2004-2020 in Light of the Disengagement , Haifa, Chair of
Geostrategy, 2005.
porte soltanto ad un parziale ritorno dei rifugiati (poche migliaia) in Libano
nell’area. Rimane da risolvere il problema degli oltre 3700000 altri palestinesi
che costituiscono il totale dei rifugiati.
Tuttavia, a seguito della guerra dei Sei Giorni e delle vicende che hanno costretto
parte della popolazione dei territori occupati ad andarsene, il problema dei rifugiati del 1948 si
è intrecciato con quello dei profughi del 1967, rendendo spesso impraticabile la distinzione tra
i due gruppi. Infatti, con l’occupazione dei territori nel 1967 alcuni palestinesi sono dispersi
per la prima volta, altri per la seconda (la prima nel 1956 con la guerra di Suez) o per la terza
(i rifugiati del 1948). La risoluzione ONU 242 del 1967 e la successiva 338 del 1973 chiedono
il ritiro di Israele dai territori occupati e il ritorno dei rifugiati e dei profughi ai loro campi e alle
loro case nella West Bank e a Gaza, riconoscendo l’esistenza di un problema dei profughi
oltre che dei rifugiati.
Per quanto riguarda i rifugiati, nel 1948 l’ONU crea l’UNRWA (United Nations Relief
and Works Agency for Palestine Refugees in the Near East) per assisterli, definendoli come
“persone la cui normale residenza è stata la Palestina per almeno due anni prima del conflitto
del 1948 e che, come conseguenza di tale conflitto, hanno perduto la propria casa e i propri
mezzi di sussistenza e hanno trovato rifugio in uno dei paesi in cui l’UNRWA presta la sua
22
opera di soccorso” .
Gli oltre 900.000 esuli del 1948 sono oggi stimati, insieme ai loro discendenti diretti
che hanno i requisiti per ricevere l’assistenza e gli aiuti internazionali, in circa 4.000.000 di
persone. Un terzo di loro vive ancora nei campi allestiti dall’UNRWA nella West Bank, nella
striscia di Gaza, in Giordania, in Libano e in Siria.
Nella West Bank solo un terzo dei rifugiati vive nei campi, mentre a Gaza gli abitanti
dei campi profughi sono oltre la metà dei rifugiati. È a Gaza che nonostante lo sforzo
dell’UNRWA la maggior parte degli abitanti dei campi vive sotto la soglia di povertà a causa
del sovraffollamento e del deterioramento costante dei servizi, dovuto sia alla costante
crescita demografica, sia al calo degli aiuti internazionali, sia all’alto tasso di disoccupazione
– legato anche ai blocchi militari israeliani, che nei periodi di maggior tensione chiudono
l’accesso a Gaza e alla West Bank e controllano l’afflusso giornaliero della manodopera
palestinese in Israele.
In Libano i rifugiati si sono trovati in una condizione particolare a causa delle politiche
governative miranti ad isolare la comunità palestinese dal resto dell’economia e della società.
Pochi hanno ottenuto la cittadinanza, mentre la maggior parte è ancora legalmente straniera
e come tale trova difficilmente lavoro. Inoltre, il sovraffollamento è estremo, dato che è stato
negato loro il diritto di ampliare i campi profughi esistenti e di costruirne di nuovi.
In Siria, invece, i rifugiati sono stati sostenuti con la garanzia di diritti sociali ed
economici che li avvicinano ai cittadini, tanto che nel settore dell’istruzione la qualità raggiunta
nei campi supera addirittura quella garantita ai cittadini siriani.
In Giordania, che ha accolto oltre la metà del numero complessivo dei rifugiati e
tuttora ne ospita il maggior numero, tutti i palestinesi hanno ottenuto la cittadinanza ma molti
ritengono di essere discriminati nel mondo del lavoro. Tra quelli che vivono nei campi si
registrano infatti tassi di disoccupazione più elevati e peggiori condizioni di vita rispetto alla
media della popolazione.
Le disposizioni della Quarta Convenzione di Ginevra del 1949 cercano di limitare la
dispersione dei civili nei conflitti e il conseguente problema del ritorno, mentre protocolli
successivi affermano che il principio di ritorno dei profughi alla terra e alle proprietà non è
soggetto alla discrezione dell’autorità responsabile del problema. In base a tali principi, tutti i
rifugiati e i profughi hanno il diritto a ritornare e ad essere rimborsati, ma nessun governo
israeliano è disposto ad accettare che tutti i profughi palestinesi tornino a stabilirsi in territorio
israeliano, sia perché verrebbe meno il carattere ebraico dello stato, sia perché non riconosce
i profughi del 1967 in quanto ritiene di non aver “occupato” i territori ma solo di “amministrarli”.
Dalle trattative intercorse tra Israele e OLP dopo il 1993, che non fanno neppure più
riferimento alla risoluzione ONU 194, la questione dei rifugiati diviene un problema da
risolvere nei colloqui sullo status definitivo, demandando le decisioni a futuri colloqui indefiniti.
22
Cit. in G. ARONSON, J. BEVERIDGE, Chi ha paura dei rifugiati palestinesi? , in “Limes”, 1,
2001, pp. 165-168.
Israele inizia comunque a riconoscere la propria responsabilità nell’aver creato il
problema di rifugiati ed è disposta a trattare sul numero degli aventi diritto al ritorno e sugli
indennizzi da corrispondere loro e al futuro stato palestinese per quelli che non ritorneranno
in Israele; l’ANP continua ad affermare teoricamente il diritto al ritorno per tutti, ma propone
nei fatti un ritorno “simbolico” dei rifugiati nei territori lasciati nel 1948, e uno “sostanziale” nei
23
territori lasciati nel 1967 – con il ritiro di Israele entro la linea verde . Il presidente dell’ANP
Abu Mazen è inoltre fermo sul rifiuto dell’OLP ad inserire definitivamente i profughi nei paesi
arabi in cui si trovano oggi.
In Israele, la deputata laburista figlia del generale Moshe Dayan, Yael, è tra i
principali sostenitori del ritiro nei confini del 1967 e dello smantellamento delle colonie
ebraiche come unica prospettiva di pace, ma denuncia anche le responsabilità dei paesi arabi
e della dirigenza palestinese nella situazione dei profughi: ne hanno voluto fare profughi
professionali, accusa, invece di integrarli come Israele ha fatto con le numerose ondate
24
immigratorie che si sono susseguite dal 1949 ad oggi .
Oggi, nonostante le pressioni dell’ONU, degli Stati Uniti e dell’Unione Europea per
una soluzione equa al problema dei rifugiati e dei profughi palestinesi, una soluzione sembra
lontana prima di tutto per la mancanza di un accordo sulla definizione di “occupazione” dei
territori del 1967, e quindi sugli aventi diritto ad essere considerati “profughi”.
Le donne palestinesi
Le donne palestinesi, strette tra consuetudini patriarcali e un’occupazione
sempre più dura, vivono una sorta di doppia discriminazione.
Ruba Salih, giovane antropologa palestinese, docente in Italia, da anni
impegnata in ricerche sulla condizione delle donne nel Medio Oriente, e sul
loro status durante e dopo i movimenti di liberazione nazionale, rileva che
anche per le donne palestinesi resta una grave difficoltà ad affermare
un’agenda di genere come prioritaria o complementare rispetto all’agenda
della Liberazione nazionale.
“Le femministe palestinesi, al pari delle loro sorelle arabe di altri paesi, sono
state infatti spesso accusate di essere portatrici di messaggi e valori culturali
occidentali, nonché di privilegiare agende e progetti che non avevano
rilevanza in un contesto di occupazione violenta e di un movimento sociale e
politico di resistenza, il cui obiettivo doveva essere unicamente quello di
creare uno Stato e di liberarsi dall’Occupazione”.
Un’accusa di cui sono stati e sono tuttora vittime tutti i movimenti delle donne
nei paesi del Medio Oriente.
23
S. TAMARI, Palestinian Refugees and the Palestinian-Israeli Negotiations , in “Journal of
Palestine Studies”, XXIX, 1, 1999, pp. 81-89.
24
Tra il 1949-1951 arrivano in Israele 50.000 ebrei adeniti e yemeniti e oltre 120.000 iracheni,
cui si aggiungono siriani, libanesi, giordani, libici, turchi, iraniani, egiziani, e dal 1956 22.000
tunisini e 120.000 marocchini; entro il 1956 ai 257.000 immigrati complessivi delle comunità
orientali si aggiungono 140.000 askenaziti. Le sfide più recenti sono l’immigrazione etiope del
1983 e del 1991 (24.000 persone nel complesso) e quella che dopo il crollo del comunismo
sovietico ha portato in Israele circa un milione di persone dall’ex URSS.
“Il movimento delle donne palestinesi ha saputo comunque reggere sia alle
accuse provenienti dalla cultura patriarcale della propria società che agli
attacchi delle forze militari israeliane, come mostra il cambiamento dei motti
che hanno accompagnato la resistenza palestinese. Nel ’47-48 la difesa
dell’onore delle donne della famiglia (riassunto dal motto honour before land,
l’onore prima della nazione) dall’aggressione del nemico fu uno degli elementi
fondamentali che provocò l’esodo palestinese”. Pare infatti che donne e i
bambini fossero divenuti target dei soldati israeliani proprio con l’obiettivo di
seminare panico nella comunità e demoralizzare gli uomini che si trovavano al
fronte.
Da questo punto di vista la prima Intifada sancisce un passaggio importante,
proprio sul piano dell’emancipazione, anche se con tutte le contraddizioni del
caso: il deterrente della molestia sessuale o fisica (in carcere nemico) non
impedisce più alle donne di partecipare attivamente alla lotta di liberazione.
“Anzi il passaggio dal carcere costituisce quasi un rito di iniziazione, ha una
funzione formativa, che segna il passaggio dal ruolo domestico (infantile) a
quello pubblico, politico, nazionale”. Tuttavia, la rappresentazione della donna
palestinese come metafora della madre-patria non viene scalfita in ambito
sociale e culturale. Il relativo successo della campagna di Hamas per
l’imposizione forzata del velo durante la prima Intifada lo dimostra.
Diventa allora chiaro cosa le donne intendono quando parlano di “doppia”
discriminazione. In una situazione generalizzata di violenza, le donne si
trovano ad essere doppiamente vittime, sia dell’Occupazione, in quanto
membri della nazione palestinese, sia della famiglia patriarcale dove la
frustrazione e l’umiliazione cui sono soggetti i figli e i mariti a causa
dell’Occupazione porta ad un aumento della violenza tra le mura domestiche.
L’Occupazione e la repressione, d’altra parte, rendono quasi impossibile (se non a carissimo
prezzo) mettere in discussione la famiglia estesa e le sue regole, dato che questa continua
spesso e volentieri a costituire l’unico fattore di protezione sociale.
Tuttavia, la consapevolezza del rischio che la marginalizzazione dei diritti delle donne
dall’agenda politica ha comportato in altri contesti post-coloniali (dove le donne, una volta
ottenuta l’indipendenza nazionale, sono state “rimandate a casa” –l’Algeria insegna), rafforza
la convinzione del movimento delle donne palestinesi della necessità di proseguire la propria
lotta mantenendo al centro dell’agenda l’uguaglianza tra i generi come obiettivo
complementare, o comunque profondamente intrecciato a quello della Liberazione nazionale.
Capitolo a parte merita la situazione delle donne palestinesi con cittadinanza israeliana, dove
alla consueta discriminazione come donne e come palestinesi, si aggiunge la difficoltà di uno
statuto di cittadinanza formale, ma non sostanziale, rispetto allo Stato di Israele. Accade così
che se tra i palestinesi in Israele, il tasso di disoccupazione è mediamente del 18%, in ambito
femminile i tassi salgono all’80%, ma questo problema non è considerato una priorità
nazionale.
Infatti nonostante siano nate istituzioni specifiche per gli ebrei dell’ultima immigrazione, e
nonostante la comunità palestinese in Israele viva in condizioni decisamente più critiche
rispetto agli ebrei dell’Est, non c’è alcuna forma di investimento statale volto a migliorare le
condizioni della nostra comunità.
Areen Hawari, palestinese israeliana originaria di Nazareth, femminista, militante del Balad
(Assemblea Nazionale Democratica), e coordinatrice del programma di tutela delle donne
nell’ambito dell’Ahra (Arab Human Rights Association) denuncia una sorta di doppia assenza
istituzionale rispetto alle donne palestinesi. Neanche l’Autorità Palestinese pare infatti
coinvolta in questa battaglia. Qui interviene anche una sorta di schizofrenia, di identità
ambigua dei palestinesi in Israele, legati a quelli del West Bank da questo sentimento di
appartenenza a un unico popolo, ma collocati e cresciuti in un contesto politico, sociale e
culturale speso radicalmente diverso. E’ infatti emblematico come molti palestinesi israeliani
(uomini e donne in questo caso) tendano a preferire la soluzione di un unico Stato per ebrei e
palestinesi, con la trasformazione di Israele in uno Stato per tutti i suoi cittadini, uno Stato
laico.
Anche nell’ambito delle organizzazioni femminili, gli anni di Oslo hanno portato momenti
straordinari, di grande entusiasmo e impegno anche con le donne israeliane. A partire già dal
1994 sono però seguiti momenti altrettanto terribili, in cui spesso proprio le organizzazioni
“miste” sono entrate in sofferenza talvolta dovendo riconoscere di non farcela.
E’ il caso, non isolato, di Jerusalem Link, un’organizzazione-ombrello, costituita da due Ong
indipendenti, autonome, una israeliana, Bat Shalom, e l’altra, il Centro delle donne di
Gerusalemme, palestinese.
Ricorda Terry Greenblat, coordinatrice di Bat Shalom, che già molto prima della seconda
intifada, erano cominciati ad emergere dei segnali che facevano presagire il precipitare della
situazione. Proprio l’atmosfera che caratterizzava gli incontri con le donne palestinesi, aveva
reso drammaticamente evidente che si era vicini a un collasso.
Bisogna sapere che in quegli anni le donne palestinesi avevano smesso di parlare in arabo ai
loro figli per strada a Gerusalemme Ovest perché avevano paura. Il famigerato trasferimento
non pareva più una prospettiva così lontana (la parola “transfert” aveva ottenuto cittadinanza
anche in sede parlamentare), per cui l’idea che un giorno qualcuno potesse bussare alla loro
porta e (di nuovo) portargli via la casa, non sembrava più così peregrina. La società israeliana
assisteva ormai quotidianamente a un innalzamento del livello di razzismo anti-arabo.
Di qui un sempre maggiore disagio da parte delle donne palestinesi impegnate nel dialogo
con gli israeliani.
Le donne palestinesi, in conclusione, oltre alle sofferenze prodotte dal conflitto in corso,
devono gestire anche i problemi di una società in cui ancora non sono pienamente tutelate,
né come donne né come cittadine. Nei Territori, oggi le donne lavorano simultaneamente su
due fronti: garantire che il processo di pace avviato all’interno del loro paese prosegua, come
pure che le strutture create diventino democratiche. Non hanno altra scelta, perché se si
torna indietro anche su uno solo dei due punti, non c’è alternativa per loro, verranno
semplicemente estromesse dalla scena.
I rifornimenti energetici e l’incognita iraniana
L’intervento militare del 2003 nella terza guerra del Golfo ha mutato i
rapporti tra paesi produttori di petrolio e paesi destinatari, prospettando
scenari nuovi in cui la situazione conflittuale irachena costringe a redistribuire
diversamente le linee di fornitura che prima passavano anche attraverso l’Iraq
e a ripensare ai progetti che erano stati elaborati per quest’area. Delle linee
di fornitura sia verso l’Oceano Indiano sia verso il Mediterraneo si
interessano, in particolare, quattro diversi attori – la Russia, Israele, la Turchia
e il Kurdistan iracheno.
Se la Russia ha infatti la necessità di sopperire alla perdita di controllo
della produzione energetica nel Caucaso e un’alleanza con il Kurdistan
iracheno le permetterebbe di accedere alle
forniture energetiche di
quest’area, a sua volta il Kurdistan iracheno prima controllato dal regime di
Saddam Hussein vuole gestire le proprie risorse.
La Turchia, che non ha importanti fonti energetiche proprie ma che si
avvantaggia dell’essere luogo di passaggio di gasdotti e di oleodotti, pensa a
sua volta di avvicinarsi al Kurdistan iracheno – anche mutando la propria
politica di repressione dei curdi che vivono sul suo territorio – mentre Israele,
perso il controllo sui pozzi del Sinai restituito all’Egitto nel 1979 e dipendendo
dalle sole forniture statunitensi dato l’embargo dei paesi arabi, vede la
possibilità di beneficiare di nuove linee di rifornimento (o di vecchie linee
ripristinate) grazie ad un’alleanza con Russia e Turchia.
La Russia infatti, in parte per la pressione dei suoi immigrati in Israele,
in parte per l’importanza del porto di Haifa, può ricavare benefici da un
riavvicinamento con Israele già iniziato nei primi anni Novanta; analogamente
anche la Turchia vorrebbe sfruttare lo snodo di Haifa.
Nonostante l’Iran sia il passaggio economicamente più conveniente per
la sua collocazione geografica e per l’importanza della sua produzione, la sua
chiusura politica impone di cercare nuove soluzioni per i gasdotti e gli
oleodotti che percorrono la regione. Due sono infatti le incognite attuali: il
permanere, nonostante nuovi rapporti economici di Turchia e Russia con
Israele, di diffidenze reciproche; il futuro assetto dell’Iran in rapporto alla
politica statunitense.
Se Israele ha da un lato un grande interesse ad un’apertura verso l’Iran
e alla stabilità del Paese per le ragioni energetiche, dall’altro ragioni di
sicurezza militare – in particolare la lotta agli hezbollah finanziati dall’Iran e la
continua minaccia iraniana all’esistenza dello stato ebraico – fanno sì che il
paese auspichi con forza un intervento militare statunitense in Iran, che
avrebbe inevitabili ripercussioni anche sul problema dei rifornimenti energetici
mondiali.
Le risorse idriche
Il bacino del Giordano è un problema idro-politico che coinvolge diversi
paesi: Siria, Libano, Giordania, Israele e territori palestinesi. Il primo aspetto
della questione riguarda le sorgenti del fiume, costituite da tre fiumi che poi
confluiscono nel suo tratto superiore: Hasbani (Snir in Israele) che nasce in
Libano; Dan tutto in Israele; Banjas nel Golan e quindi controllato da Israele
dal 1967. I tre fiumi si uniscono nel Giordano sei kilometri entro il confine
israeliano; attraversato il Kinneret (lago di Tiberias) il Giordano riceve il suo
affluente principale, lo Yarmuk, che nasce in Siria e per 40 km segna il
confine giordano-siriano mentre per i 12 km successivi segna il confine
israelo-giordano. Altre risorse idriche sono rappresentate dalle fonti rinnovabili
delle falde sotterranee, soprattutto nelle fasce costiere di Gaza e di Israele e
sotto le colline della West Bank.
L’incostanza climatica rende difficile la pianificazione dei prelievi idrici,
in un territorio arido e dalle precipitazioni scarse e irregolari. Mentre il Libano
e la Siria hanno altre entrate idriche, Israele, Giordania e territori palestinesi
dipendono quasi esclusivamente dallo sfruttamento di Giordano e Yarmuk –
tenendo presente che la vera ricchezza del fiume sta nella parte alta del suo
bacino, sia perché il fiume è al massimo della sua potenza, sia perché non è
stato corrotto dall’alta salinità, sia perché il letto del fiume può essere deviato
solo in quest’area, e difatti tutti i paesi interessati allo sfruttamento idrico
hanno cercato di deviarne le acque.
Non esiste un trattato internazionale che regoli l’intera gestione delle
acque del Giordano, ma solo accordi bilaterali isolati come quello tra
Giordania e Israele e quello tra Siria e Giordania. Inoltre, se la gestione delle
acque seguisse le incongruenze presenti nella legislazione internazionale (in
base alla quale tutti gli stati che si affacciano sullo stesso fiume hanno gli
stessi diritti sulle sue acque), in Medio Oriente sia Egitto sia Israele
resterebbero privi dei rifornimenti idrici necessari. Al momento la situazione di
fatto è sostanzialmente regolata dal Johnston Plan del 1956 (integrato con
l’accordo intercorso tra Israele e Giordania nel 1994): il 31% delle acque del
bacino del Giordano va ad Israele, il 56% alla Giordania, il 10,3% alla Siria e il
2,7% al Libano.
L’accordo risponde alle esigenze di Israele – che negli anni Cinquanta colonizza le
tre zone smilitarizzate e ricche di acqua situate presso la sorgente del Banjas, tra il lago Hule
e il Kinneret, e tra il Kinneret e lo Yarmuk – ma è inviso ai paesi arabi che da un lato si
oppongono alla deviazione del Giordano prevista da Israele nel 1950-1951 e avversata anche
dall’ONU, dall’altro mettono a punto un piano alternativo di diversione delle acque basato
sulla costruzione di dighe che devierebbero i corsi degli affluenti del Giordano privando
Israele dei rifornimenti – le dighe non saranno costruite a causa di difficoltà tecniche, dissidi
nei paesi arabi e opposizione giordana, interventi dell’aviazione israeliana e modifica dei
confini con la guerra del 1967, scoppiata anche per il controllo delle risorse idriche.
Gli interventi israeliani sul bacino idrico del Giordano sono consistiti soprattutto negli
anni Cinquanta nella costruzione di un canale dal Kinneret al Negev con un percorso di oltre
100 km; in seguito una rete idrica capillare ha consentito il rifornimento ai più importanti centri
urbani. Attualmente, la Siria preleva il 39% delle acque dello Yarmuk e Israele il 26%,
lasciando solo il 35% alla Giordania che ha più volte protestato, possedendo la gran parte
dell’area drenabile.
In futuro, un ruolo cruciale sarà svolto dalla West Bank e dalla striscia di Gaza, in cui
l’acqua è risorsa fondamentale anche per l’agricoltura ma è attualmente sfruttata da Israele,
le cui principali risorse sono costituite dalle sorgenti sotterranee della striscia di Gaza e dal
bacino acquifero della West Bank – che Israele controlla per l’80%. Un terzo di tutti gli
approvvigionamenti idrici israeliani viene dai territori, in violazione del diritto internazionale.
A Gaza, in particolare, il clima semi arido e l’elevata concentrazione demografica
2
(3.800 abitanti per km ) pongono i problemi più seri con l’eccessivo sfruttamento della falda
acquifera costiera e il conseguente aumento della salinità dell’acqua sotterranea, cui si
aggiunge l’inquinamento dovuto allo scarico di reflui non trattati che intercettano la falda; la
mancanza di acqua potabile anche per l’uso domestico innalza poi notevolmente la mortalità
infantile. Le soluzioni previste per Gaza vertono sul miglioramento di raccolta e di
distribuzione dell’acqua, sulla desalinizzazione delle acque marine e su una ripartizione più
equa delle risorse da parte degli israeliani, che gestiscono le reti idriche e le sorgenti
sotterranee.
Nella West Bank la disparità di controllo delle risorse idriche è ancora più evidente,
con la metà delle risorse in mano agli oltre 200.000 coloni e la rimanenza gestita da oltre
1.000.000 di palestinesi – più del 70% dei villaggi palestinesi è privo di acqua corrente,
mentre gli insediamenti non sono mai senza acqua; gli israeliani hanno un consumo pro
capite giornaliero di 260 litri e i palestinesi di 70 – l’Organizzazione Mondiale della Sanità
raccomanda almeno 100 litri giornalieri pro capite. La costruzione del muro di separazione ha
poi peggiorato la situazione, a causa della distruzione di numerosi pozzi palestinesi.
Inoltre, il prezzo pagato dai palestesi per l’acqua ricevuta da Israele è uguale a quello
pagato dagli israeliani senza considerare il diverso tenore di vita, e altre regole penalizzanti
concernono il divieto di scavare nuovi pozzi senza autorizzazione militare, la fissazione di
quote di prelievo oltre le quali sono previste sanzioni economiche, l’espropriazione di pozzi e
sorgenti ai palestinesi assenti, il divieto di irrigare in determinati orari. La situazione è poi
aggravata, in agricoltura, da un sistema irrigante obsoleto in cui le perdite d’acqua sono
notevoli.
Nella Dichiarazione dei Principi del 1993 viene stabilito il principio del diritto
palestinese ad usare le falde acquifere della West Bank, ma la realizzazione degli accordi è
posticipata, mentre la divisione della West Bank prevista da Oslo II nel 1995 lascia sotto
controllo israeliano la zona C, in cui sono concentrate le principali risorse idriche – non è
preso in considerazione l’articolo 33 della Quarta Convenzione di Ginevra che proibisce lo
sfruttamento delle risorse idriche in zone occupate e la sottrazione delle stesse alla
popolazione locale, e del resto Israele non si riconosce nella definizione di “occupante”.
Una divisione equa delle risorse tra tutti i contendenti dovrà prevedere inevitabili
razionamenti, rotazioni cicliche, interventi concertati. La Giordania rimane il paese con le
carenze idriche più evidenti e destinate ad accentuarsi anche perché il fabbisogno dei territori
palestinesi è sottostimato. Il Libano, grazie al clima più piovoso e alla presenza di altre
risorse, resta il paese meno interessato al Giordano, mentre le controversie tra Siria,
Giordania e Israele sono accresciute dall’elevata percentuale di risorse idriche internazionali.
Il Golan, in particolare, con la sua posizione geograficamente elevata e soprattutto
con la sua ricchezza d’acqua, è causa di controversia tra Siria e Israele. Attraverso il Golan
passa un terzo delle risorse idriche israeliane, e Israele non è disposta a restituirlo alla Siria
che invece ne rivendica il possesso e contesta l’illegalità dell’occupazione israeliana del 1967.
Qualsiasi negoziato di pace tra i due paesi deve necessariamente tenere conto di tale
situazione.
Diaspora e diritto al ritorno
Il diritto al ritorno, che resta uno dei punti nodali nella cotrattazione di un
accordo di pace con Israele, all’interno della società palestinese si sta via via
articolando facendo emergere posizioni diverse.
Anche se le voci non allineate tendono a essere messe sotto silenzio in fase
di trattativa, facendo appello a un fantomatico consenso nazionale, l’idea che
il diritto al ritorno vada riconosciuto (e quindi compensato) pur rimanendo
flessibili sulla sua messa in atto si sta diffondendo, non solo nell’ambito della
popolazione, ma anche tra i suoi leader.
Lo stesso editoriale di Arafat, pubblicato il 3 Febbraio 2002 sul New York
Times aveva così chiarito la posizone dell’ AP: “Noi auspichiamo una
soluzione giusta per le sofferenze dei profughi palestinesi ai quali da 54 anni
non è permesso di far ritorno alle proprie case… Comprendiamo le
preoccupazioni di carattere demografico di Israele, e sappiamo che il diritto
dei profughi palestinesi di ritornare alle loro case, diritto sancito da leggi
internazionali e dalla risoluzione 194 delle Nazioni Unite, dovrà essere attuato
in modo da tener presenti tali preoccupazioni.”
La proposta di una compensazione per tutti i profughi del ’48, con un volume
di ritorno effettivo (su un totale di circa 4 milioni registrati dalle Nazioni Unite)
da affidare invece alla discrezione di Israele era anche tra le clausole degli
Accordi di Ginevra (“The Israeli Text and Contest of the Geneva Accord”,
Shiko Behar e M. Warschawski, 2003 Middle East Report Online). Nello
stesso documento veniva provocatoriamente sottolineato come la rinuncia dei
palestinesi a un loro diritto (quello del ritorno) riconosciuto dalla legge
internazionale, rendendolo tema di negoziazione era, questa sì, una
“generosa offerta”.
L’elemento di novità pare allora la franchezza con cui, tra i palestinesi, si
inizia ad approcciare la questione.
Sari Hanafi, l’ex direttore di Shaml (Centro di ricerca sulla diaspora e i
profughi palestinesi, Ramallah) già qualche anno fa ha condotto una serie di
ricerche in modo libero e spregiudicato, anche sfatando alcuni miti e falsi
timori. In particolare quello che l’attuazione del diritto al ritorno innescherebbe
un ritorno effettivo di un elevatissimo numero di rifugiati.
In Israele i commenti predominanti riguardo il ritorno palestinese tendono a
psicologizzare il conflitto: ci sono molte indagini che hanno come oggetto le
ansie, le preoccupazioni e gli incubi degli israeliani, e l’odio dei palestinesi nei
loro confronti. La preoccupazione è di carattere demografico. Sin dalle
dichiarazioni di Camp David nel Luglio del 2000, la campagna di relazioni
pubbliche di Israele ha lavorato intensamente per convincere il mondo che ci
sia effettivamente la possibilità di un ritorno di massa dei palestinesi, per
spingere sull’idea che il ritorno significherebbe la cancellazione di Israele
attraverso la distruzione del suo “carattere ebraico”.
In un articolo intitolato “profughi per sempre” Yossi Alpher ha scritto che “Israele potrebbe
riconoscere una sorta di diritto umanitario alla riunificazione famigliare, che i palestinesi
etichetterebbero come ritorno, per tutti i profughi di prima generazione, cioè coloro sopra i 54
anni di età che erano effettivamente nati in quello che oggi è lo stato di Israele e che hanno
parenti che potrebbero aiutarli nell’integrazione. Il loro numero non sarebbe grande, né
sbilancerebbe l’equilibrio demografico, ma il loro ritorno porterebbe un certo grado di
soddisfazione nella narrazione palestinese senza mettere in difficoltà quella israeliana.”
Il dibattito da parte palestinese è più dinamico di quello israeliano, ma soffre di mancanza di
mentalità politicamente strategica. La politica palestinese si basa su due discorsi. Il primo è
morale, e si fonda sulla giustizia della causa palestinese: i profughi espulsi dalla loro terra
dovrebbero fare ritorno alle loro case, secondo le leggi internazionali e i principi dei diritti
umani. Il secondo è orientato all’esterno, basato su posizioni ambigue e mutevoli di solito
assunte sotto pressione per rispondere a crisi specifiche.
La rete di al-Awda è stata la forza primaria nel definire il tema del diritto al ritorno come tema
essenziale nel conflitto Arabo-Israeliano presso le sfere dell’Ovest e del mondo arabo.
Alcuni studi sono tuttavia discutibili. Per quanto sembri che le aree dei vecchi villaggi
palestinesi siano rimaste, in molti casi, vuote (per cui potrebbero subito assorbire il ritorno dei
profughi), non si può non ricordare che la maggior parte dei palestinesi che se ne andarono
nel 1948 non vivono più in ambito rurale. Cinquant’anni dopo, molte di queste famiglie vivono
in aree metropolitane come Damasco, Amman, Il Cairo, Chicago e New York. Non sono più
contadini.
Pertanto la possibilità di accogliere i profughi non dovrebbe essere l’unico fattore tenuto in
considerazione quando si disegnano scenari di ritorno. Gli irlandesi-americani non ritornarono
in Irlanda alla fine del colonialismo britannico, pochi armeni ritornarono in Armenia dopo la
sua indipendenza e solo un piccolo numero di libanesi fece ritorno in Libano dopo la guerra
civile. In generale, i dati dell’alta commissione per i profughi delle Nazioni Unite (Unhcr)
mostrano che il numero dei profughi che fecero ritorno ai propri paesi d’origine, una volta data
la possibilità, è molto inferiore rispetto al numero di coloro che hanno scelto di accasarsi nel
paese ospitante, o che si sono spostati in un terzo stato. La struttura del mercato del lavoro
globale ha anch’essa un ruolo fondamentale.
I fattori che influenzano le decisioni del singolo variano infatti dall’esperienza personale e dal
ricordo dell’esilio alla sua situazione economica. Se la domanda sulla volontà di ritornare è
posta in meri termini concettuali, si possono ottenere un 100% di risposte positive. Ma se la
questione è posta in maniera più specifica, includendo fattori come la prospettiva di ritornare
in un villaggio sotto la sovranità di Israele e quindi con nazionalità israeliana, o in un villaggio
che non offre adeguate garanzie di lavoro e di alloggio, questa percentuale calerebbe in
maniera significativa. Questi fattori spesso invalidano le metodologie dei sondaggi.
La persona stessa che pone le domande può determinare le risposte. Ricorda ancora Sari
Hanafi: “Quattro anni fa visitai la mia famiglia presso un campo profughi ospitato da un paese
arabo. Mio padre si rifiutò di guardare delle fotografie che avevo scattato in Haifa perché,
secondo le sue parole, quella non era ‘la sua Haifa’. Haifa era ora una città israeliana,
dichiarò. Era fermo sull’idea che non poteva tornare finché la città fosse rimasta sotto
sovranità israeliana. Il giorno seguente un giornalista svizzero intervistò mio padre e gli
chiese se sarebbe tornato ad Haifa non appena possibile. Sorprendentemente, dichiarò che
‘come ogni palestinese, io desidero tornare ad Haifa a qualunque condizione’”.
APPENDICE
Ponti, non muri
Nella cosiddetta “Era della pace” (1993-2000) come accennato all’inizio
nacquero varie esperienze congiunte di israeliani e palestinesi.
Ne presentiamo qui un brevissimo elenco, non esaustivo, bensì esemplare,
rimandando per maggiori informazioni ai loro siti.
Preme solo sottolineare che tutte queste iniziative sono importanti proprio
perché stanno avvenendo con il conflitto in corso, il che per i protagonisti
comporta spesso una situazione di solitudine e isolamento. La scelta di tenere
aperto il dialogo con il “nemico” infatti interagisce su vari livelli, intaccando
anche il rapporto con la propria comunità (che spesso muove agli interessati
l’accusa di tradimento), fino alle relazioni con la propria famiglia a cui può
diventare molto difficile spiegare che si sta comunque seguendo la strada
giusta. Specie se, come accaduto a Sami Adwan, del Prime, i proiettili
dell’esercito occupante finiscono nel giardino in cui giocano i propri figli.
Se ne potrebbero citare altre, che lavorano a vari livelli, come Bitterlemons,
rivista on-line coordinata da Yossi Alpher, ex direttore del "Jaffa Center for
Strategic Studies", assieme al ministro palestinese del Lavoro, Ghassan alKhatib, o ‘Windows for peace”, che pubblica anche un giornalino bilingue per i
più giovani, o ancora l’Aic, il Centro per un’Informazione alternativa, cui
collabora anche Michael Warschawski. Qui vale solo la pena di sottolineare
che queste realtà ci ricordano anche che in questo conflitto (e forse non solo
in questo) la linea non passa tra le nazioni (israeliani e palestinesi), ma tra chi
opera per una pace giusta e chi no.
Prime, Peace Research Institute in the Middle East
Fondato a Beit Jala, un paese vicino a Betlemme, presso la scuola cristiana (ma frequentata
per piú del 90% da musulmani) Talitha Kumi, il Prime è un’organizzazione non governativa
cofondata e codiretta da un israeliano e un palestinese, Dan Bar On, docente di psicologia
sociale all’Università Ben Gurion di Beer Sheva, e Sami Adwan, docente di pedagogia
all’Universitá di Betlemme.
Il Prime promuove vari progetti, tutti con il proposito di lavorare sul terreno, con la società
civile, incoraggiando le situazioni di incontro e dialogo tra i due popoli, così da sbarazzarsi
degli stereotipi e delle immagini negative dell’altro.
Tra le varie iniziative va ricordato il progetto “Shared History Booklet”. Un gruppo di
insegnanti israeliani e palestinesi hanno partecipato al processo di redazione di un manuale
scolastico, in cui la storia degli ultimi 50 anni si dipana lungo le due versioni che scorrono
fianco a fianco nella stessa pagina. Al centro di ogni pagina è stato lasciato uno spazio
bianco che separa la storia nella versione israeliana da quella palestinese, in modo da
consentire ai maestri e gli allievi di scriverci le loro osservazioni.
Questo libro non si propone di criticare o di modificare le narrazioni correnti della storia ma
soltanto di offrire agli insegnati e agli studenti un modo di conoscere la prospettiva storica, ma
anche umana, dell’altro.
Parents’ Circle
I Parents’ Circle, oggi Families Forum, si definiscono “un gruppo di famiglie in lutto che
sostengono la pace, la riconciliazione e la tolleranza”.
Il fondatore è Yitzhak Frankenthal, nato nel 1951 a Bnei Brak, Tel Aviv in una famiglia
ortodossa. Il 7 luglio 1994 il corpo di suo figlio Arik, 19 anni, viene rinvenuto in un villaggio
vicino a Ramallah, crivellato di fori di proiettile e ferite da accoltellamento. Arik, soldato
dell’esercito israeliano e ebreo ortodosso, stava facendo l’autostop per andare a casa in
congedo quando venne rapido e assassinato dai terroristi di Hamas. Un anno dopo, come
reazione a una tale tragedia, Yitzhak Frankenthal, fonda i Parents’ Circle, un’organizzazione
di famiglie colpite dal lutto per la perdita di un proprio caro nel corso del conflitto israelopalestinese.
Il Families Forum, come si chiama oggi l’organizzazione, che conta ormai un gruppo di 500
famiglie israeliane e palestinesi, si batte per promuovere il dialogo, la reciproca comprensione
e quindi la riconciliazione, unico mezzo per raggiungere una vera convivenza e la pace.
L'associazione persegue tali obiettivi attraverso iniziative concrete, tra cui, gli incontri nelle
scuole, la linea telefonica “Hello Peace!” un canale di comunicazione che permette a
israeliani e palestinesi di parlare con persone “dell'altra parte”, i campi estivi e un sito web.
www.theparentscircle.org
Ta’ayush
Ta’ayush, “Vivere insieme”, è un’associazione creata da ebrei e palestinesi israeliani con
l’idea che vivere insieme, da buoni vicini, si può e che pratica l’interposizione e l’assistenza ai
civili. “Noi –arabi ed ebrei cittadini di Israele- viviamo circondati da muri e fili spinati: i muri
della segregazione, del razzismo e della discriminazione; i muri che assediano e chiudono i
palestinesi nei territori occupati; il muro di guerra che circonderà tutti gli abitanti di Israele fino
a quando rimarrà una fortezza armata nel cuore del Medio Oriente”.
Nata nell’autunno del 2000 con l’obiettivo di costruire una vera partnership tra arabi ed ebrei,
lotta per un futuro di giustizia e pace attraverso iniziative concrete di solidarietà con i
palestinesi dei territori e facendo pressioni perché tutti i cittadini di Istaele abbiano pari diritti.
www.taayush.org
Icahd (Israeli Committee Against House Demolition)
L’Icahd è un gruppo nonviolento di azione diretta nato per opporsi alla demolizione delle case
dei palestinesi nei Territori per mano delle forze israeliane. Sul campo le attività si sono poi
allargate ad altri ambiti: espropriazione della terra, espansione degli insediamenti, costruzione
di by-pass road, politiche di chiusura e separazione, sradicamento di alberi da frutto e ulivi.
All’Icahd fanno capo varie organizzazioni e tutto il lavoro viene coordinato localmente con i
palestinesi.
Sin dalla fondazione, l’Icahd si è concentrato su tre aree: resistenza e azioni di protesta nei
Territori Occupati; sensibilizzazione della società israeliana rispetto alla realtà
dell’Occupazione; mobilitazione della comunità internazionale per una pace giusta.
I membri dell’Icahd bloccano fisicamente i bulldozers mandati a demolire le case e mobilitano
regolarmente centinaia di palestinesi e israeliani per ricostruire le case abbattute, come atto
di resistenza.
“Come israeliani crediamo che l’unica chance per una vera pace sia concedere ai palestinesi
di avere ciò che noi abbiamo a nostra volta conquistato: uno stato autonomo e praticabile,
con piena sovranità. Solo una pace giusta concederà alla gente che vive in questa regione di
vivere in quella sicurezza, dignità, libertà e nel benessere economico cui ciascuno aspira”.
www.icahd.org/eng
Movimenti pacifisti e organizzazioni non governative israeliane
Adalah (Giustizia) www.adalah.org
The Legal Center for Arab Minority Rights in Israel è il primo centro legale no profit creato da
palestinesi israeliani. È una ONG che dal 1996 si occupa della tutela dei diritti umani in
Israele in generale e in particolare di quelli della minoranza araba – in particolare per quanto
concerne diritti territoriali, diritti civili e politici, diritti culturali, sociali ed economici, diritti delle
donne, diritti dei prigionieri.
Addameer www.addameer.org
Organizzazione fondata nel 1992 da un gruppo di attivisti ed avvocati. La sua attività è
incentrata sul monitoraggio della violazione dei diritti umani e sul sostegno ai prigionieri
palestinesi ed alle loro famiglie.
Amnesty International – Israel www.amnesty.org.il
È una delle principali ONG in Israele. Il suo status apolitico e la sua non affiliazione ad alcun
organismo statale o governativo conferisce alla sezione israeliana indipendenza e quindi
neutralità verso arabi ed ebrei, ebraismo, islam e cristianesimo. In linea con la politica di
Amnesty International, la sezione israeliana combatte le discriminazioni e le violazioni dei
diritti umani in Israele, nell’Autorità Palestinese e nei territori, come anche nei vicini paesi del
Medio Oriente.
The Arab Association for Human Rights www.arabhra.org
HRA (fondata nel 1988) opera nella promozione dei diritti politici, civili, economici e culturali
della minoranza araba e palestinese in Israele. Ha tra i suoi scopi anche la promozione dei
diritti delle donne, l’educazione nei diritti umani e l’international advocacy.
The Association for Civil Rights in Israel www.acri.org.il
ACRI è stata creata nel 1972 ed è un’organizzazione non di parte e indipendente che lavora
nella protezione dei diritti umani e civili in Israele e nei territori.
The Association of Forty www.assoc40.org
Nata nel 1988, l’associazione rappresenta gli abitanti arabi dei cosiddetti “villaggi non
riconosciuti” – si tratta di circa 32 villaggi nel nord e nel centro di Israele e di 117 nel sud, per
una popolazione complessiva di circa 75.000 persone di cui 65.000 nel sud – e quanti anche
tra gli israeliani cercano si uniscono alla loro causa, e lavora per ottenere sostegno locale e
internazionale nella contrapposizione alle politiche statali.
I “villaggi non riconosciuti” sono luoghi che non compaiono sulle carte geografiche ufficiali e
che non hanno mai ricevuto alcuna attenzione governativa e quindi neppure i servizi pubblici
di base. Negli anni il governo israeliano ha adibito la terra su cui sorgono questi villaggi al
solo uso agricolo, e ha sempre rifiutato di cambiare destinazione d’uso.
In realtà, i villaggi risalgono a ben prima la nascita dello stato di Israele, e nonostante ciò gli
abitanti sono considerati illegali e usurpatori del suolo pubblico. Le politiche pubbliche
tendono quindi a dislocare altrove gli abitanti, a demolire le loro case, a negare i loro diritti e
ad impedirgli di ricevere i servizi minimi.
L’associazione ha quindi lo scopo di ottenere il riconoscimento ufficiale dei villaggi; migliorare
le condizioni di vita degli abitanti, lottare contro la confisca delle terre e la distruzione delle
case, creare comitati locali nei villaggi stessi – sia per l’amministrazione locale, sia per la
promozione di una lotta per il riconoscimento dei diritti –, fare pressione sul parlamento
perché siano presentati nuovi progetti di legge per l’uguaglianza delle comunità arabe.
Bat Shalom (Donne in Nero) www.batshalom.org
ONG contro l'occupazione, cui partecipano donne ebree e palestinesi e che lavora in
associazione con la ONG palestinese Jerusalem Center for Women. Bat Shalom lavora per la
risoluzione del conflitto israelo-palestinese, per il rispetto dei diritti umani e per l’uguaglianza
delle donne ebree e arabe nella società israeliana.
Btzelem (nell’immagine di) www.btselem.org
Israeli Information Center for Human Rights in the Occupied Territories, creato nel 1989 da un
gruppo di accademici, giudici, giornalisti e membri della Knesset. Il suo scopo è documentare
ed educare sia i politici israeliani sia la popolazione sulle violazioni dei diritti umani nei territori
occupati. Cerca inoltre di combattere la negazione degli abusi e di creare una cultura dei diritti
umani in Israele.
Come ONG impegnata nella protezione dei diritti umani, monitora le violazioni e fa pressione
sul governo israeliano affinchè rispetti il diritto internazionale in materia. È impegnata nella
stesura di rapporti, attività informativa alla Knesset e pressione per la discussione
parlamentare di tematiche relative ai diritti umani nei territori occupati, azione sul campo nella
West Bank per migliorare le condizioni di vita della popolazione palestinese.
Bimkom - Planners for Planning Rights www.bimkom.org
Nata nel 1999, l’organizzazione riunisce progettisti e architetti impegnati nella relazione tra
diritti umani e pianificazione territoriale in Israele. Come organizzazione di professionisti,
cerca di promuovere il diritto all’uguaglianza e alla giustizia sociale nel campo di
pianificazione, sviluppo, allocazione delle risorse territoriali. Assiste le comunità e le
minoranze oggetto di discriminazioni sociali ed economiche o nell’ambito dei diritti umani.
Bizchut www.bizchut.org.il
ONG che promuove i diritti di persone portatrici di handicap fisici e mentali, e il loro pieno
inserimento nella società.
Gush Shalom (Blocco della Pace) www.gush-shalom.org
Una delle più note organizzazioni pacifiste israeliane, fondata nel 1993 da Uri Avnery.
Sebbene vi facciano parte anche parlamentari israeliani, l’organizzazione è extra
parlamentare e indipendente da qualsiasi partito o gruppo politico.
Tra i suoi principali obiettivi ha il coinvolgimento dell’opinione pubblica israeliana sul tema
della riconciliazione con il popolo palestinese; la fine dell’occupazione israeliana dei territori; il
ristabilimento della linea verde come confine tra Israele e Palestina; la creazione di due
capitali a Gerusalemme (israeliana a ovest e palestinese a est); il riconoscimento di principio
del diritto al ritorno dei rifugiati e dei profughi palestinesi cui deve essere accordata libera
scelta se tornare o ricevere compensazioni economiche; la salvaguardia della sicurezza sia di
Israele sia della Palestina; la pacificazione tra Israele e i paesi arabi circostanti e la creazione
di un’unione regionale.
HaMoked – Center for the Defence of the Individual www.hamoked.org
Organizzazione israeliana per i diritti umani coinvolta nell’assistenza legale e amministrativa
dei palestinesi nei territori occupati, in relazione alla violazione dei loro diritti a causa di
politiche discriminatorie israeliane. In particolare, si occupa di diritti dei detenuti, diritti di
residenza e riunificazione familiare, libertà di movimento, violenza perpetrata da forze di
sicurezza e coloni israeliani, demolizione di case e deportazioni.
International Association for Children’s Rights www.dci.org.il
Sezione israeliana, nata nel 1987 per volontà di educatori, psicologi, avvocati e operatori del
sociale sia arabi sia ebrei, dell’organizzazione Defence for Children International fondata nel
1979 e con sede a Ginevra. AVI Promuove la protezione dei diritti dei bambini in Israele e nei
territori occupati. Inizialmente impegnata nella riunificazione dei bambini ebrei etiopi con le
loro famiglie, dal 1988 si occupa anche dell’assistenza legale dei minori palestinesi.
The Israeli Committee Against House Demolitions www.icahd.org
ONG israeliana che si oppone alla demolizione delle case palestinesi da parte dell'esercito
israeliano e che ricostruisce le case distrutte. Oltre a resistere attivamente contro la
demolizione bloccando le ruspe, ICAHD protesta contro altre politiche oppressive di
occupazione come l’esproprio delle terre palestinesi, l’espansione degli insediamenti, la
costruzione di by-pass roads, e in genere tutte le politiche di chiusura e di separazione quali
la costruzione della barriera e la conseguente distruzione di alberi da frutta e di olivi (centrali
nell’agricoltura e nell’economia palestinesi). Infine, è dedita alla controinformazione e aiuta le
comunità palestinesi nella ricerca di assistenza legale e psicologica.
The Israeli National Council for the Child www.children.org.il
The Israel National Council for the Child (NCC), fondata nel 1980, si occupa di educazione,
salute, bambini a rischio, abusi, delinquenza, legislazione e diritti, media e altre tematiche
legate alla protezione dell’infanzia. Non fa distinzione tra bambini ebrei e arabi, religiosi o non
religiosi.
Kav LaOved (linea dei lavoratori) www.kavlaoved.org.il
Organizzazione no profit fondata nel 1990; protegge i diritti dei lavoratori svantaggiati in
Israele e fornisce loro assistenza legale. Si calcola che vi siano in Israele circa 200.000
migranti, palestinesi che lavorano in Israele e negli insediamenti ebraici, minoranze etniche e
persone che lavorano senza contratto; queste persone sono spesso sottopagate, discriminate
e non garantite nei loro diritti. Kav LaOved non solo assiste legalmente i singoli, ma cerca
anche a livello pubblico di mutare la legislazione vigente e le politiche governative sul lavoro.
Machsom Watch – Women for Human Rights www.machsomwatch.org
Organizzazione fondata nel 2001 da un gruppo di donne israeliane per fermare la violazione
dei diritti umani della popolazione civile ai checkpoint dell’esercito e della polizia israeliani. Il
gruppo sorveglia ogni giorno vari checkpoint, controlla le procedure adottate nei confronti
della popolazione, assiste la popolazione locale e segnala le violazioni che riscontra. Cerca di
mediare tra soldati israeliani e civili palestinesi e di impedire che i controlli sui palestinesi in
transito diventino un impedimento al loro diritto di spostarsi e di entrare in Israele per
lavorare.
Mossawa - The Advocacy Center for Arab Citizens of Israel www.mossawacenter.org
Nata nel 1997 come organizzazione non governativa, lavora per promuovere l’uguaglianza
per gli arabi e per i palestinesi nei confini di Israele. Cerca di cambiare lo status politico e
sociale degli arabi e dei palestinesi in Israele per ottenere riconoscimento e diritti di
minoranza, senza sacrificare i loro diritti nazionali e culturali.
Parents Circle www.theparentscircle.com
Organizzazione nata nel 1994, riunisce attualmente circa 500 famiglie sia ebree sia
palestinesi che hanno perso un congiunto nel conflitto e che chiedono la pace attraverso il
dialogo, la riconciliazione e la coesistenza. Chiede la fine dell’occupazione israeliana nei
territori, la cessazione delle ostilità da ambo le parti e l’avvio della pacificazione.
Physicians for Human Rights – Israel http://english.phr.org.il
Nata nel 1988, l’organizzazione promuove il diritto alla salute e la protezione dei diritti umani
in ambito medico dei residenti in Israele e nei territori occupati. Si oppone alla subordinazione
delle cure mediche a ragioni politiche portate avanti dalle autorità israeliane. Cerca inoltre di
porre freno alla carenza di cure mediche nella West Bank e di assistere la popolazione
beduina dei villaggi non riconosciuti; assiste altri gruppi svantaggiati come i migranti, i
prigionieri e i detenuti.
Fa parte dell’International Federation of Health and Human Rights Organizations (IFHHRO).
The Public Committee Against Torture in Israel www.stoptorture.org.il
Nata nel 1990, è un’organizzazione apolitica che cerca di eliminare la tortura dagli
interrogatori condotti dall’esercito israeliano. PCATI è la sola organizzazione in Israele
interamente devota al tema degli interrogatori illegali. Documenta, monitora e si prende cura
dei casi di interrogatori illegali, di trattamenti degradanti e di brutalità attuati dalle forze
dell’ordine in Israele, nei territori e nell’Autorità Palestinese.
Fornisce assistenza legale alle vittime di tortura, promuove l’informazione pubblica e il
coinvolgimento popolare contro la tortura, raccoglie dati per un centro di informazione sulla
tortura in Israele e nell’Autorità Palestinese, monitora le attività dell’Alta Corte di Giustizia
israeliana facendo pressione perchè deliberi contro l’uso della tortura negli interrogatori.
Rabbis for Human Rights www.rhr.israel.net
ONG dei rabbini che si battono per i diritti dell'uomo. È nata nel 1988, in risposta alle gravi
violazioni dei diritti umani commesse dalle autorità militari israeliane nella repressione della
prima intifada palestinese. È la sola organizzazione israeliana che cerca nello specifico di
dare voce alla tradizione ebraica dei diritti umani e di affermare che la violazione dei diritti
umani è contraria all’insegnamento biblico. RHR aiuta singole persone, pubblicizza cause,
promuove la disobbedienza civile, fa pressione sulla Knesset e cerca di frenare gli abusi
commessi dall’esercito in nome della sicurezza – compresa la politica della distruzione di
case.
Refuzenik www.refuz.org.il
ONG degli obiettori di coscienza israeliani e delle loro famiglie. Il High School Draft
Resistance Parents Forum, in particulare, riunisce genitori e parenti degli obiettori di
coscienza (scministim) che sono sotto processo o in carcere, ed è parte del campo pacifista
che vuole non solo difendere i diritti umani degli obiettori, ma anche fare pressione sui media
israeliani e sull’opinione pubblica internazionale.
Shalom Ahsciav (Pace Adesso) www.peacenow.org
La più importante organizzazione pacifista e il più importante movimento extra parlamentare.
È stata fondata nel 1978, durante le trattative di pace con l’Egitto, da 348 ufficiali della riserva
dell'esercito israeliano convinti che soltanto una conclusione negoziata del conflitto possa
dare sicurezza alla popolazione israeliana.
Inizialmente impegnata sul tema dei confini sicuri per Israele e per i paesi vicini, incluso il
diritto palestinese all’autodeterminazione, ha poi iniziato a promuovere il ritiro israeliano nei
confini del 1967 e la creazione dello stato palestinese.
Si occupa anche del monitoraggio degli insediamenti, denunciando la creazione di nuove
colonie, l’espropriazione della terra palestinese e la compensazione economica per i
palestinesi.
Yesh Din – Volunteers for Human Rights www.yesh-din.org
Organizzazione israeliana non profit che combatte gli abusi commessi nei confronti della
popolazione palestinese nei territori occupati, nonchè i problemi che tali abusi causano anche
alla società israeliana. È assistita da esperti legali, di diritti umani e di comunicazione.
Yesh Gvul (C'è un Limite) www.yeshgvul.org
Organizazione che fornisce sostegno agli obiettori di coscienza e ai soldati che rifiutano di
svolgere il loro servizio nei territori occupati. Riunisce membri dell’esercito contrari
all’oppressione della popolazione palestinese.
L’orgaizzazione nasce nel 1982 in seguito alla guerra in Libano, quando la brutalità e la
violenza portano alcuni soldati a rifiutarsi di continuare a combattere in quella che ritenevano
essere un’aggressione – e 168 militari sono imprigionati. La prima intifada vede aumentare il
numero degli obiettori (tra cui 200 finiscono in carcere) e da allora il movimento cresce. Oggi
la campagna di Yesh Gvul si incentra sul concetto di “rifiuto selettivo”, una realtà solamente
israeliana che applica i principi della disobbedienza civile di Ghandi e di Martin Luther King
alle forze armate.
Il sistema politico in Israele
Il parlamento israeliano (una sola camera di 120 membri, chiamata Knesset) viene eletto ogni
4 anni con voto generale, nazionale, diretto, eguale, segreto e proporzionale. Ha diritto di voto
ogni cittadino israeliano che ha compiuto 18 anni, senza distinzione di sesso, censo,
credenze religiose, luogo di residenza. L’elezione si svolge su un collegio unico nazionale, su
liste fisse (non esiste voto di preferenza) e prevede una soglia minima di ingresso (1,5% dei
voti validi).
Gruppi parlamentari nella XVI Knesset attualmente in funzione:
Agudat Yisrael, Degel Hatorah, Hadash-Ta`al, Ichud Leumi, Labor-Meimad-Am Ehad, Likud,
Meretz-Yahad and the Democratic Choice, National Democratic Assembly, National Religious
Party, Noy, Renewed National Religious Zionism, Shas, Shinui-the Secular Movement, United
Arab List, Zionism Liberalism Equality.
Gruppi parlamentari della XVI Knesset, XXX governo entrato in carica il 28 febbraio 2003:
Agudat Yisrael dal 12/1/2005
Degel Hatorah dal 12/1/2005
Ichud Leumi fino al 6/6/2004
Labor-Meimad dal 10/1/2005
Likud
National Religious Party dal 10/3/2003 al 11/11/2004
Shinui-the Secular Movement fino al 4/12/2004
United Torah Judaism dal 10/1/2005 al 12/1/2005
Tutti I gruppi parlamentari della XVI Knesset
Agudat Yisrael [non faceva parte del governo all’inizio ma è entrato dopo]
Am Ehad [presente all’inizio ma poi uscito]
Degel Hatorah [non faceva parte del governo all’inizio ma è entrato dopo]
Hadash-Ta'al [presente dall’inizio]
Hitchabrut [non presente all’inizio e già uscito]
Ichud Leumi [presente dall’inizio]
Labor-Meimad- Am Ehad [non faceva parte del governo all’inizio ma è entrato dopo]
Labor-Meimad [presente all’inizio ma poi uscito]
Likud [presente dall’inizio]
Meretz-Democratic Choice-Shahar [presente all’inizio ma poi uscito]
Meretz-Yahad-Democratic Choice [non faceva parte del governo all’inizio ma è entrato dopo]
National Democratic Assembly (Balad) [presente dall’inizio]
National Religious Party [presente dall’inizio]
Noy [non faceva parte del governo all’inizio ma è entrato dopo]
Renewed National Religious Zionism [non faceva parte del governo all’inizio ma è entrato
dopo]
Shas [presente dall’inizio]
Shinui -the Secular Movement [presente dall’inizio]
United Arab List [presente dall’inizio]
United Torah Judaism [presente all’inizio ma poi uscito]
Yahad and the Democratic Choice [non presente all’inizio e già uscito]
Yisrael Be'aliyah [presente all’inizio ma poi uscito]
Zionism Liberalism Equality [non faceva parte del governo all’inizio ma è entrato dopo]
Hadash-Ta'al (3 seggi); National Democratic Assembly (3 seggi); United Arab List (2 seggi):
partiti arabi.
Sono partiti di sinistra non sionisti. In politica estera si riconoscono nelle posizioni dell’OLP. Il
programma politico non è dissimile da quello dei comunisti di Hadash, considerati perù troppo
veteromarxisti.
Agudat Israel
3 seggi. Partito religioso prevalentemente askenazita, da sempre presente alla Knesset. Negli
anni Novanta si è identificato sempre più su posizioni nazionaliste e con l’ideale della Grande
Israele.
Deghel HaTorah
2 seggi. Formazione religiosa non sionista, tende a destra in materia di politica estera.
Ichud Leumi
7 seggi. Dalla XV Knesset unisce Moledet, Herut, and Tekuma.
Moledet (Patria) è un partito di estrema destra fondato dall’ex generale Rehavam Zeevi
(ucciso dall'FPLP il 17 ottobre 2001), si oppone alle concessioni territoriali, proponendo un
“trasferimento” dei palestinesi. A causa di questa posizione, in passato è stato escluso dalle
coalizioni di governo guidate dal Likud. Raccoglie il voto di parte della popolazione russofona.
Tekuma è il piccolo partito di coloni.
Herut è il partito fondato da Zeev Benjamin Begin (figlio di Menachem Begin, primo ministro
negli anni 1977-83).
Labor – Meimad – Am Ehad
21 seggi. Coalizione tra il Partito Laburista e i partiti Meimad (movimento religioso moderato e
sionista) e Am Ehad (formato soprattutto da sindacalisti) in una lista unica. I laburisti sono nati
nel 1930 dall’unificazione di diverse formazioni sioniste socialiste con il nome di Mapai
(Partito dei Lavoratori di Eretz Israel), la sua base elettorale è tradizionalmente radicata nella
confederazione sindacale Histadrut e nel movimento kibbutzistico. Favorevole al
“compromesso territoriale” come mezzo per perseguire la pace.
Likud
40 seggi. Nato dall’alleanza fra il Partito Liberale Israeliano e il partito Herut (seguaci del
sionismo revisionista di Zeev Jabotinsky, usciti dal Likud sotto la guida di Begin). Il Likud si è
tradizionalmente opposto all’idea di un “compromesso territoriale” a ovest del Giordano.
Critico nei confronti degli Accordi di Oslo, si è impegnato a rispettare gli impegni internazionali
d’Israele a condizione che venisse garantita la massima sicurezza.
Meretz – Yahad – Democratic Choice
6 seggi. Meretz è un’alleanza formata da due partiti di sinistra: il Mapam (partito storico del
socialismo sionista, un tempo su posizioni marxiste, la cui base elettorale è radicata
soprattutto nel movimento kibbutzistico Hashomer Hatzair) e il Ratz (partito radical dei diritti
civili, fondato da Shulamit Aloni, esponente di spicco delle ‘colombe’ di Shalom Ahsciav. Il
Meretz è favorevole a maggiori concessioni come mezzo per perseguire la pace e si batte per
una più netta separazione fra stato e religione. Esponente di spicco della coalizione è Yossi
Sarid. Scelta Democratica è un partito russofono di tendenza laica.
Noy
1 seggio.
National Religiuos Party (Mafdal)
4 seggi. Movimento religioso sionista, su posizioni tradizionalmente moderate riguardo alla
politica estera, il Mafdal ha fatto parte delle coalizioni di governo a guida laburista fino al 1977
in cambio di concessioni sullo status della religione. A partire dal 1967 si è rafforzata l’ala
destra del partito, portandolo su posizioni simili a quelle del Likud e vicine al Gush Emunim, il
movimento dei nazionalisti religiosi residenti nei territori occupati. Si è opposto a lungo alla
formula del “compromesso territoriale”.
Renewed National Religious Zionism
2 seggi.
Shas
11 seggi. Fondato nel 1984 da una scissione di esponenti sefarditi usciti da Agudat Israel,
riconosce come guida spirituale Ovadia Yosef, già rabbino capo sefardita d’Israele. Benchè la
base elettorale sia prevalentemente di destra, la posizione di Ovadia Yosef (che non esclude
la possibilità di cedere territori in nome del comandamento di salvare vite umane) ha posto il
partito in una posizione intermedia.
Shinui - The Secular Movement
14 seggi. Shinui (cambiamento) è un movimento liberal di centro vicino a Shalom Ahsciav in
politica estera, ma fautore dell’economia di mercato e della libera impresa. Dalla XIV Knesset
ha accolto il Partito di Centro che era nato formalmente nel marzo 1999 dalla confluenza di
alcuni gruppi guidati da personalità di spicco: Amnon Lipkin-Shahak (ex capo di stato
maggiore), Dan Meridor (già ministro delle finanze nel governo Netanyahu), Ronni Milo (ex
sindaco di Tel Aviv) e Ytzhak Mordechai (già ministro della difesa nel governo Netanyahu).
Zionism Liberalism Equality
1 seggio.

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