InfoCEEP_04

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InfoCEEP_04
Info C E E P
quaderni per la formazione
al dialogo e alla pace
Il “Grande
Medio Oriente”
Anno 4 - n 2 - Maggio-Agosto 2007
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Info
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Anno IV n. 2 - Maggio - Agosto 2007
Indice
Editoriale
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Gianni Bottalico
Medio Oriente: da dove passa oggi il sostegno
alle vie del dialogo e della pace?
5
Janiki Cingoli
Le chiavi di lettura del conflitto arabo-israeliano
12
Massimo Campanini
Le chiavi di lettura della questione Iran-Iraq
18
Elisa Giunchi
Le chiavi di lettura della situazione in Pakistan e
Afghanistan
24
Bruno Segre
Il risveglio politico degli arabi di Israele
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Holger Banse
Un Paese, due Popoli. La questione ebraico-araba:
pensieri di Martin Buber
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Centro ecumenico europeo per la pace
Il Centro ecumenico europeo per la pace nasce dall’esigenza di offrire
alla società civile percorsi formativi e proposte culturali a fronte dei processi di
trasformazione e delle nuove sfide epocali.
Nell’Europa, chiamata ad integrare tra loro società di tipo multietnico,
multiculturale e multireligioso, la formazione al dialogo - per la soluzione dei
conflitti e per la ricerca di una dialettica di convivialità delle differenze - appare
sempre più come il nuovo nome della pace.
L’esigenza del dialogo interpella laicamente ogni coscienza e costituisce
un imperativo per i cristiani chiamati ad una testimonianza radicale e comune
dell’evangelo, al di là delle loro divisioni storiche.
Per questo Europa, pace, ecumenismo sono tre parole-chiave
dell’impegno che i soci fondatori e le presidenze milanese, lombarda e nazionale
delle Acli hanno inteso assumere e promuovere con la costituzione del Centro
ecumenico europeo per la pace.
InfoCEEP
Quaderni per la formazione
al dialogo e alla pace
Direttore
Paolo Colombo
[email protected]
Redazione
Mirto Boni, Giuseppe Davicino
Segreteria di Redazione
Marina Valdambrini
[email protected]
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Redazione e amministrazione: Via della Signora 3, 20122 Milano.
Registrazione n. 951 del 3/12/1948 presso il Tribunale di Milano.
Direttore responsabile: Monica Forni
Stampa
Sady Francinetti
Via Casarsa, 5 - Milano
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Editoriale
Il presente Infoceep rappresenta il frutto dell’impegno culturale
profuso nei mesi scorsi dalle Acli milanesi e dal Centro Ecumenico
Europeo per la Pace.
Nel mese di marzo, la Presidenza delle Acli milanesi pubblicava un
documento sul Medio Oriente. A partire da tale documento, le
argomentazioni circa le prospettive di dialogo e di pace vengono
ulteriormente contestualizzate e approfondite da Gianni Bottalico,
presidente delle stesse Acli milanesi, il cui articolo apre il presente
Quaderno.
I tre testi successivi sono le relazioni di un Convegno da noi
ospitato in aprile, con il titolo: Il “Grande Medio Oriente”. Con la loro
competenza gli autori – Janiki Cingoli, Massimo Campanini ed Elisa
Giunchi – procedono ad una analisi delle varie situazioni di conflitto
nell’area, suggerendo interessanti chiavi di lettura sia per il presente sia, in
prospettiva, per il futuro. Ne scaturisce un quadro complessivo delle
problematiche, che non si limitano al solo Israele, ma si estendono ai
conflitti in Iran-Iraq e Pakistan-Afghanistan: solo leggendo le questioni nel
loro insieme è infatti possibile acquisire parametri di giudizio adeguati alla
complessità dell'area.
Anche il saggio di Holger Banse – Pastore protestante tedesco,
molto amico dell’Italia e del CEEP in particolare – fa seguito ad un
momento pubblico, cioè ad una conferenza tenuta dallo stesso Banse a
Milano lo scorso mese di giugno. La questione ebraico-araba vi viene
affrontata attraverso la lente degli scritti di Martin Buber, offrendo una
lettura quanto mai suggestiva del percorso storico-culturale degli ultimi
decenni*.
Completa il Quaderno un contributo di Bruno Segre, stimato e
partecipe conoscitore della situazione israeliana, che a sua volta suggerisce
interessanti spunti di confronto e possibili piste di soluzione.
Nel loro spessore obiettivo, i testi qui pubblicati contribuiscono a
una maggiore comprensione della situazione del “Grande Medio Oriente”. E
tuttavia il discorso non può ritenersi concluso: i molti e diversi punti di vista
richiederebbero un'attenzione continua e specifica, nella consapevolezza che
ragioni e torti non si possono semplificare né tanto meno proporre
esclusivamente da una parte piuttosto che dall'altra. Si tratta di questioni
sempre estremamente attuali e in continua evoluzione, con la conseguenza
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che già a distanza di pochi mesi occorrerebbero precisazioni, correzioni,
integrazioni e riletture…
Pur con tutti questi limiti, riteniamo comunque di mettere a
disposizione dei nostri lettori uno strumento capace di gettare uno sguardo
significativo sui nodi che toccano, a volte addirittura lacerano, i paesi
mediorientali. Salvo ricordare che, in un mondo globalizzato come quello
in cui ci troviamo, le tensioni presenti in un’area vengono inevitabilmente
a ripercuotersi sulla stabilità e sugli equilibri di tutto il pianeta.
* Purtroppo, le esigenze di spazio non ci hanno consentito di pubblicare la
Conferenza nella sua integralità. Per quanto nell’essenziale siano stati
mantenuti il senso e la compiutezza dell'argomentazione, ci scusiamo con
l’Autore per una scelta dettata unicamente da motivi redazionali.
EDITORIALE
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Gianni Bottalico
MEDIO ORIENTE:
Da dove passa oggi il sostegno alle vie del dialogo e
della pace
“Le ACLI milanesi ritengono che non sia procrastinabile
un’iniziativa europea che segni una discontinuità, nelle aree di crisi della
Palestina, del Golfo Persico, dell'Afghanistan. Queste tre aree sono per
l’Europa, e ancor di più per l’Italia, uno spazio strategico ed economico vitale
e non possiamo permettere che l’instabilità sia la cifra che li
contraddistingue. La linea di politica estera del governo non può prescindere
dalla sensibilità di buona parte del paese che intende, pur non venendo meno
agli impegni internazionali dell’Italia, sottolineare le scelte a favore della
pace, del dialogo, di una politica estera multipolare”1. Così afferma un
documento della Presidenza Acli di Milano del marzo 2007 a proposito della
situazione mediorientale. Pensare al Medio Oriente significa pensare alla
pace, al dialogo tra le tre grandi religioni monoteiste, al ruolo dell’Europa e
soprattutto dell’Italia, naturale ponte verso tutti i Paesi che si affacciano sul
Mediterraneo, in un tempo nel quale l’instabilità in quell'area ha raggiunto dei
livelli paurosi e il dialogo tra le diverse culture viene insidiato dalla logica
dello scontro di civiltà. È per questo che ci dobbiamo domandare da dove
passano oggi le vie del dialogo e della ricerca della pace. Ecco alcuni punti che
mi sembrano ineludibili per tale ricerca.
Due stati per due popoli: un traguardo più lontano?
La recente guerra civile, consumatasi nella Striscia di Gaza, che ha visto
prevalere Hamas, il movimento che vinse le elezioni democratiche palestinesi
del gennaio del 2006, su al Fatah, non è sembrata che l’epilogo di una serie di
infauste decisioni del passato. La prima consiste nel modo in cui Sharon operò
il ritiro israeliano dalla Striscia di Gaza nel 2005. Un ritiro che non ridiede la
libertà e l'indipendenza al milione e mezzo di Palestinesi che la abitano. Essi
furono piuttosto intrappolati in questo territorio, non potendo disporre del loro
spazio aereo, dell'accesso al mare e delle proprie dogane. La seconda scelta
rivelatasi col tempo poco lungimirante nonché contraddittoria rispetto ai valori
della democrazia di cui l'Occidente dice di essere portatore, fu l’adozione di
sanzioni economiche da parte di Stati Uniti ed Unione Europea (con gli altri
negoziatori che compongono il “Quartetto”, Onu e Russia) in seguito alla
vittoria di Hamas alle elezioni del 2006. Tale decisione, per l’inviato ONU per
il Medio Oriente, Alvaro De Soto, “di fatto ha trasformato il Quartetto da un
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gruppo di negoziazione guidato da un documento comune (la ‘road map’) in
un corpo che null’altro ha fatto che imporre sanzioni ad un governo
liberamente eletto, contro un popolo sotto occupazione, mentre poneva per il
dialogo pre-condizioni irraggiungibili”2. Che Hamas sia stato un movimento
legato al terrorismo del conflitto israelo-palestinese (e non a quello mediaticointernazionale di Al Qaeda) e che non sia ancora giunto al riconoscimento di
Israele è cosa risaputa, ma l’embargo ha contribuito più ad aumentare la
tensione che a sciogliere le pur numerose ambiguità di coloro che furono scelti
democraticamente dai Palestinesi, stanchi della profonda corruzione di Fatah.
“Il rifiuto di Bush - ha commentato l'ex presidente americano Jimmy Carter di accettare la vittoria elettorale di Hamas nel 2006 condanna il popolo
palestinese a conflitti sempre più gravi”. La situazione a Gaza è divenuta
sempre più insostenibile, al limite della crisi umanitaria ed i bombardamenti
israeliani sono ripresi con frequenza da quando Hamas ha ottenuto il controllo
della Striscia. Così il ritiro dalla Striscia di Gaza, che appena due anni fa poteva
sembrare un importante gesto da parte di Israele nella direzione del completo
ritiro dai territori occupati, ha finito con generare una situazione di altissima
tensione, provocando la spaccatura dei Palestinesi che rende il dialogo ancora
più complicato.
Adesso il primo passo da compiere sulla via della pace è la
ricomposizione delle due principali fazioni Palestinesi, che sarebbe
verosimilmente favorita dalla liberazione da parte di Israele, di Marwan
Barghouti, il dirigente di Fatah che gode del maggior prestigio tra i Palestinesi
e che sta scontando una condanna a cinque ergastoli con l’accusa di essere
stato coinvolto nell’omicidio di cinque israeliani. Questa liberazione potrebbe
rivelarsi importante nella ripresa del processo di pace ma dovrà essere
accompagnata da una profonda riflessione da parte palestinese dei molti errori
che hanno costellato il loro passato, primo fra tutti il ricorso al terrorismo (che
ha riguardato anche Fatah, non solo Hamas), l'ambiguità rispetto al
riconoscimento di Israele (foss’anche come tappa ultima a suggello di un
accordo di pace) e l’aver perso occasioni storiche per una soluzione che
prevedesse la coesistenza dei due stati. Gli Israeliani dal canto loro rischiano
di aver pregiudicato le prospettive di pace con i Palestinesi con la pratica degli
insediamenti nei Territori Occupati, che è stata una sorta di continuazione
della Guerra dei sei giorni del 1967: “L’impossibilità di uno Stato palestinese
– ha osservato Barbara Spinelli3, – è il non-detto degli ultimi decenni, non
degli ultimi giorni: è la politica israeliana di annessione dei territori”, e
ancora “il ritiro da Gaza nel 2005 non ha impedito che gli attributi sovrani
(confini, vie d’accesso) restassero israeliani. Chiunque parli, scriva e decida
su Gaza, Cisgiordania e Gerusalemme Est farebbe bene a dotarsi di una carta
geografica. Vedrà una sorta di denso pulviscolo stendersi sui territori: una
miriade di puntini, ognuno dei quali è un insediamento israeliano più o meno
fortificato”.
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Il “corridoio economico della pace”
L’assenza della pace nell'area mediorientale costituisce anche una mancata
occasione di sviluppo economico che, a certe condizioni, può divenire un
fattore di pace. È quello che Shimon Peres indica come “il corridoio
economico” della pace, capace di rendere Israele, una volta raggiunte normali
relazioni con i Paesi vicini, il motore di un vasto sviluppo economico
regionale.
Del resto, la prospettiva di una maggiore integrazione economica dei
Paesi che si affacciano sulla sponda meridionale del Mediterraneo, con
l’Europa è tra le priorità annunciate dal nuovo presidente francese Sarkozy,
mentre l’Italia si sta ancora riprendendo dagli errori commessi dal precedente
governo Berlusconi-Fini e con gesti come il ritiro delle truppe dall'Iraq e il
tempestivo invio del contingente di pace in Libano nel 2006, sta
riguadagnando il baricentro della politica estera dell'Italia post-bellica, di
avamposto europeo nelle relazioni con il Medio Oriente e con l’Africa del
Nord. La mancanza di un accordo di pace pesa con ogni evidenza sulle
condizioni economiche del popolo palestinese, come dimostra la sua
umiliante condizione in quel recinto che è la Striscia di Gaza, nei territori
occupati dove numerosi check-point e il Muro di separazione intralciano le
normali attività quotidiane, e nei campi profughi4.
Ma a ben vedere ci sono degli effetti negativi del conflitto anche sulla
prospera economia israeliana, forse ad un livello più profondo di quanto a
prima vista possa sembrare. Il 2006, l'anno della guerra con il Libano, è stato
definito dal governatore della Banca Centrale israeliana Stanley Fischer
come “uno dei migliori da sempre”5, con un tasso di crescita del Pil del 5%.
Infatti, la minaccia alla sicurezza, che altrove comporterebbe una fuga di
capitali, nel caso di Israele tende a produrre l’effetto opposto, grazie anche al
maggior impegno della diaspora ebraica in tali momenti: nel 2006 il flusso di
capitali dall'estero ha raggiunto la cifra record di 21,2 miliardi di dollari.
“Non è la guerra ma la stupidità che rovina l’economia” ha detto al Sole 24Ore 6 il presidente della Teva, Eli Hurvitz, un'azienda farmaceutica israeliana
con un fatturato di 25 miliardi di dollari l'anno, con evidente riferimento alle
gerarchie politiche e militari del proprio Stato. I soli indicatori economici
indurrebbero a ritenere che la seconda Intifada e la guerra dell'anno scorso
con il Libano non abbiano affatto frenato la crescita dell'economia israeliana
che oggi gode di un autentico boom dei consumi interni, saliti al 62% del Pil.
Il punto di forza dell'economia israeliana, che esporta il 50% di ciò
che produce, sono i prodotti ad alta tecnologia, che costituiscono quasi il 60%
delle proprie esportazioni. In gran parte, come riporta The Nation del 14
giugno scorso, si tratta di strumenti per la sicurezza e la difesa: nel 2006, le
esportazioni israeliane in questo settore hanno raggiunto i 3,4 miliardi di
dollari e per un terzo sono state dirette agli Stati Uniti. Le vendite di armi
“made in Israel” agli americani sono passate dai 270 milioni di dollari nel ’99
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agli odierni 1,2 miliardi. Ciò rende Israele oggi il quarto maggiore fornitore
d’armamenti al mondo, scavalcando anche la Gran Bretagna ed il suo
esercito, munito di alcune centinaia di testate e missili atomici7, è, per
capacità offensiva, tra i primi al mondo. Mentre tra gli economisti si discute
se questa crescita sia avvenuta nonostante l'occupazione dei Territori o, in
qualche misura, anche grazie ad essa (nel senso di aver acquisito know-how
nelle produzioni di strumenti per la sicurezza utilizzati nei territori occupati)
ci sono però due fenomeni che contrastano con le ottime performances
dell’economia.
Il primo è che anche in Israele la competizione globale sregolata di
questi ultimi anni ha prodotto una crescente disuguaglianza, rendendo i ricchi
sempre più ricchi e aumentando la fascia di chi è in difficoltà. Oggi, infatti,
un milione e mezzo di cittadini israeliani, su un totale di sette milioni, vive al
di sotto della soglia di povertà.
L’altro fenomeno negativo è che nonostante l’ottimo andamento
dell'economia, in Israele è aumentato il senso di insicurezza, in particolare tra
gli ebrei d’origine europea che sono stufi di vivere in uno stato d'emergenza
senza fine, e tra i giovani che rischiano in ogni momento di essere spediti a
morire in guerre che sono sempre dietro l'angolo, al punto che in molti stanno
lasciando Israele per tornare nei più vivibili paesi di provenienza. Solo a
causa della seconda Intifada, per il terrore degli attentati suicidi, ben 700 mila
israeliani, più di un decimo della popolazione, hanno lasciato Israele. E se è
vero che negli anni successivi alla fine dell'Unione Sovietica giunsero in
Israele 900 mila ebrei russi, è altrettanto vero che tra il mezzo milione circa
di ebrei residenti in Francia e tra i 118 mila ebrei residenti in Germania (cui
vanno aggiunti circa 200 mila ebrei che negli ultimi anni si sono trasferiti in
Germania dall'ex Unione Sovietica) è diffusa la convinzione “che sia meglio
vivere fra gli eredi dei persecutori piuttosto che nello Stato degli ebrei”8. A
tal punto che di recente il capo del Consiglio Centrale degli Ebrei di
Germania, Stephan Kramer ha intimato al premier israeliano Ehud Olmert di
porre fine alle manovre tendenti ad incoraggiare il ritorno degli ebrei tedeschi
in Israele, minacciando addirittura di rivolgersi al governo tedesco per
fermarle9.
Dunque, questi fatti sembrano suggerirci che, per essere alleato della
pace, il “corridoio economico” avrebbe bisogno anche di un cambiamento, di
una riconversione dell'economia israeliana, in modo che la sua vitalità possa
dipendere più dall'avanzamento della pace e dello sviluppo economicosociale della regione, che dal proliferare dei conflitti in Medio Oriente e nel
mondo.
Un linguaggio franco per la pace
Vorrei, infine, evidenziare almeno un altro punto importante per la ricerca
della pace. Esso consiste, a mio avviso, nello sforzo comune di aspirare
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all'uso di un linguaggio il più possibile libero da mistificazioni e nel
contempo da esasperazioni propagandistiche. Oggi da troppe parti si
adoperano con una certa leggerezza toni accesi che puntano a radicalizzare lo
scontro arabo-israeliano e più in generale il rapporto tra l’Europa e gli Stati
Uniti verso il mondo arabo. Si dovrebbe trovare un maggiore equilibrio
capace di dare conto di fatti, che talora sono purtroppo tragici e sconvolgenti
(atti di guerra e di terrorismo), evitando di sconfinare nell’ideologia dello
scontro di civiltà, che enfatizza le strategie dei settori più estremisti (che pure
non mancano dall’una e dall'altra parte) per far credere che il ricorso alla
forza non ammetta alternative contro un avversario irriducibilmente e
ciecamente ostile e violento.
Commettono questo errore, come ammonisce l'ambasciatore dello
Stato d'Israele in Italia Gideon Meir, tutti coloro che demonizzano Israele e
giungono a formulare paragoni offensivi del rispetto per le sofferenze subìte
da questo popolo. Ma a questo rischio di demonizzazione forse non si
sottraggono neanche coloro che vedono negli altri popoli dell’area
mediorientale solo altrettante minacce per l'esistenza di Israele. Emblematico
a questo riguardo è stato l'allarmismo (rivelatosi poi falso e pretestuoso) nei
confronti dell'Iraq nel 2003 per giustificare quella che in realtà è stata una
guerra di aggressione. Oggi un medesimo pregiudizio è riscontrabile nei
confronti dell’Iran guidato da Ahmadinejad. Gli ancora influenti think tank
neoconservatori americani, come l'American Enterprise Institute, nonostante
il disastro in cui hanno cacciato gli Usa in Iraq, gridano al pericolo iraniano.
Ahmadinejad di cui sono noti gli eccessi verbali e l’indole ad un tempo
misticheggiante e populista, viene additato come il nuovo Hitler pronto a
cancellare Israele e addirittura a distruggere l’Europa, cosicché l’attuale
Amministrazione americana ha pensato di giustificare il progetto del sistema
antimissilistico in Polonia e Repubblica Ceca come difesa da improbabili
missili iraniani. Riuscire a superare questi toni da scontro finale, peraltro così
diffusi sui grandi mass media, per fare emergere un approccio razionale ai
problemi è probabilmente un grande servizio alla causa della pace. Lo
riconosce persino uno dei massimi esperti israeliani di strategia militare, che
non può essere certo sospettato di essere tenero con l’attuale regime di
Teheran, il professor Martin van Creveld dell'Università Ebraica di
Gerusalemme: “L’Iran è un paese islamico, ma non folle. L'unica grande
guerra in cui l'Iran è stato coinvolto a memoria d’uomo, quella contro l’Iraq,
gli è stata imposta dall'esterno”10. Ma l'analisi di van Creveld arriva a
smontare alla radice l'allarmismo per gli scenari più cupi, anche nel caso l’Iran
dovesse mai un giorno dotarsi dell'arma atomica: “Nel momento in cui l'Iran
si dotasse di armi nucleari si creerebbe nella regione una situazione di
equilibrio e di bilanciamento”11 tale da rendere impraticabile il conflitto con
le altre due potenze nucleari della regione: Israele e Pakistan. Senza contare
che, per il momento, la qualità di uranio arricchito che l’Iran è in grado di
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produrre è di 20 volte inferiore a quella necessaria a fini militari e che, per
quanto paradossale possa sembrare, l’Iran condivide oggi con altri grandi
produttori di petrolio e gas “il problema di disporre di fonti di energia
alternative”12.
Nel mondo d’oggi più si intensificano le azioni delle forze della
destabilizzazione, dello scontro e della morte, che prefigurano, anche per la
scelta dei tempi, la “spettacolarità” degli atti e la loro ampia risonanza
mediatica, una “strategia della tensione” internazionale, che ha nel Medio
Oriente il suo epicentro, più è necessario da parte di tutti il coraggio di un
linguaggio veritiero, una moderazione dei toni, un sincero impegno per la
pace. In particolare da parte di noi cristiani che sappiamo e crediamo che “la
vittoria di Gesù sulla morte conferisce un nuovo significato alla terra
d’Israele. La apre ad una dimensione universale, nella quale tutte le nazioni
sparse sulla superficie del globo vengono chiamate a diventare a loro volta
Terra Santa. Ancora meglio, per i cristiani Gesù assume nella sua persona
tutta la storia sacra, e dunque anche la relazione tra terra e alleanza. La
terra dell’alleanza si concretizza nel regno di Cristo, che si estende al di là
di tutte le frontiere: “Beati i miti, perché erediteranno la terra” (Mt 5,5)13.
Milano, 3 luglio 2007
Gianni Bottalico
Presidente provinciale Acli milanesi
Note bibliografiche
1 Cfr. www.aclimilano.com, sezione Documenti.
2 Questo severo giudizio è contenuto in un rapporto riservato di 53 pagine
che l'inviato per il M.O., il diplomatico peruviano Alvaro De Soto ha redatto
per l'Onu, ma che il Guardian del 13 giugno 2007 ha reso pubblico. Le
“precondizioni irraggiungibili” poste dal Quartetto ad Hamas ed al governo
palestinese, cui si riferisce De Soto, sono tre: il riconoscimento preventivo di
Israele (anziché al temine dei negoziati), la rinuncia, in regime di
occupazione e di grave limitazione della sovranità, alla violenza e al
terrorismo e il rispetto degli accordi precedenti.
3 Barbara Spinelli, Palestina, morte di uno Stato, La Stampa 17 giugno 2007.
4 La precarietà delle condizioni in cui si trovano i Palestinesi nei campi
profughi, non è comunque tra le prime cause delle forme di rivolta più
radicali. Queste in genere sono opera di elementi infiltrati che lavorano per
la destabilizzazione: è quanto è avvenuto dal maggio scorso nel campo
profughi palestinese di Nahr al Bared, nel Libano settentrionale, dove è
misteriosamente apparso a partire dallo scorso ottobre un gruppo estremista,
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Fatah al Islam, composto da poche centinaia di miliziani islamisti di varia
nazionalità (in prevalenza algerini, pakistani, sauditi, iracheni e tunisini,
senza legami con i profughi), di oscura e controversa genesi, responsabile di
diversi attacchi ad obiettivi libanesi. È appena il caso di ricordare che il
campo profughi di Nahr al Bared si trova a soli tre km da Klieaat, una base
aerea abbandonata che gli Usa vorrebbero adesso ripristinare come base
Nato. Secondo il giornalista investigativo americano Wayne Madsen, la
comparsa di Fatah al Islam, prontamente catalogato dalla stampa
internazionale come gruppo terrorista indubbiamente affiliato ad Al Qaeda,
fornirebbe un’ottima occasione per avviare questo progetto.
5 Citato da Davide La Cecilia, L’eccezionalismo economico, Aspenia n.37
2007.
6 Ugo Tramballi, Per l’economia israeliana Gaza non è un problema, Il Sole24 Ore, 22 giugno 2007.
7 Martin van Creveld, uno dei massimi esperti di strategia militare israeliana,
docente di storia militare all’Università Ebraica di Gerusalemme, ha
affermato che il governo di Tel Aviv possiede “diverse centinaia di testate
atomiche e missili ed è in grado di lanciarli in ogni direzione”. Tale opinione
è stata ripresa anche in un commento dell’Observer del 21 settembre 2003
intitolato The war game.
8 Sergio Romano, Reato di opinione, Aspenia n.37 2007.
9 Amiram Barkat, Germany's Jews warn PM not to promote immigration to
Israel, Haaretz, 4 giugno 2007.
10 Martin van Creveld, Evitare la prossima guerra, Aspenia n.37 2007.
11 Ibidem. Una tesi condivisa anche dal precedente presidente francese
Chirac che durante un'intervista, poi successivamente corretta in senso più
diplomatico, rilasciata al New York Times, all'International Herald Tribune e
al settimanale Nouvel Obsersvateur il 29 gennaio 2007 disse: “Non è poi
tanto pericoloso se l’Iran ha una bomba atomica. Non servirà a niente. Dove
la tira, questa bomba? Su Israele? Non avrà fatto duecento metri di volo, e
Teheran sarà rasa al suolo”.
12 Leonardo Maugeri, All'Iran il nucleare serve davvero, Il Sole-24 Ore, 28
dicembre 2006.
13 Carlo Maria Martini, prefazione a La terra, la Bibbia e la storia “Verso il
paese che indicherò” di Alain Marchadour e Richard Neuhaus, Jaca Book,
Milano, 2007.
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Janiki Cingoli
LE CHIAVI DI LETTURA DEL CONFLITTO
ARABO-ISRAELIANO
In questo momento in Medio Oriente agiscono due fattori: un fattore
di immobilismo e uno di movimento. Il primo è determinato dal fatto che, a
livello internazionale, da qualche tempo, anche se non se ne parla, non esiste
più una valida proposta relativa alla questione mediorientale.
I due assi su cui si basa la proposta della comunità internazionale sono da un
lato la cosiddetta Road Map, approvata nel 2002-2003, dopo l’esplodere della
seconda Intifada, che prevedeva una serie di fasi successive: dopo il blocco
del terrorismo palestinese e degli insediamenti israeliani, una prima
conferenza internazionale che avrebbe dovuto consentire la creazione di uno
stato palestinese con confini provvisori; successivamente una seconda
conferenza internazionale avrebbe dovuto portare alla definizione del final
status e alla risoluzione del conflitto. Ma sostanzialmente tutto questo
processo non è mai partito. Ora, l’esaurimento o la mancata partenza della
Road Map è espressione di un’altra verità più profonda: un processo di pace
per tappe, come quello ipotizzato negli accordi di Oslo e di Washington del
’93, se non ha ben chiaro qual è il punto di arrivo, perlomeno nelle sue grandi
linee, è facile che deragli lungo la strada. Quindi in realtà la crisi della Road
Map è l’espressione della crisi del processo per tappe.
Il secondo elemento sono le cosiddette “tre condizioni” che la
comunità internazionale ha posto al primo governo di Hamas, uscito
vittorioso alle ultime elezioni, le quali non sono state implementate da quel
governo, determinando così il blocco degli aiuti internazionali e il rifiuto di
tutti i governi occidentali di avere dei rapporti con esso. Le tre condizioni
sono: il riconoscimento di Israele, la fine della violenza e il rispetto dei
trattati pregressi.
Il terzo punto, l’accettazione dei trattati pregressi, è un punto
assolutamente indiscutibile: fa parte infatti di tutte le convenzioni
internazionali che un governo si faccia carico degli accordi firmati dai governi
precedenti, si tratta di una questione di continuità della legalità internazionale.
Sulle altre due condizioni devo dire che ho dei fortissimi dubbi. Per quanto
riguarda Israele, ritengo che non abbia bisogno di alcun riconoscimento
preliminare da parte dei palestinesi. Israele è il quarantaduesimo riconosciuto
dall’ONU e non ha alcuna urgenza di altre approvazioni; del riconoscimento
avrà bisogno nel momento in cui si porterà a termine il negoziato, come è
avvenuto con la Giordania e, quindi, non preliminarmente.
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Il problema essenziale, in realtà, rimane la caduta da parte
palestinese della pregiudiziale al riconoscimento. Esiste un’opzione
intermedia: la volontà di Hamas di non riconoscere Israele e la richiesta di un
riconoscimento pregiudiziale prima che il negoziato sia concluso. Anche
perché non è infondata l’obiezione che viene fatta da Hamas a questo
proposito, quando chiede quali siano i confini dello stato che dovrebbe
riconoscere. È un problema che in effetti esiste: si tratta dei confini del ’67,
quelli discussi a suo tempo a Camp David e a Taba nel 2000, quando si
parlava di possibili scambi territoriali nell’ordine del 3% della Cisgiordania?
Oppure, invece, parliamo del 10% della Cisgiordania, attualmente incluso nel
muro? Questo è un punto non secondario di discussione.
La seconda questione, quella sul ricorso alla violenza, è viziata da una
duplice mistificazione semantica, perché “violenza” è un termine ambiguo:
può infatti significare “lotta armata contro l’occupante”, considerata un diritto
riconosciuto dalla giurisdizione internazionale, ma può anche significare la
“violenza terroristica contro i civili” chiaramente da respingere e condannare
in ogni circostanza. Qui entra in gioco, tuttavia, l’ambiguità di Israele, che
considera ogni azione di resistenza come terrorismo; ma anche quella dei
palestinesi, che hanno dichiarato “diritto alla lotta contro l’occupante” anche
la violenza contro i civili, pagando per questo un pesante prezzo anche in
termini di credibilità internazionale. Quindi c’è una doppia mistificazione
incrociata.
La mia opinione è che la cosa vada precisata, esigendo dai palestinesi
il rifiuto della violenza contro i civili e invece riconoscendo loro il diritto alla
resistenza contro l’occupazione; dopodiché richiedendo che anche questo
tipo di lotta armata sia sospesa e che ci sia una tregua fino alla conclusione
del negoziato. Uno cosa è esigere questo, altra è chiedere di rinunciare al
diritto di combattere contro l’occupazione.
Ora è evidente che sia la questione del riconoscimento di Israele sia la
questione della rinuncia alla violenza erano contenute nei trattati di Oslo. Di
fatto, i palestinesi accettando le richieste israeliane, hanno fatto un
investimento di fiducia in un rapido sviluppo del processo di pace. Le cose
però sono andate diversamente: Oslo prevedeva che entro cinque anni dal
‘93, tutto dovesse essere risolto. Il fallimento di Oslo è in qualche modo il
fallimento di Camp David e la fine di quel processo per tappe che Oslo
prevedeva.
Peraltro, come si vedrà più avanti, negli Accordi della Mecca, che
sono alla base della formazione del recente Governo palestinese di Unità
Nazionale, è previsto il rispetto degli accordi pregressi firmati dall’OLP, e
quindi anche di questi ultimi.
L’altro elemento di fragilità consiste nell’evidente mancanza di una
richiesta israeliana; Sharon aveva avanzato la proposta del ritiro unilaterale
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dai territori occupati attuando il ritiro da Gaza e dalla Cisgiordania. Intanto
Olmert vinceva le elezioni e formava un nuovo governo.
Con la campagna del Libano, la proposta di ulteriore ritiro unilaterale
è stata dichiarata “non più in agenda” dal governo israeliano perché, di fatto,
gli israeliani hanno sperimentato che un ritiro unilaterale, non concordato con
la controparte, non garantisce la sicurezza né a Gaza né in Libano. A questa
proposta di ritiro unilaterale il governo israeliano non ha sostituito molto
altro, se non la ribadita disponibilità a negoziare tutto con i palestinesi,
purché essi rispettino le tre condizioni, ben sapendo che Hamas non le
rispetterà. Quindi la richiesta del rispetto integrale delle tre condizioni è una
barriera difensiva che consente di mantenere lo status-quo, di un governo,
quello di Olmert, talmente indebolito dall’esito della campagna in Libano da
non essere in grado di negoziare sul final status. Da parte di Sharon e del
Governo israeliano si era usi dire che non si poteva negoziare perché
mancava una controparte palestinese. La realtà è che in questa fase, fino a
quando non ci sarà un cambio di leadership, in Israele manca una reale
controparte israeliana.
Questo è il punto: la relazione Winograd sulla conduzione della
campagna in Libano mette di fronte ad Olmert la prospettiva di dover
rassegnare le proprie dimissioni. Quindi viviamo in una fase di transizione
che non mette in condizione Israele se non di fare delle sceneggiate ad uso e
consumo del pubblico (come quella della moglie di Olmert che bacia Abu
Mazen sulle guance), da cui non si porta a casa niente di concreto. L’unica
proposta realizzata, tra quelle concordate, è stata il rilascio di cento milioni
di euro delle tasse doganali palestinesi, congelate dagli israeliani. Tuttavia
non sono stati attuati né il promesso rilascio dei prigionieri, né la liquidazione
degli avamposti illegali e dei blocchi stradali in Cisgiordania, questo anche
per le resistenze dell’esercito, un potere reale in Israele che una leadership
debole non riesce a controllare.
Devo dire che percepisco due elementi di novità molto importanti:
da un lato la costituzione di un Governo di Unità Nazionale in Palestina, che
si basa sul cosiddetto “Accordo della Mecca”; e dall’altro il vertice arabo di
Ryadh, che ha sancito il rilancio del Piano arabo di pace, del 2002, su cui
noi, come Centro, abbiamo condotto una ricerca che, grazie al contributo del
Ministero degli Affari Esteri, è stata pubblicata nell’ottobre dell’anno
scorso, dal titolo: “Beirut Ginevra Gerusalemme. Percorsi di pace in Medio
Oriente”.
L’Accordo della Mecca si basa su alcune componenti. Una di queste
prende a base il cosiddetto “accordo dei prigionieri”, che era stato patrocinato
da Marwan Barghouti, leader della seconda Intifada in carcere, insieme a
componenti di Hamas e del Jihàd islamico. L’accordo dei prigionieri prevede
tre o quattro punti importanti per comprendere l’attuale fase del dibattito
interpalestinese. Intanto la rivendicazione di uno stato palestinese entro i
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confini del ’67. Il che non significa automaticamente il riconoscimento di
Israele, ma è, in ogni caso, un’affermazione da parte palestinese di voler
risiedere in uno stato in cui si riconoscono i confini fissati nel ’67, e quindi
la mancanza di rivendicazioni ulteriori sul territorio di Israele. Vorrei far
presente che nel 1988 la Conferenza di Algeri dell’OLP, che sancì la svolta
verso il negoziato, postulava, esattamente come ipotesi massima uno stato
palestinese con i confini del ’48 e come ipotesi minima uno stato palestinese
con i confini del ’67.
Il secondo elemento è la scelta di concentrare la lotta armata
“prevalentemente” – questo è il termine usato – nei territori palestinesi, il
che significa un’implicita parziale rinuncia alle azioni dentro Israele e
quindi alle azioni terroristiche.
Il terzo elemento è un riferimento alla legalità araba, che poi sarà
sviluppato più ampiamente nell’Accordo della Mecca.
Il quarto ed ultimo punto è la riforma interna dell’OLP. In pratica si
afferma che l’OLP deve essere riformata e democratizzata, e che Hamas e lo
Jihàd islamico devono confluire nell’OLP (a tutt’oggi non ne fanno parte).
Inoltre stabilisce che Abu Mazen, in quanto presidente dell’OLP (quindi non
in quanto presidente dell’ANP), venga delegato a negoziare con Israele sul
final status e che l’esito di questo negoziato venga approvato dal Consiglio
Legislativo Palestinese (a maggioranza Hamas), oppure sottoposto a
referendum. Questo è il pacchetto del documento dei prigionieri che
l’Accordo della Mecca deve prendere come base.
Oltre a ciò, l’Accordo sancisce altri due aspetti importanti: il
riconoscimento del Piano arabo del 2002 e il “rispetto” dei trattati
precedentemente firmati dall’OLP e dall’ANP. Sul verbo “rispetto” “to
respect” c’è stata una lunga discussione, alla fine il termine accettato è
appunto quello di “rispetto” degli accordi precedenti e di tutte le
dichiarazioni dei summit arabi, incluso il Piano arabo del 2002. Peraltro, va
detto che anche Benjamin Netanyahu e Ariel Sharon, al momento della
costituzione dei rispettivi governi, adoperarono esattamente il termine
“rispetto” verso gli accordi di Washington, contro la cui adozione avevano
peraltro votato alla Knesset. Questo è suppergiù il pacchetto della Mecca. Su
questa base si è formato il Governo di Unità Nazionale con la presenza di
Fatah e di Hamas. In esso Hamas è in maggioranza, ma non assoluta, perché
oltre a Fatah ci sono dei rappresentanti indipendenti.
Dunque l’Accordo della Mecca è un punto di svolta, l’altro
cambiamento sta nei fatti: alla Mecca, come documentano le fotografie, c’era
re Abdallah, affiancato da Abu Mazen e da Khaled Meshall, il leader di
Hamas. Alla Mecca si è sancita dunque la fine dell’isolamento di Hamas nel
contesto arabo, Hamas viene integrato nella cosiddetta umma del consenso
arabo e finisce la rappresentanza esclusiva del Movimento Palestinese da
parte di Fatah.
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È d’obbligo fare ancora qualche considerazione su Hamas. Certo non ci è
gradita la sua piattaforma ideologica, ma non ci piaceva neanche quella
dell’OLP alle sue origini. Ora siamo di fronte a un’alternativa: si può
cercare di spingere Hamas verso uno sbocco moderato, come quello del
governo turco, oppure diamo per scontato che Hamas abbia una deriva
verso l’Islam più oltranzista, verso cioè un’alleanza organica con lo sciismo
fondamentalista di impronta iraniana o addirittura verso Al Qaeda.
Pur senza fare sconti sulle questioni di fondo, di principio ritengo che
sia necessario sviluppare un’iniziativa che faccia sì che Hamas venga
indirizzata nella direzione di un Islam più responsabile, non a caso di
influenza sunnita, perché Hamas è legato ai Fratelli Musulmani, e questa
formazione, che pure non è senza peccato, fra dieci anni sarà probabilmente
al governo anche in Egitto.
Infine, e questo è l’ultimo punto, c’è il rilancio del vertice arabo di
Riyadh, il quale sanciva la ripresa del piano di pace approvato nel 2002,
allora rifiutato da Sharon. In realtà il piano arabo afferma tre cose: da un lato
che gli stati arabi, all’unanimità (compreso Iraq e Siria), siano disposti a
riconoscere Israele e a stabilire con esso pieni rapporti, non solo di natura
diplomatica, quindi che Israele accetti la creazione di uno stato palestinese
con capitale Gerusalemme Est, e infine si giunga ad una soluzione “equa e
concordata” della questione dei rifugiati.
Queste formulazioni sono molto aperte, a mio giudizio. Ovviamente
sia sulla questione dei rifugiati che su quella del ritorno ai confini del ’67,
Israele dissente. Per quanto riguarda i rifugiati, occorre fare attenzione a due
aspetti. Intanto non c’è una menzione esplicita del “diritto al ritorno”, cosa
che è molto importante; secondariamente, dicendo che la soluzione di quel
problema deve essere “giusta e concordata”, si dà ad Israele un diritto di veto
su qualsiasi soluzione che non sia concordata. Per quanto riguarda il
riferimento ai confini del ’67, da fonti dell’Arabia Saudita è stato già detto
che qualsiasi scambio territoriale concordato tra Israele e Palestina può essere
accolto, ma senza pretendere che la parte araba si presenti al negoziato con la
premessa di voler rinunciare ai confini del ’67.
Il porre delle pre-condizioni all’avvio del negoziato sulla base del
Piano arabo, come continua a fare Olmert, è l’ennesima tattica per mantenere
lo status-quo. Ci sono opinion leaders israeliani, anche autorevoli editorialisti
del quotidiano Haaretz, che affermano ciò che sto dicendo. Quindi, a me pare
che il doppio punto di riferimento tra il Piano arabo e l’Accordo della Mecca
crei le basi per un riavvio del negoziato. Ritengo che vi sia un ritardo
dell’Europa e dell’Italia in particolare a prendere atto di questi elementi di
novità. L’Europa invita il governo palestinese a “riflettere”, cioè a
rispecchiare le tre condizioni proposte dalla Comunità Internazionale, dal
quartetto Stati Uniti, Russia, Europa e ONU. E certo riflettere è meno che
accettare. L’Italia mostra di “andare nella direzione” dei tre princìpi, come ha
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detto il Ministro degli Esteri Massimo D’Alema, ricevendo il Ministro
palestinese Moustafa Barghouti, però a mio giudizio sarebbe necessario
andare un po’ più avanti. C’è stato, è vero, un certo progresso della Comunità
internazionale, che non si è allineata sulla richiesta israeliana di escludere
incontri con tutti i ministri palestinesi, per parlare solo con Abu Mazen; oggi
gli Stati Uniti e l’Europa ricevono i ministri del nuovo governo che non siano
di Hamas, e quindi l’isolamento non è più totale.
Probabilmente si faranno ulteriori passi avanti sullo sblocco dei fondi
congelati, e su altri aspetti ma va detto che andrebbe dato un appoggio più
forte o fatta un’apertura più consistente, magari per fasi, in corrispondenza
dei passi in avanti compiuti dal governo palestinese, come proposto dal
recente rapporto dell’International Crisis Group. Dobbiamo capire che il
rapporto tra Fatah e Hamas non è consolidato neppure dentro Hamas; quindi
un appoggio più forte da parte europea, o un’apertura più consistente, anche
in termini economici, è essenziale per consolidare questa svolta moderata
che, a mio giudizio, è essenziale.
A me paiono queste sostanzialmente le questioni da affrontare. Vorrei solo
aggiungere che le linee guida del negoziato finale esistono già: sono i
“parametri” proposti da Clinton alla fine di Camp David, il Verbale
Moratinos, redatto a Taba, subito dopo e alcune proposte contenute nello
stesso modello di Accordo di Ginevra. Il problema è quanto tempo e quanto
sangue dovrà essere ancora versato prima che si arrivi a sedersi a un tavolo
con serie e oneste trattative.
Janiki Cingoli
Direttore del Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente
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Massimo Campanini
LE CHIAVI DI LETTURA DELLA QUESTIONE
IRAN-IRAQ
Vorrei articolare il mio discorso, onde renderlo più sistematico, in
due premesse e in tre argomentazioni specifiche. La prima premessa
riguarderà la questione della formazione dell’Iraq, che è preliminare per
comprendere anche la situazione attuale. La seconda premessa riguarderà i
problemi dei rapporti Iran-Iraq a partire dalla guerra del 1980-1988 che deve
essere compresa nell’ottica di un tentativo da parte di Saddam Hussein di
conquistare l’egemonia sulla zona petrolifera del Golfo Persico.
I tre punti su cui mi soffermerò più diffusamente consistono invece
in primo luogo nella politicizzazione dello sciismo, che coinvolge l’Iran, ma
non solo, arrivando fino al Libano di Hizballah via l’Iraq del mullah Moqtada
al-Sadr. Si tratta di una delle questioni più importanti e più interessanti
dell’Islam del Novecento, e soprattutto dell’ultima parte del Novecento. Il
secondo punto riguarda le relazioni interne allo sciismo, nel senso che lo
sciismo è una realtà meno monolitica di quello che possa sembrare ad un
osservatore esterno. Le relazioni di potere e di autorità tra i vari esponenti
della gerarchia religiosa sono molto complesse, sia all’interno dell’Iran in
quanto tale, sia per quanto attiene lo sciismo “mondializzato”, ramificato in
tutto il Medio Oriente. Il terzo punto vuole attirare l’attenzione sui rapporti
tra Sunniti e Sciiti. In altri termini si tratta di chiedersi se effettivamente sia
in corso in Iraq o in generale in Medio Oriente una guerra più o meno
dichiarata tra le due grandi articolazioni dell’Islam, l’articolazione sunnita
che è maggioritaria e l’articolazione sciita.
Le prime due premesse sono molto brevi. In primo luogo, è necessario
rammentarsi – e non scordare mai – che l’Iraq è un paese costruito sulla carta.
L’Iraq non è mai esistito in quanto tale; poteva essere un’espressione
geografica, come l’Italia ai tempi di Metternich. È stato creato sulla carta
cucendo insieme un nord prevalentemente curdo-sunnita, un centro
prevalentemente arabo-sunnita e un sud prevalentemente arabo-sciita. Gli
scopi della Gran Bretagna, e in particolare di Churchill, nel favorire la nascita
dell’Iraq erano essenzialmente due. Da una parte, si trattava di proteggere il
fianco dell’India, la perla dell’Impero: per la Gran Bretagna l’Iraq, che nasce
come monarchia nel 1921, doveva servire come stato cuscinetto per
proteggere l’India da eventuali minacce di potenze ostili, l’Unione Sovietica
in primo luogo, ma non solo. L’altro scopo era quello di concedere un trono
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a Faysal, figlio dello sceriffo Husayn della Mecca. La Gran Bretagna si era
compromessa con lo sceriffo Husayn, durante la prima guerra mondiale: in
cambio del suo aiuto contro i turchi, i britannici avrebbero favorito la nascita
di uno stato arabo (Husayn aspirava addirittura a rinnovare il califfato). Gli
arabi diedero un contributo notevole alla vittoria inglese in Medio Oriente
contro gli ottomani, ma poi gli accordi mandatari e la conferenza di pace di
Parigi frustrarono le aspettative di Husayn e dei suoi figli. Far cingere a
Faysal la corona dell’Iraq significava dunque riparare un torto. D’altro canto,
non solo l’Iraq fu costruito sulla carta, ma la sua stessa composizione e il
modo in cui fu eretto a monarchia dovevano comprometterne la stabilità
interna. Far convivere sciiti e sunniti, arabi e curdi si rivelò un vero
problema; e inoltre la dinastia Hashemita, meccana, di Faysal era mal
tollerata dagli iracheni, perché straniera e imposta dall’alto. Alla fine, essa
venne abbattuta, nel 1958, dal colpo di stato militare del generale Kassem.
La seconda premessa consiste nel valutare la portata della guerra IranIraq, anzi Iraq-Iran. Fu infatti il neo-presidente iracheno Saddam Hussein nel
1980 (era salito al potere nel 1979) a scatenare per primo l’attacco contro
l’altrettanto neonata repubblica khomeinista dell’Iran. Saddam Hussein decise
di scatenare questa aggressione per tempo poiché nel 1980 il khomeinismo era
ancor lungi dall’aver sopraffatto le resistenze interne, sia liberali, sia islamiche
progressiste, sia di alcuni ayatollah che poco gradivano la politicizzazione
impressa da Khomeini alla tradizionale dottrina sciita. È importante ribadire
che Khomeini dovette faticare alquanto per imporre la sua visione e poté farlo
solo dopo aver eliminato tutti gli avversari più pericolosi. D’altro canto,
Saddam Hussein perseguiva lo scopo di affermare un potente Iraq sulle ceneri
dell’Iran ariano dei Pahlevi, approfittando della momentanea debolezza degli
iraniani, e di porre un sigillo definitivo sul controllo del Golfo Persico, via
d’acqua essenziale per il commercio e l’esportazione del petrolio, non solo
iraniano e iracheno, ma di tutti gli emirati arabi. Dopo una prima fase in cui
sembrò che gli iracheni avessero la meglio, gli iraniani – consolidatosi il
khomeinismo – si ripresero e furono quasi sul punto di rovesciare le sorti del
conflitto. Timorosi di una vittoria iraniana, gli Stati Uniti inviarono a Saddam
Hussein molte armi e molto denaro, così come l’Arabia Saudita e altri stati del
Golfo. Questi ultimi – sunniti – oltre che per il petrolio, erano preoccupati
dell’affermarsi di una aggressiva potenza sciita. Quando nel 2003 George W.
Bush scatenò la sua personale guerra contro Saddam, era perfettamente
consapevole della debolezza e impreparazione dell’esercito iracheno, ancora
dotato delle armi (per lo più americane) della guerra del 1980-1988. Bush
sapeva perfettamente che avrebbe vinto con facilità, anche perché il popolo
iracheno, stremato da dodici anni di embargo (dopo l’invasione del Kuwait del
1990-1991), avrebbe opposto scarsa resistenza.
Partendo da queste due premesse che costituiscono una sorta di
background, esaminiamo le variabili. Innanzitutto bisogna evidenziare la
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politicizzazione dello sciismo, come detto uno dei fenomeni più interessanti
e più importanti dell’Islam del Novecento. La politicizzazione dello sciismo
ha assunto tre aspetti: uno dottrinale; uno istituzionale e uno geopolitico.
L’aspetto dottrinale consiste nel fatto che a partire, diciamo, dagli anni
Sessanta con una accelerazione negli anni Settanta, gli sciiti, che per
tradizione di pensiero politico erano vissuti per secoli in una posizione
quietista e di subordinazione rispetto al potere dominante sunnita (e questo
vale anche per l’Iraq contemporaneo), scoprirono una vocazione politica.
Scoprirono che lo sciismo è un messaggio di liberazione, un messaggio di
difesa degli oppressi, di rivendicazione politica ugualitaria.
Questa rivoluzione dottrinale si è manifestata in varie forme. Negli
anni Sessanta e Settanta, appunto, un raffinato teorico iraniano, ‘Ali Shari’ati
(1933-1977), aveva diffuso in conferenze e articoli l’idea che lo sciismo
possiede una forte carica di “teologia della liberazione”. Muhammad Baqir
al-Sadr (1930-1980) aveva dato un impulso decisivo alla Da’wa islamiyya
(Appello islamico), un’associazione culturale, educativa e benefica che
presto in Iraq assunse la forma di partito politico. Musa al-Sadr (1928-1978)
fondò nel 1974 il partito sciita Amal (Speranza) che presto divenne uno dei
protagonisti della scena politica libanese.
Come si vede, una politicizzazione trasversale che abbracciava Iran,
Iraq e Libano, la cintura sciita. Il culmine di questo atteggiamento dottrinale
fu poi raggiunto da Ruhollah Khomeini con la sua dottrina del vicariato dei
giureconsulti. Gli ‘ulema sciiti, i fuqaha’ (plurale di faqih), dottori in scienze
giuridiche e religiose, hanno il diritto e il dovere di sostituire l’imam nascosto
(che gli sciiti duodecimani o imamiti si aspettano comparirà alla fine del
mondo come messia), nelle funzioni politiche. Siffatto diritto-dovere non ha
ricadute di tipo strettamente religioso, poiché non implica la modificazione o
l’interpretazione esoterica della Legge religiosa, ma appunto politico, nel
senso che gli ‘ulema sono legittimati a porsi alla testa di partiti politici di
orientamento sciita o a guidare uno stato islamico di orientamento sciita.
È questo l’aspetto istituzionale cui facevo riferimento. La
politicizzazione dello sciismo si tradusse nella costituzione di partiti politici,
che hanno rivendicato e rivendicano il miglioramento delle condizioni degli
sciiti nei paesi a maggioranza sunnita, dove di norma gli sciiti sono stati
repressi, rappresentando tra le altre cose spesso la classe più povera della
popolazione; partiti che hanno rivendicato la liberazione dei popoli islamici
dal giogo dell’Occidente, incarnato sia dagli Stati Uniti sia ovviamente da
Israele; partiti che si sono prefissi il fine, peraltro molto pragmatico, di
costituire uno stato islamico. Sono nati quindi tutta una serie di partiti politici
di orientamento sciita con una forte carica che possiamo considerare
chiaramente rivoluzionaria. Oltre i già citati Da’wa islamiyya e Amal basti
pensare a Hizballah che nacque nel 1982 in risposta alla seconda invasione
israeliana del Libano. La prima si era verificata nel 1978, con obiettivi ed
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esiti tutto sommato modesti, mentre nel 1982 ci fu una vera e propria
invasione. Quella del luglio dell’anno scorso è stata la terza invasione
israeliana del Libano.
Tutto quel che abbiamo detto aiuta a comprendere come in prospettiva si
siano verificati e si stiano verificando novità e sconvolgimenti sul piano geopolitico. Ed è la guerra contro l’Iraq del 2003 ad aver funto da catalizzatore
di queste trasformazioni. Le ragioni che hanno spinto gli Stati Uniti e il loro
alleato privilegiato, la Gran Bretagna, ad invadere l’Iraq nel 2003 sono
molteplici. Certamente ha contato il fattore petrolio, la prospettiva di poter
metterci le mani e controllare i ricchissimi giacimenti iracheni. Ma anche altri
motivi sono stati altrettanto importanti. Innanzi tutto, una questione
egemonica. Saddam Hussein era diventato un pericolo per la stabilità
dell’area e gli Stati Uniti non si fidavano più completamente dell’Arabia
Saudita. L’Arabia Saudita, pur fedelissima alleata dell’Occidente, ha per anni
alimentato gruppi islamisti in tutto il Medio Oriente, gruppi islamisti nemici,
questa volta, dell’Occidente. Abbattere Saddam e costituire un nuovo
governo stabile, strettamente legato al carro dei vincitori, avrebbe consentito
a Washington di abbandonare la poco affidabile amicizia saudita per quella,
assai più solida, di un nuovo stato toto corde filo-occidentale. Si trattava
infine di creare un cordone sanitario attorno all’Iran, paese dell’asse del male,
il che avrebbe, tra le altre cose, tranquillizzato Israele, la cui sicurezza è un
fine prioritario della politica estera americana.
Quello che non è stato previsto – in tutta apparenza – sono state le
conseguenze possibili dell’invasione. Ribadisco quanto detto prima: gli Stati
Uniti sapevano benissimo di poter vincere facilmente la guerra perché
sapevano benissimo che Saddam aveva ancora le armi, ormai obsolete, degli
anni Ottanta. Sapevano altrettanto bene che Saddam non possedeva alcuna
arma di distruzione di massa, dato che, certamente, se minacciato, l’avrebbe
utilizzata in anticipo. Così come sapevano bene che non era amato all’interno
dell’Iraq e che soprattutto la popolazione sciita, ma anche i curdi ovviamente,
avrebbero visto di buon occhio la sua caduta. Il problema è che, se l’obiettivo
fu raggiunto in maniera molto facile, non ci fu da parte degli Stati Uniti
lungimiranza nella ricostruzione della situazione in loco, perché gli Stati
Uniti erano convinti che gli iracheni li avrebbero accolti a braccia aperte
come liberatori, mentre invece, giustamente, gli iracheni li hanno accolti
come invasori, il cui obiettivo non era la liberazione dell’Iraq ma la
sostituzione di un governo autocratico e dittatoriale come quello di Saddam
Hussein con una egemonia occidentale nella zona del Golfo.
Perciò si sono immediatamente scatenate in Iraq forze centrifughe: i
curdi, che hanno finalmente la concreta prospettiva di raggiungere un’ampia
autonomia se non addirittura l’indipendenza; gli sciiti, che hanno finalmente
avuto la possibilità di rivendicare la loro superiorità numerica e di riprendere
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LA
QUESTIONE IRAN-IRAQ
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in mano quelle redini del potere che il predominio sunnita aveva loro tolto da
sempre; gli stessi sunniti cui una supremazia sciita o la perdita dei territori
curdi infliggerebbe una sconfitta politica e di prestigio irrimediabile. È
straordinario notare come l’imperizia e, da un certo punto di vista, la scarsa
lungimiranza della think-tank americana neo-conservatrice abbiano aperto in
Iraq un vaso di Pandora che sarà difficile richiudere. In particolare, la thinktank americana neo-conservatrice è riuscita a realizzare in Medio Oriente
esattamente quello che voleva evitare, cioè la costituzione di una fascia di
sciismo politico che va dall’Iran all’Iraq meridionale al Libano, passando per
la Siria. Quest’ultima, essendo molto debole, fragile e traballante, vede nella
realizzazione di questa cintura sciita una sorta di scudo protettivo, e
presumibilmente non è scontenta di essere indirettamente difesa da questo
baluardo religioso-politico.
Le convergenze tra Hizballah e Siria sono note, ma sono anche ovvie nel
quadro dei giochi geo-politici della regione. Sfugge piuttosto alla vista il fatto
che lo sciismo è meno compatto, anche a livello dirigenziale, di quanto possa
apparire esteriormente. Per esempio, in Iran è in corso una lotta tra ayatollah
più moderati e ayatollah più estremisti, che sono quelli che sostanzialmente
sostengono Ahmadinejad. Alcuni osservatori degni di fede, alcuni esperti
iraniani e iranisti mi hanno confermato più volte questa dialettica nel cui
quadro si pone anche il potenziale attacco statunitense-israeliano contro
Teheran. Nella situazione attuale, un simile attacco sarebbe gravemente
controproducente in quanto consentirebbe ad Ahmadinejad e soprattutto agli
ayatollah reazionari suoi protettori, di tacitare l’opposizione liberale e di
chiudere ancora una volta le maglie di una società civile che è in via di
sempre più diffusa apertura.
Per spiegarci ancora di più, sfugge spesso alla percezione che gli
ayatollah iraniani di oggi non sono obbligatoriamente i più rappresentativi del
clero sciita di tutto il mondo mediorientale. Per esempio il grande ayatollah
iracheno al-Sistani o il sayyid (discendente del Profeta), Muhammad Husayn
Fadlallah, mentore spirituale di Hizballah in Libano, sono, dal punto di vista
del prestigio religioso, molto più importanti di Khamenei, l’attuale guida
suprema iraniana. Dal punto di vista religioso Khamenei non gode di
particolare credito, essendo, per così dire, stato “creato papa da diacono in un
giorno solo”. Alla morte di Khomeini, infatti, egli non era neppure ayatollah
ed stato nominato “sul campo” per poter succedere al defunto leader. Non
voglio con questo divinare potenziali sviluppi futuri, ma semplicemente
descrivere la situazione in atto.
Un ultimo elemento da considerare è quello della lotta interna tra
sunniti e sciiti. Ora, per quanto riguarda l’Iraq è di per sé ovvio che gli sciiti
abbiano trovato nella disgregazione dello stato iracheno l’occasione giusta
per affermarsi politicamente e per impadronirsi di un potere che a loro era
sempre sfuggito, sia all’epoca dell’impero ottomano, poiché l’impero
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ottomano era sunnita, sia all’epoca della rivoluzione baathista, quindi al
tempo in cui le alleanze tribali di Saddam Hussein erano sunnite. D’altra
parte i sunniti dell’Iraq centrale si sono visti sfuggire di mano il controllo
della situazione; quindi hanno scoperto di non essere più in grado di
controllare né il loro stesso territorio né lo stato iracheno in quanto tale. Un
fattore importante da considerare, poi, è che la porzione di Iraq abitata dai
sunniti è praticamente priva di petrolio, che si trova tutto nel nord curdo e nel
sud sciita. Per cui i sunniti si trovano senza potere e senza denaro ed è logico
che siano attirati dalle lusinghe di una guerra civile, che non solo servirebbe
a scacciare gli americani, ma anche a indebolire l’attuale potere sciita che
naturalmente ha alle spalle l’appoggio dell’Iran.
È interessante notare che questo contrasto interno tra sunniti e sciiti, che si
riveste di aspetti religiosi ma che è essenzialmente politico-economico, non ha
lo stesso tipo di risonanza negli altri paesi del Medio Oriente. Per esempio i
Fratelli Musulmani in Egitto (sunniti), per bocca della loro guida suprema,
hanno preso esplicita posizione a favore degli sciiti iracheni, come a favore di
Hizballah, perché gli sciiti iracheni e Hizballah sono oggi i volani di una
potenziale riscossa, di un potenziale trionfo del mondo arabo-islamico contro
gli occupanti stranieri. Gli occupanti stranieri sono gli Stati Uniti e Israele, la
cui presenza non è mai stata effettivamente digerita dall’opinione pubblica
maggioritaria, anche se naturalmente la logica della realpolitik porterà prima
o poi a una soluzione. D’altra parte, il rafforzamento di un fronte islamico
plurale, a parte la eventuale, auspicata cacciata degli Stati Uniti, consentirebbe
anche di indebolire quei regimi che sono attualmente al potere nei paesi arabi,
regimi autoritari che conducono una politica di repressione nei confronti dei
movimenti islamici. Ne è un caso evidente la recente approvazione delle
riforme costituzionali in Egitto, che sono fondamentalmente finalizzate ad
escludere in via definitiva i Fratelli Musulmani o qualsiasi altro partito di
orientamento religioso islamico dal poter arrivare legalmente in parlamento e,
in prospettiva, al potere. Cingoli ha detto: “forse tra dieci anni avremo i
Fratelli Musulmani al potere in Egitto”. Se le elezioni fossero oneste, avrebbe
forse ragione. Siccome non lo sono e questo tipo di emendamento
costituzionale favorisce un giro di vite autoritario in Egitto, allora le
possibilità che ciò avvenga sono molto remote.
Massimo Campanini
Docente di Storia Contemporanea dei Paesi Arabi e di Storia dell’Islam
Contemporaneo presso l’Università di Napoli
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LA
QUESTIONE IRAN-IRAQ
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Elisa Giunchi
LE CHIAVI DI LETTURA DELLA SITUAZIONE
IN PAKISTAN E AFGHANISTAN
Negli ultimi anni la guerriglia talebana nel sud e nel sud-est pashtun
dell’Afghanistan è andata intensificandosi e si è allargata a circa metà del
territorio, facendo sempre più morti tra le truppe straniere e i civili. Questa
escalation di violenza è stata accompagnata da un’evoluzione del gruppo
originario, quello emerso nelle madrasa pakistane nei primi anni ’90, che ha
gradualmente assorbito, a partire dal 2002, gruppi con obiettivi diversi e si è
dotato di tattiche diversificate, in parte riprese dall’esperienza irachena. Si
tratta chiaramente di una guerra che non può essere sconfitta con i metodi
tradizionali che sono stati finora adottati da “Enduring Freedom”, poiché, al
pari della guerra in Iraq e di quella in Vietnam, è una guerra asimmetrica, di
movimento. L’opzione militare va quindi ripensata nelle sue modalità, ma
anche accompagnata dallo sviluppo di altre opzioni. Trovare una soluzione per
uscire dall’impasse afgana presuppone chiedersi quali siano i motivi che
hanno fatto sì che in questi anni la guerriglia si estendesse e le perdite umane,
anche tra la popolazione civile, continuassero ad aumentare.
I motivi sono diversi. Innanzitutto quello dell’Afghanistan è un caso
di aspettative deluse. Il governo emerso dalla disfatta talebana è, infatti,
incapace di fornire protezione alla popolazione contro le angherie dei signori
della guerra e dei comandanti locali, che continuano a controllare il territorio
con le loro milizie, e contro le intimidazioni e violenze dei talibani, ed è, in
parte proprio a causa di queste stesse violenze, incapace di assicurare quel
miglioramento socio-economico che era stato promesso nel 2001-2002.
La recrudescenza della guerriglia talebana è dovuta anche ai
cosiddetti danni collaterali causati dalle truppe di “Enduring Freedom” e,
nell’ultimo anno, dalla stessa forza multinazionale di pace “ISAF”. Quando la
forza multinazionale si è spostata al sud nell’estate del 2006, e poi, in autunno,
nel sud-est, sostituendo in parte Enduring Freedom, si è infatti trovata in una
situazione non pacificata in cui non poteva realizzare la sua strategia di peacekeeping e ha di conseguenza fatto ricorso a strategie molto simili a quelle
utilizzate dalle truppe di “Enduring Freedom”. Mi riferisco soprattutto ai
bombardamenti aerei, che, con il loro costo in termini di vite umane, hanno
creato un diffuso risentimento nelle aree pashtun contro le truppe straniere e il
governo centrale, che da molti è visto come un burattino nelle mani di interessi
stranieri, in particolare statunitensi.
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Un altro motivo per cui la guerriglia talebana in questi anni si è
intensificata è che ai talibani “originari”, quelli del 2001 per intenderci, si
sono man mano collegati gruppi diversi, interessati a mantenere lo stato
centrale in una situazione di debolezza e di anarchia. Mi riferisco soprattutto
ai narco-trafficanti, dai quali provengono i finanziamenti per la guerriglia, ma
anche a gruppi e personalità animate da forme di nazionalismo su base etnica:
il loro obiettivo è quello di restituire ai pashtun il potere centrale che per
secoli, con poche eccezioni, è stato nelle loro mani, ma oggi è diviso tra i vari
gruppi etnici.
Uno dei motivi principali della recrudescenza talebana è, infine, la
connivenza pakistana, ma qui bisogna intendersi su un aspetto fondamentale:
connivenza da parte della società pakistana o da parte del governo pakistano?
Il presidente e capo di stato maggiore pakistano Pervez Musharraf ha
ammesso varie volte, in maniera più o meno esplicita, che le basi logistiche
e di reclutamento dei talibani dopo l’autunno del 2001 si sono spostate a
Quetta, nel Belucistan, e nelle agenzie tribali adiacenti alla North West
Frontier Province, e ha ammesso che effettivamente c’è un passaggio
continuo di militanti e di armi attraverso il confine. Non ha però ammesso le
proprie responsabilità ed ha fatto anzi osservare che circa settantacinquemila
soldati pakistani sono stati mandati nelle aree di confine dopo il 2001 e che
oltre settecento di questi soldati sono morti nel tentativo di pattugliare il
confine. Di più non si può fare, argomenta il generale: è impossibile sigillare
un confine che per motivi geografici è infattibile controllare e che
storicamente è sempre stato poroso.
Il tentativo di Musharraf di controllare le aree di frontiera ha
provocato un diffuso risentimento tra la popolazione locale, che per motivi
etnici e per affinità ideologiche si sente vicina ai talibani, e che gode di vasta
autonomia. L’ostilità locale ha indotto Musharraf ad avviare una politica di
“diplomazia tribale” nelle aree di confine: nel 2004 e nel 2006 il generale ha
concluso con leader tribali e rappresentanti di un partito religioso, il Jamaate-Ulema-Islam, degli accordi in base ai quali la popolazione locale si
impegnava a consegnare alle autorità centrali eventuali militanti stranieri e a
controllare il confine; in cambio il governo centrale avrebbe abolito quasi
tutti i check-points dell’area, ritirato parte delle proprie truppe e liberato
alcuni prigionieri pashtun.
Karzai ha subito protestato, osservando che questi accordi non
sarebbero stati onorati e avrebbero portato alla recrudescenza della guerriglia
talebana. Gli eventi successivi gli hanno dato ragione: le informazioni che
abbiamo a nostra disposizione indicano che i passaggi di frontiera sono
aumentati in seguito a questi accordi. Perché Musharraf ha perseguito una
politica tribale destinata ad essere fallimentare, proprio in una fase in cui
l’amministrazione Bush si lamentava che il Pakistan non faceva abbastanza
per combattere il terrorismo islamista? Possiamo fare alcune ipotesi. Vi è forse
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la consapevolezza ad Islamabad che è oggettivamente difficile controllare le
aree di frontiera e la necessità per Musharraf di non alienarsi la popolazione
pashtun locale, anche perché i pashtun sono sovra-rappresentati nell’esercito
pakistano, soprattutto ai livelli medio-alti. Gli accordi tribali possono essere
anche visti nel contesto del rapporto tra il generale e la MMA (Muttahida
Majlis i-Amal), che è una coalizione di partiti religiosi ultra conservatori (tutti
con la sola eccezione dei sunniti), che governa nelle province di frontiera. Più
volte in questi anni la MMA ha soccorso Musharraf permettendogli di
consolidare il proprio potere. Del resto è proprio grazie all’intervento di
Musharraf che la coalizione ha ottenuto nelle elezioni del 2002 un buon
successo elettorale, diventando la terza forza politica nel paese. Il presidente
pakistano infatti, pur dichiarandosi, nella sua retorica rivolta all’Occidente,
interessato a diffondere nel paese un Islam moderato e progressista, in realtà,
preparandosi per le elezioni del 2002, ha fatto di tutto per indebolire i partiti
laici che chiedevano il ritorno alla piena democrazia e il ritiro dell’esercito
dalla scena politica, e in questo modo ha indirettamente favorito l’ascesa dei
partiti religiosi.
Ma si può presumere anche che Musharraf, e dietro di lui l’esercito e
l’intelligence pakistana, vogliano usare la guerriglia talebana per costringere
Kabul ad accettare il tracciato di confine che divide i due paesi, e che fu
imposto dai britannici nel 1893.
Nel 1947, quando il Pakistan, nato dalla spartizione del subcontinente
indiano, ereditò il confine settentrionale dell’impero coloniale britannico,
l’Afghanistan fu l’unico paese che votò contro l’ammissione alle Nazioni
Unite del Pakistan, proprio perché non accettava il confine del 1893. Da allora
vi sono state interferenze reciproche e diatribe continue, che hanno avuto
rilevanti ripercussioni regionali e addirittura internazionali nel periodo della
guerra fredda. Ancora oggi la questione del confine è il problema principale
che divide i due paesi. Ma Musharraf probabilmente, così sostengono molti
analisti, potrebbe avere anche l’interesse a usare la guerriglia talebana come
arma per convincere Kabul a non stringere rapporti economici e diplomatici
troppo stretti con l’India.
Negli anni Novanta New Delhi aveva sostenuto finanziariamente e
militarmente l’Alleanza del Nord, che combatteva contro i talibani finanziati
dal Pakistan, e oggi è uno dei paesi più presenti in Afghanistan. Ha aperto
varie sedi consolari e la sua assistenza economica alla ricostruzione è
nettamente superiore a quella proveniente dal Pakistan. Perché l’India si
interessa così tanto all’Afghanistan? Per una serie di motivi, il principale dei
quali è abbastanza ovvio: il tentativo di far fallire il progetto pakistano di
crearsi alle spalle una sorta di retrovia strategica da usare in caso di guerra
con l’India. Il Pakistan teme che l’India miri addirittura a stringere in una
morsa il Pakistan da sud e da nord, controllando attraverso canali economici
e commerciali il governo di Karzai. Quanto si è detto implica che un
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processo di distensione tra India e Pakistan avrebbe ricadute positive non
solo sulla situazione in Kashmir, che è il fulcro delle ostilità tra i due stati,
ma anche sul contenzioso tra Afghanistan e Pakistan e quindi anche sulla
guerriglia talebana.
Purtroppo il processo di distensione, il cosiddetto processo composito
che è inziato alcuni anni fa, è stato più volte fatto deragliare da gruppi
estremisti pakistani e indiani ed ha avuto finora successi pratici abbastanza
limitati. In realtà il Pakistan avrebbe tutto l’interesse, soprattutto dal punto di
vista economico, a vedere un Afghanistan pacificato alle proprie spalle. Il
Pakistan sarebbe infatti il principale beneficiario della ricostruzione nel sud e
nel sud-est dell’Afghanistan per ovvi motivi di contiguità geografica. Già
adesso i rapporti commerciali tra i due paesi sono molto buoni, e si può
immaginare che gli scambi si moltiplicherebbero in una situazione in cui il sud
e il sud-est dell’Afghanistan fossero pacificati.
Un Afghanistan pacificato permetterebbe inoltre al Pakistan di
trasportare più facilmente le proprie merci in Asia centrale e, da lì, in Europa
e in Russia. E poi vi è la questione del gasdotto e dell’oleodotto che, nei
progetti della Bridas e poi dell’Unocal dei primi anni ’90, avrebbero dovuto
collegare la zona caspica all’Oceano Indiano passando per il Pakistan. Questi
progetti, che furono sospesi sul finire degli anni ’90 per l’insicurezza che
regnava in Afghanistan e il deterioramento nei rapporti tra Stati Uniti e
talibani, sono di assoluto interesse sia per lo stesso Afghanistan, che ne
ricaverebbe royalties notevolissime, sia per il Pakistan, che ha bisogno di
risorse energetiche per sviluppare la propria industria, sia per l’India che,
come è noto, ha una crescita economica sorprendente ed ha sempre più
bisogno di energia con cui alimentarla, e sia, infine, per la Cina, che non a
caso sta finanziando la costruzione di un porto a Gwadar, nel sud del
Belucistan.
Elisa Giunchi
Docente di Storia e Istituzioni dei Paesi Islamici presso l’Università degli Studi di
Milano
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IL PAKISTAN
E L’AFGHANISTAN
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Bruno Segre
IL RISVEGLIO POLITICO DEGLI ARABI DI ISRAELE
I maggiorenti della collettività araba d’Israele hanno prodotto e
pubblicato negli ultimi mesi un paio di documenti di notevole peso politico,
che sembrano intesi a riaprire il dibattito circa il profilo costituzionale e la
natura stessa di Israele. Stato ebraico o Stato democratico? Oppure, Stato
ebraico e democratico?
Il primo dei due documenti, intitolato “La visione futura degli arabi
palestinesi in Israele”, è un rapporto pubblicato nel dicembre 2006 sotto gli
auspici del National Committee for the Heads of the Arab Local Authorities in
Israel e del High Follow-up Committee for the Arabs in Israel, in
rappresentanza di un milione e trecentomila cittadini arabi del Paese, circa un
quinto della popolazione totale. Alla stesura del rapporto ha preso parte un
gruppo assortito di accademici e di attivisti riferibili alle principali tendenze
politiche della collettività araba d’Israele: in tutto, una quarantina di personalità
ben note. Il documento avanza un tipo di rivendicazioni che la maggior parte
degli israeliani ebrei fa certamente molta fatica ad accogliere. Esso propone, in
buona sostanza, che all’insieme dei cittadini arabi d’Israele venga riconosciuto
lo statuto di una minoranza nazionale indigena: e in quanto tale investita di
diritti collettivi – in virtù di convenzioni internazionali – e in particolare del
diritto di dare vita e corpo a istituzioni proprie, pubblicamente riconosciute.
Il secondo documento, intitolato “La Costituzione democratica”, è
stato redatto da un gruppo di avvocati e giuristi, membri di Adalah (‘Giustizia’
in arabo), un’associazione che in Israele tiene monitorati i diritti umani della
minoranza araba. Si tratta di un abbozzo di costituzione reso di pubblico
dominio il 20 marzo 2007. Esso fa leva sul fatto che, a quasi sei decenni dalla
sua nascita, lo Stato d’Israele è ancora privo di una carta costituzionale. Fra i
vari punti del documento, particolare rilievo assume la proposta che Israele
rinunzi al suo carattere ebraico per trasformarsi in uno Stato bilingue e
multiculturale, nel quale arabi ed ebrei godrebbero, in quanto entità collettive,
di pari diritti. Ciò implicherebbe, fra l’altro, l’abolizione della Legge del
ritorno che garantisce a qualsiasi ebreo/a, ovunque egli/ella viva, il diritto di
ottenere la cittadinanza israeliana.
Com’è ovvio, la pubblicazione di questi due documenti ha dato luogo a
un ampio dibattito sugli organi di stampa di entrambe le collettività. Tra le prime
prese di posizione di parte ebraica, sintomatica è stata quella espressa su Haaretz
(27 gennaio 2007) da Ze’ev Schiff – il celebre commentatore militare – , che
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accusava i leader e gli intellettuali arabi di avere deliberatamente scelto, per
attaccare Israele, una fase di palese debolezza politica. Non sono poi mancati dei
commenti molto allarmati da parte di influenti funzionari e autorità governative
israeliane. Secondo il capo dello Shin Bet, documenti di un tale tenore
confermerebbero che la minoranza araba costituisce ormai, inequivocabilmente,
una ‘minaccia strategica’ per Israele. L’ufficio del Primo ministro, per parte sua,
ha scritto una lettera indirizzandola a un noto settimanale arabo collegato al
Balad, un partito politico che condivide la stessa ‘visione futura’ espressa nei
due documenti qui in oggetto (si tratta del partito di cui è capo Azmi Bishara, il
deputato arabo-israeliano che, dalla fine dell’aprile 2007, si è dato alla latitanza
rifugiandosi nel mondo arabo perché accusato di avere passato informazioni a
Hezbollah nel luglio 2006, durante la guerra in Libano). Nella sua lettera, Ehud
Olmert ammoniva di essere pronto a combattere qualsiasi gruppo che mettesse
a repentaglio il carattere ebraico e democratico dello Stato, quand’anche le sue
attività fossero formalmente legali.
Decisamente più ragionato e sfumato, su questi temi, anche se molto
appassionato, lo scontro tra esponenti del mondo culturale. Il dialogo ebraicoarabo concernente la “Visione futura degli arabi palestinesi”, che Bitterlemons
ha pubblicato nel marzo 2007, riflette in termini emblematici il peso della posta
in gioco e lo spessore dell’impegno profuso dalle due parti. Gli intellettuali a
confronto in questo caso sono As’ad Ghanem – che, oltre a presiedere il
direttivo dell’Associazione Ibn-Khaldun, dirige presso la Scuola di Scienze
politiche dell’Università di Haifa il dipartimento di Government & Political
Philosophy – e Asher Susser, direttore del Centro Moshe Dayan di Studi
medio-orientali e africani dell’Università di Tel Aviv.
Il ragionamento di Susser prende le mosse da un asserto di carattere
generale: per la maggior parte degli ebrei israeliani, la creazione dello Stato
d’Israele rappresenta il conseguimento dell’inalienabile diritto del popolo
ebraico all’autodeterminazione e la realizzazione dei suoi diritti nazionali
dopo secoli di umiliazioni e persecuzioni. Per gli ebrei, afferma Susser, la
nascita dello Stato ha costituito, a dispetto di ogni avversa circostanza, la
conquista definitiva e suprema di quella normale esistenza nazionale cui tutti
i popoli sentono di poter aspirare a tutela della propria dignità collettiva. Nel
caso degli ebrei, si tratta dell’evento che pone fine a un’orrenda storia di
sofferenze, intolleranza e annichilimento fisico. Un carattere specifico ed
essenziale di tale conquista della sovranità e dell’indipendenza statuale è stato
il riqualificarsi della collettività ebraico-israeliana sul piano culturale, grazie
in particolare all’uso vivo, parlato dell’ebraico: un gruppo umano che non si
limita, pertanto, ad abitare il proprio Stato ma che, anche, si esprime
creativamente nella propria lingua. Fra tutti i risultati conseguiti da Israele,
questo della rinascita culturale della lingua ebraica nelle sue varie espressioni
di eccellenza – in campo letterario, teatrale, giornalistico e accademico – è di
gran lunga la più impressionante. Nel documento sulla “Visione futura degli
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arabi palestinesi in Israele”, rileva Susser, tutto ciò viene liquidato e trattato alla
stregua di un’intrapresa coloniale messa in atto da un’élite europea, quasi gli
ebrei israeliani fossero equiparabili ai coltivatori di caffè che hanno colonizzato
il Kenia o ai loro fratelli coltivatori di tabacco in Rhodesia. Ma simili
affermazioni, prosegue Susser, oltre a essere prive di fondamento, sono
banalmente riduttive ed esprimono dispregio. Per giunta tali affermazioni,
provenendo da laureati formatisi all’interno delle istituzioni accademiche dello
stesso Israele e da docenti ivi operanti, ossia dell’élite intellettuale degli arabi
israeliani, rasentano l’incredibile. Da quell’élite ci si aspetterebbe la
disponibilità a compiere uno sforzo in più, non già per dichiararsi d’accordo o
per accettare l’altro – la sua realtà, il suo punto di vista – ma per comprendere.
In realtà, i palestinesi d’Israele stanno ora issando il vessillo del
‘popolo indigeno’ quale simbolo del loro senso arrogante di superiorità morale
a fronte dello Stato ebraico presunto ‘colonizzatore’. Il loro disconoscere il
movimento nazionale ebraico, i sacrifici e le lotte che esso ha sostenuto lungo
l’arco di oltre un secolo, è un atteggiamento – afferma Susser – distruttivo e
demolitore. Questa negazione dei diritti della maggioranza nel nome dei diritti
della minoranza va respinta. Che i palestinesi non accettino la ‘narrazione’
sionista è comprensibile. Ma non è assolutamente accettabile che essi esigano
il suo ripudio da parte della maggioranza ebraica d’Israele quale base per
iniziare a negoziare. Sarebbe parimenti ridicolo che la maggioranza ebraica
pretendesse che la minoranza palestinese abbandonasse la propria ‘narrazione’
e accettasse quella sionista.
Il problema di fondo posto dal documento sulla “Visione futura”,
secondo Susser, è che gli ebrei vi sono descritti come stranieri colonizzatori.
La loro presenza sarebbe quella di intrusi in palese stato di inferiorità morale
rispetto alla popolazione indigena, quasi gli ebrei israeliani non fossero
indigeni anch’essi. Il documento propone un’interpretazione assolutamente
estremistica dei diritti della minoranza. Ma è mai pensabile – domanda Susser
– che la condizione per riconoscere i diritti della minoranza sia quella di
disconoscere i diritti della maggioranza? È sicuramente legittimo e opportuno
che la maggioranza riconosca i diritti collettivi della minoranza, ma non al
prezzo di abbandonare la propria identità nazionale e rinunziare a essere lo
Stato del popolo ebraico.
Secondo l’arabo d’Israele As’ad Ghanem, che alla stesura del
documento sulla “Visione futura” ha preso parte, l’accordo sul quale
convennero pregiudizialmente i redattori di tale testo fu quello di dare
soddisfazione al bisogno palestinese di autodeterminazione, offrendo a tal fine
un vigoroso sostegno alla nascita di uno Stato dei palestinesi accanto allo Stato
d’Israele. Dopo di che il loro lavoro andò senz’altro focalizzandosi attorno alla
situazione della collettività araba in Israele e ai suoi specifici problemi interni.
Nella situazione degli arabi israeliani, afferma Ghanem, si riscontrano
da alcuni anni segnali palesi di deterioramento, individuabili in tre distinti
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settori: rapporti con lo Stato ebraico a partire dall’ottobre 2000 (data d’inizio
della seconda Intifada); problemi sociali interni, con particolare riferimento
alle politiche dei clan, alla gestione delle amministrazioni locali e alla
condizione delle donne; e, infine, le relazioni tra gli arabi d’Israele e il
movimento nazionale palestinese.
L’aspetto critico, rammenta Ghanem, che calamita in particolare
l’attenzione dei mezzi d’informazione di parte ebraica è il rapporto tra
minoranza araba e maggioranza ebraica in Israele. Gli aspetti problematici di
tale rapporto rendono urgente che si crei un’alternativa a favore degli arabi,
tenendo presente che essi intendono sì migliorare il proprio statuto, ma la
cornice entro la quale desiderano che ciò avvenga è quella della cittadinanza
all’interno dello Stato d’Israele. Perciò le richieste che essi avanzano si
collocano tutte in un ambito israeliano. “Come cittadini di Israele”, scrive
Ghanem, “noi, i palestinesi in Israele siamo insoddisfatti delle politiche che lo
Stato adotta nei nostri confronti”.
L’atteggiamento dello Stato è improntato fin dal 1948 a una sostanziale
‘tirannia della maggioranza’ che si esercita in materia di distribuzione delle
terre, di assetti sociali, di organizzazione della vita municipale e scolastica, di
tematiche della cittadinanza e di riconoscimento e uso pubblico della lingua
araba. Tutte le decisioni che attengono alle esigenze degli arabi vengono prese
dalla maggioranza ebraica. È vero, ammette Ghanem, che nel Paese vige la
democrazia, vi si celebrano libere elezioni, gli arabi sono rappresentati nella
Knesset e nelle altre istanze elettive, vi è la separazione dei poteri, la stampa è
libera e così via. Non è tuttavia corretto affermare che Israele sia uno Stato
democratico nei termini in cui l’Occidente e la maggioranza ebraica sogliono
vederlo. Manca nel Paese una componente fondamentale della democrazia: la
parità della cittadinanza. Lo Stato israeliano è un sistema etnocratico in quanto
si fonda per legge sulla superiorità di un gruppo etnico su un altro. Il Paese è
appannaggio di una collettività maggioritaria, quella degli ebrei. Che si tratti
dei mezzi d’informazione, del mondo accademico o di qualsiasi altro settore
d’attività, non v’è aspetto della vita pubblica in cui la minoranza araba eserciti
una funzione efficace, eccezion fatta per il diritto di voto. Occorre che tale
egemonia di un solo gruppo etnico cessi.
La soluzione che la “Visione futura” va proponendo, dichiara Ghanem,
è una forma di autogoverno entro la cornice di uno Stato fondato su un sistema
di ‘democrazia consensuale’ simile al modello sperimentato in Belgio, con pari
rappresentanza proporzionale, diritto reciproco di veto tra i due gruppi
nazionali e soluzione autogestita delle questioni specifiche di ciascuna delle
due parti. Le altre più rilevanti rivendicazioni avanzate nel documento sono:
revisione radicale, nell’ambito dello Stato, delle politiche di distribuzione delle
terre; presenza di rappresentanti arabi nelle più significative istituzioni nonisraeliane quali l’Agenzia ebraica e il Fondo nazionale ebraico; adozione
generalizzata di un sistema bilingue arabo ed ebraico. Da parte di Ghanem e
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IL
RISVEGLIO DEGLI ARABI DI ISRAELE
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degli altri arabi che stanno partecipando a questo complesso dibattito, si insiste
nel sottolineare che le loro richieste di autonomia, autogoverno e creazione di
istituzioni nazionali specifiche non vanno lette in chiave separatista. Il loro
intento, affermano, è piuttosto quello di realizzare all’interno di Israele
un’effettiva uguaglianza, quale estrema espressione di appartenenza allo Stato.
“Noi siamo parte di Israele”, scrive Ghanem. Se, com’era lecito attendersi, la
“Visione futura” va suscitando reazioni di profondo sdegno e collera
soprattutto presso gli organi di stampa della destra israeliana, un certo disagio
viene manifestato anche da coloro, fra gli ebrei israeliani, che da lungo tempo
patrocinano in Israele la causa dell’uguaglianza e della coesistenza tra ebrei e
arabi. È il caso, per esempio, di Shalom (Shuli) Dichter, condirettore di Sikkuy,
un’organizzazione ebraico-araba che tutela le ragioni dell’uguaglianza in fatto
di diritti civili tra cittadini israeliani arabi ed ebrei. Dichter ammette che, per un
ebreo sionista qual egli è, il testo della “Visione futura” rappresenta, fin dalle
prime righe, una lettura difficile da digerire. “Poiché però ho ampia esperienza
di dialogo con i cittadini arabi di Israele, sono riuscito a spingermi oltre le
prime pagine”, afferma. E aggiunge che 60 anni di discriminazione
istituzionale e strutturale dei cittadini arabi da parte dello Stato fanno sì che nei
confronti di Israele i cittadini arabi nutrano “sospetto e senso di estraniazione”.
Come si vede, il recente risveglio politico degli arabi di Israele suscita
all’interno dell’intelligenza e della classe politica del Paese un intenso e
talvolta confuso ‘botta e risposta’, reso più rovente, a cavallo tra l’aprile e il
maggio 2007, dal torbido affaire di Azmi Bishara e dalle ricadute pesanti delle
prime anticipazioni del rapporto della commissione Winograd sull’apice
governativo e i suoi immediati dintorni.
Nel pieno del dibattito in corso, è uscito su Haaretz (19 aprile 2007) un
articolo apparentemente scanzonato (“Verso i prossimi 60 anni”) ma in realtà
illuminato, a mio avviso, da alcune abbaglianti scintille di quell’utopismo
pragmatico che è sempre stato la grande risorsa di Israele nei momenti più
difficili e problematici della sua storia. Autore dell’articolo è Amos Schocken,
che di Haaretz è il direttore/proprietario, nonché il nipote di colui che fondò il
giornale nel 1919.
Nel domandarsi che cosa si possa fare per colmare la distanza che
separa gli ebrei dagli arabi israeliani in occasione del 60° anniversario di
Israele, che si celebrerà nel 2008, Schocken prende innanzitutto in
considerazione l’inno nazionale – Hatikvah (“La Speranza”) –, e rileva che si
tratta di un canto che appartiene esclusivamente agli ebrei. “Finché nel
profondo del cuore un’anima ebraica anela...”, così inizia. E come può un
cittadino arabo identificarsi con un inno così concepito? L’atto di cantare l’inno
nazionale, rammenta Schocken, è un’espressione di solidarietà con altri
cittadini e con lo Stato. Ma questa è un’opportunità che agli arabi di Israele
viene negata, ed è chiaro che a rimetterci sono sia lo Stato sia i cittadini ebrei.
Quando nacque Israele, gli arabi vi si opposero anche violentemente,
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ma da allora sono passati molti anni. E oggi essi si considerano cittadini dello
Stato, e come tali rifiutano quello che Schocken definisce “lo spregevole piano
del ministro per gli Affari strategici Avigdor Lieberman che prevede
l’inclusione di città e località israeliane con popolazione araba nel territorio
destinato allo Stato palestinese”. Certo, l’uguaglianza tra ebrei e arabi non è
ancora stata conseguita. Ma se nel celebrare il suo 60° anniversario Israele
fosse disposto – come suggerisce Schocken – ad adottare un nuovo inno
nazionale, compirebbe un passo simbolicamente importante per il futuro delle
relazioni tra le due collettività. Sarebbe auspicabile che in quel giorno i cittadini
arabi potessero in qualche misura sentirsi coinvolti nelle celebrazioni. Non è
giunto ormai il tempo, si domanda Schocken, di riconoscere che la fondazione
di Israele non è soltanto una pagina di storia del popolo ebraico, del sionismo,
dell’eroismo dei soldati d’Israele e di lutto per i caduti ebrei? Non è, quella,
anche un’occasione per fare memoria degli effetti pesantissimi che il sionismo
e l’eroismo dei soldati israeliani ebbero sulle vite degli arabi: la Nakba – la
‘Catastrofe’ palestinese, come gli arabi chiamano gli eventi del 1948 – la
sconfitta, famiglie disperse, vite spezzate, proprietà andate perdute, l’esistenza
sotto regime militare e altri eventi storici che ebrei e arabi ebbero a condividere,
eventi che in Israele, nel Giorno dell’indipendenza, vengono presentati in una
maniera totalmente unilaterale?
Non è facile, rammenta Schocken, offrire versioni alternative, talvolta
critiche, della propria storia. Ciò che si fa a questo proposito in Sud Africa è
un esempio positivo della creazione di una nuova ‘storia nazionale’, una storia
non modellata in base ai rigori ideologici dell’una o dell’altra parte.
“Dobbiamo nutrire fiducia nel nostro diritto di vivere qui”, ammonisce
Schocken; “un diritto che non è condizionato dal consenso degli arabi, ma non
è condizionato neppure dal nostro ignorare la loro storia. In tal modo daremo
espressione al fatto che gli arabi di Israele sono anch’essi figli di questa terra,
e inoltre daremo riconoscimento all’uguaglianza dei loro diritti unitamente ai
diritti degli ebrei, nel rispetto della storia di ciascuno dei due popoli”.
Un modo per creare concretamente un denominatore comune tra gli
ebrei e gli arabi in Israele sarebbe, per esempio, se nel 60° Giorno
dell’indipendenza il Primo ministro inaugurasse il reinsediamento di arabi
israeliani nei villaggi arabi di Biram e Ikrit – una misura di giustizia che non
avrebbe nulla a che fare, beninteso, con il diritto al ritorno dei palestinesi privi
di cittadinanza israeliana –; oppure se il governo di Israele desse l’avvio a un
processo di restituzione di proprietà a cittadini arabi di Israele, legittimi titolari
di tali proprietà; oppure, ancora, se provvedesse a compensare i titolari di tali
proprietà nei casi in cui la restituzione non risultasse essere eseguibile. “Un
governo che compisse i passi avanti che qui si sono descritti”, conclude
Schocken, “darebbe alla solidarietà tra ebrei e arabi un contributo significativo”.
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IL
RISVEGLIO DEGLI ARABI DI ISRAELE
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Bruno Segre
Direttore di “Keshet”, periodico di vita e cultura ebraica
Holger Banse
UN PAESE, DUE POPOLI
La questione ebraico-araba: pensieri di Martin Buber
Il sogno di riunire gli ebrei dispersi in tutto il mondo in una patria
comune, iniziato a metà del Diciannovesimo secolo, divenne un incubo già sin
dai primi tentativi di realizzarlo, all’inizio del Novecento. Quel sogno divenne
una paura senza fine per tutti coloro che erano coinvolti, e nel contempo un
focolaio di conflitti geopolitici che minacciava e minaccia costantemente di
degenerare in un gigantesco incendio non più controllabile.
La catastrofe, come si vede oggi, mostra l’esito di una gran quantità di
decisioni politiche, nelle quali, per più di un secolo, interagirono molti fattori,
coinvolgendo numerosi stati e organizzazioni. Ci sarebbero state delle
alternative, e in effetti furono messe in discussione. Martin Buber, sin da
quando iniziò ad occuparsi di sionismo, si fece portavoce di un movimento
che propendeva per una via diversa rispetto alle risposte da dare alla questione
araba-israeliana.
Che cosa sarebbe accaduto, se le idee di Buber avessero trovato una
rispondenza più forte, se i decisori avessero tentato di realizzare le sue
proposte… Dove sarebbe oggi il Medio Oriente, come vivrebbero i
palestinesi, gli israeliani, i siriani, gli iraniani…? Certo, è una domanda
speculativa che non ha risposte. Ma vale la pena rammentare le idee di Buber
anche su questo argomento. Stando nella tradizione religiosa, egli ricordava
sempre che il messaggio di pace dei profeti non vale solo per il tempo
messianico, …vale per l’oggi. E aggiungeva: “Se non ora… quando?”1
1.1. Martin Buber e i fondamenti socialisti del suo sionismo
Martin Buber trascorre le vacanze estive del 1898 nella tenuta del padre, in
Galizia2. Da qui scrive a un amico di aver scoperto e letto un libro che
costituirebbe la sintesi di due questioni sino ad allora per lui inconciliabili. Si
tratta di Modernes Judentum (Ebraismo moderno) di Mathias Achers (Nathan
Birnbaum), che, a parere di Buber, sarebbe riuscito a conciliare, nella nozione
di Israele, l’ideale nazionale con quello sociale. È qui che egli trova risposte
alle domande che in precedenza gli aveva posto Moses Heß (si veda più
avanti). Rientrato a Lipsia nel semestre invernale, per riprendere i suoi studi
di filosofia e storia dell’arte, Buber fondò un gruppo sionista locale e
un’associazione di studenti ebrei.
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Uno degli incontri più importanti della sua vita è senz’altro quello con
Gustav Landauer3 (1870-1919), un socialista, strenuo pacifista e anarchico, che
conobbe per la prima volta a Berlino nel 1899. Landauer non solo spalanca a
Buber il mondo della mistica, ma lo fa accostare anche all’idea di un socialismo
della comunità. Landauer rifiutava il modello "pseudosocialista" centralista,
che sembrava attecchire in Russia, preferendo un socialismo comunitario di
tipo federale, nel quale la vita in comune degli uomini non fosse condizionata
dai vincoli sociali di uno Stato, bensì fosse confermata attraverso la creazione
di un autentico gruppo umano, di una società che emergesse dallo spirito e dalla
libertà. Nel 1918 aderì ai moti di Monaco. Per breve tempo sedette nel
consiglio governativo centrale della repubblica socialista monacense. Ma
rimase fedele al suo pacifismo. Già nel 1910 aveva scritto4 che uno scopo si
può raggiungere solo “quando lo strumento per raggiungerlo ha gli stessi colori
dello scopo. Non si arriva mai alla nonviolenza tramite la violenza”. Dopo
l’occupazione delle truppe del Reich tedesco e la loro vittoria sulla Rote
Armee, Landauer venne arrestato il primo maggio del 1919, e fucilato il giorno
stesso.
Il concetto di “comunità” coniato da Landauer fece il proprio ingresso
nelle idee di Buber sul sionismo, così come l’incontro con gli scritti di Moses
Heß e il suo socialismo religioso.
Per cinque anni (dal 1841 al 1846) Heß era stato in stretto contatto con
Karl Marx. Si trattò di un’influenza reciproca. Si divisero quando Marx
sviluppò la sua visione materialistica della storia, alla quale Heß oppose delle
resistenze. Per Heß il socialismo doveva fondarsi sì, come per Marx, su uno
sviluppo tecnico e scientifico, ma soprattutto, e qui si consuma il grande
divario tra i due, su uno sviluppo spirituale. La libertà sociale, per Heß,
scaturisce dalla libertà dello spirito. Nel suo libro Roma e Gerusalemme,
descrive Dio come l’Unica Radice e l’Unico Frutto, nel quale religione e
politica, chiesa e stato sono intimamente fusi. La riscoperta della sua ebraicità
per Heß è la riscoperta della sua stessa “nazionalità”: è così che emerge l’idea
dell’inseparabilità di popolo e terra. E non è neppure solamente un’idea,
quanto il proposito di istituire la ricostruzione della terra. Per lui il
“patriottismo ebraico” non è affatto un’immagine ideale, è il ricordo della
Palestina e la speranza nella Palestina. I veri ebrei, i più fedeli, hanno bisogno
della terra per realizzare l’ideale storico del nostro popolo, un ideale che non
è altro che la sovranità di Dio sulla terra”5. La religione per Heß è qualcosa
di profondamente vincolato alla politica. Non c’è neppure “nessuna sfera
isolata dal culto e dalla teologia, bensì solo il mondo di una fede, il cui senso
e il cui proposito è trasformare un popolo nell’azione della vita sociale”6. E la
concretezza di una simile prospettiva diviene evidente là dove scrive che
occorrerebbe prestare attenzione alla situazione geopolitica in Palestina per
giungere a una riconciliazione tra “l’odierna cultura occidentale e l’antica
cultura orientale”7; nella costruzione di una comunità ebraico-palestinese
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vedeva un importante contributo per un’umanità a venire. A tal fine, occorreva
fondare all’inizio delle piccole colonie ebraiche. Le condizioni, perciò,
sarebbero state l’acquisto di terreni in possesso comune del popolo, condizioni
legali che garantissero la difesa del lavoro, e la fondazione di società ebraiche
per l’agricoltura, l’industria e il commercio su fondamenti mosaici, cioè, per
Heß, socialisti.
1.2. Sion è Sion. Le radici religiose del sionismo di Buber
Duecento anni prima della Rivoluzione Francese, Rabbi Loewe ben Bezalel
riteneva che ogni popolo avesse la propria natura e la propria forma
(l’aspetto), che ogni popolo esistesse in virtù della propria forza e che non
potesse essere sottomesso a nessun altro, che ogni popolo avesse il proprio
luogo naturale e il diritto di viverci, e che ad ogni popolo si dovesse concedere
di venerare il proprio Dio secondo le proprie convinzioni… non si tratta di uno
statuto umano, bensì di un fondamento che proviene dall’ordine stesso del
mondo8. Il fatto che Israele sia sottomesso ad altri popoli, che abbia perduto
il suo posto sulla terra, che debba vivere disperso in vari Paesi, che sia
umiliato e tormentato, è contro l’ordine della natura. Solo tornando al suo
luogo, Israele, e con esso il mondo, può ritrovare l’ordine divino. E il luogo di
Israele, ovviamente, è la “Terra d’Israele” (Eretz Is’rael). Se il popolo ritorna
a viverci, il popolo e la terra recupereranno reciprocamente in questo, sostanza
vitale, spiritualità, naturalità e santità.
Rabbi Loewe fu importante per la formazione delle idee di Buber,
così come Achad Haam. Achad Haam9 è considerato il fondatore di un
“sionismo culturale”. Haam insegue il progetto della creazione di una
comunità ebraica in Palestina come centro organico dell’ebraismo universale,
anzi: proprio come Herzl giunge perfino a parlare di uno Stato ebraico. Buber
considera Haam il vero sionista, perché per Buber è un vero chovev’-Sion, un
“amante di Sion”: l’oggetto del suo amore è realmente Sion e non l’Uganda,
o Cipro, o l’Argentina, Paesi ai quali Herzl in un primo momento rivolse la
sua attenzione pensando alla fondazione di uno Stato ebraico. Secondo Haam,
nella questione del sionismo10 è in gioco l’ebraismo stesso, l’ebraismo nella
sua totalità, che avrebbe trovato in Palestina un centro per procedere da qui
sulla nuova via verso il compimento. Perciò era importante riscoprire l’unicità
che si rivela in questo popolo e in questa terra e nel loro legame reciproco.
Buber indica in Haam un vero maestro [Lehrer], mentre vede in Herzl
la guida [Führer]. Una volta scrisse: “L’esercizio di guidare un popolo
[Führertum], se privo dell’insegnamento [Lehre], ha un suo successo:
qualcosa si raggiunge. Solo che questo ‘qualcosa’ è totalmente diverso e talora
perfino una caricatura rispetto a ciò che si voleva propriamente raggiungere,
(…) nel profondo della propria anima. (…) Certamente, non possedere una
guida è una sventura per il popolo, ma una sventura tre volte più grande è che
la guida del popolo non abbia alcun maestro”11.
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Tuttavia, in un altro autore, Aaron David Gordon, Buber trovò il suo
“vero maestro, il cui insegnamento era quello dell’immagine dell’uomo…”12.
Gordon rinnovò come nessun altro nel movimento popolare dell’ebraismo
moderno la visione della straordinaria relazione tra il popolo e la terra di
Israele. Gordon, filosofo-lavoratore, arrivò dalla Russia in Israele quando
aveva già cinquant’anni, e visse in un kibbuz fino alla sua morte, sedici anni
più tardi. Buber lo descrive come il vero pioniere, poiché giunse in Palestina
per godere della natura con i propri occhi e per lavorarla con le proprie mani.
Occhi e mani sono un tutt’uno per Gordon. “Solo l’uomo che vive totalmente
immerso nella natura, vive realmente in essa. Con il proprio lavoro l’uomo
entra in una relazione intima con la natura. Con il lavoro della terra, gli uomini
di Israele recuperano tutta la loro umanità”13. In una lettera scrive: “La madre
terra, Eretz Israel, ci chiede corpo e vita, o non ci chiede niente. Il mio
proposito non è dirigere la sua attenzione su ciò che voi potete o dovete fare
per la Palestina, ma essenzialmente su ciò che la Palestina può fare per voi.
(…) Solo a partire da qui, se voi cercate in essa qualcosa, quel qualcosa che
nessun ebreo può trovare altrove (…) solo a partire da qui sarete in grado di
fare qualcosa, qualcosa di fondamentale per la Palestina”14.
Se si parla delle radici religiose per quanto riguarda le idee di Buber
sul sionismo, allora non dovremmo tralasciare il pensiero di Raw Kuk15. Kuk
ritiene che Israele abbia bisogno della terra affinché il popolo e la terra
riacquistino la propria rispettiva santità. Kuk collega natura e spirito. La
santità non descrive per lui un ambito trascendente rispetto alla vita, la santità
non rifugge dal profano, anzi gli si rivolge; non vuole muoversi sopra il
profano, ma accoglierlo in sé. La santità è tornare a essere-tutto, tornare ad
essere-uno, un processo che coinvolge l’alto e il basso, il cielo e la terra, il
corpo e l’anima, Dio e l’uomo. Kuk parla dell’unicità e dell’eternità della
relazione tra popolo e terra, entrambe strette da un legame che non potrebbe
mai essere sciolto. L’amore per la terra conduce la totalità del Popolo di Dio e
la totalità di tutto il mondo alla loro pienezza. Qui il sionismo di Kuk
raggiunge una dimensione cosmica.
2. Che cosa sarebbe se... Le idee sionistiche di Buber fino alla fondazione
dello Stato nel 1948
Chiedersi se, qualora Buber si fosse imposto con le sue idee e le sue proposte
e avesse determinato la linea politica del sionismo, la situazione in IsraelePalestina oggi sarebbe diversa, può sembrare forse – come dicevo in
precedenza – una domanda oziosa, e in effetti è una speculazione. Tuttavia
vale la pena presentare le sue idee e ricordarle, perché, come egli stesso ebbe
modo di dire, un cambio di rotta è sempre possibile, e in fondo non c’è
nessuna alternativa alla pace, anzi essa è l’unico comandamento di Dio
all’umanità. Ed è proprio Buber, in quanto uomo religioso e perciò stesso
anche uomo politico, che nel 1932 dice: “Molti tra noi ritengono che [la pace,
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ndc] valga solo per un futuro migliore; che oggi si dovrebbe intraprendere una
guerra di tutti contro tutti, per non soccombere. Ma è proprio ingaggiando una
simile guerra, che soccomberemo; perché per noi c’è solo un’unica sconfitta:
che Dio distolga da noi la sua mano”16.
2.1 Il sionismo come colonizzazione concentrata
Il principio dialogico, che Buber espose nella sua opera Ich und Du [“L’io e il
tu”] del 1923, è divenuto per lui il fondamento del suo pensiero e delle sue
azioni. Volgendomi verso un Tu, io divento Io; solo attraverso questo
movimento raggiungo la realtà del mio essere autentico. Così non c’è da
meravigliarsi del fatto che per Buber la questione araba sia il banco di prova
dell’ebraismo e del progetto sionistico, e in quanto tale una questione
profondamente ebraica. Per un certo periodo non fu il solo. Ancora nel 1930
David Ben Gurion supplicava i suoi uditori affinché si rendessero conto “che
un gran numero di arabi vive da secoli in Palestina, i loro padri e i loro avi
vissero e morirono là dove essi intendono vivere anche in futuro. Dobbiamo
accettare questa situazione con amorevole comprensione, come un dato di
fatto, e trarne le dovute conclusioni”17. Già nel 1921, Zeev Jabotinsky (18801940) il mentore politico di Menachem Begin, nonché fondatore del Partito
Revisionista, dichiarava: “A tutt’oggi gli ebrei costituiscono una minoranza,
nei prossimi vent’anni potrebbero senza dubbio rappresentare la maggioranza
assoluta. Se noi fossimo gli arabi, neppure noi approveremmo la cosa. E anche
gli arabi sono fedeli sionisti come noi. La terra è piena di tracce della memoria
araba”18. Sono parole quasi buberiane. Ma tanto più concretamente i sionisti
più eminenti19 si ponevano di fronte a questioni concrete, quanto più prendeva
vigore in essi l’impressione che un eccessivo scrupolo morale per i sentimenti
e gli interessi della popolazione araba della Palestina, risultasse incompatibile
con l’esigenza, i bisogni e le richieste del sionismo. Così non videro altra scelta
che chiedere aiuto e sostegno a potenze imperialistiche, e giunsero alla
decisione di perseguire gli interessi sionistici senza alcuno scrupolo per le
tensioni nazionalistiche arabe. La principale strategia politica che i sionisti
attuarono per risolvere la questione araba fu l’accelerazione dell’immigrazione
ebraica in Palestina.
Fin dal 1909 Buber aveva cercato tenacemente di resistere a questo
progetto con discorsi e interventi. Il sionismo per Buber era un movimento
etico-religioso, all’interno del quale occorreva sviluppare in generale
convinzioni umanitarie come il pacifismo, la libertà economica e
l’umanismo20. Buber propendeva per un’equa soluzione, cioè per un’equità
accettabile da ciascuna delle due parti che rappresentavano interessi e
rivendicazioni opposte. Egli riteneva che prima di ogni cosa la questione
morale dovesse essere portata al centro della fantasia politica del sionismo e
posta a criterio del pensiero e dell’azione politica. Il problema arabo
minacciava di inquinare l’autentico nucleo morale e spirituale del sionismo.
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La questione araba per lui non andava risolta con tecniche
imperialistiche legate al potere politico. Era tuttavia chiaro che presso gli arabi
stava prendendo il sopravvento la paura di perdere i diritti e la terra, la paura
che gli intrusi ebrei, con il beneplacito degli inglesi, avrebbero soggiogato loro
e la loro terra. Si trattava allora in prima istanza di dissipare questi timori. Una
prospettiva, questa, che sarebbe anche stata possibile, senza tra l’altro
rinunciare agli interessi sionisti. Sarebbe stato necessario un vicendevole
avvicinamento, in modo tale da imparare a fidarsi l’uno dell’altro, ridurre le
rispettive tendenze nazionalistiche al minimo necessario per la garanzia degli
interessi moralmente irrinunciabili e basilari, tanto per gli ebrei quanto per gli
arabi palestinesi. Gli ebrei avrebbero dovuto imparare a rispettare i valori e le
sensibilità culturali degli arabi; il movimento sionista non doveva porsi sotto
la protezione di una potenza imperialistica, specialmente di una potenza che
considerava ostili gli interessi arabi. Il sionismo avrebbe dovuto esporre un
piano di pace credibile, dove si potessero unificare gli interessi dei palestinesi
e del popolo ebraico. Soprattutto sarebbe stato opportuno mettere in evidenza
il rapporto basato sul rispetto e la fraternità, pur conservando le reciproche
distinzioni. Nell’inseguire un’intesa con gli arabi, Buber era finanche disposto
a una limitazione dell’immigrazione ebraica, perché l’esigenza di una
maggioranza demografica ebraica in Palestina sarebbe risultata irresponsabile
e avrebbe ingigantito la diffidenza da parte degli arabi e aggravando così le
divergenze. Si oppose fieramente contro il parere che il perseguimento
egoistico degli interessi del proprio gruppo rappresenti alcunché di sacro e di
moralmente desiderabile, soprattutto nel momento in cui tale perseguimento
fosse risultato dannoso per un altro gruppo.
In tal senso, scrivendo in un progetto di una risoluzione sulla
questione araba, nel 1921, dopo che a maggio erano scoppiati i disordini arabi,
si pronunciò in questo modo: “Il popolo ebraico, una minoranza che per
duemila anni ha subito violenze in ogni paese, rifugge con disprezzo i metodi
della nazione sovrana, di cui fu per così tanto tempo la vittima privilegiata.
Non è per spodestare un altro popolo o per dominarlo, che ci muoviamo verso
la nostra terra, il cui suolo oggi così scarsamente popolato, e che offre spazio
sufficiente per noi e per le stirpi che attualmente vi abitano… In equa alleanza
con il popolo arabo vogliamo trasformare il luogo d’abitazione comune in una
comunità fiorente sul piano economico e culturale, il cui consolidamento
garantisca a ciascuno dei suoi membri uno sviluppo armonioso e autonomo.
La nostra colonizzazione (…) non ha affatto come scopo lo sfruttamento
capitalistico di un’area, e non è al servizio di qualsivoglia fine imperialistico,
il suo senso sta nel lavoro creativo degli uomini liberi su una terra comune. In
un simile carattere sociale del nostro ideale nazionale si riconosce la potente
garanzia per la nostra fiducia, che tra noi e il laborioso popolo arabo si rivelerà
una profonda e duratura solidarietà di interessi veri, che deve oltrepassare tutti
i contrasti prodotti dalle attuali incomprensioni”21.
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Buber nel 1926 pone l’urgenza di conoscere in modo non prevenuto i
vicini arabi, una conoscenza “che presuppone, al di là della competenza
linguistica e della dimestichezza riguardo alle tradizioni, soprattutto la decisa
rinuncia al troppo sicuro senso di superiorità, nel quale abbiamo raggiunto un
livello poco più basso che i polacchi di fronte a noi, e non a maggior
ragione”22. Al Sedicesimo Congresso Sionista (1929) ammonisce:
“Guardiamoci dal considerare inferiore e dal trattare come tale ciò che ci è
estraneo e non sufficientemente conosciuto! Guardiamoci dal fare noi stessi ciò
che è stato fatto a noi!”23 E quasi profeticamente aggiunge più tardi, rispetto
alla questione della religione: “L’Islam è una realtà molto più grande di quanto
noi siamo solitamente disposti ad ammettere. Dinanzi a questa realtà vi è
l’obbligo del conoscere (…). La popolazione araba è determinata dall’Islam in
maniera molto più forte… che in generale quella ebraica. Il religioso è un
ambito della cultura. Noi abbiamo trascurato la conoscenza dell’Islam, e non ci
siamo messi in contatto con le autorità di questa religione”. Buber si oppone a
un concetto di colonizzazione che segua il modello inglese, che a suo parere
sarebbe meglio definito con il termine “espansione”. Concentrazione dovrebbe
essere la formula, non aumento né conquista di potere. “Con dei territori abitati
ben divisi tra le due parti e nel contempo con la cooperazione economica più
ampia possibile, con la più completa parità dei due partner, senza che si
consideri la reciproca proporzione numerica, e con sovranità collettiva
costituita su questi presupposti, una comunità binazionale avrebbe offerto ai
due popoli ciò di cui avevano bisogno”24.
Buber non è un sognatore, né un teorico, né un fantasticone. Nel 1947
racconta: “C’è ancora finanche ai giorni nostri, soprattutto laddove la
popolazione dei territori arabi non sia stata politicizzata, un bellissimo e
amichevole rapporto di vicinato, una generosissima e reciproca solidarietà, nei
villaggi, tra gli abitanti ebrei e quelli arabi. Gli impianti di irrigazione e gli
interventi di ottimizzazione dei raccolti, non sono una semplice beneficenza per
i fellah [i contadini arabi, ndc], al contrario queste misure migliorative delle
condizioni di vita sono state da essi registrate anche come una cosa positiva sul
conto degli ebrei, e a livelli non inferiori sono stati facilmente appresi e si
apprendono i metodi dell’economia intensiva. Io sono stato testimone diverse
volte nei villaggi ebraici di festività alle quali i vicini arabi partecipavano non
semplicemente come ospiti rispettati, ma in un senso di amicizia che va fino
alla pura fratellanza”25. Buber sa che molto dipende dalla riuscita e dal
successo o dall’insuccesso della convivenza tra ebrei e arabi. Così scrive nel
medesimo contesto: “In questo ora il destino della Palestina e il destino
dell’umanità, sono misteriosamente legati l’un l’altro”26. E in un’altra
occasione: “Non semplicemente questa o quella grande potenza ha bisogno
della pace in Medio Oriente, bensì i popoli di tutto il mondo”27.
Tuttavia le potenze nel mondo decisero diversamente. La spartizione
sancita dall’ONU nel 29 novembre del 1947 fu salutata dal movimento sionista
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con caloroso entusiasmo. Appena quattordici giorni dopo che David Ben
Gurion, il 14 maggio del 1948, dichiarava l’indipendenza dello Stato di Israele,
Buber scriveva che il desiderio di essere come tutti gli altri, corrispondeva
all’assimilazione nazionale, e significava un tradimento della vera visione del
sionismo. Israele doveva costituire qualcosa di radicalmente nuovo, era lo
spirito che avrebbe dovuto stare alla base della vita. Il sionismo, invece,
mirando solo alla normalità, profanava (tradiva) il nome di Sion. Questo
sionismo cercava la separazione e sacrificava avventatamente la totalità della
terra. Il concetto fondamentale di “autonomia” fu sostituito con il concetto
politico di “sovranità”, le parole di pace divennero parole di guerra. “Invece di
cercare di diventare la comunità di iniziative unitarie nell’ambito di una
federazione mediorientale, si è preferito costituire uno staterello che corre il
pericolo di vivere in costante contrasto rispetto al suo naturale ambiente
geopolitico e di dover spendere le proprie forze migliori in campo militare
piuttosto che in quello sociale e culturale”28.
2.2. Il sionismo come concetto religioso
Sin dall’inizio Buber si oppose a una riduzione politica del pensiero sionistico,
che tendesse esclusivamente a un’autonomia statale, e cercasse una
maggioranza ebraica nel territorio, promuovendo lo sviluppo di un arrogante,
ottuso nazionalismo imperialistico secondo il modello europeo29. Al
contrario, si tratta di far sviluppare l’ebraismo, in modo tale che da un’essenza
spirituale priva di corpo divenisse una comunità vivente e concreta.
Il sionismo per Buber è un concetto assolutamente religioso, che
ricava la sua essenza dalla tradizione biblica. Fu la liberazione dall’Egitto a
rendere Israele un popolo. La trasformazione in nazione avvenne mediante
l’istituzione della regalità, che sul piano governativo simboleggiava la regalità
di Dio, ma con un ordinamento che era un ordinamento di fede. Sion è la terra
promessa al popolo da Dio e nessun’altra. Nell’idea di Sion, tra il popolo
“santo” e la terra “santa” sia stato contratto un matrimonio “santo”. Con
santità, Buber intende che Dio ha eletto questo popolo tra tutti i popoli, per
condurlo su questa terra, la sua terra fra le altre, e per tenerlo unito in essa. In
ciò Buber individua il fondamento del diritto di Israele alla terra (in quanto
indistinguibilità di popolo e terra) e aggiunge che il risultato dell’impegno in
questa terra negli ultimi cinque secoli, darebbe agli ebrei un diritto su di essa.
Questo però sarebbe solo l’inizio, un cammino verso qualcosa di nuovo, una
nuova comunità umana che qui divenga una sorta di esempio vivente per ciò
che conta dal punto di vista dell’umanità intera30. Sion viene acquistata
mediante giustizia. Se vogliamo far parte di Sion, sostiene Buber, dobbiamo
edificarla nei nostri cuori. La nuova creazione dell’ebraismo può giungere
solo da un rinnovamento religioso. Dovrebbe rinascere. Un sionismo secolare
si volgerebbe contro il mistero di Sion. E se Israele rinunciasse a questo
mistero, rinuncerebbe alla sua stessa natura. Pertanto nella polemica di Buber
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sono in gioco innanzitutto e immancabilmente categorie religiose. Solo se la
cultura nazionale e l’ordinamento della fede, sfasciati dopo la Rivoluzione
Francese, entrano organicamente in un nuovo rapporto evolutivo, Israele potrà
rivivere guarigione e salvezza31. In questo caso Buber intende riferirsi all’idea
di elezione, che non contiene mai un senso di superiorità, ma sempre un senso
di destinazione. In occasione del summenzionato Sedicesimo Congresso
Sionista, disse tra l’altro: “Questo popolo ebraico ha resistito contro ogni
norma formulabile della storia universale, ha resistito perché era qualcosa di
unico, perché non era come tutti gli altri popoli, perché incarnava
organicamente un compito, un compito che ancor oggi non è stato portato a
termine, lo si è solo incominciato. Questo compito è organico non solo per
quanto riguarda la sfera della volontà, ma è organico nella sua esistenza, nella
sua sostanza, nel suo essere, per il quale è stato conservato di generazione in
generazione, proprio per questo compito”32. Buber si oppone strenuamente
alla tendenza di tenere separate la religione e la politica. Non va evitato un
settore, nel quale non valga il comandamento di Dio. “Noi non rispetteremo il
comandamento, nel modo più assoluto, se dividiamo il nostro mondo e la
nostra vita in un territorio dove domini il comandamento di Dio, e in un altro,
che sia esclusivamente determinato dai vincoli dell’economia, della politica,
della “semplice autoaffermazione” dei gruppi”33. Potrebbe darsi che vi sia
occasione di violare il comandamento di Dio, in tal caso si dovrebbe intendere
questa occorrenza come un male, una sofferenza e come un doloroso
sacrificio. “Noi non possiamo evitare di compiere ingiustizie; ma ci è stato
dato di non dover compiere più ingiustizie, come in effetti dobbiamo”. In ciò
consiste, per Buber, la grazia dell’essere umano.
E sono categorie religiose che in Buber costituiscono la speranza di
un’intesa con gli arabi: “… perché noi amiamo questa terra e crediamo nel
suo futuro, e perché (…) certamente anche dall’altra parte esistono lo stesso
amore e la stessa fede”35. un’associazione e un servizio comune a favore
della terra non può essere irraggiungibile. “Dove ci sono l’amore e la fede,
anche una contraddizione apparentemente tragica può giungere a una
soluzione”36. E in un intervento del 1932 afferma: “Se realmente siamo ebrei,
crediamo che Dio renda manifesta agli uomini la sua volontà riguardo alla
loro vita, e che dipenda dal compimento della sua volontà se la vita abbia
senso oppure no. E se volessimo dire, seguendo il nostro sapere profondo,
che cosa significhi il comandamento di Dio all’umanità, noi non avremmo
alcun dubbio che si tratti della pace”37. E ogni via che conduca a questo fine,
deve essere determinata dallo spirito del giusto, dallo spirito della pace.
“Affinché lo scopo effettivo assomigli a quello prefissato, la via deve
essenzialmente assomigliare allo scopo. Una via fasulla, vale a dire una via
avversa a quello scopo, conduce a uno scopo fasullo (…). Ma non si
costruisce la pace con parole concilianti o con progetti umanitari; la si
costruisce (…) realizzando la pace là dove si è chiamati e spronati a farlo:
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nell’attività della propria comunità, là dove essa stessa riesca a collaborare
attivamente nella sua relazione con un’altra comunità (…). Il compimento
nel ‘poi’ è legato al compimento nell’ ‘adesso’ con lacci misteriosi”38. Per
questo: se non ora, quando?
Tra l’aprile del 1936 e l’estate del 1939 scoppiarono nuovamente delle
rivolte arabe, in relazione al forte aumento dell’immigrazione ebraica; Buber
invitò a moderare la reazione. Riteneva che compito dei sionisti dovesse essere
incoraggiare a parole e con i fatti coloro che all’interno della popolazione araba
avessero mostrato atteggiamenti amichevoli al fine di isolare i terroristi. Ma vi
erano ebrei amanti della violenza che, con il loro atteggiamento, avevano
contribuito a unire in modo indissolubile il mondo arabo contro il popolo di
Sion, sia all’interno che all’esterno di Israele. “E da fuori guardano alla loro
opera con soddisfazione tutti coloro che desiderano appunto questo, che noi
adesso, proprio in questa ora segretamente decisiva, compromettiamo le nostre
intenzioni sino al punto di respingerle richiamandoci a noi stessi”39.
L’impulso autentico e il senso genuino del movimento sionistico
doveva essere di quello liberare gli ebrei dalla contraddizione tra anima e vita,
un’anima che professa solo verità e giustizia come valori più alti, e una vita che
vive verità e giustizia. In realtà, però, tradendo l’intenzione originaria e tramite
la disponibilità alla violenza, si svilupperebbe un’anima lupesca e violenta.
“Ma chi uccide o voglia uccidere degli inermi che non hanno lottato e non
lottano contro di lui, non è un eroe, né tanto meno un santo, sia che egli lo
faccia pensando di difendersi, sia che lo faccia aggredendo consapevolmente.
Attentare alla vita di innocenti non è una difesa”40. Così rimane solo
un’alternativa: là dove non è possibile far ricorso alla difesa, non si deve
reagire, occorre superare la prova nelle avversità, perché bisogna rimanere
fedeli ai propositi autentici.
E quando nel 1939, dopo la pubblicazione del Libro Bianco, che
scavalcava l’autogoverno ebraico e comprometteva ulteriori immigrazioni,
alcuni terroristi ebrei commisero sabotaggi ed attentati, Buber affermò: “Lo
strumento della nostra lotta rimane sempre e soltanto la vanga, l’impavida
vanga. Abbiamo bisogno di vangatori che non cedano, non di lanciatori di
bombe, la cui arte principale consista nella fuga. Abbiamo bisogno di guide
che ci conducano al lavoro, (…) non di turbatori dell’ordine: l’ordine che
questi turbano, è quello del nostro proprio lavoro”41.
2.3 Palestina: la porta per l’Asia
Nel 1919 Buber scrive come risposta all’esito della Conferenza di pace di Parigi,
nella quale gli alleati, dopo la prima guerra mondiale, discutevano il destino
della Palestina, che gli ebrei sono orientali e sono europei, e che “realmente
hanno un’attitudine e una vocazione a divenire la porta dello spirito e della vita
nel muro sollevato dalla storia tra il sublime continente-madre e la sua opulenta
e dissestata penisola”42. Rispetto a ciò, sarebbe stato indispensabile promuovere
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e raggiungere un accordo duraturo ed amichevole con gli arabi, in tutti gli ambiti
della vita pubblica, anzi una solidarietà pienamente fraterna.
Già nel 1920 rimproverava agli europei di non aver fatto nulla per
consolidare un accordo tra arabi ed ebrei, nell’interesse della futura patria
nazionale: “Noi che andiamo in Palestina come intermediari tra l’Europa e
l’Asia, non possiamo farlo in quanto ambasciatori di un occidente sul viale
del tramonto dinanzi all’oriente che si sta destando da un vago sogno
condividendo con esso la sua legittima diffidenza; noi siamo eletti araldi di
un nuovo, futuro occidente col compito di dover aiutare i nostri fratelli
dell’oriente a fondare con le proprie forze una comunità autentica in unione
con loro”43. Delle due l’una: o ci comportiamo come odiosi agenti e ispettori,
oppure ci presentiamo come amati maestri ed educatori.
Buber si oppone di continuo a una colonizzazione espansionistica44.
La Palestina dovrebbe costituirsi come unione federativa. Garantiti i diritti di
libera immigrazione e di libero acquisto delle terre da parte della potenza
mandataria e dai paesi arabi, si potrebbe giungere a un completo programma
di colonizzazione concentrativa, nella quale la produttività ebraica in capitale
e lavoro a favore dei territori arabi, potrebbe ottimizzare lo sviluppo
economico dell’Asia minore. Una spartizione della terra, come fu nominata
per la prima volta nel Programma Biltmore (1944), porterebbe con sé,
secondo Buber, un conflitto con gli arabi senza precedenti, di cui non si
potrebbe prevedere la fine. Rispetto a un possibile Stato ebraico, questo
comporterebbe la costituzione di uno staterello completamente militarizzato,
incapace di esistere. Buber era invece per la creazione di uno Stato
binazionale con un’economia palestinese comune, alla cui buona riuscita
sarebbero interessati entrambi i popoli e il cui sostegno comune avrebbe
comportato il risveglio di una fiducia reciproca.
Tutto ciò sarebbe possibile solo con la collaborazione degli stati
limitrofi. Un isolamento, con l’accumulo progressivo di ondate d’odio e di
sospetti tutt’intorno, è impensabile. Urge una grande pace. “Non una pace
immaginaria, atrofizzata, che non sarebbe altro che una debole tregua
momentanea, bensì una grande pace con i vicini, che renderebbe possibile lo
sviluppo generale di questa zona come esperienza pionieristica del Medio
Oriente che si sta levando”. Si tratterebbe dunque di concludere un’alleanza
con il popolo che risiede nella terra, per portare con esso la terra ad essere
avanscoperta del Medio Oriente: “due popoli indipendenti di uguale diritto,
ciascuno signore nella propria società e cultura, ma entrambi uniti nell’opera
comune della conquista e della produttività nella patria comune e nella
comune amministrazione federativa degli incarichi comuni.
Con questa alleanza vogliamo entrare di nuovo nell’unione dei
popoli mediorientali, vogliamo costruire l’economia mediorientale, guidare
la politica mediorientale e, se la grazia lo vuole, diffondere nel mondo, dal
Medio Oriente, l’idea vivente. E la via per un simile scopo? Lavoro e pace:
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una pace costituita dal lavoro comune”.
3. Solidarizzare nella rassegnazione
All’inizio degli anni Cinquanta, Buber afferma che il sionismo pratico, che
favoriva un’opera d’insediamento agricolo e una struttura organica in
progressivo sviluppo, necessaria per una collaborazione arabo-israeliana,
grazie alle grandi ondate migratorie dalla Polonia (60.000 immigrati tra il
1924 e il 1928) e dalla Germania (160.000 immigrati tra il 1922 e il 1936), era
fallito, perché i nuovi arrivati non volevano trasferirsi in un paese ma nella
città. La sicurezza politica era divenuta una necessità. Pertanto Buber
solidarizza sempre di più con gli arabi israeliani senza diritti e lotta contro
l’esproprio dei loro possedimenti. Gli ebrei, così dice, dovrebbero fare di tutto
per esercitare il massimo grado di giustizia, così come la pretenderemmo
sempre da tutti per noi stessi. Ma quest’occasione fu mancata e sorse un nuovo
problema: quello dei profughi arabi. Essi dovevano essere accolti all’interno
dei confini di Israele, si doveva concedere loro un risarcimento per la terra
confiscata. A una simile iniziativa dovevano arrivare congiuntamente tutte le
parti coinvolte (gli stati arabi, i profughi, l’ONU e le grandi potenze). Ciò
avrebbe provocato una grande eco positiva che avrebbe smorzato la chiamata
alle armi. Al suo posto vi sarebbe stata una positiva ripresa sociale da parte dei
profughi, che degeneravano sempre di più nella miseria, nell’amarezza e
nell’odio.
Mentre a Buber non veniva dato ascolto nella propria terra, all’estero le sue
idee avevano sempre più eco. Nel bel mezzo della “guerra fredda” tra gli USA
e l’Unione Sovietica, egli lanciò nuovamente la sua idea dell’alleanza di pace.
Vedeva il problema fondamentale nel collegamento tra la crisi della fiducia e
la crisi della lingua, “infatti io posso parlare a uno nel senso più vero, solo se
posso attendermi che egli accolga realmente la mia parola”47. Comincia a
intraprendere un intenso contatto con Dag Hammarskjöld, il segretario
generale delle Nazioni Unite allora in carica. Questi invita Buber a un incontro
presso le Nazioni Unite, più tardi gli fa visita a Gerusalemme e lo propone
infine per il premio Nobel. Buber ovunque propaganda: Il vero dialogo e le
possibilità della pace48.
Il rapporto con Ben Gurion era e rimase conflittuale. In ogni caso si
trattava di una relazione complessa, fondamentalmente bloccata su posizioni
certamente assai controverse, che non si potevano ridurre semplicemente
alla questione arabo-israeliana, perché in fin dei conti Buber era un
anarchico religioso di matrice biblica e diffidava di tutto ciò che aveva a che
vedere con lo Stato, Ben Gurion invece in quanto primo ministro era il più
alto rappresentante politico dello Stato. Ben Gurion, da parte sua, provava
una grande venerazione per lui, pur all’interno di varie polemiche, che erano
costantemente all’ordine del giorno; in ogni caso, in occasione del
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ottantacinquesimo compleanno di Buber, gli inviò i suoi auguri in quanto
amico, ammiratore e avversario. Quando Buber morì nel 1965, la sua bara
fu retta dai più alti rappresentanti dello Stato e dell’Università. A
rappresentanza di tutti gli studenti arabi dell’Università Ebraica, tre giovani
deposero una corona di rose, garofani e gladioli sulla terra appena smossa
della sua tomba.
4. E oggi?
Martin Buber scrive nel 1939: “Alcuni di voi dicono: ‘Ci siamo sbagliati. Lo
ammettiamo, ma adesso tutto va come va, è troppo tardi per intraprendere la
via che tu hai indicato. Oggi regna la dura legge della realtà mondiale e delle
sue conseguenze; oggi non c’è più nessun posto dove sia possibile una vita
pacifica; se noi oggi dobbiamo agire, lo possiamo fare soltanto tenendo conto
della condizione e delle sue conseguenze, e si tratta di azioni ben diverse da
quelle che tu suggerisci!’ (…) Voi avete detto sempre: ‘Un tempo il tuo
consiglio poteva essere giusto, ma adesso è divenuto antiquato, oggi non è più
possibile e non ha più nulla da dire, oggi tutto è cambiato!’ E così l’oggi
diventa ieri e poi ancora ieri e così via… In ogni fase, però, e in ogni
situazione, si può sempre fare qualcosa che ci avvicini alla verità e che in
qualunque modo determini la prossima ora e la natura della prossima
situazione. (…) Ma noi dobbiamo trovare la vera risposta. (…) La vera
risposta significa: rispondere al presente non con il presente, ma con il futuro.
(…) Noi non dobbiamo disperare, se ci difendiamo dalla tentazione della
menzogna e se riconosciamo la nullità della sua forza e se ci lasciamo dirigere
non dal successo ma dalla fedeltà. Domani forse avremo solo due possibilità:
potremo dipingere la nostra bandiera con i colori della menzogna e
perderci…, oppure potremo prendere con noi il piccolo sigillo (…) di Dio, la
verità umana, e custodirlo, finché verrà il Signore che ce lo consegnerà e ci
eleverà a un nuovo giorno”49.
Holger Banse
Teologo, pastore della Chiesa renana
Note bibliografiche
1 Si veda M. Buber, Ein Land und zwei Völker. Zur jüdisch-arabischen Frage,
a cura di P. R. Mendes-Floh, Insel Verlag, Frankfurt, 1983, p. 145 (d’ora in
poi: Ein Land). [Si tratta di una citazione dal libro talmudico dei Priqé Avot, I
“Detti dei Padri”: a pronunciarla fu Rabbi Hillel: “Se io non sono per me, chi
è per me? E quando io sono solamente per me stesso, che cosa sono io? E se
non ora, quando?”, ndt].
2 Cfr. Maurice Friedman, Begegnungen auf dem Schmalen Grat. Martin
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Buber - ein Leben. Agenda Verlag, Münster, 1999, p. 48, d’ora in poi
Begegnungen.
3 La passione con la quale Gustav Landauer perseguiva i suoi scopi (cfr...
Begegnung, p. 143-ss.), con somma dedizione, inquietudine, instancabilità e
irritabilità, plasmò l’immagine che di lui ebbero i suoi amici, che lo
paragonavano a un profeta della Bibbia o a Gesù. Per quanto riguarda il suo
aspetto esteriore, era magro e molto alto, sopra il metro e ottanta, dalla folta e
nerissima chioma e con la barba scura che ne accentuava l’aria ieratica. Già
molto tempo prima di dichiarare pubblicamente la sua nettissima opposizione
alla Prima guerra mondiale, era sotto sorveglianza dalle autorità prussiane. Con
Buber si rifiutò di partecipare alla fondazione di un istituto superiore, se non si
fosse prevista l’iscrizione anche per le donne. Fu Landauer tra l’altro ad
incoraggiare Paula Buber a scrivere. Quando Paula finalmente pubblicò il suo
primo racconto, con lo pseudonimo di Georg Munk, e Landauer lo rivela
durante un ricevimento, il che lasciò Paula inorridita ed esterrefatta.
4 Cit. in Begegnungen, p. 156.
5 Martin Buber, Der Jude und sein Judentum, Lambert Schneider, Gerlingen,
seconda ed. 1993, Judentum, p. 405. da qui in avanti Judentum).
6 Ivi, p. 406.
7 Ivi, p. 408.
8 Judentum, pp. 385-ss.
9 Ivi, pp. 432-ss.
10 Tornato in Russia da un viaggio in Palestina, scrive in un articolo del 1891:
“Dal di fuori siamo soliti pensare che gli arabi siano tutti selvaggi, che siano a
un livello animalesco e che non abbiano alcuna idea di quanto accada intorno a
loro. È un grande errore. L’arabo, come tutti i semiti, possiede un’intelligenza
acuta e una grande scaltrezza (...) Gli arabi, e soprattutto gli abitanti delle città,
intuiscono i nostri traffici nel territorio e ne afferrano lo scopo, ma tacciono e
non lo danno a intendere, perché per il momento non vedono nelle nostre azioni
nessun pericolo per il loro futuro. (...) Quando però giungerà il momento di un
più significativo sviluppo per la vita del nostro popolo in Palestina, tanto da far
avvertire la popolazione locale più o meno stretta, allora non ci cederanno il loro
posto altrettanto facilmente”. Cit. in Martin Buber, Ein Land und zwei Völker, a
cura di P.R. Mendes-Flohr, Insel Verlag, Frankfurt am Main, 1983, p. 13 (da qui
in avanti Ein Land).
11 Cit. in Begegnungen, p. 65.
12 Cit. in Begegnungen, p. 167.
13 Judentum, p. 445.
14 Ivi, p. 450.
15 Ivi, p. 438.
16 Judentum, p. 143.
17 Cit. in Ein Land, p. 15.
18 Ivi, p. 15.
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19 Così seguendo Jizchak Ben Zvi (1884-1963, secondo presidente dello Stato
di Israele) nell’anno 1922 davanti al Consiglio Nazionale; cfr. ivi, p. 19.
20 Cfr. ivi, p. 134.
21 Ivi, pp. 87-ss.
22 Ivi, p. 107.
23 Ivi, p. 110.
24 Ivi, p. 261.
25 Ivi, p. 259.
26 Ivi, p. 264.
27 Ivi, p. 278.
28 Ivi, p. 290.
29 Così in una lettera a Hugo Bergmann, cfr. ivi, p. 54.
30 Cfr. Ein Land, p. 117.
31 Ivi, p. 79.
32 Ivi, p. 115.
33 Ivi, p. 142.
34 Ivi, p. 40.
35 Ivi, p. 38.
36 Ivi, p. 38.
37 Ivi, p. 143.
38 Ivi, p. 144.
39 Ivi, p. 172.
40 Ivi, p. 175.
41 Ivi, p. 184.
42 Ivi, p. 59.
43 Ivi, p. 67.
44 Ivi, pp. 190-ss.
45 Ivi, p. 238.
46 Ivi, p. 289.
47 Begegnung, p. 490.
48 Così recita il titolo della sua allocuzione in occasione dell’assegnazione del
Premio per la Pace dell’editoria tedesca, nel settembre del 1953.
49 Ein Land, p. 185.
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Numeri Pubblicati
Anno 1 (2004) - fascicolo 1
Gesù e l’orecchio di Malco
Anno 1 (2004) - fascicolo 2
Europa, un cammino di integrazione e di pace
Anno 1 (2004) - fascicolo 3
Laicità e libertà religiosa: una sfida per l’Europa
Anno 1 (2004) - dossier 1
Il conflitto israeliano-palestinese
Anno 2 (2005) - fascicolo 1
Gerusalemme
Anno 2 (2005) - fascicolo 2
I cristiani, l’Europa, la politica
Anno 2 (2005) - fascicolo 3
Sibiu 2007 - Verso la III Assemblea ecumenica
Anno 3 (2006) - fascicolo 1
Uguaglianza e giustizia: diritti e doveri nell’era della globalizzzione
Anno 3 (2006) - fascicolo 2
Esiste un relativismo cristiano?
Anno 3 (2006) - fascicolo 3
Quali prospettive per il cattolicesimo democratico?
Anno 4 (2007) - fascicolo 1
L’Assemblea Ecumenica di Sibiu
Anno 4 (2007) - fascicolo 2
Il “Grande Medio Oriente”
I numeri arretrati possono essere richiesti presso la Segreteria delle Acli
provinciali milanesi e sono inoltre disponibili (in formato PDF) sul sito
internet www.aclimilano.com.
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