C - Lettere Meridiane

Transcript

C - Lettere Meridiane
Anno I - n. 2 / 3 - Trimestrale
Luglio / Agosto / Settembre 2005
€uro 1,00
Le voci delle donne
nei paesi islamici
Appuntamenti culturali
in Calabria e Sicilia
ETTERE
LERIDIANE
M
de
Corrado Alvaro,
viaggiatore
nel Mediterraneo
laltrareggio
Direzione, redazione, amministrazione: Via Ravagnese Superiore, 60
89067 RAVAGNESE (REGGIO CALABRIA - CITTA’ DEL BERGAMOTTO)
Tel. 0965644464 - Fax 0965630176 - E-mail:[email protected] - www.cittadelsoledizioni.it
Una radice di pietra e di mare più forte della diversità delle rive (Franco Cassano)
Quasimodo,
il poeta e la sua terra
impareggiabile
“La Chioccia d’oro”
di Vincenzo Fusco
Corigliano Calabro,
una fucina culturale
in Calabria
Nasce a Reggio la Onlus
“Bambini nel deserto”
Storia contemporanea,
i crimini dell’ Italia
fascista in Jugoslavia
Un futuro sotto il ponte?
Riflessioni su un’opera infausta
Inediti
poesie e racconti
Le novità della Città
del Sole Edizioni
U tempu cc’è
Il Festival dei Circoli del
Cinema a Reggio Calabria
le poesie di Salvo Basso
e le immagini di Aldo Palazzolo
L ETTERE
M ERIDIANE
2
N. 2 / 3 - Luglio - Agosto - Settembre 2005
Lettera aperta al Presidente del Consiglio Regionale
Un progetto
Una
legge
indispensabile
ambizioso
Egr. On. Giuseppe Bova
S
iamo giunti al secondo numero di
Lettere Meridiane. Mi fa piacere
poter riscontrare l’interesse che
questa iniziativa editoriale ha suscitato. Sono
stati numerosi gli apprezzamenti e gli auguri
ricevuti per il primo numero pubblicato, a
conferma della mia impressione che un periodico culturale sarebbe stato ben accolto dal
pubblico. L’attenzione dimostrata verso le edizioni, gli incontri, i personaggi delle nostre
terre è stata prontamente premiata e una viva
soddisfazione per il successo ottenuto viene
espressa da tutto lo staff che ha contribuito a
questo progetto.
In questo numero troverete un maggiore
spazio dedicato agli appuntamenti culturali e
di spettacolo, sia in Calabria che in Sicilia.
Vogliamo infatti poter costituire, in questo
periodo estivo particolarmente ricco di eventi,
una guida utile per gli appassionati che non
vogliono lasciarsi sfuggire le rassegne più
importanti.
Troverete approfondimenti su alcuni aspetti
poco conosciuti e un po’ trascurati dell’opera
di grandi scrittori e intellettuali, come Corrado
Alvaro e Salvatore Quasimodo, ma anche
notizie su autori calabresi contemporanei,
come Vincenzo Fusco o il prematuramente
scomparso Carlo Carlino. Altri nomi illustri
del panorama letterario calabrese da tempo
dimenticati hanno trovato spazio nelle nostre
pagine, Vincenzo Tieri e Luigi Aliquò-Lenzi,
per fare due esempi.
Un evento di grande prestigio svoltosi a
Reggio Calabria, il Festival Internazionale dei
Circoli del Cinema, risultato del costante
impegno sul campo dei due storici Circoli del
Cinema reggini, “Cesare Zavattini” e “Charlie
Chaplin”, ha trovato un immediato riscontro
nel nostro giornale, attento a tutto quanto di
rilevante accada nel nostro territorio.
Un altro veicolo d’informazione e cultura,
quindi, nel panorama già ampio e variegato
che la Calabria possiede. Perché la nostra
terra, dagli indici di lettura più bassi in Italia,
produce una serie di realtà che operano nel
settore editoriale, il cui numero e varietà stupisce. Oltre alle case editrici più note anche a
livello nazionale, ce ne sono altre conosciute
più che altro dagli addetti ai lavori, ma in
grado di produrre uno sforzo ragguardevole
nella produzione libraria, tentando di raggiungere una certa visibilità, sia a livello locale,
che oltre i confini regionali. Il problema di
essere conosciuti al grande pubblico ci accomuna tutti, spesso ci sentiamo realtà isolate
che si muovono nel mare dell’indifferenza
generale, salvo poi incontrarci negli importanti appuntamenti nazionali di settore. Perché
considerando solo Reggio, ben tre case editrici sono presenti al Salone del Libro di Torino
e alla Fiera della Piccola e Media Editoria a
Roma, la Città del Sole Edizioni, Falzea e
Laruffa. Una presenza di tutto rispetto di cui
la nostra cittadinanza dovrebbe andare orgogliosa, ma che invece non risulta nota ai più.
La recente Fiera del Libro di Torino, dello
scorso maggio, ha testimoniato ancora una
volta questa significativa partecipazione.
Come in passato, ho potuto riscontrare che in
queste occasioni i piccoli editori fanno la differenza, costituendo il vero valore aggiunto di
queste manifestazioni, dove si tessono i rapporti tra autori, editori e pubblico; quest’ultimo trova accoglienza e assistenza qualificata e
attenta proprio negli stand delle case editrici
minori, dove sono i titolari – e non semplici
commessi – a dare ogni tipo di informazione e
a conversare con competenza con tutti i visitatori. Sono occasioni che spalancano grandi
possibilità per questo settore, dove sono sicuro che a mancare sono gli strumenti adeguati
di promozione e distribuzione, non lo scarso
interesse e l’esigua propensione alla lettura.
Colgo quindi l’occasione per ribadire un’idea già espressa in altri momenti. Un’idea
ambiziosa e anche difficile, ma forse per questo ancora più preziosa e bella. Dare vita al
primo appuntamento dell’editoria calabrese e
siciliana proprio qui in riva allo Stretto, a
Reggio, che raggruppi tutte le varie e numerosissime realtà che operano in queste vivacissime terre.
Questa striscia di mare che saggiamente ci
divide da quella che è arrivato il momento di
riconoscere come la nostra sorella Sicilia è il
nostro punto di forza, non la nostra debolezza.
Noi ci guardiamo reciprocamente, ci ammiriamo all’unisono di notte e di giorno. È venuta
l’ora di tessere un sodalizio più profondo che
non passi attraverso ponti di acciaio, ma scorra con la parola scritta, poesia, racconto, idea,
pensiero che sia.
Franco Arcidiaco
Ho letto con interesse e compiacimento il Suo intervento che dava notizia della pubblicazione del volume di Corrado Alvaro “Paris
sans fard- un reportage italien de 1950”. Come Lei stesso ha sottolineato, la pubblicazione da parte dell’Istituto Italiano di Cultura di
Parigi è stata possibile grazie alla collaborazione dell’editore Giuseppe Falzea, che ne detiene i diritti e sta preparando contemporaneamente un’edizione italiana dell’opera.
Mi associo alle congratulazioni da Lei espresse all’amico e collega Falzea, insieme al quale da tanti anni opero nell’ambito editoriale in questa regione. Mi compiaccio inoltre dell’interesse dimostrato da un’alta carica delle Istituzioni regionali per il settore della
piccola editoria e per il riferimento ad un comma del nuovo Statuto dove si afferma che la Regione deve “valorizzare il sistema locale
delle comunicazioni e deve essere garante di pluralismo e concorrenza” e cita le leggi giacenti in Consiglio regionale proprio inerenti
l’editoria cosiddetta “minore”.
Da tempo si sente la necessità, e più ho volte ho avuto modo di esprimere questa riflessione, di una normativa che disciplini il settore e lo aiuti a destreggiarsi nelle costanti difficoltà in cui opera. Non chiediamo contributi finanziari, ma semplicemente il riconoscimento delle realtà che operano con impegno, serietà e professionalità.
È ovvio che il nodo fondamentale che lega editoria e Enti locali risieda nella disponibilità all’acquisto da parte delle Istituzioni di
alcuni volumi editi o nell’eventuale collaborazione per progetti editoriali. Istituire l’albo delle case editrici regionali che abbiano alcune caratteristiche fondamentali mi sembra il primo passo per valorizzare l’editoria calabrese. Si possono veramente definire case editrici solo le strutture organizzate, che possiedono un catalogo articolato, che pubblicano un certo numero di titoli all’anno, che
possiedono una certa visibilità nel settore e siano in grado di svolgere attività di promozione e distribuzione anche fuori dai confini
regionali. Mi sembrano questi i requisiti minimi per definire una casa editrice, anche se “piccola”. Rivolgersi a queste realtà per procedere alle pubblicazioni finanziate dagli Enti o per acquistare volumi di interesse locale è l’unico modo per sostenere i “veri editori”
e non chi svolge questo lavoro in modo occasionale e sporadico.
Nella passata legislatura l’allora Assessore alla Cultura Saverio Zavettieri aveva riunito tutte le parti interessate, proponendo una
legge regionale sull’editoria che prevedeva tra l’altro proprio la formulazione di questo albo. In quell’occasione il responsabile della
Rubbettino Editore, Giacinto Marra, era intervenuto per esprimere la sua perplessità in merito, preoccupato che i fondi regionali si
disperdessero troppo tra le varie realtà. Questo discorso mi era apparso egoistico e riduttivo, oltre che teso a mantenere i privilegi di
chi in Calabria è nato come tipografo ed è divenuto poi anche editore, facendo ricorso frequentemente alla Regione e ai suoi fondi.
Dopo questa rimostranza stranamente non si è più sentito parlare della legge che, come ha detto bene Lei, Signor Presidente, giace
ancora in Consiglio regionale.
Spero che il Suo intervento serva a risvegliare l’interesse della nuova Giunta verso questo settore e che il varo di una nuova normativa
avvenga molto presto, insieme alla messa in atto di tutti gli strumenti utili per promuovere la diffusione della lettura e della cultura.
L’editore
Franco Arcidiaco
Sommario dei libri recensiti in questo numero:
Senza velo. Donne dell’Islam
contro l’integralismo
di Monica Lanfranco e Maria G. Di Rienzo
Intramoenia, Napoli
Tardara
di Licia Cardillo di Prima
Editori Riuniti, Roma
Gambarie in bianco e nero.
Dalle origini agli anni Settanta.
La Chioccia D’oro
La Calabria. Libro sussidiario
di cultura regionale – Calabria
di Corrado Alvaro
Iiriti Editore, Reggio Calabria
Paris sans fard – Un reportage
italien de 1950
di Corrado Alvaro
Falzea Editore, Reggio Calabria
Viaggio in Turchia
di Corrado Alvaro
Falzea Editore, Reggio Calabria
Ragù di capra
di Gianfrancesco Turano
Flaccovio, Palermo
I libri della Città del Sole Edizioni
a pag. 22 - 23
di Vincenzo Fusco
Laruffa Editore, Reggio Calabria
di Gerardo Pontecorvo e Giuseppe Meduri
Crayons
di Rita Crisarà
Istituti post-manicomiali
A cura di Nicola Valentino
Edizioni Sensibili alle foglie
Pagine di storia “rimosse”
di Enrico Vigna e Don Pietro Brignoli
Edizioni Arterigere - EsseZeta, Varese
Tra gli scogli dell’io
di Fortunato Aloi
Luigi Pellegrini, Cosenza
Sulla via Appia a incontrar le Muse
di Marino Faggella
Arti grafiche, Lavello
Per una storia della pubblica
beneficenza a Rizziconi
di Domenico Coppola
Storia del Bergamotto
di Reggio Calabria
di Pasquale Amato
Il Risorgimento oltre i miti
e i revisionismi
di Pasquale Amato
I tuareg dell’Air
di Ketty Adornato e Rino Cardone
Parlamento in…chiaroscuro
di Fortunato Aloi
De anima sicula
di Gioia Timpanelli
Flaccovio, Palermo
Il sale sulla coda
di Roberto Pagan
Zone Editrice, Roma
Ur-scherei- L’urlo originario
di Federica Legato
Concorso letterario NO PONTE
Comunichiamo i nomi degli autori dei dieci racconti selezionati
Traversata andata e ritorno di Giorgio Ruta
Clangore di Giorgio Specioso
Certi difetti di Annamaria Sansone
Una nebbia finissima ti attraversa il petto di Elena Spadafora
Storiella del ponte sullo stretto di Lucia Saguì
L’unucu ponti Marco Boccia
Sotto il ponte c’è una vecchia di Walter Vastarella
3 kilometri da casello a casello di Andrea Pugliese
Una scelta virtuale di Valeria De Benedictis
Né ponte, né cemento di Angelo Maddalena
L ETTERE
MERIDIANE
de
laltrareggio
CITTÀ DEL SOLE EDIZIONI
REGGIO CALABRIA
Iscrizione Registro Stampa
Trib. di Messina n° 17
dell'11 luglio 1991
Iscrizione R.O.C. n° 9262
Via Ravagnese Sup. 60
89067 RAVAGNESE (RC)
Tel. 0965644464
Fax 0965630176
e-mail: [email protected]
Direttore Responsabile:
FRANCO ARCIDIACO
Direttore Editoriale:
FEDERICA LEGATO
Coordinamento Editoriale:
ORIANA SCHEMBARI
Stampa: AFFARI
Zona Asi Larderia - Messina
Associato USPI
Unione Stampa
Periodica Italiana
La pubblicazione della raccolta avverrà in autunno
La collaborazione al giornale è volontaria ed
avviene esclusivamente in FORMA GRATUITA
N. 2 / 3 - Luglio - Agosto - Settembre 2005
L ETTERE
M ERIDIANE
3
Senza un velo di paura
Viaggio nell’Islam delle donne in lotta per i loro diritti
I
n “Senza velo”, il libro di
Monica Lanfranco e Maria
G. Di Rienzo edito da
Intramoenia, sono solo le donne a
parlare. Agile e asciutto, è uno scritto breve che ha un unico obiettivo:
offrire un quadro su un variegato
mondo femminile che si muove
all’interno dell’Islam, ma che all’Islam non si arrende. Tanti i movimenti e i personaggi che non si
rassegnano alla versione integralista
di una religione che, affermano, non
prescrive la subalternità della donna
all’uomo, non la priva dei diritti,
non le impone il velo.
E proprio intorno al velo, per
tanti simbolo dell’oppressione islamica sulle donne e per altri, invece,
segno di una precisa identità culturale, che si muove il dibattito nei paesi
occidentali; divisi tra chi sostiene
che il rispetto per la cultura e la religione altrui passi anche attraverso
l’accettazione di queste tradizioni e
invocano la legittimità per le donne
musulmane residenti in Occidente di
vestirsi come la loro religione indica, e tra chi sostiene che gli stranieri
debbano adattarsi agli ordinamenti e
ai costumi del Paese che li ospita (la
legge francese sul velo è stato il
caso eclatante che ha destato accese
polemiche) e considera di fatto il
velo testimonianza della sottomissione delle donne nella società islamica e pertanto in opposizione alle
leggi degli stati laici e ai diritti che
dovrebbero essere universalmente
garantiti.
Le autrici partono proprio dalle
posizioni delle cosiddette “relativiste culturali” che legittimano l’uso
del velo come risposta e, diremmo,
resistenza alle pressioni omologanti
della cultura occidentale. Un discorso che ovviamente si lega a una prospettiva politica ed economica che
vede nello sfruttamento dei Paesi
più poveri e nell’ingerenza nelle
loro politiche interne, anche con la
guerra come nel caso dell’Iraq, il
segno di una globalizzazione sotto il
segno del capitalismo.
Di fronte a tali posizioni, le autrici si chiedono come possa essere
scambiato per rispetto di una cultura
l’accettazione di quello che ha rappresentato di fatto lo strumento di
subordinazione e continua per la
stragrande maggioranza dei casi ad
esserlo. Dice Monica Lanfranco: “Il
multiculturalismo autorizza che,
poco più in là, non contino per le
altre i diritti di scelta che hai conquistato sul tuo territorio sociale e culturale? Il rispetto per le “differenze”
è incondizionato sempre e comunque, tanto da imporre l’assenza di
critica?”
Da qui nasce l’idea di questo
libro che rappresenta un viaggio tra
chi vive in Paesi musulmani o nelle
comunità islamiche in Paesi stranieri
e che giornalmente continua a lottare per difendere i diritti delle donne,
sostenerle praticamente e si fa portavoce all’opinione pubblica mondiale
delle loro tristi condizioni
Esiste un femminismo religioso
all’interno dei paesi islamici che
indaga il Corano e gli Hadith, i detti
del Profeta, per trovare le prove della
falsità di quanto sostenuto dalle interpretazioni tradizionali sul ruolo della
donna nella religione musulmana.
Per queste donne, esegeti degli scritti
sacri, la verità risiede in queste due
parole: interpretazione e tradizione.
L’interpretazione dei testi è stata
per lo più opera di uomini; la lettura
delle parole del Profeta è avvenuta
nel senso, facile e ovvio, delle leggi e
delle tradizioni preislamiche, che
rimandano all’organizzazione di una
società di tipo patriarcale e autoritaria
nei confronti delle donne. In un solo
hadith, tra l’altro non giudicato attendibile dagli studiosi, c’è riferimento
alla prescrizione del velo per le
Donne dell'Associazione Smileagain
Per chi ne vuole sapere di più
SIRAD SALAD HASSAN, La donna mutilata, Firenze, Loggia de Lauri, 1996.
B. BHUTTO - G. H. BRUNDTLAND, Il pianeta a misura di donna, Manifestolibri, 1995.
ELISA GIUNCHI, La donna nell’Islam, I Dossier del CESPI, n. 3,1993.
FATIMA MERNISSI, La terrazza proibita. Vita nell’harem. Giunti, 1994.
FATIMA MERNISSI, Donne del profeta. La condizione femminile nell’Islam, ECIG, 1992.
BIANCAMARIA AMORETTI SCARCIA, Tolleranza e guerra santa nell’Islam, Sansoni, 1974.
GIORGIO VERCELLIN, Istituzioni del mondo musulmano, Einaudi, 1996.
GIORGIO VERCELLIN, Tra veli e turbanti, Rituali sociali e vita privata nei mondi
dell’Islam, Marsilio, 2000.
ALESSANDRO FERRARI, (a cura di), L’Islam in Europa. Lo statuto giuridico delle
comunità musulmane. II Mulino, 1996.
ERSILIA FRANCESCA, Introduzione alle regole alimentari islamiche, Istituto per
l’Oriente C.A. Nallino, 1995.
ALESSIO D’ANGELO, La presenza islamica in Europa: cicli migratori e impatto
sulla società, in “Affari sociali internazionali” n. 3 /2003.
EDWARD SAID, Orientalismo: l’immagine europea dell’Oriente, Feltrinelli, 2001.
Andare ancora al cuore delle ferite, Renate Siebert intervista Assia Djebar, La Tartaruga, 1997.
GIULIANA SGRENA, (a c. di), La schiavitù del velo: voci di donne contro l’integralismo islamico, Manifestolibri, 1999.
ASSIA DJEBAR, Bianco d’Algeria, II Saggiatore, 1998.
MARTA NUSSBAUM, Diventare persone: donne e universalità dei diritti, II Mulino, 2001.
AMARTYA SEN, Libertà individuale come impegno sociale, Laterza, 1998.
AMARTYA SEN, Le donne sparite e la diseguaglianza sociale, in “Genere”.
SIMONETTA PICCONE STELLA e CHIARA SARACENO, (a c. di). La costruzione
sociale del femminile, II Mulino, 1996.
MARIE-AIMÉE HÉLIE-L.UCAS, Strategie femminili nel mondo musulmano: la
risposta ai fondamentalismi, ibidem, pp. 281-314.
AYSE SARACGIL, Il maschio camaleonte: strutture patriarcali nell’Impero ottomano e nella Turchia moderna, Bruno Mondadori, 2001.
C. DJAVANN, Giù i veli, Lindau Edizioni, 2004.
IRSHAD MANJI, Quando abbiamo smesso di pensare?, Guanda Editore, 2004.
Network:
www.womensenews.org
www.whrnet.org WOMEN’S HUMAN RIGHTS NET
www.baobabwomen.org
www.wluml.org WOMEN LIVING UNDER MUSLIM LAW
www.arabcomedy.org NEW YORK ARAB AMERICAN COMEDY FESTIVAL
www.awsa.net ARAB WOMEN’S SOLIDARITY ASSOCIATION
www.irinnews.org PAKISTAN
www.womenforafghanwomen.org WOMEN FOR AFGHAN WOMEN
www.helpafghanwomen.com HELP AFGHAN WOMEN
www.wwhr.org WOMEN HUMAN RIGHTS
www.parsa-afghanistan.org PARSA AFGHANISTAN
www.peacecouncil.org. CONSIGLIO DI PACE
www.tramaditerre.org. TRAMA Di TERRE
SHADI SADR: www.womeniniran.org
SHAZIA MIRZA: www.shaziamirza.org
MAYSOON ZAYID: www.maysoon.com
TISSA HAMI: www.tissahami.com
LUCINDA MARSHALL: www.feministpeacenetwork.org.
YANAR MOHAMMED: www.equalityiniraq.com.
NAWAL EL SAADAWI: www.nawalsaadawi.net
IRSHAD MANJI: www.muslim-refusenik.com
donne che lasci scoperto solo “volto
e mani”. Troppo poco quindi per giustificare un obbligo secolare e inderogabile. Numerosi invece sono i passi
del Corano dove si afferma che la
donna sia stata creata dopo l’uomo e
che essi rappresentano “le due unità
della coppia”, che “Allah ha dato
compagne della stessa natura”, che
tra loro debba esserci “pace e misericordia”, che “uomo o donna, ogni
musulmano deve studiare”. “…Oh,
gente, per quel che riguarda le vostre
donne, esse hanno un diritto su di voi
e voi avete un diritto su di loro”.
Un articolato movimento femminile islamico, diverso e frammentato
nei vari Paesi, opera già da molto
tempo e si è sempre confrontato con
la questione religiosa. Proprio utilizzando il discorso islamico come paradigma, rivendica diritti personali,
l’uguaglianza di genere, la giustizia
sociale e condanna la pratica della
violenza contro le donne.
Tutto ciò è, nel discorso costruito
dalle due autrici, una prova evidente
che il reale femminismo
presente nei paesi islamici sia molto più radicale
di
quello
occidentale (che sembra guardare con
un’ottica lontana e
fuorviante queste
realtà) e difenda con
forti argomentazioni
le donne, non confondendo affatto le loro
condizioni e i loro
diritti con le tradizioni, le usanze e la
religione.
A conferma di
ciò il libro dà spazio
a una serie di contributi da parte di
coloro che si impegnano contro una
visione maschilista della società.
Avvocati, direttrici o membri di
associazioni e istituzioni per la difesa dei diritti delle donne, africane,
pakistane, iraniane, irachene. Raccontano di Stati dove le donne hanno
una cittadinanza di serie B, perché lì
vige la legge islamica, denunciano
violenze e soprusi, abusi sessuali,
vendette consumate con acidi, prigioni dove sono rinchiuse bambine
di 12 anni che hanno rifiutato di
sposare un vecchio scelto dal padre,
e tanti altri casi. Sono voci diverse,
affrante, decise, sarcastiche, attonite.
Si moltiplicano gli appelli e i progetti a livello internazionale. La
dichiarazione di Chang-May in
Thailandia, realizzata durante l’incontro del Consiglio Internazionale
ed Interreligioso per la pace e dal
Centro per la salute e le Politiche
sociali nel marzo del 2004, afferma
la convinzione che le tradizioni religiose e le aspirazioni delle donne
non sono in opposizione. L’Associazione delle Donne che vivono sotto
le leggi islamiche (Wluml) ha lanciato nello scorso gennaio un appello, dove si legge che “Se è vero che
le nostre diversità devono essere
riconosciute e l’omogeneità non
imposta, non dovremmo mai dimenticare che la ‘differenza’ è stata
usata ed abusata dal nazismo, dall’apartheid, dalla schiavitù nel sud
degli Stati Uniti, dal fondamentalismo islamico, dalle ideologie contro
le donne…Non esiste qualcosa come
lo scontro di civiltà, come vorrebbero farci credere Bush e Bin Laden.
Lo scontro oggi è tra fascisti e antifascisti”.
I pericoli sono più vicini di quanto si pensi e questo libro lo mostra
senza alcun dubbio, citando situazioni anche poco note: l’escalation
dei delitti d’onore in Stati europei,
campioni di libertà sociale, Olanda,
Gran Bretagna, dove le comunità
musulmane sono numerose e dove i
casi di soprusi e omicidi vengono
lentamente fuori.
Ma ancora più preoccupanti sono
i segnali che gli Stati laici danno. In
Olanda si è dibattuto se i delitti d’onore dovessero essere giudicati dalla
legge dello Stato o dalla legge islamica, in nome del multiculturalismo.
In Canada è possibile da alcuni mesi
fare ricorso ad arbitrati che seguono
la Sharia su alcune questioni, a condizione che le condanne prevedano
pene corporali o quanto si scontra
con la Costituzione canadese. Ma, si
chiedono in molti, con questa sorta
di “tolleranza” non si rischia di
generare delle comunità chiuse e
impermeabili alle leggi del Paese
che li ospita, non si aiuta a costruire
prigioni per coloro che vorranno dissentire dai regolamenti del popolo di
appartenenza? Uno stato aperto,
laico e tollerante può permettere che
nel suo territorio esistano delle sacche dove i diritti universali non
siano riconosciuti?
Multiculturalismo o piuttosto la
paura di confrontarsi con una realtà
complessa, perché “diversa”? Riflettere sulla convivenza di varie etnie
su un medesimo territorio, futuro
prossimo di ogni parte del globo, sui
modi in cui essa può avvenire fino
ad arrivare all’osmosi e non all’annullamento, è un modo per ripensare
al cambiamento che si produce rapidamente nelle nostre evolute società;
ma lo è anche per riflettere su come
gli stati laici, aperti e tolleranti,
difendano le fasce più deboli delle
loro popolazioni, quelli che in ogni
cultura sono sconfitti e violati, i
poveri, i “diversi”, i bambini, gli
anziani e… le donne. Forse si scoprirebbe che ancora tanto c’è da fare
e che astenersi dal pensare, rinunciare a decidere, abdicare ad una libera
coscienza è una scelta che un giorno
tutti prima o poi potremmo pagare.
Oriana Schembari
Ricostruire un volto,
ricostruire una vita
F
akhra Younas, autrice del libro “Il volto
cancellato” (Mondadori, € 16,00), come
migliaia di donne in Pakistan, India e Bangladesh è sopravvissuta all’acido. Fakhra è, infatti, una
delle mille ragazze e bambine che maschi carnefici,
rifiutati e lasciati, o anche solo arrabbiati per gli scarsi
beni portati in dote, bruciano vive per vendetta. Fakhra
era bellissima. In Pakistan faceva la ballerina. Suo marito, il crudele e ricco Bilal, abbandonato perché violento,
le versa addosso un fiume di acido che le scioglie la
carne. “Il dolore era come avere un fuoco che infiamma
la pelle e il cervello insieme”. Ma Fakhra ce l’ha fatta,
per amore di suo figlio Nauman, e con l’aiuto di tante
persone, tra cui la grande scrittrice pakistana Themina
Durrani. In Italia, dopo vari interventi di chirurgia plastica, Fakhra è riuscita ad alzare la testa che era attaccata
al collo e ad aprire gli occhi e la bocca.
Solo nel 2002, oltre 900 donne in Pakistan sono state
sfregiate con l’acido solforico. La Onlus Italiana Smileagain è impegnata ad aiutarle a ricostruirsi un volto e
una vita. Mandando un sms al 48589 si può contribuire
a Smileagain con un euro.
Per informazioni tel. 06 5565129.
APPUNTAMENTI
4
IN
L ETTERE
M ERIDIANE
CALABRIA
Le voci del Paleariza
Dal 1 al 21 agosto ritorna
l’appuntamento all’insegna della
musica popolare. Da tutta Italia
i gruppi che portano avanti una
particolarissima ricerca alle radici
della musica delle proprie terre.
In un’affascinante viaggio tra antico
e moderno nei luoghi dell’area
grecanica della provincia reggina.
N. 2 / 3 - Luglio - Agosto - Settembre 2005
Magna Graecia.
Archeologia
di un sapere
Catanzaro, Complesso Monumentale di San Giovanni
19 giugno – 31 ottobre 2005
Direttore Artistico:
ETTORE CASTAGNA
Tutti i concerti inizieranno
alle 22.30
A
ttraverso un percorso tra materiali di straordinario valore storico-artistico e documentario, la mostra è un viaggio nella storia della civiltà
greca d’Occidente e nel passato prossimo della sua riscoperta dall’età
illuminista in poi: un viaggio che, partendo dalla cultura greca, permette di ricostruire le origini del sapere di oggi. “Magna Graecia. Archeologia di un sapere”
è un evento di richiamo nazionale e internazionale, supportato dal contributo di
tutte le Soprintendenze archeologiche dell’Italia meridionale. Il progetto, nato
sotto l’alto patronato della Presidenza della Repubblica, con il patrocinio del Ministero per i Beni e le Attività Culturali e del Ministero della Pubblica Istruzione, è
un’importante testimonianza della collaborazione stabilitasi tra l’Università di
Catanzaro, la Regione Calabria, la Direzione Regionale ai Beni Culturali, la
Soprintendenza Archeologica della Calabria e il Comune di Catanzaro.
1 Agosto - Bova
SAVINA YANNATOU
Stella di prima grandezza del firmamento musicale greco, Savina è fra le
più importanti interpreti world al
mondo. Un concerto che spazia dal
Mediterraneo ai Caraibi.
2 Agosto - Amendolea di Condofuri
MADDALENA SCAGNELLI
E ENERBIA
Dall’Appennino Ligure un gruppo sentimentale e sanguigno. Ci mostreranno
come il Nord certe volte è piuttosto a Sud.
3 Agosto - San Lorenzo
MIRANDA CORTEZ
E LA FRONTERA
Dalla musica spagnola a quella balcanica, la band propone un brillante crocevia di gusti e di timbri vissuti con
spirito nomade.
Teresa De Sio
10 Agosto - Pentedattilo
17 Agosto - Bova
Mitica, spumeggiante orchestra angloindiana che esegue le musiche da film
di BollyWood.
L’impatto live è stratosferico con un’energia impareggiabile. Fantastico per
sorridere e per ballare.
Raffinato etno d’autore dall’Abruzzo,
coloriture fra il popolare e il Jazz per la
bella voce di Diana Torto.
11 Agosto - Pietrapennata
YASEMIN SANNINO E TAO
ALCHEMIC SIMPHONY
BOLLYWOOD BRASS BAND
DIANA TORTO
E SCURA MAJE
18 Agosto - Bova Marina
SANTAGATI-VILLANIMORELLO
TRE SALENTINE TRE
Il concerto si svolgerà sulla spiaggia
del lungomare
Gruppo etno-trance con magie da DJ
che si intrecciano con la voce della
cantante turca Yasemin Sannino, che ha
partecipato tra l’altro a “Le fate ignoranti”).
6 Agosto - Roccaforte del Greco
È uno spettacolo che mette in risalto
l’uso delle voci nella tradizione musicale del Salento, dando importanza
soprattutto ai canti contadini polivocali.
19 Agosto - Sperlinga /
Brancaleone Vecchio
Dalla Lucania, musica tradizionale e
poesia. Un gruppo che si distingue per
l’impegno sociale e per la qualità del
discorso musicale.
14 Agosto - Prunella di Melito
7 Agosto - Bagaladi
Rai e musica d’autore dall’Algeria, una
sentimentale alchimia fra una sensibilità femminile e uno sguardo artistico
al maschile.
4 Agosto - Palizzi
MARIA SOTO Y
LA CARBONERIA FLAMENCA
Una vibrante serata di flamenco andaluso, un linguaggio musicale oramai universale nella sua travolgente bellezza.
ADELE CAPUTO
E TERRAGNORA
GABRIELLA GABRIELLI
E ZUF DE ZUR
Il racconto di piccole e grandi storie fra
partigiani e avventure di confine con il
mondo slavo: la Liberazione e la
Democrazia ma anche l’Incontro e il
Viaggio in un angolo d’Europa dove i
confini sono stati importanti e difficili.
8 Agosto - Staiti
FIM
Quintetto interamente femminile di
musica irlandese. Poesia ed energia dal
cosmo celtico.
9 Agosto - Bova
1561
Evento speciale del festival
La musica si mescola alla narrazione
della Strage dei Valdesi di Guardia Piemontese (Cosenza) ad opera degli spagnoli nel 1561. Protagonisti il gruppo
Occitano dei Gai Saber insieme ad
attori/voci recitanti. La realizzazione
del testo teatrale è stata effettuata in
collaborazione con la compagnia Il
Melarancio.
Trio di musica tradizionale calabrese
eseguita in modo limpido e melodioso.
12 Agosto - Roghudi
JAMILA E ABBES
BOUFROUIA
15 Agosto - Santa Maria
di Tridetti
CLAUDIA BOMBARDELLA
ENSEMBLE
Viaggio fra i paesaggi sonori del
mondo nel magnifico contesto della
Chiesa Bizantina di Tridetti, Claudia è
artista versatile, polistrumentista eclettica.
16 Agosto - Bova
Grecia d’Occidente
a cura di Valentino Santagati e Domenico Morello
19.30 Un incontro con la Tradizione.
Chiesa dello Spirito Santo
22.30 Grecanica
Un concerto con la partecipazione esclusiva di musicisti tradizionali. Lo storico
ed inossidabile cuore etnoacustico del
festival nella piazza della Chora.
24.00 Ballu di lu Camiddu
La scoppiettante, pirotecnica, affascinante danza del simbolico animale di
fuoco.
BARBARA BUCCI
E SONIDUMBRA
Raffinata ensemble acustica che propone un armonico viaggio nei paesaggi
sonori dell’Italia Centrale attingendo
con maestria al mondo popolare. Parte
del gruppo milita anche nei leggendari
Micrologus, gruppo battistrada nella
riproposta della musica medioevale in
Italia.
20 Agosto - Palizzi
TAMBURI DEL VESUVIO
Travolgente ensemble vulcanocentrica
fra il melodico e il percussivo. Fortissimo il tocco femminile, imperversa la
multiforme personalità del suo bandleader, il cantante, attore e musicista
Nando Citarella. Una vera e propria
eruzione!
21 Agosto - Bova
TERESA DE SIO
Voce e personalità artistica di tutto
rispetto dalla storica fucina musicale
napoletana. Teresa è artista ben nota
anche al grande pubblico. Le sue
produzioni più recenti confermano
un percorso artistico orientato appassionatamente a Sud, verso timbri e
modi che solcano il Mediterraneo.
INFO www.paleariza.it
Trono di Ludovisi
Più di 800 reperti esposti, tra i quali vasi, statuette in terracotta, rare sculture in
marmo, utensili, oreficeria, corredi funerari, iscrizioni, libri antichi, incisioni e
quadri provenienti dai principali musei archeologici dell’Italia meridionale e d’Europa, testimonieranno le tappe fondamentali nei ritrovamenti e negli studi che ci
hanno permesso di conoscere la civiltà della Magna Grecia, dal rinvenimento delle
tavole bronzee di Eraclea fino ad oggi. E proprio la ricostruzione della storia della
ricerca archeologica costituiscono il nuovo elemento metodologico dell’esposizione, che si sviluppa comunque secondo l’ordine cronologico delle sezioni. Per l’occasione torna per la prima volta in Calabria, dove forse è stato realizzato nel 470
a.C. circa, il meraviglioso Trono Ludovisi conservato a Roma a Palazzo Altemps.
Tra gli altri prestiti di grande fascino la grande e conturbante Testa marmorea di
Apollo Aleo, ritrovata a Cirò e oggi conservata nel museo di Reggio e il famoso
Kouros, appena restaurato ed esposto a Reggio, e, sempre dalla Calabria, la laminetta orfica di Hipponion, la moderna Vibo Valentia, materiali dal santuario di
Hera Lacinia a Crotone e dagli scavi di Caulonia. Dal Museo Archeologico Nazionale di Napoli provengono, tra l’altro, le tavole bronzee di Eraclea e il corredo dal
famoso Ipogeo del Vaso di Dario a Canosa. Dal Museo di Paestum, una metopa
dell’Heraion del Sele, grandi decorazioni in arenaria del fregio del tempio dedicato
a Hera; dal Museo Nazionale di Reggio Calabria cinque pinakes locresi dal santuario di Persefone alla Mannella, tavolette in terracotta, ex-voto poveri che venivano
appesi alle pareti del tempio e rappresentavano riti e cerimonie sacre con la dea
come protagonista. Inoltre, la Soprintendenza per i Beni Archeologici della Basilicata darà in prestito, oltre ai materiali micenei dallo scavo di Termitito, molti altri
reperti di epoca storica, anche inediti, come i corredi di tombe, di Baragiano, di
Policoro e di Alianello.
Giuseppe Giannetto
REGGIO TRA L’ELLADE E L’ETRURIA
Un ciclo di incontri sul patrimonio linguistico dell’area grecanica organizzato da Dimensione Sociale
L
a globalizzazione e la vorticosa accelerazione della storia,
propria dei nostri tempi, impone la necessità di difendere
vestigia importantissime del nostro passato. Chi, come il
nostro popolo, ha alle sue spalle una civiltà trimillenaria, ha il preciso
dovere di salvaguardare le sue radici, anche le più lontane; radici che
non consistono sempre e solo in opere d’arte, reperti archeologici o
rovine mirabili di antichi monumenti e costruzioni. La lingua, infatti,
costituisce il collegamento più intimo e diretto con le generazioni
precedenti; con la sua struttura, i suoi fonemi, le sue regole ed il suo
lessico, è la misura dei modo di essere di un popolo, dei suo modo di
vedere il mondo, delta sua psicologia. Essa è, ad un tempo, la causa
ed il mezzo della sua cultura che attraversa i secoli. Studiare la lingua
è conoscere l’anima di chi la parla, attraverso la storia. L’estinzione
di una lingua è perdita grave ed irreparabile per tutta l’umanità.
La nostra terra, la Calabria, nutre, al suo interno, realtà linguistiche importantissime, testimoni di storia e di civiltà, come quelle della
comunità dei Greci e degli Albanesi di Calabria, e ancora la piccola
comunità di Guardia Piemontese. Per quanto riguarda l’area del calabro-greco della Provincia di Reggio, molto è stato fatto, ma l’impegno per lo studio e la difesa di una minoranza linguistica non deve
avere soste, poiché sempre nuovi traguardi si pongono oltre a quelli
già conseguiti. Per mantenere l’attenzione su questa importante
realtà, Dimensione Sociale, in collaborazione con Esperti e con Associazioni che si occupano dello specifico settore, si propone di realizzare un ciclo di incontri pubblici il cui oggetto non sarà solo
strettamente linguistico, ma anche di carattere storico e culturale. Gli
incontri saranno tenuti, tra gli altri da prof. Franco Mosino e dal prof.
Carmelo Santonocito e si articoleranno nelle seguenti ripartizioni
1- L’area linguistica calabro - greca: realtà minacciata? Aspetti
della situazione dopo le previdenze legislative. Che cosa è necessario
fare per una corretta politica di difesa dei greco di Calabria: proposte
ed obbiettivi.
2- Aspetti linguistici: Greco antico, greco bizantino e calabro -
greco, evoluzione ed esiti fonetici, lessicali, grammaticali e sintattici.
3- Altre realtà linguistiche dell’antico meridione d’Italia: messapico, umbro ed etrusco.
4- Etruria e Magna Graecia: la lingua etrusca come lingua confinante. Il “problema” della lingua etrusca.
5- Aspetti storici dell’Italia meridionale preromana.
Con questa iniziativa, Dimensione Sociale si propone di coinvolgere non solo la ristretta cerchia degli amatori e degli operatori culturali, ma anche le Istituzioni ed il maggior numero possibile di
cittadini, stimolandone la curiosità intellettuale nell’ottica della difesa
di un inestimabile patrimonio comune. Per il ciclo degli incontri è
prevista la redazione di dispense illustrative della trattazione.
- La lingua etrusca e l’area egea: le tavole di Lemno Prof. Carmelo
Santonocito
Sala Pianeta Gaia via Sbarre Superiori dir. Marconi n. 37
Venerdì 30 settembre - ore 18 - Sala Pianeta Gaia
- Rapporti tra calabro - greco e neo greco: una possibilità per il Futuro - Dr. Salvatore Dieni. Vice presidente dell’ass. Jalò tu Vua
- Greco, calabro - greco, dialetto calabrese: etimologie, toponimi,
esiti - Prof. Franco Mosino
- Espansione greca nell’Italia antica: Siracusa, Cartagine ed Etrutia
Prof. Carmelo Santonocito
- Una testimonianza scritta: le Tavole di Pyrgi- Aspetti linguistici
Prof. Carmelo Santonocito
Venerdì 24 giugno - ore 18
- Presentazione dell’iniziativa: Dr. Marco Nicolò-segreteria politica
Dimensione Sociale.
- Panorama dell’attuale situazione linguistica dei calabro - greco: Dr.
Salvatore Dieni, Vice presidente dell’associazione Jalò tu Vua
- Greco classico, greco bizantino, calabro-greco: aspetti linguistici
generali: Prof. Franco Mosino
- Cenni di storia dell’talia Meridionale preromana: rapporti tra colonizzazione greca e popoli italici - Prof. Carmelo Santonocito
- La lingua etrusca come lingua “confinante”: stimoli e problemi
Prof. Carmelo Santonocito
Venerdì 16 settembre - ore 18 - Sala Pianeta Gaia
- Difesa della lingua calabro - greca: aspetti giuridico legislativi
Dr. Bruno Traclò, Presidente dell’associazione Jalò tu Vua
- Aspetti di evoluzione linguistica: dal greco classico al greco bizantino - Prof. Franco Mosino
- La Magna Graecia tra Punici e Rasna - Prof. Carmelo Santonocito
Venerdì 23 settembre - ore 18 - Sala Pianeta Gaia
- Il calabro - greco oggi: lingua parlata nell’area: problemi e proposte
Dr. Tito Squillaci - associazione Jalò tu Vua
- Calabria Bizantina: cultura e spiritualità Prof. Domenico Minuto
- Aspetti della realtà dell’Italia Meridionale attorno all’ottavo secolo
prima di Cristo: l’inizio della civiltà etrusca, gli Osco-Umbri, i Messapi – Prof. Carmelo Santonocito
- Le tavole eugubine come esempio di lingua umbra: rapporti con le
Iscrizioni etrusche - Prof. Carmelo Santonocito
Venerdì 7 ottobre - ore 18 - Sala Pianeta Gaia
- La terra di Bova: una speranza per il futuro - Dr. Bruno Traclò, Presidente dell’associazione JaIò tu Vua
- Dal greco bizantino al calabro greco- Prof. Franco Mosino
- Messaggi da un tempo lontano: l’importanza della lingua – La
Mummia di Zagabria - Prof. Carmelo Santonocito
- Dal Mediterraneo e dalla sua storia una identità da non dilapidare Prof. Carmelo Santonocito
Dimensione Sociale
Dipariento Esteri e Cultura (prof. Carmelo Santonocito)
N. 2 / 3 - Luglio - Agosto - Settembre 2005
L ETTERE
M ERIDIANE
Incontri mediterranei
dal 14 maggio al 15 novembre 2005
APPUNTAMENTI
Castello Ruffo - Scilla
Reggio Calabria
Domenica 10 Luglio
Compagnia Lavia
La Bisbetica Domata
di William Shakespeare
con Tullio Solenghi
regia Matteo Marasco
Prima Nazionale
E’
un progetto di indagine sulle correnti
profonde delle arti
visive nei paesi mediterranei. Concepito come un percorso triennale, si
sviluppa attraverso tre rassegne successive di periodicità circa annuale e
una serie di eventi collaterali dedicati
ad altre forme artistiche, cinema,
musica e letteratura, oltre a convegni,
eventi e manifestazioni rivolte specificamente al territorio.
Incontri Mediterranei prevede una
ricognizione lungo tutto il perimetro
di questo confine mobile e tuttavia
persistente, spazio inquieto percorso
in tempi recenti da un mosaico di conflittualità e di guerre che tuttavia non
riescono a distruggere definitivamente
e rendere impraticabile la “cosa comune”, il continuum della storia e della
memoria che riaffiora sempre, al di là
della disomogeneità dei diversi presenti che le singole aree vivono. L’arte
contemporanea con la sua mobilità
veloce e versatile, si dimostra essere il
territorio più adatto per mettere a confronto la condizione al singolare di
ogni individuo e l’appartenenza a una
dimensione olistica comune.
La curatrice della mostra è Martina Corgnati, torinese, docente presso
l’Accademia di Belle arti di Catania e
critico d’arte.
L
a mostra è suddivisa in tre
tappe principali: Sud-Est l’Europa delle nuove
frontiere - Rotte Occidentali. Ogni
tappa, che coincide con un evento
espositivo, è dedicata specificamente
alle ricerche artistiche contemporanee
sviluppate in tre aree distinte del
Mediterraneo.
La prima, “Sud-Est”, prende in
considerazione la zona dal Maghreb al
Libano, promuovendo un confronto
fra artisti provenienti da quelle aree
geografiche e alcuni artisti italiani,
particolarmente sensibili a tematiche
“mediterranee” quali l’identità, l’appartenenza culturale, la memoria, la
Giovedì 14 Luglio
Anfitrione …. in Sicilia
da Plauto
con Enrico Guarneri
regia Federico Magnano San Lio
Venerdì 22 Luglio
il Castello di Scilla
tradizione e la perdita delle stesse, cui
la contemporaneità globalizzata sta
andando velocemente incontro.
Costo ingresso
Capo Peloro - Messina
Singolo 7,00 euro
Ridotto gruppi (min. 20 persone) 5,00
euro
Ridotto scuole 4,00 euro
Gratuito bambini minori 8 anni
Il martedì per tutti ingresso 4,00
euro
*E’ possibile, previa prenotazione,
effettuare la visita guidata al PHO. Il
costo della guida è di 45,00 euro (max
20 persone)
Costo ingresso - Castello di
Scilla- Reggio Calabria
Singolo 7,00 euro
Ridotto gruppi (min. 20 persone) 5,00
euro
Ridotto scuole 4,00 euro
Gratuito bambini minori 8 anni
Il martedì per tutti ingresso 4,00
euro
Parco Horcynus Orca
(Capo Peloro e Castello di Scilla)
Unico 10,00 euro
Capo Peloro e Castello di Scilla
con traversata in barcone
andata e ritorno
(Solo su prenotazione)
Gruppo (minimo 15 persone) 24,00
euro
Scuole 18,00 euro
Gratuito bambini minori 8 anni
Orari Apertura:
15 maggio/15 settembre
dal martedì alla domenica
mattina: 10-13
pomeriggio:16-20
16 settembre/15 novembre
dal martedì alla domenica
mattina: 10-13
pomeriggio:15-18
lunedì chiuso
Per info e prenotazioni:
Parco Horcynus Orca
Tel. 090-325236
www.horcynusorca.it
“Gli Italici del Mètauros”
R
I
risultati degli scavi archeologici eseguiti dalla Soprintendenza nel territorio corrispondente
agli attuali comuni di Palmi, Oppido,
Gioia Tauro abitati in età Ellenistica
da popolazioni Italiche sono presentati in questa mostra. L’esposizione si
propone di illustrare, attraverso i passati e recenti rinvenimenti, le testimonianze relative al popolo brettio
dei Tauriani che, tra la fine del IV ed
il I secolo avanti Cristo, abitò il comprensorio territoriale a sud del fiume
Petrace, l’antico Mètauros.
Orario: dalle 9.00 alle 19.30;
Lunedì chiuso.
Dal 29 aprile al 31 ottobre
Info: Tel. 0965 812255
“Le pratiche alimentari
nella Calabria antica.
Un percorso archeologico
tra quotidianità e ritualità”
Museo Nazionale della Magna
Grecia - Reggio Calabria
gio tra le mense domestiche, i rituali
del banchetto, i sacrifici cruenti e non
alle divinità pagane. Attraverso la
pratica quotidiana dell’alimentazione
una scoperta dei modi di vivere degli
antichi, delle usanze e tradizioni e di
qualche curiosità.
Museo Nazionale
di Locri Epizefiri
SS 106 Jonica, C.da Marasà
Tel. 0964 39003 - Locri
Dal 22 Maggio al 31 luglio
M
Orario: dalle 9.00 alle 19.30;
Lunedì chiuso.
Dal 28 Maggio al 31 Dicembre.
Info: www.archeologia.beniculturali.it - www.beniculturali.it
N
ell’ambito della rassegna
“Cibi e Sapori nell’Italia
antica” promossa dal Ministero per i
Beni Culturali questa esposizione
raccoglie reperti già presenti nelle
teche e nei depositi del Museo Nazionale di Reggio Calabria in un percorso che illustra l’universo alimentare
della Magna Grecia. Cibi, modi di
cottura, approvvigionamenti nell’antica Calabria in un affascinante viag-
iparte dal 20 al 27 Agosto
2005 la 25° edizione del
Roccella Jazz Festival dal
titolo “Le mille e una notte. Favole fantasie frottole follie” con la direzione artistica di Paolo Damiani. Numerosi gli ospiti
speciali di questa edizione, dalla cantante
israeliana Noa ai nostri Nicola Piovani,
Enrico Rava e Danilo Rea, molti dei
quali si esibiranno in produzioni originali, composte appositamente per il festival.
Teatro, danza, favola e musica uniti in
uno spettacolo originale e indimenticabile
sotto il cielo estivo della Calabria. Le
sedi saranno Reggio Calabria, Gerace,
Mammola, Marina di Gioiosa Jonica,
Martone e Roccella Jonica
20 AGOSTO
REGGIO CALABRIA
Arena dello Stretto ore 21,30
“Locri Frons Italiae”
ostra Archeologica sulla
Locride in Età Romana
“Arte antica e segni
contemporanei”
Parco Scolacium
Roccelletta (CZ)
Dal 19 giugno al 9 ottobre
I
nstallazioni monumentali di
tre protagonisti indiscussi
della scena internazionale: Tony
Cragg, Jan Fabre e Mimmo Paladino.
Allestite nei suggestivi scorci del
Foro, del Teatro romano e della Basilica, riemersi dopo lunghe campagne
di scavo.
5
Ecuba
di Euripide
con Paola Gassman,
Sebastiano Tringali
regia Giovanni Anfuso
Giovedì 28 Luglio
La commedia
degli errori
di William Shakespeare
con Giuseppe e
Micol Pambieri
regia Giuseppe Pambieri
Lunedì 1 Agosto
Don Giovanni
di Molière
con Lando Buzzanca
regia Lando Buzzanca
Giovedì 4 Agosto
Mi soledad
con Joaquìn Cortès
Evento Internazionale
Domenica 7 Agosto
Patrizia - un giovane amore
nel vortice della droga
Musical
Libretto di Arnoldo Foà
Musiche di Fabio Concato
regia Roberto Innocente
Mercoledì 10 agosto
Evento straordinario
Stelle internazionali sotto la luna
Primo evento
Serata d’onore
con Giuseppe Filianoti
Secondo evento
Carillon - il volo del tempo
con Kitonb Extreme Theatre
Company
Prima Nazionale
Martedì 16 Agosto
Tutto per Eva, solo per Eva
di Bruno Tabacchini e Biagio Izzo
con Biagio Izzo
regia Claudio e Pino Insegno
Venerdì 19 Agosto
Compagnia della Rancia
Pinocchio
Musical
di Saverio Marconi
musiche dei POOH
con Manuel Frattini
regia Saverio Marconi
Mercoledì 23 Agosto
Footloose
Musical
con i ragazzi di “AMICI”
regia Patrick Rossi Gastaldi
Christopher Malcolm
Gli spettacoli avranno
inizio alle ore 21.15.
Non sarà consentito l’ingresso
a spettacolo iniziato.
La Direzione si riserva di apportare
eventuali modifiche al programma.
Lo spettatore è tenuto a prendere
visione e rispettare tutte le norme
del regolamento interno del Festival
Catonateatro.
Informazioni:
Coop. Polis-Cultura, Via Marina
Arena Catonateatro - 89053 Catona - Reggio Calabria
Tel./Fax 0965/301092-304054
[email protected]
www.catonateatro.it
Prenotazione:
presso il botteghino del teatro
Arena “A. Neri”
Via Marina Catona
Reggio Calabria
Orario Botteghino
ore: 9.30-13.00 / 16.00-21.00
Rumori mediterranei
Roccella Jazz 2005
Altre Mostre archeologiche
Museo Nazionale
della Magna Grecia
Piazza De Nava, 26
Reggio Calabria
Tel. 0965 812255 - 0965 812256
Infowww.museodellacalabria.com
CALABRIA
La rassegna estiva
di Catona Teatro
L
a rassegna Catona Teatro
è giunta alla sua 17° edizione e presenta anche
quest’anno un ricco programma di
spettacoli che si svolgeranno tra
luglio ed agosto all’Arena “Alberto
Neri” di Catona - Reggio Calabria.
Parco Horcynus Orca
Capo Peloro - Messina
IN
VITTORIO MEZZA pianoforte
ALESSIO SEBASTIO pianoforte
Prima nazionale ore 22,00
WAYNE SHORTER QUARTET
21 AGOSTO
GERACE
ore 21,00
DANZA DI UNA NINFA
Un progetto inedito su Luigi Tenco
di ADA MONTELLANICO
e ENRICO PIERANUNZI
21 AGOSTO
MAMMOLA ore 21,00
DANILO MONTENEGRO
SESTETTO
Produzione originale
22 AGOSTO
MARINA DI GIOIOSA
JONICA ore 21,00
PIETRO TONOLO TRIO
23 AGOSTO
MARTONE ore 21,00
STEFANO BOLLANI QUINTET
24 Agosto
ROCCELLA JONICA
Auditorium Comunale
ore 18.00
26 AGOSTO
ROCCELLA JONICA
Teatro Musica
Auditorium Comunale
Cinema Musica
ore 18.00
CIPRI’ & MARESCO
regia
ENRICO RAVA tromba
SALVATORE BONAFEDE pianoforte
Teatro al Castello ore 21,00
Produzione originale
“PER ROCCELLA”
musiche di Germano Mazzocchetti
EGEA ORCHESTRA
Teatro al Castello ore 22.30
Produzione originale
NOA ACUSTIC BAND
& SOLIS STRING QUARTET
Special Guest
NICOLA PIOVANI pianoforte
25 Agosto
ROCCELLA JONICA
Auditorium Comunale
ore 18.00
Favola Musica
PIERINO E IL LUPO
da Prokofiev
IVANO MARESCOTTI voce recitante
STEFANO BOLLANI pianoforte
Teatro al Castello ore 21.00
Produzione originale
TRIBUTE TO KENNY WHEELER
Special guest: Kenny Wheeler tromba e flicorno
Teatro al Castello ore 22.00
JOHN GREAVES PROJECT
“RoXsongs”
Omaggio a Lisi Natoli
IL CANTO DELL’ALFIERE
CRISTOPH RILKE
tratto da un racconto di Rilke, traduzione e adattamento di Lisi Natoli
Teatro al Castello ore 21.00
DANILO REA pianoforte
ENZO PIETROPAOLI contrabbasso
a seguire
ENRICO PIERANUNZI pianoforte
LOUIS SCLAVIS clarinetti
Teatro al castello ore 22.00
LE MILLE E UNA NOTTE
SHÉHÉRAZADE
Con Arnoldo Foa e Lella Costa
27 Agosto
ROCCELLA JONICA
Auditorium Comunale
ore 18.00
Danza Musica
LOUIS SCLAVIS clarinetti
VIRGILIO SIENI danza
Teatro al Castello ore 21.00
ROSSINTESTA
in viaggio con
PAOLO ROSSI e GIANMARIA TESTA
Teatro al Castello ore 22.00
MICHAEL NYMAN BAND
Il programma potrà subire variazioni
Info: www.roccellajazz.it
e-mail: [email protected]
Tel. 06 3222896 - 0964 863399
6
APPUNTAMENTI
IN
L ETTERE
M ERIDIANE
SICILIA
N. 2 / 3 - Luglio - Agosto - Settembre 2005
KALS’ART 2005, cultura e Etnafest, alle pendici
spettacolo nel quartiere arabo
del vulcano…
C
oncerti nelle piazze, teatro, cinema. Il quartiere arabo della Kalsa tra luglio, agosto e settembre sarà il luogo più
animato di Palermo; visite guidate nelle chiese e nei musei aperti di sera; un parco d’arte con installazioni e luminarie d’autore lungo strade e vicoli; botteghe artigiane e gastronomiche allestite in appositi stand. Nella grande isola
pedonale in una cornice estremamente suggestiva ritorna dal 1° luglio al 15 settembre la seconda edizione di Kals’art, la manifestazione promossa dal Comune, diretta da Davide Rampello. Teatro nell’atrio di Palazzo Bonagia, cinema allo Spasimo, la
musica a Piazza Kalsa e a piazza Magione, tutto il quartiere fino al Foro Italico nella via marina sarà coinvolto in una kermesse
estiva indimenticabile.
Musica - Cinque le sezioni in cui è stato diviso il cartellone, che prenderà il via il 1° luglio. “Maree” vedrà alcune tra le
realtà più celebri sulla scena internazionale: dai Madredeus ai francesi della Nouvelle Vogue;e poi, una carrellata di straordinarie voci femminili: da Rokia Traorè, considerata la più brava cantante africana dell’ultima generazione, a Erica Stuky, da Franca Masu a Sandra Luna, da Cristina Donà a Maria Pia De Vito, da Mafalda Arnoux a Victoria Tolstoj. Nella sezione “Riflessi”
un insolito confronto fra artisti e strumentisti a volte di tradizioni diverse e a volte coinvolti in associazioni spericolate, fra
musica etnica, minimalista e jazz; qualche coppia: Gebbia-Regèf, Guerzoni-Mirandola, Sciaino-Curran e i duo tutti palermitani
Leopizzi-Gullo, Giannetto-Politi, Pasquini-Sulis e Bonafede-D’Anna. In “Mare aperto” solo rock: quello dei Modena City
Ramblers, dei Devendra Banard, dei Mamabassa, degli Agricantus, dei Delano e dei Jentle. Tante altre le proposte, fra cui
“Musica alle parole”, dove protagonista sarà il rapporto, appunto, fra musica e parole, con concerti inframmezzati da letture.
Teatro dal 1° al 31 agosto a
Palazzo Bonagia - Al centro del cartellone, l’idea di teatralizzare la grande narrativa: nel senso di proporre
celebri romanzi fra ‘800 e primi ‘900,
opportunamente riadattati. Nella rassegna “Teatro narrato” troveremo 14
spettacoli in programma, “Le affinità
elettive” di Goethe con Edoardo Siravo, “Alice nel paese delle meraviglie”
di Lewis Carroll con Milena Vukotic,
“Lo strano caso del Dottor Jekyll e
Mr. Hyde” di Stevenson con Franco
Castellano, “Forte come la morte” di
Maupassant con Flavio Bucci, “Il
ritratto di Dorian Gray” di Oscar
Wilde con Giancarlo Zanetti; ma ci
saranno anche alcune novelle di Verga
e “Le metamorfosi” di Kafka con i
nostri Franco Scaldati e Roberto Burgio. E si chiuderà con un “omaggio” a
Gianrico Tedeschi, autore e protagonista di un suo recital.
Teatro ai Giardini della Zisa dal
25 al 31 luglio- sette serate “a sorprePalermo - Palazzo Bonagia
sa”, di luci, parole, musica e danza, su
“Le mille e una notte”; e alcuni spettacoli della sperimentazione più sensibile, per le regie di Geroger Lavaudant, Emma Dante, Claudio Collovà, Franco Scaldati ed
Enzo Moscato.
Cinema dal 12 agosto Complesso monumentale dello Spasimo - Il film noir sarà la punta di diamante della rassegna
cinematografica, curata da Mario Bellone e Franco Marineo, con sei “classici” hollywoodiani appositamente restaurati. Una
sezione speciale sarà, poi, dedicata ai rapporti tra cinema e letteratura, coinvolgendo alcuni tra i migliori “giallisti” italiani. Ed
un’altra sarà dedicata alla cinematografia dell’Estremo Oriente. Previsti, poi, una serie di documentari centrati sulla realtà politica contemporanea e sul cinema italiano cosiddetto “minore”; in alcuni casi, saranno “prime” per Palermo. Porte aperte la sera
per i tesori di palazzo Abatellis e del Museo di palazzo Mirto, delle chiese della Catena e della Magione, di San Giovanni dei
Napoletani, della Gancia e della Pietà, degli oratori di San Lorenzo e dei Bianchi. E ancora, palazzo Chiaramonte, il Museo
internazionale delle Marionette e il Gymnasium dell’Orto Botanico.
Per informazioni: www.kalsart.it
Gli eventi delle Officine Il Festino, il volto mistico
e popolare di Palermo
dell’Arte di Palermo
U
na maratona all’insegna della cultura, attraverso la realizzazione di mostre, workshop, proiezioni, laboratori, teatro
e convegni, allo scopo di ampliare il numero dei fruitori
d’arte contemporanea, rilanciando il ruolo dei Cantieri culturali alla
Zisa come motore di cultura e di sperimentazioni. Tutto questo è “Le
Officine dell’arte”, progetto realizzato dall’assessorato alla Cultura
del Comune in collaborazione con l’Accademia di Belle Arti, che si
protrarrà fino al 16 dicembre
Alcuni eventi hanno già avuto luogo alla Zisa a partire da febbraio
di quest’anno: Prima parete, confronto/esposizione fra studenti delle
Accademie di Belle Arti di Palermo e Catania; Cine…teca, in cui il
critico Philippe-Alain Michaud (conservatore responsabile della collezione di film al Centre Pompidou) ha presentato una sezione sulle
Avanguardie storiche e sull’underground americano, tratta dalle collezioni cinematografiche del Centre parigino, mentre da sabato 2 aprile
al 30 giugno lo spazio Tre Navate è stato dedicato alla festa di Santa
Rosalia, patrona di Palermo; Reinvenzione del Festino, scenografie e
metamorfosi: gli studenti dell’Accademia di Belle Arti di Palermo
daranno vita a una libera interpretazione dei manufatti e delle macchine sceniche dei Festini passati. Le vecchie scenografie sono state
riprodotte, smontate, rielaborate e riutilizzate in originali allestimenti,
dando vita ad una sorta di archivio in progress dell’immaginario collettivo di un’intera comunità.
Venerdì 25 marzo, nello spazio Grande Vasca, ha preso il via Il
luogo del dubbio che, fino al 16
dicembre, vedrà i giovani artisti dell’Accademia dare vita a opere en plein
air a tema libero nello spazio della
Grande Vasca che diverrà, perciò,
luogo di riflessione e indagine sui linguaggi dell’arte contemporanea.
Nella Galleria Bianca è già iniziato
anche il progetto Nomadismi, il set
dell’arte che dal 14 marzo si protrarrà
anch’esso fino al 16 dicembre: saranno organizzati laboratori con gli studenti dell’Accademia delle Belle Arti
e selezionati vari progetti (di scultura,
scenografia, pittura, installazione,
video e fotografia) formulati dagli
stessi studenti, che avranno come tema
il “nomadismo”, inteso come fondamento culturale della ricerca artistica
contemporanea. Si svolgeranno workshop, durante i quali si darà vita a
scambi fra artisti di Paesi diversi. Ogni
due mesi gli elaborati verranno esposti
al pubblico.
Dal 14 ottobre al 14 novembre,
nello spazio Grande Vasca e nello
Spazio Tre Navate, sarà allestito Passport #2: Emergenze dall’Accademia
delle Belle Art, una ricognizione sulla
ricerca artistica giovanile, fra produzione e sperimentazione di nuovi linguaggi. Dal 4 novembre al 16
dicembre, nello spazio Tre Navate, Il
teatro e i suoi doppi, un laboratorio
sulla drammaturgia siciliana, attraver- Palermo - Spasimo
so pratiche della scrittura scenica.
T
ra fede, leggenda e storia ritorna a
Palermo il festino di Santa Rosalia,
patrona della città, che sarà rappresentato il 14 e 15 luglio per la 381esima volta.
Lo spettacolo che Patrick Brydone definì nel
1773 “il più bello d’ Europa” quest’ anno sarà
ancora una volta all’insegna della tradizione con
le coreografie firmate dall’americano Daniel
Ezralow. Quattro grandi attori faranno rivivere
la storia della città salvata dalla peste dal miracolo di Santa Rosalia nel 1624. Remo Girone,
Jean Sorel, Roberto Herlitzka e Marco Foschi
nei panni rispettivamente del Viceré Emanuele
Filiberto di Savoia, del Cardinale Giannettino
Doria, del Narratore Don Marco Gezio e del pittore fiammingo Anton Van Dyck. La storia inizia
con l’arrivo dell’artista olandese, giunto per
ritrarre il Viceré che morirà colpito dal contagio
che sta devastando Palermo. A prendere il suo
posto alla guida della città il Cardinale, fino
all’intervento miracoloso della Santa, le cui reliquie erano state da poco ritrovate presso il
Monte Pellegrino. La figura del narratore, introdotta quest’anno, sarà quella di Marco Gezio,
cappellano della cattedrale
e collaboratore di Doria,
appassionato d’arte e estimatore di Van Dyck.
La città della gioia
(quella trovata dal pittore)
e la città del dolore (dilaniata dalla peste) rappresenteranno i due quadri
principali che si svolgeranno nel piano del Palazzo
Reale e della Cattedrale.
Le musiche sono di Mario
Sbroglia. Motivi colti e
popolareschi, echi arabeggianti e secenteschi saranno eseguiti da 15 cantanti
in scena che si esibiranno
insieme ai danzatori. Il
carro proseguirà fino ai
Quattro Canti, dove il Sindaco offre la corona di
fiori alla Santa, e alla
Marina, davanti a Palazzo
de Seta, sotto un gazebo di
luci, dove resterà fino a
settembre, in continuità
con le manifestazioni culturali di Kals’art. Subito
dopo lo spettacolo di fuochi di artificio al Foro Italico conclude il Festino
con il tradizionale Palio di
arti pirotecniche.
E
tnafest è
una rassegna di
arte, musica, cinema
che si svolge tutto
l’anno nella zona di
Catania.
Iniziati nella primavera 2005 gli
spettacoli continuano
senza sosta per tutta
l’estate con la collaborazione del comune e della provincia
di Catania e della
Regione Sicilia e grazie anche al Centro
Culturale Le Ciminiere.
L’edizione 2005 è
di nuovo affidata per
la direzione artistica
a Gianni Morelenbaum Gualberto, per
la sezione musicale,
e al poeta Angelo
Scandurra per la
sezione culturale.
Ecco alcuni degli
appuntamenti:
22 LUGLIO 2005
GILBERTO
GIL
“ELETRACUSTICO”
Anfiteatro
di Zafferana Etnea
Posto unico € 10.00
Gilberto Gil è uno
fra i massimi e più
acclamati esponenti
della musica brasiliana, oltre ad essere
Ministro per la Cultura brasiliano.
28 LUGLIO 2005 - “THE POSIES”
Anfiteatro Le Ciminiere
Posto unico € 5.00 - Fuori rassegna
C
on la partecipazione di Ken Stringfellow, chitarrista dei R.E.M, in
occasione del 5° Tributo a Francesco Virlinzi.
LO SCIROCCO E L’ETNA
Voci e Forme a Catania nel ‘900
16 LUGLIO – 18 SETTEMBRE / Centro Culturale Le Ciminiere
orari: 10.00 - 13.00 / 17.00 - 22.00
chiuso lunedì - ingresso libero
S
i tratta di una vasta mostra di opere di pittori, scultori e letterati della
Catania del dopoguerra. Il tentativo è quello di stigmatizzare un periodo storico ricco di avvenimenti e di personaggi che hanno fatto di Catania un
luogo di importanti eventi artistici. Per la prima volta si vuole “leggere” fra le
pagine culturali rimaste per troppo tempo in oblio. Catania ha rappresentato e
rappresenta sicuramente una delle più ardenti fucine del pensiero artistico. Si
parla di “scuole” di varie città italiane, ma finora nessuno ha voluto raccogliere il vasto e interessante patrimonio legato alla “scuola” catanese. Questa iniziativa vuole essere un punto di partenza per cominciare a scrivere e ad
annoverare il fermento che ha sempre contraddistinto le menti artistiche e
non, di questa ammaliante e gesticolante città.
O MONDO, QUESTO SEI TU!
Antologia di spoon River
16 LUGLIO / Anfiteatro Le Ciminiere
Ore 21.15 - ingresso libero
C
on l’intervento di grandi interpreti e con relativo intervento musicale,
saranno lette le pagine più toccanti dell’antologia di Lee Masters che
ricreano attraverso le epigrafi scritte sulle tombe la storia di una città. La solitudine, la corruzione e la disperazione di coloro che appaiono vincitori nella
nostra epoca vengono additate dalle storie dei semplici che ci richiamano al
nostro amaro destino di poveri mortali. La manifestazione sarà realizzata dal
Gruppo Teatro dell’Undici di Catania con la regia di Antonio Reina.
COME NEL MARE L’ONDA
Costanza d’Aragona la regina dei Vespri
30 LUGLIO / Anfiteatro Le Ciminiere
Ore 21.15 - ingresso libero
N
ella figura e nella vita della Regina di Sicilia Costanza d’Aragona è
compendiato un intero periodo storico segnato dalla dominazione
angioina e poi aragonese nell’Isola e culminante nel marzo 1282 nella rivolta
dei Vespri siciliani contro gli odiatissini francesi, evento carico di segni simbolici e significati mitici sia dal punto di vista storico-politico sia da quello
artistico-letterario. Su un tessuto intriso di autobiografia il personaggio di
Costanza, nel ricucire fatti e misteri che la videro protagonista o testimone,
potrebbe aprire delle “finestre” verso i documenti letterari dell’epoca (quasi
mezzo secolo, a partire dalla morte di Federico). Gli episodi così ricostruiti
saranno introdotti da canti e ballate dell’epoca. La manifestazione, con protagonisti grandi interpreti, sarà realizzata dal Piccolo Teatro di Catania con la
regia di Gianni Salvo.
TI PORTERO’ DAI MONTI FIORI ALLEGRI
Poesie d’amore di tutti i tempi
24 SETTEMBRE / Anfiteatro Le Ciminiere
C
on l’intervento di grandi interpreti saranno lette le pagine più toccanti
delle poesie d’amore di tutti i tempi con appropriato accompagnamento musicale. La manifestazione sarà realizzata dal Teatro del Molo 2 di
Catania con la regia di Gioacchino Palumbo.
Info: www.etnafest.it
L ETTERE
M ERIDIANE
N. 2 / 3 - Luglio - Agosto - Settembre 2005
7
Salvatore Quasimodo, il poeta
e la sua terra impareggiabile
I luoghi che ispirarono il celebre premio Nobel divenuti Parco Letterario
S
alvatore Quasimodo è autore-simbolo di una
poesia del “distacco”, una poesia volta alla ricerca di un’originaria innocenza. La parola del
poeta si sottrae alla storia e alla società, per collocarsi in
una dimensione assoluta, la stessa descrizione esclude, pertanto, riferimenti puntuali alle cose, prevale, infatti, la tendenza all’astrazione e alla mitizzazione, secondo
l’insegnamento ermetico. Con un’arte che ricorda quella
dei poeti greci della sua Sicilia, Quasimodo, dissolve il
discorso poetico, al fine di isolare la parola nel suo più alto
tono, l’immagine nella sua purezza illuminatrice, dandoci il
senso della sua faticosa solitudine, della sua ansia di un
paradiso perduto e oscuramente ricordato. Nel periodo
“postermetico”, pur continuando a adoperare modi espressivi densi e analogici, giunge ad esprimere una volontà
“sociale”, vicina nello spirito se non nelle forme alle aspirazioni del “neorealismo”.
“La vita non è sogno” è una breve raccolta di nove liriche, dove ai temi posti dalla guerra ne succedono altri posti
dal dopoguerra, soprattutto quelli sociali. Nella lirica
Lamento per il Sud, Quasimodo, ormai stabilitosi nell’Italia
settentrionale, ripensa al suo Sud lontano, in anni nei quali
l’antica “questione meridionale” si riproponeva con urgenza dando luogo a movimenti politici e a scritti di sociologia, di economia, di letteratura. Lo ripensa con la sua
miseria e il suo fascino, e intanto lo mitizza e lo piange con
un sentimento, fatto d’amore, dolore e rabbia.
Federica Legato
NOTE BIOGRAFICHE
S
alvatore Quasimodo nasce a Modica (Ragusa), in Sicilia, il 20 agosto 1901. Nel 1908 si trasferisce con il padre, ferroviere, a Messina, distrutta dal terremoto. Segue gli studi tecnici a Palermo e nel 1919 va a Roma per studiare ingegneria.
Ma deve lavorare per vivere: impiegato al Genio civile, è trasferito a Reggio Calabria. Nel 1929 va a vivere a Firenze, su
invito di amici legati all’ambiente della rivista “Solaria”, sulla
quale nel 1930 pubblica le prime poesie. Nello stesso anno esordisce con la raccolta Acque e terre.
Nel 1932 esce l’Oboe sommerso. Ma il lavoro lo costringe a
vari spostamenti, finché si stabilisce a Milano, dove riesce a trovare un’attività stabile come giornalista. Nel
1942 esce Ed è subito sera, che raccoglie tutta
la produzione precedente. E intanto lavora a
numerose traduzioni dei classici latini e greci,
oltre che di Shakespeare e di pochi moderni.
Pubblica altre raccolte di versi: Giorno dopo
giorno (1947), La vita non è sogno (1949), Il
falso e vero verde (1956), La terra impareggiabile (1958), Dare e avere (1966).
Dal 1941 insegna letteratura italiana al Conservatorio musicale milanese, senza abbandonare mai l’attività giornalistica e partecipando
attivamente al dibattito letterario e politico.
Legato prima al clima della letteratura ermetica
degli anni Trenta e poi a quello dell’impegno
neorealistico tra 1943 e il 1956, Quasimodo
resta nella sostanza sempre fedele ad una concezione della poesia come momento di sintesi
delle contraddizioni (personali e storiche) e
come punto di vista superiore e privilegiato.
Nel 1959 gli viene assegnato il premio Nobel
per la letteratura. Muore improvvisamente a
Napoli il 14 giugno 1968.
Lamento per il Sud
La luna rossa, il vento, il tuo colore
di donna del Nord, la distesa di neve…
Il mio cuore è ormai su queste praterie,
in queste acque annuvolate dalle nebbie.
Ho dimenticato il mare, la grave
conchiglia soffiata dai pastori siciliani,
le cantilene dei carri lungo le strade
dove il carrubo trema nel fumo delle stoppie,
ho dimenticato il passo degli aironi e delle gru
nell’aria dei verdi altipiani
per le terre e i fiumi della Lombardia.
Ma l’uomo grida dovunque la sorte d’una patria.
Più nessuno mi porterà nel Sud.
Oh, il Sud è stanco di trascinare morti
in riva alle paludi di malaria,
è stanco di solitudine, stanco di catene,
è stanco nella sua bocca
delle bestemmie di tutte le razze
che hanno urlato morte con l’eco dei suoi pozzi,
che hanno bevuto il sangue del suo cuore.
Per questo i suoi fanciulli tornano suoi monti,
costringono i cavalli sotto coltri di stelle,
mangiano fiori d’acacia lungo le piste,
nuovamente rosse, ancora rosse, ancora rosse.
Più nessuno mi porterà nel Sud.
E questa sera carica d’inverno
è ancora nostra, e qui ripeto a te
il mio assurdo contrappunto
di dolcezze e di furori,
un lamento d’amore senza amore.
Il parco letterario tra Modica e
Roccalumera dedicato al poeta siciliano
I
La casa natale di Salvatore Quasimodo
l “Parco Letterario
Salvatore Quasimodo
- La terra impareggiabile” nasce dall’idea di Alessandro Quasimodo, unico erede
vivente di Salvatore, di riunire
in Sicilia coloro che hanno
contributo a divulgare le opere
quasimodiane nei luoghi di
ispirazione del celebre premio
Nobel: Francesco Giunta e
Maria Elena D’Angelo dell’associazione Cielozero di Palermo, i fratelli Carlo e Sergio
Mastroeni di Roccalumera dell’associazione Impegno Civile e
Walter Buscema ed Ernesto Ruta che con lo staff della cooperativa Etnos di Modica hanno avviato il primo nucleo della
casa museo Quasimodo a Modica. Questi soggetti sono ora a
vario titolo coinvolti nell’attuazione del progetto del Parco
Letterario.
Finalità dell’iniziativa è la valorizzazione dei luoghi dell’ispirazione poetica, facendo rivivere la poesia nei territori che
la hanno determinata: Modica (città natale del Poeta), Roccalumera (luogo di origine della famiglia Quasimodo) cui sono
collegati Messina, Tindari, le Eolie, Siracusa, l’Anapo con
Pantalica ed Agrigento.
Questi sono luoghi che conservano intatto il fascino delle
radici di Quasimodo, nella Sicilia che lui stesso definì “la
terra impareggiabile”.
La sua poesia così canta di quel mondo mitico in cui vibra il
segreto di una parentela misteriosa, affascinante, crudele e vivi-
ficante, tra l’uomo, i miti greci ed il fascino della terra di Sicilia. Entrare a contatto con quella poesia di Quasimodo significa
aprirci alla nostalgia di un modo sacrale di intendere la natura e
la nostra vita e di trovarne, insperate, le connessioni.
Il Parco Letterario ha due poli in cui sono presenti delle
strutture fisse, in particolare a Modica: della Casa Natale di
Quasimodo in via Posterla è stata ampliata la struttura del
nucleo iniziale aggiungendo altri elementi relativi alla vita di
Quasimodo; la Quasimodoteca sita sulla piazza principale della
città: un percorso scenograficamente articolato all’interno di
essa consente una virtuale immersione nella poesia. Nella Quasimodoteca è possibile reperire attraverso sistemi multimediali
tutte le opere di e su Quasimodo, servizio accessibile tramite
internet con il sito www.quasimodo.it. Nella città di Modica, i
quartieri del centro storico sono valorizzati con l’inserimento di
otto pannelli in ceramica portanti altrettante poesie di Quasimodo, cosicché i visitatori “fai da te” avranno possibilità di seguire
degli itinerari cittadini quasimodiani.
Vicino Taormina la Torre Saracena di Roccalumera che
ispirò Salvatore Quasimodo per la poesia “Vicino ad una
Torre Saracena”, costituisce l’elemento principale del Parco
nel paese jonico. È un antico manufatto che in epoca medievale fu utilizzato per la difesa delle coste dagli assalti dei pirati
saraceni. All’interno del suggestivo sito ricavato nella Torre è
allestita una esposizione permanente di guaches di Quasimodo,
e viene fatta rivivere la voce del poeta. Roccalumera è luogo di
un viaggio sentimentale che, prendendo le mosse dalla Torre
Saracena, si snoda per l’antico quartiere dei pescatori detto “u’
bagghiu” (in dialetto messinese indica la zona abitata dai pescatori) attraversando l’antica via Consolare Valeria costruita dai
Romani. I luoghi dell’infanzia di Quasimodo nella suggestione
ancora viva della realtà folkoristica, gastronomica e tradizionale
del luogo fra cui la pesca ancora oggi viene effettuata con
imbarcazioni e metodologie tradizionali potranno essere scoperti dal visitatore. Sarà occasione di ammirare il mare di Roccalumera dal colore blu denso che contrasta con il verde delle
colline folti di limoni profumati e si confonde con l’azzurro del
cielo e con lo sfondo della Calabria.
Gli enti proponenti sono stati le associazioni Cielozero di
Palermo, Impegno Civile di Messina, la cooperativa ETNOS
di Modica e la Provincia Regionale di Messina. I referenti
sono Giuseppe Walter Buscema (Modica) e Sergio Mastroeni
(Roccalumera), ente beneficiario è la cooperativa ETNOS di
Modica.
Infoline, direzione ed amministrazione:
Corso Umberto I, 242 MODICA - Tel. 0932 753864
Orari di apertura:
10,00-13,00 / 17,00-20,00 - chiusura domenica mattina
Centro di accoglienza di Modica
presso Casa Natale Quasimodo:
Via Posterla MODICA - Tel. 0932.753864
Centro di accoglienza di Roccalumera
presso Torre Saracena:
Via Umberto ROCCALUMERA - Tel. 0942.744719
e-mail: [email protected]
Internet: www.quasimodo.it
L ETTERE
M ERIDIANE
8
N. 2 / 3 - Luglio - Agosto - Settembre 2005
Corrado Alvaro, universalità e
cosmopolitismo delle civiltà mediterranee
Il grande scrittore calabrese alla scoperta della verità, delle cose, dell’uomo
A
ll’inizio
di
“Memoria e vita”,
Alvaro racconta
che suo padre voleva che il
suo primo figlio fosse poeta.
Forse per questo motivo,
cominciò in versi, con le
“Poesie grigioverdi” (19151917), ma di certo tutta la sua
opera in prosa è opera d’un
poeta e d’un poeta lirico. Un
autore che trae poesia da ciò
che è razionalmente intelligibile quanto da ciò che fa
parte del suo mondo interiore.
Corrado Alvaro è stato uno
degli scrittori contemporanei
più rappresentativi e originali. Nato a San Luca (Reggio
Cal.) il 15 aprile 1895, che a
quel tempo era un piccolo villaggio abbarbicato ai piedi
del massiccio aspromontano.
In questo particolare ambiente di fine ‘800, Alvaro rimase
fino all’età di dieci anni. I
migliori come dirà più tardi.
Lascerà in seguito la sua
amata terra per proseguire gli
studi, stabilendosi per anni a
Roma, la città nella quale
morirà all’età di 61 anni, l’11
giugno 1956.
A quasi cinquant’anni
dalla sua morte, Alvaro resta
uno scrittore sotto molti
aspetti impenetrabile. Egli
volle precisare di vivere
come una “doppia vita”, quella normale della propria quotidianità e quella letteraria del
racconto, inventando “sulla
trama dell’esperienza e della
memoria una seconda vita
che non conosce età”.
Aveva vissuto a lungo in
Germania e ne aveva assorbito umori e cultura, nel segno
del mito che lo riportava
direttamente alle sue origini
mediterranee.
“Il Mediterraneo è istinto,
intuizione; prima che parlino
in lui i motivi di vita lo spingono le ragioni ideali e istintive. L’intuizione delle razze
mediterranee è stata il motore del mondo”.
In tal modo, Alvaro, sottolinea “l’universalità e il
cosmopolitismo delle civiltà
mediterranee”. Proprio per
questo, nella sua complessa
figura, possiamo scorgere le
facce di una stessa medaglia:
l’uomo mediterraneo e lo
scrittore europeo. Egli, infatti, si mostra mediterraneo per
nascita e per vocazione; ama
il mondo mediterraneo con i
suoi ulivi e le sue agavi, il
suo mare e le sue montagne.
Nella produzione letteraria
alvariana sono rintracciabili i
valori, i limiti, i modelli e le
istituzioni della cultura mediterranea. Ma, Alvaro è, allo
stesso tempo, uno scrittore
europeo, perché come pochi
fu animato dalla volontà di
dialogo con altre culture, e
riconobbe il principio secondo il quale, la vera cultura è
un patrimonio collettivo, una
ricchezza universale che
porta con sé le peculiarità
delle singole etnie, senza mai
trascurare l’orgoglio per la
propria tradizione.
“Noi siamo cresciuti, la
natura è rimasta infante…e
noi andiamo cantando nei
nostri viaggi, i beni di cui
disponiamo, le piccole cose
che paiono felici, i paesaggi
che hanno consolato molti
prima di noi. Fuggiamo da
luogo a luogo, cercando
un’intimità che non troviamo
perché questo è il mondo dei
padri, pieno dei loro ricordi e
del loro senso della vita. Che
non è più il nostro”.
Alvaro narra e descrive,
procedendo per immagini
sobrie e scultoree e per brevi
notazioni psicologiche, che
hanno il potere di farci penetrare in quella regione oscura
dell’anima umana, dove
hanno origine i sentimenti più
spontanei generati dagli istinti, dai ricordi, dalle nostalgie,
dalle sensazioni lontane, dai
desideri più intensi e meno
“ Ho sentito dire da molti stranieri
che è una delle più belle d’Italia.
Io non so perché l’amo. Ma so che si
fugge e si rimpiange con la sua pena;
si torna e si vuole fuggire: come con
la casa paterna dove il pane non
basta”.
Corrado Alvaro,
Calabria in fuga (in Un treno nel Sud)
identificati. Egli visse ed
operò in un periodo critico
della nostra storia, tra il 1895
e il 1956, un periodo durante
il quale le condizioni socioeconomiche del Paese,
soprattutto nel meridione,
erano di estrema arretratezza
che si contrapponeva alla crescente urbanizzazione; anni
in cui si succedettero le
distruzioni di due guerre
mondiali, nonché l’avvento
ed il crollo del fascismo.
“Ero antifascista per temperamento, per cultura, per
indole, per inclinazione, per
natura… non perdono che mi
si dia del vile, quando nella
mia vita ho fuggito sempre il
sospetto della viltà, anche se
posso esser caduto in qualche
piccola viltà, come accade a
tutti gli uomini, ma che mi
rimorde. Odio la viltà perché
diminuisce l’uomo, lo rende
meno efficiente. Purtroppo la
mia vita migliore è passata in
un tempo in cui la viltà era di
rigore.”
Alvaro non poteva essere
un narratore puro. Senza
averne piena consapevolezza,
ma con risultati di fortissima
suggestione, egli si colloca
nella cornice di quella “narrativa senza romanzo”, che
costituisce la novità del secolo scorso. In modo drammatico, per lo scrittore venuto dai
paesi remoti dell’Aspromonte
dove la nebbia di notte si
posa sulle case addormentate
“come un respiro” e la luna
nel cielo “pareva un pane”, la
modernità è una cittadinanza
da conquistare. Dell’uomo
moderno ha colto le forze che
lo lacerano, da un lato la
memoria, la nostalgia dell’innocenza, dall’altro lato l’amara disposizione ad essere
ferito e ingannato. Pietro Pancrazi, che forse fu uno dei
suoi critici più congeniali, nel
1931 scriveva:
“Q UALCHE SETTIMANA FA ,
HO INTESO C ORRADO A LVARO
PARLARE IN PUBBLICO IN UNA
ILLUSTRE SALA FIORENTINA CHE
È SEMPRE PER UNO SCRITTORE
NON TOSCANO UNA BELLA
PROVA … PARLAVA DELLA SUA
CALABRIA, E CALABRESE RESTÒ.
C ON QUELLA SUA FACCIA CHE
SEMBRA UN PUGNO CHIUSO
VISTO DI PROFILO , SI POSE DI
FRONTE ALLA SALA E PER UN’ORA DISSE IL FATTO SUO….; COSA
SU COSA E QUASI CON UN SENSO
DI NECESSITÀ. CI AVEVA MESSO
LE MANI DENTRO E SEMBRAVA
INTRIDERE UNA FARINA, IMPASTARE UN PANE. SPARPAGLIAVA LONTANO LE SUE IMPRESSIONI , I
RICORDI, I PROVERBI, LE FIGURE
DELLA SUA TERRA, LI LASCIAVA
ANDARE; E POI AD UN TRATTO,
CON UN ACCENNO … DELLA
MANO TOZZA, LI RACCOGLIEVA, LI
RIBADIVA A SÉ. RIAPRIVA, POI, LA
MANO DI TAGLIO, A MEZZ’ARIA, E
GLI RIDAVA LA VIA . D ICEVA E
TORNAVA A DIRE… IL PUBBLICO
INTESE . N ELL ’ ORATORE CHE
VOLEVA , MA NON RIUSCIVA A
STACCARSI DAL TEMA , AVVERTÌ
QUALCOSA DI INSOLITO , UNA
VERITÀ, UNA POESIA… SCOPPIARONO ALLA FINE , A DUE TRE
RIPRESE, QUEGLI APPLAUSI FITTI,
SECCHI, CHE SI FANNO A GOLA
STRETTA. L’ORATORE IN PIEDI SI
ILLUMINÒ UN MOMENTO APPENA,
E QUASI DI STUPORE ; POI SI
RICHIUSE, E VENNE VIA CON LE
BRACCIA LENTE E IL PASSO
LUNGO DEL CALABRESE CHE HA
ANCORA MOLTO DA CAMMINARE” .
Un ritratto ricco di significati, intessuto di quella angosciosa inquietudine che lo ha
accompagnato per tutto il
corso della vita, e che lo stesso Alvaro definì “curiosità
viva dei fatti moderni”.
“La novità del mondo era
tanta che non riuscivo a contenerla… la vita era così
bella che certe notti non dormivo aspettando il giorno
seguente”.
Il suo capolavoro “Gente
in Aspromonte” (1930), che
rievoca la natia Calabria, è
uno stupendo affresco dai
colori intensi sul quale si
muovono creature ricche di
intima vita e di significato
poetico. La verità, le cose,
l’uomo: è questa la trinitaria
tessitura tematica, quella che
di continuo rivive nelle pagine
di Alvaro. Quasi tutti i protagonisti dei suoi romanzi sono
degli sconfitti, degli antieroi,
che hanno però il privilegio di
tentare. I vincitori sono soltanto nella proiezione del mito
che si sovrappone alla realtà,
affidati al messaggio della
parola, che da letteraria diventa sociale e politica.
“La descrizione dei pastori in Aspromonte si imprime
nella nostra mente per la sua
efficacia e per l’alone di poesia che la circonda. L’Autore
ci rappresenta prima i pastori
nella loro vita esteriore e fisica: ci parla dei loro vestiti,
dei loro cibi, dei loro giacigli; poi, quando noi siamo sul
punto di chiederci se esseri
ridotti ad una esistenza così
dura e quasi animalesca possano avere una vita interiore,
ecco che egli ci descrive i
loro sentimenti, i loro sogni, i
loro desideri e mette nelle sue
parole il calore di una simpatia umana che si comunica
anche a noi e sentiamo che
essi trovano conforto al triste
presente, solo pensando al
dolce giorno del ritorno,
quando “appenderanno la
giacca e la fiasca all’albero
della pianura”.
Corrado Alvaro è stato un
vero profeta “umano”, che ha
cercato di portare in salvo i
valori umani, liberandoli da
tutte quelle sovrastrutture che
ci impediscono di vedere la
realtà con “occhi puri”.
Note Bibliografiche
Corrado Alvaro, l’Aspromonte e l’Europa
Atti del Convegno - Reggio
Cal. (Novembre 1978)
Casa del libro Editrice Reggio Cal. (1981)
Alvaro, uomo mediterraneo, scrittore europeo
Atti del Convegno – San
Luca (19-20 aprile 1995)
Gente in Aspromonte
C.Alvaro - Ed.Garzanti
Milano, 1970
Prosatori e Poeti Italiani e
Stranieri
C.Baj – G.A. Pellegrinetti
Ed. Petrini, Torino, 1966
Federica Legato
La Calabria. Libro Sussidiario di cultura regionale - Calabria
di Corrado Alvaro
Iiriti Editore, Reggio Calabria, 2003
pp. 106 - € 16,00
l 1925 fu anno duro per Corrado Alvaro, il quale aveva pubblicato un “profilo” di Luigi Albertini che
I
era un violento atto d’accusa contro il fascismo. Lo scrittore, in difficili condizioni economiche, accettò
la proposta dell’editore Carraba di curare una collana di sussidiari e di antologie per le scuole. Nacque così
La Calabria. Libro Sussidiario di cultura regionale, pubblicato dall’editore di Lanciano nel 1925.
Il libro, spesso citato, introvabile, propone un “catasto” di quella “civiltà che scompare” che lo scrittore di
San Luca evocò tra malìe e rimpianti; una terra di miti e memorie, magica e aspra, ricca di misteri e di leggende a cui Alvaro dà voce tra ricordi e storie e ricomponendo i tanti volti di questa regione con la gravità
che gli è propria. Un testo in cui non è difficile trovare molte di quelle figurazioni che animano Gente in
Aspromonte e tanti altri scritti di Alvaro sulla Calabria, e quei dati dell’esperienza che nei suoi racconti si trasformano in immagini “d’una gravità a volte involuta” ma di una verità inoppugnabile. Un libro che ancora
conserva il suo fascino e la sua valenza, che qui si propone in edizione anastatica insieme a un altro scritto
di Alvaro, il testo di Calabria, la conferenza tenuta al “Lyceum” di Firenze nel 1931 e pubblicata nello stesso
anno dall’editore Nemi. Due testi che vanno letti come testimonianza del sofferto e controverso sentimento di
uno scrittore che “Parlava della sua Calabria”, “e calabrese restò”, secondo la nota definizione di Pietro
Pancrazi, ma anche come partecipazione lucida di una coscienza al dramma della sua terra.
N. 2 / 3 - Luglio - Agosto - Settembre 2005
L ETTERE
M ERIDIANE
9
Il riflesso del Mediterraneo La Parigi
negli occhi di Alvaro
di Corrado
Alvaro
Viaggio in Turchia
di Corrado Alvaro
A cura di Anne Christine Faitrop Porta
Falzea Editore
pp. 272 - € 16,00
l Viaggio in Turchia di Corrado Alvaro, pubblicato da Treves nel
I
1932, viene ristampato in nuova edizione. Alla precedente si
aggiungono oggi articoli dispersi e un racconto sulla Turchia, mai compreso in raccolta, una lunga novella ambientata a Parigi e a Istanbul e il
capitolo dedicato al soggiorno in Grecia e in Turchia dal 1931 nel diario
Quasi una vita del 1950 che vinse il Premio Strega nel 1951. In questa
edizione, il Viaggio in Turchia è preceduto da un’Introduzione di 45 pagine e seguito da un’accuratissima Nota ai testi con interessanti passi eliminati dall’edizione del 1932.
La curatrice, Anne Christine Faitrop-Porta, professoressa all’Università
della Corsica, continua l’opera di riscoperta degli scritti di Corrado Alvaro, sul quale ha pubblicato 4 dei suoi 12 libri: Lettere parigine nel 1997,
Il viaggio nel 1999 e Colore di Berlino. Viaggio in Germania nel 2001.
Il Viaggio in Turchia è uno dei più belli mai pubblicati, un sublime
omaggio al Mediterraneo. Alvaro fu uno dei primi scrittori viaggiatori.
In Puglia, dove inizia il viaggio, in Turchia e in Grecia, Alvaro interpreta l’architettura, come già a Parigi e a Berlino, come poi a Mosca, quale
traduzione della necessità degli uomini, tanto spirituali ed estetiche quanto materiali. Descrive le moschee “bolle venute su dal mare abissale” con
il minareto “albero chiaro di questa terra senza alberi”, la “rotondità femminile” delle tombe nei cimiteri che sprizzano vita, le
case greche a mo’ di tempietti, i ponti romani, le strade italiane e la “sinfonia equivoca e squisita” di Istanbul “tutta dorata di
fritture”.
Pianure e nubi, cielo e monti si uniscono in veri poemetti in prosa. È Ankara, attendamento “in piena steppa”, nuova capitale, a tradurre l’”assalto all’avvenire”, l’ambizioso progetto della repubblica turca che dal 1923 è subentrata all’impero degli
ottomani che regnavano dal 1453.
Mustafà Kemal, primo presidente della giovane repubblica, ne ha fatto un “regno razionale e insieme chimerico” che contrasta il lungo passato della sua gente, nomade e religiosa, come testimonia la festa del Bairam, alla quale accorrono i turchi
con il tappetino colorato, “terreno d’incontro con Dio”.
Sopprimendo i conventi, imponendo il costume occidentale con l’abolizione del velo per le donne e del fez per gli uomini,
“quel nonnulla pesante”, introducendo nuovi codici sul modello europeo e sostituendo l’alfabeto arabo con quello latino, Kemal
si mostra “internazionale e insieme autoctono”. La sua forza è di appoggiarsi sulle radici profonde del suo popolo. Tuttavia ad
Alvaro non sfuggono le ritrosie dei turchi che stentano ad imparare il nuovo alfabeto e ad adottare il cappello. Lo scrittore non
nasconde i gravi problemi della nuova Turchia, come la mortalità infantile, le carenze dell’agricoltura e dell’industria, la latitanza della borghesia e degli intellettuali.
Come già a Berlino e poi in Russia, Alvaro accusa l’influsso dell’America che esporta cappelli, grammofoni e film, violentando le tradizioni, mentre elogia l’Europa che sta riscoprendo il genio delle razze. In Turchia, Alvaro ricorda l’Italia e a Brussa, la
fontana suona come la voce “d’un amico ritrovato” e sembra di sentire l’eco delle acque della Calabria, che vibra nell’Itinerario italiano, pagine che l’editore Falzea ha inserito nell’agile volume Memoria e vita pubblicato nel 2001 nella collana di narrativa per ragazzi Il melograno.
Stupenda è la liricità del Viaggio in Turchia, nel quale si moltiplicano con arte abilissima le figure stilistiche. È la profusione
dei colori a colpire il lettore: il turchino di Corinto, il viola dell’Anatolia, il grigio rosa di Rodi, il grigio rosso delle Cicladi, il giallo “fulgido” in Puglia, “carico” a Cipro, “luminoso” ad Atene perché è il “colore di tutta l’arte greca”. Solo il lirismo è in grado
di tradurre l’armonia che in Turchia e in Grecia regna tra la natura e l’arte, che si fondono nella “duna” delle cupole nel
“museo di pietra” delle strade e nel “mare ghiacciato” di uno stadio ad Atene.
Questo Viaggio in Turchia è infatti anche un viaggio in Grecia, che si chiude sull’Acropoli, è un ritorno al grembo del Mediterraneo, da Itaca “mantello caldo come il ricordo dei lari” alla “perfezione finita” di Atene e alla “forza vitale” di Roma. È
“l’antico mare” a costituire per i popoli più vari “una patria sola” e a concepire nei suoi miti “le angosce della vita moderna”.
Il Viaggio in Turchia illustra le diverse sfaccettature di Alvaro tra scrittura, pittura, teatro e cinema, e due articoli sono animati
da tecnica grammatica e cinematografica; ma anche tra diario scarno e lirico itinerario, tra le verità menzognere della realtà e
le menzogne veritiere della finzione.
Così il racconto riscoperto che assume toni pirandelliani, offre della Turchia tradizionale una preziosa immagine che completa il viaggio, quasi un’arcana gemma rimasta celata.
Per Alvaro il vero non si specchia, ma si riflette e solo la poesia consente di penetrare oltre i paesaggi e le apparenze, per
raggiungere l’essenza di un paese, le fonti della storia, le radici dell’essere.
Paolo Falzea
Note Biografiche
C
orrado Alvaro nasce a San Luca il 15 aprile 1895. Primogenito dei sei figli di Antonio, maestro elementare, e di Antonia Giampaolo, figlia di agiati proprietari. In quel piccolo paese dell’Aspromonte, trascorre un’infanzia felice. Terminate le scuole elementari, viene mandato a proseguire gli studi nel famoso
collegio di Mondragone, a Frascati, diretto dai Padri Gesuiti. Dopo i primi anni di Ginnasio viene espulso perché
scoperto a leggere testi considerati allora proibiti: l’Intermezzo di rime di D’Annunzio e l’Inno a Satana di Carducci.
Frequenta, quindi, il collegio di Amelia (Pg) e in seguito il Liceo “Galluppi” di Catanzaro. Si dedica alla lettura
impegnata ed esordisce come giovane scrittore con la pubblicazione di un opuscolo: Polsi, nell’arte, nella leggenda,
e nella storia (1912). Nel 1914 pubblica le prime poesie su il Nuovo Biricchino Calabrese. Nel 1915 è chiamato alle
armi. Rimasto ferito ad entrambe le braccia, paga il suo personale tributo alla guerra; una sofferenza che la medaglia
d’argento non riuscirà a lenire. Il braccio destro lo tormenterà per il resto della vita. Entrò, su segnalazione di Giuseppe Antonio Borgese, come redattore al “Resto del Carlino”. Nel 1916 pubblica “Poesie grigioverdi”, che cantano
il tormento della propria e dell’altrui esperienza di guerra. L’8 aprile 1918 sposa la bolognese Laura Babini e un
anno e mezzo dopo nasce il suo primogenito, Massimo. Viene chiamato al “Corriere della Sera” di Luigi Albertini.
Nel 1920 si iscrive al terzo anno di lettere all’Accademia scientifico-letteraria, in base al decreto che riguardava i
reduci di guerra, e pubblica la sua prima raccolta di novelle La siepe e l’orto. Lascia il Corriere della sera perché si
ritiene impegnato in mansioni troppo umili, e si trasferisce a Roma. Scrive su Il Tempo e Il Resto del Carlino. Dal
1921 soggiorna a Parigi e scrive il suo primo romanzo L’uomo nel labirinto. Chiamato al “Mondo” da Giovanni
Amendola è prima corrispondente da Parigi, e successivamente redattore, appena rientrato a Roma. Firmatario del
manifesto antifascista di Croce, difese fisicamente Adriano Tilgher e fu, a sua volta, processato da una squadraccia
fascista; nell’ottobre del 1928 fu costretto per l’impossibilità di continuare la collaborazione con i giornali, con la
quale viveva, a trasferirsi a Berlino. Ritornato in Italia, collaborare con varie Testate: La Stampa, Novecento, La
Fiera Letteraria.
Nel 1930 pubblica Gente in Aspromonte, considerato il suo capolavoro. Nel ’34 pubblica da Mondadori il romanzo Il Mare e Terra nuova un volume che gli verrà da molti rinfacciato come difesa delle imprese del Fascismo. In
questo periodo scrive anche su Il Messagero. Nel ’38 annulla improvvisamente il contratto che lo legava all’editore
Mondadori e offre a Bompiani il romanzo L’uomo è forte, per il quale viene insignito con il Premio dell’Accademia
d’Italia. Nel gennaio 1941 torna per l’ultima volta a San Luca per i funerali del padre. Nel ’43 assume la direzione
de Il Popolo di Roma. In seguito all’occupazione tedesca, è costretto a fuggire, sotto falso nome, in Abruzzo, perché
colpito da mandato di cattura ed in pericolo di vita.
Nel ’44 fonda insieme a F.Jovine e Libero Bigiaretti il Sindacato Nazionale degli Scrittori, di cui sarà segretario
fino alla morte. Nel dopoguerra si schiera risolutamente con il Fronte progressista, assumendo posizioni ideologicamente decise, che non gli consentono di rimanere a lungo nella direzione de Il Risorgimento. Nel 1951 vince il Premio Strega con Quasi una vita. Giornale di uno scrittore.
Nel ’54 è costretto a sottoporsi a un intervento chirurgico per un tumore addominale, inizialmente ritenuto benigno. Ristabilitosi, pubblica su Confluence, prestigiosa rivista dell’Università di Harward, un lungo saggio dedicato
ai problemi dell’Italia meridionale. Mondadori gli affida l’incarico di curare l’edizione delle novelle di Luigi Pirandello. Stende una lunga ed impegnata introduzione che uscirà postuma.
Il 20 aprile 1956 esce su Il Corriere della Sera il suo ultimo articolo. Muore all’età di 61 anni, nella sua casa di
Piazza di Spagna, l’11 giugno 1956, per l’aggravarsi della malattia per la quale si era sottoposto all’intervento chirurgico, lasciando alcuni romanzi incompiuti e vari altri inediti. Tra le sue opere più importanti: L’amata alla finestra, 1928; La Signora dell’Isola, 1930; Vent’anni, 1930; L’età breve, 1946; Mastrangelina, 1960; La Calabria,
1925; Viaggio in Turchia, 1931; I maestri del diluvio. Viaggio nella Russia Sovietica, 1935; Un treno nel Sud, 1958;
Ultimo diario 1959; Lunga notte di Medea, 1949.
I reportage del 1950
pubblicati oggi in Francia
Paris sans fard - Un reportage italien de 1950
di Corrado Alvaro
pp. 156 - € 13,00
Prefazione di Anne Christine Faitrop Porta
Cahiers de l’Hotel de Gallifet diretta da Paolo Grossi
ISTITUTO ITALIANO DI CULTURA - PARIS
opo tanti lavori, condotti in Italia, volti a sottolineare il
D
carattere poliedrico dell’opera di Corrado Alvaro, anche in
Francia, e precisamente all’Istituto Italiano di Cultura di Parigi, si è
sentita la necessità di aggiornare la critica sull’attività dello stesso
autore.
È in questo contesto, e nella “Collana Cahiers de l’Hotel de
Gallifet” del medesimo istituto, che si inserisce la pubblicazione
Paris sans fard – un reportage italien de 1950”, una
del volume “P
selezione di testi giornalistici pubblicati da “Alvaro” sul quotidiano
“La Stampa” ai tempi del suo secondo soggiorno parigino.
La prefazione di Anne-Christine Faitrop Porta introduce alla
conoscenza di Corrado Alvaro che, nato in Calabria nel 1895,
conosciuto soprattutto per aver scritto “Gente in Aspromonte”
(1930), è anche autore di articoli come inviato speciale del quotidiano “La Stampa”.
La scelta, rivolta ad una serie di tredici testi (anno 1950) che
evidenziano le caratteristiche precipue della scrittura di Alvaro
“inviato speciale”, è stata effettuata grazie agli studi condotti dall’Università di Caen ed alla collaborazione dell’Istituto di Cultura di
Parigi, dove il volume è stato presentato il 19 maggio.
La misura dell’enorme successo è stata data dall’emozione nel
vedere così tanta gente, non calabrese, non italiana, attenta agli
interventi dei relatori, tanto che il lungo ed interessante dibattito
instaurato con essi è stato interrotto per la consueta chiusura giornaliera dell’Istituto.
Tornando al volume è da notare che negli articoli di Alvaro il
riferimento ai monumenti, ai musei della città, non avviene mai
direttamente, ma essi sono sottilmente inseriti nei ricordi sparsi un
po’ ovunque nella sua corrispondenza.
Fra tutti i quartieri di Parigi lo scrittore sceglie la “Senna” per
fermarsi nei dettagli descrittivi, trascinando anche lì il suo animo
calabrese di uomo di montagna che ben sa l’importanza dell’acqua. L’ironia dello scrittore affiora nel contrapporre ai luoghi più
mondani, un posto crudamente popolare: il mercato delle pulci.
L’autore riesce a cogliere lo spirito degli abitanti parigini, quell’amalgama di antico e moderno che tollera il contrasto, negli stessi posti, tra negozi fastosi e modeste botteghe.
Doveva essere un uomo del sud, figlio di contadini meridionali
a cogliere lo spirito parigino, quella particolare “allure” determinata dal tono contemporaneamente perentorio e cortese, un viaggiatore, che vivendo i lunghi silenzi delle montagne, aveva certo
capito che l’obiettivo stava nel cogliere i particolari del viaggio e
non la meta.
Paolo Falzea
L ETTERE
M ERIDIANE
10
N. 2 / 3 - Luglio - Agosto - Settembre 2005
La ricerca cinematografica e l’amor
Festival Internazionale dei Circoli
L’importante appuntamento ritorna con due interrogativi. Qual
Un festival ha
“avuto luogo”
“A
vere luogo”, questa sembra
essere la vena sotterranea
che percorre i film dell’ultimo Festival dei Circoli del Cinema, svoltosi
a Reggio Calabria dal 7 all’11 Giugno.
“Avere luogo” significa trovare radicamento, avvertire un sentimento di solidarietà
con gli spazi in cui si vive. Significa sottrarre
alla mancanza di significato i luoghi, trovare
in essi una densità simbolica che li faccia
apparire unici.
Il movimento che preme per la “delocalizzazione”, in favore della matematizzazione e
massima resa economica degli spazi, resi
tutti uguali l’uno all’altro, sembra essere uno
degli effetti più diffusi e perversi, a livello
mondiale, di questa congiuntura socio-politica. Ma ad esso si contrappone un confortante
e spontaneo movimento di resistenza, che
milita per l’ “amor loci”, inteso come dimensione pregna di significato.
Lo si nota in Maquillas, film di Giuseppe
Gaudino e Isabella Sandri: dalle zone interne
del Messico la miseria costringe all’autodeportazione per lavorare in fabbriche sorte
grazie ad un programma governativo che
consente alle multinazionali americane di
assumere a basso costo e alti ritmi di lavoro
in una città dalla drammatica situazione
ambientale, dove le condizioni di vita e la
dimensione “domestica” e familiare sono
completamente escluse. Ciudad Juarez non è
altro che un immenso dormitorio-cloaca.
Tutto questo naturalmente prima che le
dismissioni delle fabbriche si avviino, per
dare adito all’ennesimo trasferimento in luoghi dove il costo del lavoro è ancora più
basso e il potere agli operai quasi nullo,
abbandonando alla miseria e allo sradicamento i lavoratori messicani, come emerge
dalla notevole scena in cui una famiglia di
una lavoratrice, ancora legata ai “luoghi
sacri” della foresta, nella sua modestia sembra condurre una vita più serena di quella
della figlia che vive in città.
Altrettanto legati alla propria terra d’origine, luogo sacro di cui si riconoscono miti e
densità simbolica anche da lontano, sono le
storie d’emigrazione meridionale di Una
patria che non ci appartiene e Ti vedranno a
Cosenza. Sebbene nelle nuove generazioni si
formi un’identità differente dalle precedenti,
la persistenza di dimensioni “simboliche”
forti è radicata. Ne rende testimonianza la
ragazza settentrionale “emancipata” di Una
patria che non ci appartiene, trasferitasi in
Germania per insofferenza delle “rigidità”
familistiche del suo paese, che però una volta
lì, dichiara di trovarsi meglio con gli italiani,
non dovendo discutere con loro di banalità
come il cibo, che però sono “identitarie”, o
ancora Flying misters, nel quale si sperimenta duramente la distanza della propria terra
dai propri sogni e ideali (il concerto rock) e
nonostante questo si continua ad avvertirla
come “propria” e semanticamente “ricca”.
Il radicamento si forma anche condividendo il genius loci di posti dove la delocalizzazione economicistica è lontana, come la
Sardegna interna che l’artista Pablo Volta
sceglie, in un documentario dedicatogli da
Giovanni Columbu, come “residenza” e terra
d’elezione, declinando i motivi di questa
preferenza in virtù dell’ “avere luogo”, o
come si forma costruendo l’identità attraverso atti socializzanti radicalmente
“moderni” come l’apertura di un cinema in
Abre el Helvetico o trova l’orgoglio della
sua sussistenza anche in zone dalla difficile
abitabilità come la Calabria arcaica di EllenoFonie o l’India di Invisibili e Terzo
mondo che si vogliono preservare da una
modernizzazione “sradicante”.
L’ultimo film da citare che riassume la
posizione dell’ “avere luogo” dell’intero
festival è Entre duas terras, film di chiusura.
È la storia di un paesello portoghese destinato ad essere sommerso dall’acqua che confluirà in una diga in costruzione. Gli abitanti
del nuovo paese, nonostante sia distante
pochi chilometri dal vecchio, non riescono a
fare “mente locale”, come dice Franco La
Cecla, non riescono a ritrovare i percorsi
mitici e simbolici che costituiscono una terra
al di là delle architetture. Una strada non è
solo una strada, è un coacervo di significati,
più evidenti e nascosti, che non si possono
riprodurre trasportandoli altrove, anche ricostruendo tutto a menadito.
L’ “aver luogo” è questione di spazi e di
tempi precisi.
Le sezioni
I
l festival si è snodato, come sempre,
in più sezioni, alcune monografiche,
altre miscellanee.
La sezione “Don Quijote”, quest’anno
divenuta competitiva, ha raccolto le produzioni qualitativamente più interessanti, cioè
quelli dove la forma si sposa meglio con la
sostanza: di questa sezione, infatti hanno
fatto parte Traveller and Magician con la sua
dimensione trasognata e poeticizzante e
Vanya, col suo bianco e nero “fiammeggiante” (ossimoro nel quale è contenuta la ricchezza e ambiguità del breve film) che si
innestano su vicende di “fuga” da una condizione di localizzazione, sociale ed esistenziale, che non si riconosce più propria.
La forte presenza dei lungometraggi in
pellicola, più rari nelle altre sezioni, segnala
il carattere più tradizionalmente da “festival
cinematografico” di questa, e come si diceva
un più spiccato senso della composizione e
all’estetica formale dell’immagine, determinata anche dal supporto.
Una vetrina ricca di significati è stata
quella offerta dal “Progetto Cinema dei Balcani” ad un gruppo di film che, nella sua
interezza e compattezza di filmografia monografica ha scarse occasioni di visibilità.
A un primo sguardo sul corpus filmografico proveniente dalla ex Jugoslavia, un po’
intuitivo e senza particolari mediazioni storiche o teoriche, sembra che in questi film
domini un’atmosfera di sospensione. Gesti
trattenuti, aria d’attesa, il ricordo della guerra
dietro l’angolo: questo
sembra essere lo spirito del
tempo.
Si avverte una curiosa
sensazione di comunanza
con certi film italiani degli
anni ottanta o dei primi
anni novanta come L’aria
serena dell’Ovest di Silvio
Soldini, dove insabbia e
toglie il respiro la sensazione diffusa d’essere sopravvissuti ad una crisi che si
trascina degli strascichi
intimi
insormontabili
(come emerge dai sogni
tormentati e dalle inquietudini del soldato-genitore in
Tu/Qui). La disfatta si fa
sociale e quello che poteva
essere rigetto per una situazione concreta (la guerra)
si fa incapacità di affrontare una qualunque situazione di disagio sociale, o
meglio si fa presentimento
dell’impossibilità di abbattere il muro che la società
oppone ad una qualunque
coesione che faccia rimuovere i problemi (ad esempio la malattia o la droga di
Zurka/La festa). La via d’uscita sembra essere l’attesa Jean Vigo
immobile di un intervento
messianico, il quale non si capisce se sia
mistico, metafisico, o il suo opposto. È una
popolazione “consumata”, sfibrata sia nelle
generazioni più recenti che in quelle per le
quali la guerra è stata solo l’ultima delle
esperienze di una vita che in passato ha
avuto il proprio centro in altro. Non si riesce
ad opporre un piano ideale rinnovato e personale, al massimo si riesce ad imitare gli ideali degli altri o a rivangare il passato, mentre
attorno tutti corrono in un affanno del movimento senza scopo, vacuo, quasi compensatore dell’impossibilità di proporre un
credibile sistema di vita e di pensiero. Si
veda in proposito La festa dove dei giovani
operano il tentativo di costruire un brandello
di normalità “occidentale” chiusi, come nel
Decameron, in una casa di campagna lontani
dalle ambasce della città, imponendosi la finzione d’essere soggetti ai modi di vita dei
giovani dell’Occidente ricco e “rilassato”,
dove i soli problemi sono i rapporti interpersonali e la gestione del possesso degli oggetti, non riuscendo a riconoscere la propria
“differenza” e specificità orientale e balcanica di paese dall’identità eterogenea e di
paese in guerra. Ma tra di loro e appena fuori
dalla villa le tensioni sono latenti (anche concretamente nei posti di blocco dietro l’angolo): c’è chi scappa dalla chiamata alle armi,
chi è malato, chi nasconde pulsioni sadiche,
chi non sa gestire la comunicazione col prossimo. Oppure Tu/Qui dove le peregrinazioni
di un famoso attore di sceneggiati televisivi
si scontra con la violenza insensata di un
gruppo di ragazzi o con le tensioni livide che
scatena nella sua ex moglie. Infine Esame di
maturità/Ispit zrelosti che pur parlando di
generazioni molto al di là negli anni e che
dunque legittimamente potrebbero nutrire
distacco nei confronti dei loro tempi, sembra
introdotto nel quadro che si sta tracciando:
un ex professore, a distanza di 57 anni dal
suo esame di maturità, torna smarrito a
Sarajevo per chiedere ai suoi ex compagni di
scuola se mai avrebbero potuto immaginare
al tempo dell’esame, o anche solo al quarantesimo anniversario di esso, lo smembramento della Jugoslavia.
Anche quando si sorride lo si fa a denti
stretti o avvertendo il sottofondo ferale dello
humour (come in Dolce profumo di naftalina/Slatti miris naftalina dove le gag nascono
dal ritorno in vita di una donna, la nonna
della protagonista Danica, estratta “fisicamente” da una lapide per soccorrere le ansie
quotidiane della nipote alle prese con un rapporto sbagliato: i morti sono più vitali dei
vivi e ci si attende dal loro intervento salvifico, dalla vitalità di altre generazioni, ormai
perduta nell’oggi, una soluzione “fantastica”
all’angoscia della paralisi. Proprio da questi
scarti fantastici nascono i brandelli di luce, le
piccole zone dove l’ottimismo si spande. Nei
sogni di Danica, nell’amore poetico e fuori
dal mondo del giovane infermo di mente in
Tu/Qui, nel balletto semi-astratto delle luci
della città e del pagliaccio-zombie di 8,5
minuti di una notte…/Osam ipo minuta jedne
noci…, nella straordinaria pianura rimodulata
e resa fiabesca da Josef Nadu che un breve
documentario su questo autore misconosciuto rivela in maniera folgorante. Egli sembra
possedere un tocco e un lavoro sul profilmico a mezzo tra Fellini e Paradzanov, come è
giusto aspettarsi da un autore di una “terra di
mezzo” fra Oriente e Occidente come i Balcani.
N. 2 / 3 - Luglio - Agosto - Settembre 2005
L ETTERE
M ERIDIANE
11
loci: lo spazio e l’indagine sociale al
del Cinema a Reggio Calabria
è la sua esatta identità? E perché la città che lo ospita lo ignora?
Certamente il primo teorizza la fuga nel
sogno, il secondo nella follia, il terzo nell’estetismo delle “cose”, il quarto nelle nostalgie del
bel tempo che fu e della natura che si oppone
alla cultura delle macchine, nessuno ha il
coraggio di prendere di petto la realtà, ma è già
un primo passo e la ferita è fresca d’altronde.
Le sezioni “Children and Youth Films” e
“Sebastiano Di Marco” sono orientate l’una
a mostrare produzioni che riguardano l’infanzia e l’adolescenza più che racchiudersi
nella categoria angusta del “film per ragazzi”, l’altra, come di consueto, a fornire una
panoramica su alcune interessanti e neglette
(quantomeno alle nostre latitudini) produzioni nazionali, con uno sguardo particolarmente attento alla realtà meridionale e ai suoi
registi. In entrambi i casi la dimensione
sociale ha avuto ampio spazio, concedendo
alle questioni della vita concreta delle popolazioni coinvolte – il lavoro per garantirsi il
sostentamento in primo luogo e tutte le conseguenze psicologiche della sua ricerca o
della sua realizzazione –. Altrettanto attenta
alla questione dei diritti e alla sua estensione
a livello mondiale è la sezione “Cineclub
New Network”, usuale “finestra sul mondo”,
che divulga spesso questioni delle quali si ha
notizia in maniera molto approssimativa o
come eco lontana, e mostrandole in tutta la
loro urgenza drammatica e purtroppo pervasiva, diffusa a tutto il mondo.
Una visibilità e un impatto “rivelatore”
delle difficoltà comuni, in cui si trovano
uomini di tutte le età sparsi in tutte le latitudini, che fa impallidire la piattezza di tante
immagini televisive, edulcorate anche quando vorrebbero essere reportage. Ne dà contezza, uno per tutti, Childhood among
mines/Infanzia fra le mine straziante testimonianza della vita offesa cui sono obbligati i
ragazzi colpiti dalle mine attraverso le parole
di uno di essi costretto all’amputazione, che
fa il paio con un altro film, altrettanto commovente, El hijo de la luna/Il figlio della
luna dove si racconta la storia di un bambino
costretto a vivere di notte per una rara forma
di intolleranza alla luce, fatto questo che lo
condanna nella sostanza a non avere più una
vita comune con i suoi coetanei oltre che gettare nella prostrazione e provocare disagi
economici alla sua famiglia. I genitori divengono il solo strumento di svago per il bambino, ma il lavoro e la stanchezza conseguente
non sono conciliabili con i ritmi del figlio,
intanto le chiazze del piccolo crescono portando con sé il loro carico di angoscia per
una morte che può essere imminente. Quando le storture del mondo si misurano sulle
afflizioni “fisiche” dei bambini, nella loro
quotidianità e “normalità” documentaristica,
la loro dissennatezza emerge con un’evidenza immediata spazzando via mille petizioni
di principio, dichiarazioni d’intenti, buoni
propositi e immagini ad effetto di tanti servizi televisivi e film “impegnati”. Talvolta
mostrare la banalità del male senza troppi
fronzoli “taglia l’occhio” molto più della
retorica, per quanto ben costruita. Questi
film semplici e brevi stanno lì a dimostrarlo.
Infine va menzionata la retrospettiva dedicata a Jean Vigo, alla presenza di Luce Vigo,
occasione per rivedere le opere del cineasta
francese. Tra queste spicca per la sua freschezza rispetto a quelle “celebrate” e notissime la meno conosciuta Taris, che, pur nella
sua dimensione di film d’occasione semidocumentaristico, rivela straordinari “deragliamenti” nella dimensione spaziale e
temporale attraverso i meccanismi di rallentamento, ripetizione e inversione della direzione di scorrimento dei fotogrammi, oltre
che un principio d’indagine della “destrutturazione” del corpo del nuotatore molto
moderna e vicina a questioni che oggi sono
all’ordine del giorno. A queste e ad altre questioni si è accennato in una tavola rotonda
sul regista fra il critico Emile Breton, Luce
Vigo e l’urbanista Enrico Costa, nella quale
si è potuto fare il punto del dibattito critico
sul regista, ripercorrendo la sua biografia e
ricollegando la sua poetica e la sua figura ad
alcune delle esperienze artistiche (in senso
lato, non esclusivamente cinematografiche) e
politiche a lui contemporanee: dall’anarchia
all’impressionismo, dal futurismo alle esperienze architettoniche.
L’identità del Festival
P
er quanto riguarda le questioni
organizzative, in particolare il
rapporto fra il festival e i suoi
fruitori, va sottolineato con forza che grandi
problemi dall’esterno non ne sono emersi, se
non qualche ritardo o spostamento nelle
proiezioni, che comunque sono il pane quotidiano di ogni festival che si rispetti e in ogni
caso sono rimasti ampiamente al di sotto
della media. Piuttosto va rilevata con soddisfazione, per l’ennesima volta, la presenza
dei delegati internazionali e nazionali dei circoli del cinema (o corrispondenti istituzioni
per i rispettivi paesi) e di molti registi delle
opere visionate. Presenza colorata e che contribuisce alla circolazione e allo scambio di
idee, oltre che interna al gruppo, anche col
resto della città. Certamente i delegati conserveranno un’immagine della nostra città
legata ad un evento di crescita culturale e,
per quel poco che avranno potuto godere
della città (che è fatta anche di cittadini e non
solo di strade e di piazze) avranno contribuito ad un turismo consapevole e maturo, che
persegua la logica dello scambio e non quella
del saccheggio o dell’ottundimento fra
monumenti e cibi tradizionali “inventati”.
Da quel poco che ho potuto discutere con
i delegati (italiani ovviamente) e col pubblico la cosa che sembra più evidente nella
composizione del festival è la sua struttura
diarchica, con un polo indirizzato verso il
“cinema cinema” e l’altro più attento alle
questioni sociali e politiche, che si traducono
solitamente anche in una suddivisione di formati, l’uno in pellicola l’altro in digitale.
Questa composizione sembra essere una
dimensione che stupisce e talvolta turba. Da
parte dei delegati sembra esserci più una
richiesta di “cinema cinema”, di modo che si
ritrovino nell’atmosfera familiare dei festival
di cinema tradizionali. A mio parere al festival gioverebbe un’identità unitaria e una
riconoscibilità forte, al fine di essere individuabile immediatamente come la manifestazione nella quale si possono vedere un certo
tipo di cose molto ben determinate. Per me,
ed è un opinione condivisa da altri con cui ho
discusso, questa identità dovrebbe costruirsi
non tanto sul “cinema cinema”, riproponendo l’ennesimo festival uguale agli altri e
disperso nel magma delle mille manifestazioni simili in Italia, quanto sfruttare proprio
quella vocazione già interna al festival reggino del fare uscire il cinema da se stesso,
porsi come obiettivo l’attenzione alle nervature del sociale, ai disagi comuni e al tema
dei diritti (e d’altronde già il festival si concede incursioni nel sociale puro come gli
interventi della Fondazione Falcomatà o del
comboniano Padre Giovanni Ladiana per
rendere noti dei progetti sull’istruzione nel
terzo mondo e sull’accoglienza dei migranti).
Se, pur mantenendo la prestigiosa denominazione di Festival Internazionale dei Circoli
del Cinema”, si apponesse l’ulteriore appellativo di “Festival dei popoli e dei diritti” o
qualcosa di simile e si indirizzasse la scelta
dei film in maniera ancora più diretta e più
spinta alla selezione di quelli che illustrino
tali argomenti, si valicherebbe l’ostacolo
delle perplessità di chi si attenderebbe, vista
la denominazione, più 35 mm e più fiction, e
in più si guadagnerebbe in riconoscibilità, in
virtù di un’identità forte e in pubblico, attirando chi magari al cinema è meno propenso
ma più sensibile a misurarsi con le tematiche
della passione civile e civica. Questo non è
un festival che ha bisogno di sezioni competitive (d’altronde le competizioni sono discutibili in tutti i festival) e, in fondo, non ha
bisogno nemmeno che i film presentati siano
particolarmente raffinati dal punto di vista
formale o dell’estetica pura, né tanto meno di
costruire “macchine spettacolari” roboanti.
Tale incombenza spetta ad altro tipo di festival, con altri obiettivi primari. Il Festival dei
Circoli del Cinema ha ormai una sua identità
ben strutturata, nobile ed austera, orientata
sull’indagine dei diritti e delle questioni
d’urgenza sociale, ha solo bisogno che que-
Il film Vanya di Christina Zulauf
sta identità diventi patrimonio diffuso, venga
comunicata con maggiore ampiezza, e a tale
scopo l’orgoglio di riconoscersi in essa e il
rafforzamento dell’organicità della stessa
attraverso questi piccoli accorgimenti segnalati, mi sembrerebbe la strada più proficua.
Per realizzare un tale proposito, che corrisponderebbe ad una crescita sostanziale del
Festival sono necessarie due cose: disponibilità ad una maggiore apertura e risorse maggiori.
Per la disponibilità è facile provvedere, ad
esempio, di fronte ad un eventuale incremento dei finanziamenti, resistendo alla “tentazione” di allargare il parco film per dedicare
le nuove risorse a marketing e promozione.
Ma sono discorsi che lasciano il tempo
che trovano di fronte alla sordità istituzionale
lamentata da un, solitamente combattivo,
questa volta preoccupantemente sconfortato,
direttore del Festival, Paolo Minuto.
Se davvero i motivi dello scarso sostegno
fossero quelli addotti dal direttore (e non mi
risulta vi siano state smentite di fronte a una
dichiarazione pubblica, sintomo più di disinteresse che di una vera e propria presa di
posizione, e non so quale sia il male minore),
ovvero una preclusione dovuta a motivi
“banalmente” politici, sarebbe davvero una
condizione avvilente, di fronte alla quale il
senso d’impotenza e di accerchiamento che
qui e là si respirava in sala avrebbe qualche
motivo di essersi scatenato.
Fate salve queste considerazioni, e presupponendo con animo pio che un giudizio
del genere, di tale rozzezza da sembrare poco
credibile, non si sia espresso e immaginando
che la scelta di non sostenere il Festival sia
scaturita piuttosto da una ponderata scelta di
politica culturale, anche in questo caso la
decisione apparirebbe, sebbene legittima,
ampiamente discutibile.
Turisti o visitatori?
I
n città ultimamente si è discusso di
una vocazione “turistica della stessa
(cosa poi vorrà dire…). È forse
tempo di chiedersi quale tipo di turismo questa città dovrebbe porsi l’obiettivo di attrarre,
questione strettamente correlata alla politica
culturale.
Il termine “sviluppo” è un termine complesso e naturalmente ha a che fare con la
crescita qualitativa e non esclusivamente
quantitativa. Altrimenti si dovrebbe indicare
come “sviluppo” la disordinata crescita urbanistica della città degli ultimi anni.
Quando si parla di turismo si conviene
che esso contribuisca allo sviluppo, poi,
però, si aggiunge “economico”.
È questo il punto: “più turisti” non significa “città migliore”. L’invasione delle “orde
barbariche” e le loro “perdite sul campo” di
lattine, bottiglie di birra e bucce d’anguria o
la trasformazione del centro cittadino in un
luna park stile riviera romagnola, con corollario l’impennata dei prezzi per “dissanguare” i turisti, immagino (ma purtroppo non ne
ho la certezza…) non sia auspicabile da nessuno. Lo sviluppo è dato dalla coesione
sociale dalla qualità della vita. Un turismo
stile Rimini significa svuotamento reciproco.
I turisti passano come le cavallette e “consumano” occasioni di svago standardizzate, che
potrebbero trovare identiche ovunque.
Non si può certo chiedere a un Festival
“serio” e rigoroso come quello dei Circoli
del Cinema, che prova a misurarsi anzitutto
con altre manifestazioni internazionali simili
e non – con tutto il rispetto – con la sagra
della melanzana, di farsi carico dell’intera
questione turistica cittadina, ma la strada corretta la ha tracciata in quello scambio fra cittadini e visitatori “consapevoli”, come sono i
delegati dei Circoli del cinema che si incontrano a Reggio.
Se accanto al Festival dei Circoli del
Cinema, al quale andrebbe dato modo di crescere e sopravvivere, ci fosse una rete di altre
manifestazioni analoghe, magari immaginando una cornice che sappia mediare fra qualità
e quantità, come tutto attorno a noi si sta
capendo (dal Festival delle Invasioni di
Cosenza all’Ortigia Festival di Siracusa, dall’Etna Fest di Catania al Kals’Art di Palermo, dalla tradizionale Taoarte al tessuto di
manifestazioni di Catanzaro: la mostra di
Cragg Fabre Paladino a Roccelletta di Borgia, Mirabilia, la mostra sulla Magna Grecia,
i concerti rock), questo tipo di turismo si
“materializzerebbe” miracolosamente, e il
vicino Paleariza, in un territorio assai meno
facile da raggiungersi, lo dimostra con le sue
presenze numerose, ma non iperboliche e,
soprattutto, consapevoli. Naturalmente è la
qualità delle manifestazioni a determinare
tale tipo di presenze. Ad esempio una proiezione di film restaurati, a meno che non
siano film del muto o film dispersi e recuperati, NON è un festival, ma una rassegna,
perché manca del fondamentale elemento
della sperimentazione, e il numero di apparizioni televisive di un artista NON determina
la qualità del suo lavoro, né sancisce la sua
abilità come direttore artistico. In entrambi
questi casi chi desidera fare turismo culturalmente ed ecologicamente “compatibile” si
muove per vedere uno spettacolo stimolante
poiché innovativo, “sperimentatore”, in un
contesto che lo favorisca, ovvero una cornice
organizzativa degna, altrimenti non si muoverà affatto, lo farà solo per vedere eventi di
alto profilo che non può vedere altrove. Poi
dipende da cosa si vuole: nelle discoteche
“seriali” o alla sagra della melanzana o
all’ennesima replica delle operette o di una
rappresentazione di teatro classico imbolsito
o alle proiezioni dei “filmoni” americani,
non sottotitolati per carità, spesso accorre un
pubblico numeroso, e non nego che eventi
del genere debbano esserci, ma tutto sta nello
scegliere quale modello di sviluppo voglia
una città, se quello dello “scambio” col visitatore, con l’ospite, oppure quello della lotta
col turista.
Federico Giordano
L ETTERE
M ERIDIANE
12
N. 2 / 3 - Luglio - Agosto - Settembre 2005
Un noir in salsa calabrese per
raccontare una terra difficile
D
i “Ragù di capra” si accenna appena, ma non c’era
da scegliere titolo migliore. Sia perché commercialmente appetibile (in libreria attira inevitabilmente
tutti i calabresi sparsi per l’Italia e per
il mondo e, lo sappiamo, sono tanti) e
poi la Calabria descritta da Gianfrancesco Turano è proprio così, dal sapore
forte, intenso, poco digeribile, ma indimenticabile. “Ragù di capra”, opera
prima del giornalista reggino Gianfrancesco Turano, annuncia la sua “calabresità” offrendo al lettore un suo piatto
tipico. Il romanzo noir ambientato nella
Locride e pubblicato dall’editore Flaccovio di Palermo nella collana Gialloteca difficilmente potrebbe essere
definito un giallo: non ci sono misteri
da scoprire e le morti sono annunciate
nella vicenda di Stefano Airaghi, milanese faccendiere ed arrogante, che
finge la morte nelle acque dello Jonio
reggino per intascare i soldi dell’assicurazione. Dopo essersi nascosto grazie
al socio calabrese nello sperduto paesino con la protezione della mafia locale,
anziché attendere tranquillamente la
conclusione del suo stesso piano, Airaghi decide di creare lui stesso una piccola “ ‘ndrina” e gestire da lì nuovi
illeciti affari. Ma la mafia dalle ferree
leggi non tollera intromissioni nel proprio territorio e la validità del detto
“Potere è volere” da Milano alla Calabria si dissolve ineluttabilmente.
Uscito da soli due mesi, il libro ha
ricevuto un buon successo di pubblico
e di critica. Presentato a Milano, Roma,
Palermo, e anche al Salone del Libro di
Torino, arriva a Reggio, città che l’autore ha lasciato a 18 anni per seguire
una laurea in greco antico e la carriera
giornalistica. Per questa presentazione,
forse la più delicata, Turano ha scelto
due critici insoliti: il professore della
Facoltà di Ingegneria di Firenze, Alberto Ziparo, e il professore di Sociologia
a Messina, Tonino Perna, già presidente dell’Ente Parco di Aspromonte. Non
due esperti di letteratura, ma due studiosi che conoscono bene il territorio
reggino e calabrese. Perché quell’opposizione tra Nord e Sud che vive nel
romanzo, divenendone il dato immediatamente riscontrabile, non può fare a
meno di suscitare analisi che travalicano lo spessore letterario. Lo stile ironico e graffiante di una narrazione,
permeata qua e là da elementi dialettali,
esalta il quadro desolante e drammatico
di una terra di Calabria, dove a comandare è sempre la mafia, le istituzioni
sono assenti e i giovani non hanno
alcuna speranza, né desiderio, se non i
soldi facili e le promesse di qualcuno
che è altrettanto privo di scrupoli dei
boss locali.
Il Milanese è deciso e calcolatore,
con pochi punti deboli, applica nella
vita gli insegnamenti del suo maestro
di karatè, ma cede a poco a poco ai
ritmi di una Calabria estiva e sonnolenta, solo apparentemente immobile. Qui
le macchine si muovono lentamente,
gli occhi osservano, i saluti sono segni
precisi e misurati. Il Milanese sa leggere l’atmosfera, ma non capisce i codici,
non nota i confini e li oltrepassa. Uomo
del Nord, furbo, esperto, con vestiti
costosi, sembra essere sempre un vincitore. Riesce così ad attrarre alcuni
sbandati del paese, quelli che nessuno
considera. Ma sono solo solitudini
quelle che si incontrano in questo
romanzo. Tra faccendieri e sfaccendati,
gente di nessuno e di niente, si consuma una vaga alleanza; vaga, perché al
contrario di quella che unisce i componenti della ‘ndrina’, non è fondata sulla
paura e la sottomissione, ma solo dal
desiderio di fare soldi, di andare via
dalla Calabria ricchi e liberi; questo
accomuna i ragazzi calabresi e Airaghi;
e questo sarà il motivo per cui non riusciranno nella loro impresa, che diventerà una beffa e allo stesso tempo una
ribellione alla mafia locale.
L’autore dice di essersi vendicato,
attraverso questo personaggio, di una
società un po’ razzista nei confronti del
Sud e con ben altri lati negativi. Airaghi è un uomo solo ancora prima di
venire in Calabria, non parla da 10 anni
con la madre, non ha amici, ma solo
soci che rischiano di trasformarsi ad
ogni passo in nemici, e una ragazza
russa, che non si può certo definire
fidanzata.
La vendetta è quella di averlo
lasciato vivo e sconfitto. Spezzato nel
suo orgoglio, nulla in mano, riconsegnato ad una madre, che ha un certo
punto da donna acida e incattivita si
trasforma in una semplice madre, come
quelle del sud, che si prende cura del
figlio. La vendetta è di avergli lasciato
la Calabria in testa. Nel torpore e nella
stanchezza rimane al protagonista l’immagine del mare luccicante, il movimento della risacca che purifica, il
lento ondeggiare delle felci al vento di
scirocco, tutto quel verde del sud che
sopravvive prepotentemente e senza
freni a dispetto degli uomini.
Nell’interpretazione di Alberto
Ziparo, condivisa dall’autore, è proprio
questo paesaggio aspro nelle montagne,
ingentilito dal mare, tranquillizzante
nel vento, e frustante nell’afa e nello
scirocco, a costituire “l’unico personaggio positivo, l’unico che dà speranza”. Non possiede niente altro il
popolo calabrese? Forse, non è proprio
così, il desiderio degli sbandati di avere
qualcosa di meglio, di essere
liberi è forse un piccolo spiraglio di fiducia per il futuro.
Dal taglio cinematografico (era nato come sceneggiatura per un film), con
atmosfere alla Sergio Leone
e Quentin Tarantino, è stato
definito un western calabrese, con personaggi fortemente caratterizzati, un
linguaggio secco e una
costante vena ironica,
tagliente e disincantata,
che diventa cifra di tutto il
romanzo; perché, riconosce lo stesso autore “salva
i personaggi dalla vera
disperazione ed è un
aspetto di questa città che
ho voluto far emergere.
Con tutti i suoi difetti,
Reggio è una città che
apprezza e rispetta l’ironia, che considero la
caratteristica del nostro
tempo, come non accade
in altri luoghi del
mondo che hanno i suoi
stessi problemi”.
Una piccola curiosità. Sulla copertina
s’intravede nel buio
una cabina telefonica
con la cornetta staccata. Il lettore ci fa caso solo dopo aver
letto il libro. Sembra suggerire un
mistero, un momento di angoscia e di
attesa, come in un buon film giallo; ma
potremmo osare un’altra interpretazione. Le cabine sono quasi sempre rotte
al Sud e, per l’autore, sono i giovani
che non hanno nulla da fare che sfogano la loro noia rompendole. Forse
rappresentano il simbolo di un filo
interrotto con l’esterno, di un isolamento vissuto, imposto e alla fine accettato.
E se quello scatto di rabbia e di noia
potesse essere interpretato come segno
positivo di insofferenza, di voglia di
cambiamento, un desiderio di spezzare
ben altri fili? Speriamo di sì.
Oriana Schembari
Due voci femminili narrano una “indicibile” Sicilia
Due racconti per liberare l’anima siciliana…
…Un romanzo ne racconta l’antica schiavitù
De anima sicula
Tardara
di Gioia Timpanelli
Dario Falccovio Editore
pp.223 - € 14,00
di Licia Cardillo di Prima
Editori Riuniti
pp. 166 - € 12,00
i cunta e si raccunta…di una Sicilia calda e luminosa, di
S
una donna giovane e bella chiusa in un palazzo antico,
di un pappagallo colorato che un giorno entra da un’ alta fine-
un’altra Sicilia quella che ci racconta Licia Cardillo Di
E
’
Prima. Un’altra voce per riferirci ancora di parole non
dette e di significati nascosti che rimangono sospesi su questa
stra, rimasta fino a quel momento serrata. È l’inizio di una
fiaba che rimanda ad altre fiabe, ma anche del racconto di uno
strano viaggio per ritrovare se stessi, di uno smarrimento muto,
da cui solo voci sconosciute sono in grado di sottrarre la protagonista. Una nobildonna siciliana sceglie di trincerarsi nel buio
di un palazzo nel cuore di una Palermo di inizio Novecento, al
riparo dalla confusione e dal frastuono di una città chiassosa
e in movimento. Vive con le finestre chiuse anche di giorno,
legge nello studio, ha contatti solo con i domestici, fino a
quando un giorno un gruppu di chiantu le chiude la gola, la
costringe ad aprire una finestra, ad emettere un suono di sollievo, richiamando così l’attenzione di due uomini nel palazzo di fronte… Si mette in moto la strana vicenda che sottrarrà la donna al suo volontario esilio, il canto di un
pappagallo la restituirà a quella vita che non permette di essere ignorata a lungo.
È Gioia Timpanelli a raccontarci questa e altre storie, restituendoci l’atmosfera dei racconti popolari
tramandati dalla tradizione orale e delle novelle di Giuseppe Pitrè. Ad essi si ispira nel suo lavoro che
l’ha resa celebre negli Stati Uniti. Con “Sometimes the Soul-Two novellas of Sicily”, di cui Flaccovio
propone oggi la traduzione di Fulvia Masi con il titolo “De anima sicula”, ha vinto l’American Book
Award 1999. I suoi programmi televisivi sono stati trasmessi dalla rete nazionale Bps e premiati con
due Emmy Awards. È una storyteller, una splendida voce della tradizione orale contemporanea e di lei
Frank McCourt dice “Non c’è nessuno al mondo che sappia raccontare una storia come lei”.
Il racconto, per Gioia Timpanelli, ha una forza liberatrice e purificatoria, e trova la sua più perfetta
espressione nella fiaba, dove tutto non è quello che sembra, e dove l’epilogo si trova solo alla fine di
un lungo viaggio, dopo tante avversità; è la “storiella” che si raccontava un tempo seduti a tavola, provando meraviglia, ansia, emozione. La possibilità di immedesimarsi, di perdersi in una storia ha una
valenza del tutto particolare per la Timpanelli. “Oggi si parla solo per slogan, impoverendo così il linguaggio e di conseguenza il pensiero. Si perde la capacità di leggere oltre l’univocità dei significati,
oltre la nettezza delle immagini”. Sottesa a tutto ciò, la convinzione che la Sicilia conservi un linguaggio, quello dialettale, e una sensibilità, da qui il titolo “De anima sicula”, aperti ai simbolismi, ricchi,
variegati, mutevoli nelle interpretazioni, nelle parole non dette, nelle verità non svelate, ma magari da
scoprire, inventare o re-inventare. Un mondo così diverso da un’ America e, in generale, da una
società come quella moderna, che sembra aver perso la capacità di stupirsi, di emozionarsi, che si è
come atrofizzata, meccanizzata e si risveglia solo per provare paura davanti alle minacce che rischiano
di annientarla. Gioia Timpanelli conosce bene l’America, e il dopo 11 settembre, e con orrore ci parla
di una politica che si esprime anch’essa solo per slogan, facendo leva su sentimenti falsi, come il terrore, il bisogno di sicurezza, il miraggio del benessere. Un’ America non così lontana dall’Italia, e da
quella stessa Sicilia, in cui l’autrice è convinta di scorgere ancora le radici di un pensiero diverso, più
ricco, più aperto e duttile, e per questo in grado di costituire un esempio positivo. Per questo nel suo
lavoro Gioia racconta storie, nel disperato tentativo di risvegliare in chi l’ascolta il senso dello stupore,
convinta che la magia della parola possa ancora operare il miracolo del risveglio dell’anima, come
accade alle donne protagoniste dei due racconti, Costanza e Rusina. Forse Gioia ha troppa fiducia
nella “sicilianità”, o forse semplicemente sceglie di scorgere quelle poche tracce rimaste di un sentire
diverso, ma lo fa senza ingenuità. Di certo, al termine della lettura, ci è rimasto un senso vago di
benessere, un sorriso compiaciuto; anche noi come Costanza, la protagonista del primo racconto,
abbiamo attraversato un sottopassaggio buio e con ansia ed eccitazione siamo riemersi alla luce,
udendo come se fosse la prima volta tutto il baccano della vita che avevamo dimenticato di ascoltare. E
questo forse può ancora bastare.
O.S.
terra che non è più quella fiabesca dei racconti, ma quella
dove troppi misteri si nascondono. “Qui tutto è magia, illusione
dei sensi, castello d’Atlante…”, ma nel senso che qui “non è
vera neanche la natura”, “l’artificio è una necessità, una
protezione ”. Queste due diverse impostazioni di lettura
nascono da una medesima convinzione; nell’Isola tutto non
è come sembra, l’apparenza è un gioco dietro al quale ci
sono verità che non è dato di sapere. Ma se l’artificio per
la Timpanelli è una forma per sublimare la liberazione dell’anima nascosta, qui al contrario è il mezzo per tenerla
per sempre intrappolata.
La Sicilia descritta nel romanzo “Tardara” è più vicina alla realtà di
oggi e alle cronache dei giornali. Una vicenda di mafia, con morti e scomparse incomprensibili, il
mistero di una cava di tufo, una condizione di omertà, indifferenza e paura che avvolge tutti, tranne i
pochi personaggi positivi. Sono due uomini e una donna ad arrivare alla risoluzione di questo giallo,
tutti accomunati dall’amicizia verso il morto, e gli unici a non assoggettarsi ad una tradizione di rassegnazione. La rabbia malcelata verso coloro che prevaricano con arroganza e prepotenza nelle vite di
tutti può scoppiare ad un tratto, provocare un cambiamento, apparente anche questo, perché nasconde un ritorno alla precedente condizione.
Quello che esce dalla penna della giornalista siciliana è un ritratto di una Sicilia, dove anche la
natura non è che l’immagine di una realtà quasi onirica, che sembra essere sempre sul punto di dissolversi, senza lasciare tracce di sé, come se non fosse mai esistita. Non a caso l’autrice sceglie come
apertura una frase de Il Libro dell’Inquietudine di Fernando Pessoa, “Terra di giuncaie lungo i fiumi,
lande fatte per cacciatori e angosce, con rive irregolari che entrano come piccole corde sporche nelle
acque color piombo giallo. Non vi arriva nessuno, né vi arriverà mai. E anche se per una fuga contraddittoria del tempo e dello spazio io potessi evadere dal mondo per entrare in quel paesaggio, nessuno mai vi arriverebbe”. Non si arriva quindi in Sicilia, forse vi si può entrare, ma senza dimorare in
essa, respinge come una molla tutto quello che cerca di scuoterla.
Possiamo dire che l’apparenza vive nel romanzo anche in un altro senso; sembra quasi che l’autrice abbia voluto prendere a pretesto una storia che sembra uscita da un romanzo di Sciascia, per raccontarci del suo modo di vedere la propria terra e i suoi abitanti. I dialoghi tra i personaggi sono uno
strumento efficace a dare sfogo ad un’analisi che sembrava da tanto tempo conservata tra le pieghe
dell’attività di giornalista. Le pause durante le conversazioni servono a far capire i pensieri tenuti
nascosti, tra chi vorrebbe sapere e non può domandare direttamente e chi forse potrebbe sapere e
non vuole parlare apertamente.
I siciliani, divisi come sono tra popolo e baroni, sono impermeabili ai cambiamenti; così come ai
tempi antichi, quando la nobiltà aveva potere di vita e di morte sul popolo, i potenti governano indisturbati e senza limiti e al popolo bastano panem et circensem. Circensem, sì. Dice uno dei personaggi,
amaro: “Dimmi in quale altro paese del mondo ci sono così tante feste…per Santa Rita, Santa Lucia…
Santa Rosalia…?” Le feste servono al popolo per stordirlo, come in un rito pagano, per liberarsi e sfogarsi, in un miscuglio tra sacro e profano irrinunciabile. Guai a togliere la festa ai siciliani, si ribellano
come non hanno mai fatto, si mettono contro l’autorità e minacciano “o la festa o la testa” come al
malcapitato Marchese Caracciolo che cercò di combattere i privilegi dei potenti e per emancipare il
popolo volle togliere la festa di Santa Rosalia a Palermo, ma “o la festa o la testa” si gridò. E allora in
nome della festa, lo spettacolo continua ancora, diverso per non cambiare mai, in un eterno teatro
dove si è marionette e mai nemmeno attori, men che meno protagonisti.
O.S.
L ETTERE
M ERIDIANE
N. 2 / 3 - Luglio - Agosto - Settembre 2005
13
Il ponte insostenibile:
riflessioni su
un’opera infausta
a cura di DANIELA PELLICANO’
L’ambiente
dello Stretto
e la sua storia
L
a formazione originaria dello
Stretto di Messina può farsi risalire a oltre due milioni di anni fa,
quando si registrò il distacco della Sicilia
dalla Penisola Italiana, con l’emergere del
rilievo calabro. (1) “Attraversando questo
azzurro braccio di mare e guardando le sue
coste, viene subito il sospetto che queste due
terre, un giorno congiunte, fossero state separate, come per arcana forza bruta…” (2). In
effetti diverse teorie geo-morfologiche confermano l’ipotesi del “distacco” (3), ipotesi che
è forse il motivo principale delle forti caratteristiche ambientali e paesaggistiche che
hanno dato vita, nel tempo, a miti e leggende.
Riguardo all’eccezionalità dell’ambiente
dello Stretto va ricordato che “il paesaggio
emergente, i fondali marini, la popolazione
faunistica e l’ecosistema nel suo complesso
ne fanno un luogo unico nel Mediterraneo” (4).
“L’interesse scientifico che riveste l’ecosistema dello Stretto è altissimo, da molteplici punti
di vista, ed impegna costantemente ricercatori,
biologi, fisici, naturalisti (…). Lo Stretto è stato
definito ‘paradiso degli zoologi’. Le sue profondità sono state esplorate per la prima volta da
Jacques Piccard nel maggio del 1979, producendo risultati
conoscitivi che non solo hanno risolto quesiti sulla vita dello
Stretto, ma hanno offerto input per affrontare problemi di biologia marina e di idrobiologia in generale”.(5)
Anche “il cielo dello Stretto di Messina rappresenta a
sua volta un altro particolare sistema aereo: una sorta di
collo di bottiglia in cui tutti gli uccelli migratori si concentrano per raggiungere la Penisola e continuare il lungo
volo verso il nord”. (6)
“Il paesaggio e l’ecosistema dello Stretto di Messina
mostrano come natura e cultura possono trovare una relazione non oppositiva. Dalle antiche leggende, ai miti, alla
letteratura ed alla poesia recenti questa area ha assunto un
significato che permea la cultura e va ben oltre le espressioni locali. Dello Stretto offrono accurate descrizioni
Omero, Aristotele, che le accompagna con considerazioni
scientifiche e filosofiche, Virgilio (si veda il II canto dell’Eneide), Lucrezio, Ovidio, Sallustio e Seneca. Dante utilizza la metafora di Cariddi nel canto VII dell’Inferno.
Galilei dedica a Scilla e Cariddi un’ampia parte della
‘giornata quarta’, sugli effetti dell’acqua e dell’aria, nel
‘Dialogo sopra i Massimi sistemi’. A quest’area è legata
una memorialistica letteraria e scientifica europea che
annovera, tra gli altri, i notissimi contributi di Goethe. In
ogni caso si tratta di una cultura del rispetto della potenza
della natura e della coscienza del limite, i cui richiami risultano particolarmente urgenti nell’epoca attuale. (7)
L’area è altresì nota perché ad un livello geologicamente più
profondo si confrontano placca egea e placca adriatica. Il territorio è
insomma zona sismica ad alto grado di pericolosità e le catastrofi
sismiche hanno sconvolto e distrutto a più riprese tanto Messina quanto Reggio Calabria. Ogni volta i due insediamenti ed i paesi circostanti sono stati ricostruiti. Le popolazioni superstiti alle decimazioni, non
hanno abbandonato i luoghi. In questi eventi, nel rapporto tra disastro
naturale e vita sociale, si trovano tratti di una cultura antica e nel contempo attualissima: la cultura della convivenza con il terremoto, che
un tempo è stata, e potrebbe tornare ad essere, cultura della prevenzione e della non rimozione del rischio, dell’imprevisto, del caotico.
Le società che nel tempo hanno abitato il territorio dello Stretto
sono state segnate inoltre dalla strategica importanza della sua collocazione geografica rispetto al Mediterraneo.
NOTE
Cfr E. Cortese, Descrizione geologica della Calabria, Ricci, Firenze,
1934 (1897)
(2)
Cfr. F. Lacava, Lo stretto di Messina nell’Antichità, Parallelo 38, Reggio Calabria, 1974
(3)
Il Cortese si sofferma a lungo su questi aspetti; Cfr. nota 1. Lucio
Gambi li riprende nelle sue indagini sull’Area dello Stretto; cfr. L. Gambi,
Calabria, Utet, Torino 1961. Gambi denomina le due sponde dello Stretto
“Peloritana” e “Aspromontana”, sottolineando così l’importanza dei massicci interni su tutta l’organizzazione del territorio.
(4)
Cfr. O. Pieroni ‘Testo per la discussione allegato all’Appello all’Unesco’ per la protezione dello Stretto di Messina quale patrimonio naturale e
culturale dell?umanità, Reggio Calabria 1998.
(5)
Idem.
(6)
Idem.
(7)
Idem.
(1)
La storia del Ponte
O
gni progetto porta con sé una storia, quella del ponte è veramente lunga. Proviamo a ricostruirne i passaggi: dal dibattito post-unitario che intravede, per la prima volta, la necessità di un collegamento tra le
due sponde, alla stesura delle prime ipotesi di piano nel secondo dopoguerra all’Area Metropolitana
dello Stretto e Conurbazione con Ponte, immaginata nel Progetto ’80, per arrivare infine alle posizioni attuali, frutto degli studi più recenti.
Subito dopo l’unità d’Italia cominciano a farsi strada le prime ipotesi di attraversamento stabile; ciò accade in
concomitanza con la necessità di concretizzare
l’ossatura principale della rete ferroviaria
nazionale. I politici e gli ingegneri dell’epoca
si rendono presto conto della complessità dell’opera e preferiscono accantonarla.
Il terremoto del 28 dicembre del 1908
distrugge completamente le due città; la ricostruzione è affidata a Borzì per Messina e a De
Nava per Reggio.
Naturalmente nei loro progetti si teneva
conto di un forte sviluppo urbano, ma nonostante ciò sono quasi inesistenti le ipotesi di
costruzione di un ponte di collegamento.
Nel secondo dopoguerra il Mezzogiorno
arretrato necessita di aiuti corposi che si concretizzano in interventi straordinari e nel trasferimento di capitali concentrati in grandi
opere. Questo scenario rende più realistica l’ipotesi del ponte inteso come investimento
necessario per il reale sviluppo dell’area.
Nasce così “Progetto ‘80” (programma economico nazionale 1971-75), che nelle sue
“Linee di Coordinamento Territoriale, prevede
la creazione dell’Area metropolitana dello
Stretto di Messina da realizzarsi attorno all’attraversamento stabile: una grande “Città dello
Stretto”. Gli urbanisti e i pianificatori che si
occupano del Mezzogiorno negli anni Settanta hanno un peso rilevante nel
definire il progetto in questi termini; scottati dopo la delusione dei “contesti
agrari” e delle “aree interne” intravedono nel concetto di “città grande e quindi
a solida armatura urbana, la nuova pietra filosofale dello sviluppo meridionale”.
Ma neanche questa posizione si rivela convincente tanto che le due Regioni
si propongono di realizzare “uno sviluppo lineare, ma infraregionale, dei due
centri (Messina verso Milazzo e Reggio verso Gioia Tauro e Saline)”.
È a questo punto che grazie alle pressioni politiche cambia lo scenario.
Con l’aiuto del P.S.I. e della destra D.C., i cui esponenti messinesi sono
direttamente coinvolti nell’operazione, il governo vara la costituzione della
“Stretto di Messina S.p.A.”, che coinvolge le istituzioni interessate ed ha come
compito la redazione di “ricerche e studi atti a verificare la fattibilità di un
manufatto di attraversamento stabile dello Stretto di Messina”.
La società, che da allora costituisce voce permanente nei bilanci delle regioni, dello Stato e quindi nelle finanziarie (con portafoglio di alcune decine di
miliardi annui), promuove subito campagne al fine di legittimare l’operazione.
La società, il cui presidente è stato anche proprietario del quotidiano maggiormente diffuso tra le due province, da quando è nata ha cercato consenso commissionando studi a università, istituzioni tecniche, scientifiche e culturali sia
locali che nazionali.
Anche per la contiguità con tali gruppi, infatti, gli strumenti urbanistici di
Messina e Reggio, redatti in quegli anni, in totale difformità dalle linee di programmazione regionale, sposano l’idea di una città dello Stretto. Un concetto
destinato ad essere accantonato semplicemente perché non attuato.
Negli anni Settanta “il Ponte”, sostanzialmente assente nel dibattito politico, rimane argomento di riflessione e
di discussione tra gli specialisti.
Viene organizzato un concorso di idee per la scelta della soluzione tecnica, che si risolve senza vincitori, ma
consolida attorno all’operazione la presenza di burocrazie di ricercatori: I.R.I favorevole all’attraversamento aereo
ed Eni favorevole al tunnel.
Agli inizi degli anni Ottanta la crisi fiscale dello Stato e il clamoroso fallimento delle politiche di grandi interventi per il sud, sembrano dover rispedire definitivamente il ponte nel “baule dei sogni”. Invece la seconda metà
del decennio, dominata dal rilancio di enormi programmi di opere, diventati fonte permanente di distorsione
gestionale e di sottrazione di risorse pubbliche, interessa anche il Progetto del Ponte che viene riproposto da apposito decreto Craxi e per il quale si riverniciano i vecchi simboli: i richiami alla “Buda-Pest dello Stretto” (ma gli
urbanisti avevano già chiarito che Reggio e Messina a differenza delle due parti della capitale ungherese, soffrivano degli stessi problemi) ed al Golden State Bridge (di cui gli studiosi di San Francisco e Berkeley sottolineavano
la funzione territoriale “ma proprio perché ultimato nel 1938, all’avvio dello sviluppo della civiltà dell’auto).
Il 31 dicembre 1992 il progetto viene presentato. L’alleanza tra I.R.I. e Ferrovie porta la “Società dello Stretto” a
privilegiare l’attraversamento aereo.
I molti metri cubi che compongono l’elaborato restituiscono un manufatto impressionante che viaggia tra la
Sicilia e la Calabria a circa 70 mt. d’altezza, sorretto da torri di oltre 350 mt. Sul ponte, cui si accede tramite un
enorme groviglio di svincoli e rampe, passerebbero sia i treni a bassa velocità (le pendenze di linea cominciano a
salire decine di chilometri prima degli imbocchi) che le auto a velocità limitata (i tempi di percorrenza tra il centro
di Reggio e il centro di Messina non si abbasserebbero).
Ma i numerosi volumi del progetto sono dedicati quasi esclusivamente a dimensionamenti e verifiche degli elementi tecnico-costruttivi.
Dunque mancano o sono trattati genericamente i problemi riguardanti i vari livelli di programmazione e di politiche territoriali.
Nel recente “Parere” del Consiglio Superiore dei lavori pubblici, ad esempio, non viene toccato un punto che gli
esperti sollevano da sempre: non è ammissibile, nel duemila, concepire un unico enorme “collo di bottiglia” tra la
Sicilia e la Calabria, data la totalità di merci e passeggeri, considerando anche il fatto che la riduzione del traffico
su gomma è uno dei grandi problemi attuali.
Piuttosto non sarebbe più utile puntare sulla diversificazione di modi, mezzi e vie di comunicazione tra la Sicilia
e il Continente?
A questo proposito non è trascurabile (oltre al consolidamento dei sistemi aeroportuali regionali) il fatto che lo
stato abbia già speso oltre 40 mila miliardi in vent’anni per realizzare e ampliare nell’area i porti di Milazzo, Messina e Catania da una parte e Saline, Reggio, Villa S. Giovanni e Gioia Tauro dall’altra.
L ETTERE
M ERIDIANE
14
Le città
e l’Area
dello Stretto
I
l concetto di Area dello Stretto nasce dal punto
di vista normativo e programmatico nel 1965
con la redazione e l’approvazione da parte del
Cipe, del Progetto 80, il programma economico nazionale 1971-75. L’ipotesi su cui si basa il progetto è costituita dalla creazione di un’area metropolitana, formata
dalla conurbazione tra le aree urbane di Messina, Villa
San Giovanni e Reggio Calabria, che avrebbe dovuto
portare solidità e sviluppo nella struttura urbana ed economica, soprattutto terziaria.
La prima osservazione mossa al Progetto 80 riguarda i presupposti sui quali si regge: in quel periodo le
relazioni tra le due sponde erano minime, entrambe le
regioni, infatti, privilegiavano i contatti all’interno dei
propri ambiti regionali.
Reggio con la Piana di Gioia Tauro e la formazione
salino-melitese, Messina con Taormina e le prime frange catanesi sullo Jonio e, sul Tirreno, verso l’area industriale di Milazzo. Inoltre le indicazioni presenti nel
Progetto contrastavano con l’evoluzione dell’assetto
ecologico dell’area. “La giustapposizione critica di due
aree fragili che per di più avevano preso ad ignorarsi”
si presentava dunque problematica. (1)
Il “programma di sviluppo economico regionale e le
linee di assetto territoriale” redatto nel 1976 dalla
Regione Calabria, d’intesa con la CasMez ed il Ministero per il Mezzogiorno prevedeva di riorganizzare
così il territorio regionale: Cosenza con la nuova università (terziario culturale), Catanzaro con l’attribuzione degli uffici della Regione (terziario amministrativo)
il Reggino con l’area industriale di Gioia Tauro (secondario).
La programmazione regionale calabrese, come del
resto quella siciliana, ha continuato a proporre visioni
del territorio regionale caratterizzate da relazioni interne, dando dunque scarso peso alla “Città dello Stretto”.
Date queste premesse, ciò che oggi dovrebbe verificarsi nell’Area dello Stretto, come in molte aree del
Mezzogiorno, è il recupero ambientale; i nuovi progetti
dovrebbero reinterpretare, valorizzandole, morfologie,
ecologie, culture, saperi esistenti; dunque esattamente il
contrario di ciò che invece si intende fare: introdurre
dall’esterno grandi strutture che negano le identità locali. Questa posizione, peraltro dettata anche dal comune
buon senso, sembra essere stata colta nell’ultimo atto di
programmazione redatto per l’area. L’accordo di programma siglato nel 1990 dai tre comuni interessati,
d’intesa con le due province e le due regioni, parla di
necessità di riequilibrio dei rapporti fra le diverse parti
del territorio interessato e l’esterno che si può ottenere
grazie anche all’integrazione del sistema dei trasporti,
che va però realizzato con attrezzature tali da favorire e
non negare la valorizzazione del territorio e del paesaggio. (2)
NOTE
Cfr. A. Ziparo “Il ritorno delle grandi infrastrutture: il progetto del Ponte sullo Stretto”, Bollettino DUPT, Firenze 1998
(2)
Idem.
(1)
N. 2 / 3 - Luglio - Agosto - Settembre 2005
Introduzione a
e analisi critich
L
e immagini più recenti del
territorio nazionale offrono
un quadro di relazioni tra
insediamenti, infrastrutture e sistema
ambientale, complicato da una logica
di sviluppo quantitativo tutt’altro che
pianificata. (Itaten, 1996; Secchi,
1995).
Questo da una parte ha permesso il
soddisfacimento sostanziale del “bisogno di traffico” in molte aree, dall’altra ha favorito una crescita
quantitativa del sistema; di conseguenza non si è realizzata un’organizzazione basata su interazioni utili e
innovative tra territorio e trasporti, ma
piuttosto si è agito all’insegna della
parzialità e dell’occasionalità.
L’esito complessivo di questa mancanza di strategia ha comportato una
tendenza allo squilibrio, con dannosi
esuberi, ed una diminuzione della possibile efficienza nell’uso dello spazio
disponibile; quest’ultimo, infatti, ha
subito una “caduta di senso”.
Inoltre molte delle ricerche regionali Itaten registrano un acuirsi dei
conflitti legati alle nuove domande di
spostamento.
Le opposizioni, non solo ambientaliste, a molte nuove proposte di infrastrutturazione, sono indicative di tali
processi: si pensi soltanto all’Alta
velocità, che “attraversa e disastra”
sistemi (infra) regionali e locali, mentre privilegia i grandi collegamenti
continentali.
Dagli studi Itaten e successivamente RetUrb (ricerca nazionale sulle relazioni tra assetto e reti infrastrutturali)
è emersa la necessità di politiche che
ricompongano i conflitti sopra citati.
Se attuate offrirebbero una visione
“innovativa e differenziale” delle reti
infrastrutturali, e svolgerebbero in
modo “intelligente” la funzione di servizio del territorio.
Per immaginare nuove compatibilità tra territorio e infrastrutture o, se
si vuole, una “mobilità sostenibile”,
occorre verificare le attrezzature di
trasporto, esistenti e previste nelle
diverse regioni, dai soggetti che vi
risiedono.
Questo passaggio appare quanto
mai necessario nel Mezzogiorno che
da una parte “ancora subisce gli effetti
dell’arretratezza dei sistemi infrastrutturali primari” e dall’altra continua a
pagare, in termini di degrado ambientale, di dissesto idrogeologico e di
deterritorializzazione, il prezzo del
fallimento delle politiche dei “poli
industriali ed infrastrutturali”.
Su tale punto è bene soffermarsi
per ricordare che proprio questi ultimi,
concepiti con caratteristiche di dubbia
utilità sociale, grave impatto e grande
ingombro spaziale, avrebbero dovuto
favorire il trasferimento “straordinario” di risorse pubbliche al Mezzogiorno ed invece si sono spesso risolti
oltre che in ingenti sprechi e in ritorni
di disoccupazione, anche in cancellazione di economie locali e forti condizionamenti sul territorio, per arrivare
infine alla grande e sistematica distorsione nella gestione della cosa pubblica con penetrazioni della criminalità
organizzata (allorché al Sud Tangentopoli incrociava Mafiopoli).
In questo quadro esiste il rischio
che il perpetuarsi di vecchie logiche
produca nuove aporie: accanto alle
operazioni chiaramente necessarie,
quali la ristrutturazione della Salerno
– Reggio Calabria, il completamento e
la riqualificazione delle reti idriche, il
consolidamento delle dorsali basso –
adriatica e soprattutto jonica, il completamento e la fruizione dei sistemi
portuali, si prospettano nuove “grandi
opere” di dubbia utilità e piuttosto
somiglianti alle operazioni più discutibili del recente passato.
Proprio per questo è necessario
inquadrare le nuove proposte in adeguate logiche di pianificazione economica, territoriale ed ambientale.
Occorre leggere i nuovi programmi
seguendo due direttive: gli impatti che
ne possono derivare e la valenza
sociale che ne consegue.
* * *
O
ccorre fare una lettura
sintetica del sistema degli
impatti e soffermarsi su
alcune delle principali incognite
riguardanti la realizzabilità del progetto.
Innanzitutto è utile sottolineare le
rilevanti carenze di tipo metodologico
inerenti l’organizzazione dello studio
di Impatto Ambientale presentato dal
proponente.
“In particolare, nonostante gli
ingenti finanziamenti pubblici investiti nell’elaborazione del progetto di
massima e del Sia, si rilevano diversi
elementi critici nella strutturazione del
Sia, riguardanti metodologie, contenuti e organizzazione del documento”
(cfr. sez VI de “Il ponte insostenibile”,
Ed. Alinea, Firenze 2002).
Inoltre va sottolineata la sostanziale
assenza di adeguati scenari di riferimento economico-territoriali, fondamentali per fornire un quadro logico
per la valutazione di compatibilità del
progetto. Per non parlare poi degli
effetti di impatto che comportano trasformazioni paesaggistiche e percettive
dello Stretto di Messina, patrimonio di
indiscutibile bellezza e unicità.
“L’impatto paesaggistico va proiettato almeno su quattro piani:
- la modificazione della scena dell’insieme dello Stretto;
- la trasformazione della geografia
e della orografia dei luoghi;
- la modificazione del paesaggio
dei versanti;
- la nuova percezione dello Stretto
e l’impatto soggettivo (emotivo e psicologico) e collettivo (socio-culturale)
sulle popolazioni interessate”.
In particolare “per quanto riguarda la
scena dell’intero ambiente dello Stretto
appare più appropriato parlare di trasformazione che di modificazione.
Altri elementi del sistema degli
impatti principali sottovalutati o non
considerati dal Sia riguardano:
- gli aspetti idrogeologici e la circolazione idrica sotterranea (“manca uno
studio approfondito della situazione
idrogeologica delle aree interessate)
che comprende anche l’area dei
laghetti di Ganzirri;
- l’incidenza delle attrezzature di
suolo sull’ambiente marino;
- l’estrazione di inerte e la posa dei
rifiuti: si calcola che per la realizzazione del ponte occorreranno milioni
di metri cubi di inerte e centinaia di
migliaia di metri cubi di acciaio: si è
individuata l’area del prelievo nella
zona etnea, ma non esiste nessuna
analisi di impatto dei siti;
- gli aspetti biologici costieri e
marini: i perenni cantieri aperti su tratti rilevanti di costa sicula e calabra
comprometterebbero l’esistenza di una
serie di habitat unici nel mediterraneo,
senza contare la distruzione/cancellazione di numerosissimi biotipi;
Valutazione
di impatto
ambientale
M
arzo 1986, la Direzione Nazionale di
Democrazia Proletaria sollecita una riflessione approfondita sulle ipotesi progettuali
del Ponte sullo Stretto di Messina coinvolgendo varie
realtà: esponenti della cultura urbanistica, ambientalista,
tecnico-scientifica e naturalmente le associazioni presenti
sul territorio. Lo scopo è quello di elaborare valide proposte alternative.
All’epoca in Italia non esistevano normative in materia
di impatto ambientale, ancora oggi non esistono indicazioni precise, ma nonostante ciò si è cercato di condurre
comunque una verifica. Dallo studio effettuato è risultato
che il progetto era privo di una documentazione scientificamente corretta sulle aree a forte sensibilità, ed inoltre
non si faceva alcun cenno alle aree critiche né ad un
modello di analisi per la situazione sismica in rapporto
all’opera.
Quando si decide di dare corso ad un’infrastruttura è
necessario approntare una corretta Valutazione di impatto
ambientale (VIA). Questa non è un mezzo per giustificare le opere, ma una procedura che consente di valutare le
diverse configurazioni del manufatto e, al tempo stesso,
una attenta osservazione delle alternative possibili (nel
caso del ponte, la dualità del trasbordo delle merci tra
Gioia Tauro e Milazzo ed il potenziamento dei traghetti
passeggeri nello Stretto).
Per stabilire quali sono i requisiti necessari per la VIA
bisogna ricorrere alla metodologia usata dalla Metropolitan Trasportation Commission, utilizzata per l’area della
Baia di S. Francisco. Facendolo, ci si rende conto che nel
caso del ponte, si è molto lontani dai giusti criteri da adottare per una corretta valutazione di impatto ambientale.
Ecco dunque come avrebbe dovuto articolarsi una corretta analisi della VIA:
- valutazione preliminare dell’area al fine di elaborare
un sistema informativo sul tema della qualità dell’ambiente naturale ed antropico e la definizione dei valori di
qualità ambientale
- elaborazione di mappe sintetiche dei fattori di vincolo non unicamente normativi, da utilizzare come parametri per l’esclusione di alcune aree ben definite
- precisi passaggi procedurali sulla R/I degli impatti
- identificazione delle alternative
- l’uso di modelli predittivi attendibili
- criteri di valutazione riconosciuti a livello scientifico
ed accademico internazionale
- ipotesi do nothing
- consultazione della popolazione
Dunque, alla luce di queste indicazioni, il rapporto di
fattibilità presentato dalla Società Stretto di Messina
risulta carente da un lato, perché non individua vincoli di
ordine geologico, ma solo di carattere urbanistico,
archeologico, monumentale, paesistico, idrogeologico,
/forestale, militare, infrastrutturale, peraltro di aree specifiche, e dall’altro perché trascura di studiare soluzioni
alternative proprio nel campo dei trasporti.
È noto a tutti che il territorio in questione è zona
sismica ad alto grado di pericolosità.
Il documento sopra esaminato avrebbe dovuto aprire
su questo tema ed esaurirlo.
Non lo fa. Ecco un’altra grave lacuna: l’impatto irreversibile della situazione geologica sull’opera è chiarissimo, ma non viene considerato.
N. 2 / 3 - Luglio - Agosto - Settembre 2005
L ETTERE
M ERIDIANE
15
alle ipotesi alternative
he al progetto
- gli aspetti naturalistici: “in
particolare parte della costa calabrese ed in generale l’intera provincia di Reggio Calabria…
rappresentano il ‘fondo cieco’
della catena appenninica e parallelamente il ‘collettore’ naturale utilizzato per spostamenti migratori
da centinaia di specie di uccelli”.
Dunque in questa parte dell’estrema punta della penisola si può
parlare di fragilità degli ecosistemi terrestri.
Gli aspetti esaminati evidenziano, all’interno del progetto presentato, la mancanza di analisi
sulle specie vegetali e faunistiche
presenti nelle due aree e i possibili
danni che creerebbe una macroalterazione come il ponte.
Ancora va ricordato un aspetto
critico dettato dalla sismicità dell’area.
Il progetto sostiene la realizzabilità dell’opera “in grado di resistere alle sollecitazioni comportate
da eventi di natura sismica fino ad
una soglia di intensità pari a 7.1
gradi Richter, anche per accadimenti con epicentro compreso nel
raggio di quindici chilometri”.
Questa tesi si riferisce all’opera
ultimata e collaudata quindi non
tiene conto di cosa accadrebbe se
si verificasse un evento sismico
durante la fase di costruzione.
Ancora, il progetto, pur soffermandosi sulla “sicurezza intrinseca” della struttura non tiene conto
degli effetti di questo tipo di evento sulle macchine e i treni lanciati
ad una velocità di circa cento chilometri orari.
* * *
I
l parere favorevole del
Consiglio Superiore dei
Lavori Pubblici non ha
risolto, in alcuni casi nemmeno
sfiorato, le questioni che abbiamo
finora esposto. Si è limitato, al
contrario, a fornire le medesime
“non risposte” già contenute nel
progetto e nel Sia del proponente,
arricchendole con motivazioni
riguardanti ambiente, urbanistica
e sviluppo economico che rasentano il ridicolo; basta citare, ad
esempio, la pretesa del prof.
Brown, esimio costruttore di
infrastrutture, che si improvvisa
pianificatore e ribalta la logica
che lega domande territoriali e
attrezzature, sostenendo che “tutti
i piani urbanistici dell’area vanno
riformulati in rapporto al progetto
del Ponte”. Una teoria del genere
cancella la complessità dei problemi e incautamente trova addirittura eco in qualche amministratore
locale.
Gli ingenti investimenti sostenuti, i progetti più o meno assemblati, i pareri costruiti nel tempo
non rispondono ad una domanda
elementare: perché si dovrebbe
realizzare un’opera che presenta
così tante e pesanti implicazioni?
L’unica risposta che emerge
dalla monumentale documentazione è giocata sul piano dell’organizzazione dei trasporti e ribadisce
quanto si è sempre detto nell’ambito dei collegamenti stradali e ferroviari, non tenendo conto che dalle
prime proposte formulate ad oggi,
sono stati realizzati o ampliati,
nelle regioni interessate, diversi
porti e aeroporti.
Inoltre, partendo dalle attuali
tecnologie e immaginando quelle
future, l’acqua e l’aria, come la
terra, diventano infrastrutture di
trasporto; ciò significa che tutto
quello che un tempo era ritenuto
elemento ottimale di un sistema di
trasporto oggi può invece diventare elemento di congestione.
Dunque qualunque nuovo progetto in questo settore va analizzato in relazione alle prossime
tipologie infrastrutturali.
Considerando tutti i problemi
elencati fino ad ora sorprende il
ruolo del Consiglio Superiore dei
Lavori Pubblici: avrebbe dovuto
verificare gli aspetti tecnici, economici, ambientali e territoriali,
ha prodotto invece un documento
giustificativo, teso a legittimare
l’operazione.
In un documento redatto da un
gruppo di Urbanisti e Territoriali-
sti, in gran parte aderenti ai coordinamenti di ricerca CNR e
MURST diretti da Alberto
Magnaghi, si chiede che si cancelli definitivamente il progetto del
Ponte definendolo un’opera “di
devastante impatto ambientale,
inutile per l’assetto del Sud e poco
sensata rispetto alle dinamiche
economiche e territoriali in atto”.
In particolare si legge nel documento che dal punto di vista urbanistico, l’agglomerato urbano che
si creerebbe attorno ad un’attrezzatura così pesante porterebbe a
livelli di congestione dell’Area
tali da essere paragonata ad una
megalopoli da Quarto Mondo.
Anche dal punto di vista occupazionale sarebbe un disastro.
Occorrerebbero 8 anni per la
realizzazione del ponte e secondo
le previsioni “il numero di lavoratori direttamente occupati nel
periodo di cantiere sarà in media
di 2.600 unità; l’indotto occupazionale sull’intero sistema economico locale e nazionale conterà
9.250 addetti per la durata dei
cantieri, effetto che proseguirà
con ulteriori 3.400 occupati circa
per i 5 anni successivi”.
Va assolutamente ricordato che
si tratterebbe comunque di un
lavoro temporaneo che, chiusi i
cantieri, lascerebbe sulla strada
migliaia di persone e, nello stesso
tempo, renderebbe superflui almeno i 2/3 degli attuali addetti ai traghettamenti.
Per quanto riguarda poi l’economia della realizzazione va
ricordata l’analisi costi-benefici
che è risultata nettamente negativa
per l’opera.
In conclusione si legge inoltre
che “a fronte di tali critiche, i
sostenitori del progetto si aggrappano ormai a posizioni fantasiose,
talora esilaranti, abbandonando
ogni senso del ridicolo.
Si invocano infatti i grandi scenari di trasporto intercontinentale,
proponendo però la singolare
soluzione basata sulla contiguità
terrestre e sulla continuità fisica
tra Sicilia e Calabria prevista dal
progetto (secondo taluni, per
Il rischio sismico
I
l terremoto che sconvolse Catania, in memoria del
quale venne poi costruita la Fontana dell’Elefante,
fece 60.000 morti l’11 febbraio 1693. Altri 60.000
morti il 5 febbraio 1783 tra Reggio Calabria e Messina. Il
sisma del 28 dicembre 1908 era già stato annunciato a Nicastro l’8 settembre 1905 (557 morti), ed a Ferruzzano il 23
ottobre 1907 (167 morti).
Ci furono “ufficialmente” 86.928 vittime, ma le vittime
ufficiose vennero valutate in oltre 200.000, nonostante l’impegno di Ferdinando IV di Borbone per ricostruire Messina,
dopo il 1783, con sistemi rigorosamente antisismici.
Ricordare le sequenze: 1693, 1783, 1908. La cadenza sta
tra i 90 ed i 125 anni.
Oggi sono trascorsi 97 anni dal terremoto del 1908.
Non possiamo rimuovere il rischio sismico dalla nostra storia culturale, politica e
scientifica.
Con il rischio dobbiamo convivere, prevenendolo, dunque non possiamo dimenticare
e ignorare che il ponte andrebbe costruito in una zona ad alto rischio sismico.
Nonostante ciò la relazione di accompagnamento del progetto assicura che il ponte
sospeso, come abbiamo già scritto, è in grado di resistere senza danni ad un sisma del
grado 7.1 della scala Richter (ossia più potente di quello del 1908), di tollerare venti
con velocità 216 chilometri orari con punte di 270 chilometri orari e di essere a prova di
bomba atomica (una esplosione a 500 metri di distanza non lo farebbe crollare).
Su simili previsioni è lecito dubitare. Non esistono ancora, nel mondo, progetti realizzati o in cantiere, paragonabili a questo.
Una puntata di Geo, andata in onda su Rai Tre nel 1997, mostrava le immagini, riprese dalla BBC, di un grande ponte in Giappone, a campata unica, realizzato e poi crollato
a causa delle oscillazioni provocate dal vento e dal peso della struttura stessa.
In conclusione, un’opera come il ponte o una centrale nucleare, non possono essere
realizzate in un’area di rischio sismico così elevato.
Infatti se applichiamo la metodologia in uso per le centrali, formalizzata dalla francese CEA, non si può realizzare una centrale in un’area in cui i terremoti hanno una
magnitudine maggiore di 5.5 gradi della scala Richter.
esempio, per andare da Stoccolma
a Tunisi o da Marsiglia ad Algeri… sarebbe utile il Ponte sullo
Stretto! Forse si pensa ad una
‘campata unica’ tra la Sicilia e la
Tunisia)”. (A. Magnaghi et al.,
1998).
* * *
C
i sono altri aspetti
importanti da considerare.
Il SIA, presente nel progetto
presentato, poneva tra le altre due
premesse alla scelta dell’opera. La
prima era “la straordinaria ‘attesa’
del Ponte: vale a dire che ci troviamo di fronte alla realizzazione
di un’opera da lungo tempo ‘raccontata’ ed ‘immaginata’ dalla
popolazione, quindi, in qualche
modo, già prefigurata ed impressa
nell’immaginario collettivo”. Ma
prima di dare per scontata una tale
affermazione sarebbe necessario
effettuare serie analisi e sondaggi.
La seconda premessa alla scelta
dell’opera era “lo straordinario e
complesso contenuto tecnico del
progetto” la cui “straordinarietà
istituisce un luogo paesaggistico
singolare, quello che gli antichi
chiamavano meraviglia”. Bene,
basta guardare le fotosimulazioni,
fatte da diverse angolazioni, per
constatare che il paesaggio si presenterebbe tutt’altro che bello,
piuttosto, ad opera finita, si
potrebbe ammirare la realizzazione di uno scempio.
Un’altra posizione importante,
da non sottovalutare è quella
assunta dagli alti comandi militari. Nel 1987, in un documento
riservato si legge che il ponte
sospeso sarebbe una rovina: “Il
risultato di un’azione offensiva
contro tale infrastruttura sarebbe
eccezionale, non tanto per le conseguenze politiche derivanti dall’interruzione fisica del collegamento
con la Sicilia, quanto in relazione
al valore di simbolo, ai contenuti
politici e a quelli psicologici che
un danno all’opera verrebbe ad
assumere. Il manufatto, punto sensibile di dimensione strategica
comporterebbe rilevanti oneri per
la realizzazione di un’efficace
protezione. Da un eventuale collasso dell’infrastruttura potrebbero derivare inoltre anche
interruzioni prolungate della navigazione marittima sullo Stretto
con grave pregiudizio di un eventuale fronte”.
Questa dunque la chiara opposizione espressa in ambito militare
da cui deriva la necessaria conclusione: una vasta porzione di territorio circostante gli alloggi a terra
del manufatto su entrambe le
sponde, verrebbe “militarizzata”
per motivi di sicurezza e dunque
sottratta all’uso pubblico, divenendo il ponte un possibile obiettivo strategico da salvaguardare.
Sistema
informativo
territoriale
ed ambientale
I
dati utilizzati dai progettisti per una valutazione dell’impatto del ponte sullo
Stretto di Messina risultano inservibili.
Questo è potuto accadere perché la legge attuale
sulla Via non prevede l’obbligatorietà di un sistema informativo territoriale ed ambientale (SIA), che sia valido e quindi applicabile in tutte
le regioni italiane. Dunque nel caso del ponte, sono stati racimolati pochi dati insufficienti
e marginali, presi inoltre da un territorio, quello reggino e messinese, devastato dall’abusivismo, che ha prodotto i Piani di fabbricazione (e non viceversa), dove i PRG hanno tentato di ricucire senza sanare. In conclusione, mancando parametri chiari per il SIA, questo
viene puntualmente sacrificato a vantaggio degli interessi speculativi, pubblici o privati,
che prevedono di ricavare utili illeciti dal territorio.
È necessario ricapitolare le distorsioni presenti nel progetto:
- assenza di un sistema informativo ambientale e territoriale (SIAT)
- assenza di un fondo di finanziamenti pubblici efficaci (a disposizione, ad esempio, dell’Amministrazione provinciale)
- la manifesta impossibilità di fissare regole, procedure, tempi di discussione, certi e trasparenti per tutti i soggetti pubblici e privati interessati agli effetti ambientali e socio-economici dell’opera. Queste carenze riguardano in particolare gli aspetti legislativi nazionali
e regionali della VIA che, allo stato attuale delegano al Ministero dell’Ambiente la funzione “tecnica” di istruzione del procedimento di VIA
- la mancanza di un “arbitro” super partes cui spetti l’autorità inappellabile di emettere il
verdetto finale sull’autorizzazione e/o correzione dell’opera; nel procedimento di VIA
attuale, in molti casi, l’arbitro è addirittura uno dei giocatori in campo (Regione, Governo)
- la sempre più consolidata abitudine delle associazioni ambientaliste a svolgere un
ruolo “vicariante” delle funzioni di governo, ossessivamente preoccupate dal fatto che dire
NO ad un’opera o ad un progetto sbagliato significhi automaticamente “non fare niente”.
L ETTERE
M ERIDIANE
16
N. 2 / 3 - Luglio - Agosto - Settembre 2005
“Un nuovo sguardo” per lo
sviluppo sostenibile dello Stretto
G
iuseppe Dematteis
sostiene che nuove
visioni del territorio
necessitano di “nuovi sguardi” tali
da liberarsi dalle semantiche che
hanno favorito le aporie del passato. (1)
Pensando ad una possibile
conurbazione di Reggio e Messina
occorre tralasciare le questioni di
puro arredo o restauro urbano e
immaginare nuove composizioni
nei due grandi apparati che comprendono Peloritani- fiumareCostiera di Messina e Aspromonte-fiumare-costa Viola e dei Gelsomini.
In questo modo si può ricostruire un sistema di alta qualità
ambientale che può avere forti
ricadute sociali positive sia localmente, con riqualificazioni ecomorfologiche, sia globalmente,
proiettando questa grande “Area
di sostenibilità” verso il Mediterraneo e l’Europa. Per raggiungere
questi obiettivi sono importanti le
relazioni “ecologiche ed intelligenti” ed i percorsi tra i luoghi
dello Stretto, tra le Eolie e Villa
San Giovanni, tra il comune di
Messina e l’Aspromonte, tra Taormina e la Costa Viola, tra i Porti e
l’Aeroporto, solo per fare alcuni
esempi. (2)
Su queste basi l’Area dello
Stretto può crescere come grande
“luogo sostenibile” del Mediterraneo, dove si può immaginare un
quadro di sviluppo composto da
riqualificazione territoriale, valorizzazioni ecologiche e paesaggistiche, turismo eco-sociale,
trasporti tecnologicamente avanzati su una striscia di mare che
tornerebbe ad essere “elemento di
unione”, anziché “di separazione”, ristrutturazioni biologiche
dell’agricoltura e nuove produzioni montane, energie rinnovabili,
cultura e formazione avanzata.
Per costruire questo scenario
sono già impegnati diversi attori,
non solo locali, appartenenti ad
organizzazioni culturali, istituzioni
scientifiche, formazioni sociali.(3)
NOTE
Cfr. G. Dematteis, “Immagini del
cambiamento” in Urbanistica n. 106,
1996.
(2)
E’ stato promosso un coordinamento tra le università e le organizzazioni
aderenti al “Comitato tra Scilla e
Cariddi” per la tutela e lo sviluppo
sostenibile dell’area dello Stretto. È
stata avviata la procedura di richiesta
dell’Unesco di inserimento dello
Stretto di Messina quale “Patrimonio
universale dell’Umanità” nella lista
dei luoghi tutelati e valorizzati ad
opera della stessa istituzione.
(3)
Cfr. il contributo di P. Polimeni nel
volume “Il ponte insostenibile”, Alinea Editrice, Firenze, 2002.
(1)
* * *
U
tilizzando questo
“nuovo sguardo” è
opportuno domandarsi quanto sia realmente necessario
il progetto del Ponte in rapporto al
reale miglioramento del sistema
dei trasporti intercontinentali,
europei, nazionali, locali.
Per far ciò bisogna tener conto
della possibile evoluzione degli
scenari attuali e trascurare, invece,
le affermazioni studiate per ottenere consenso quali: “Il Ponte per
unire l’Europa e l’Africa”… “Il
Ponte per porre la Sicilia al centro
del Mediterraneo”… “Un Ponte
verso l’Europa”. Questi sono soltanto slogan ben congegnati di cui
facciamo indigestione quotidiana,
e che nonostante ciò, continuano
ad avere presa sul pubblico.
MOBILITA’ INTERCONTINENTALE (Europa-Africa)
Anche la riflessione più superficiale su questo punto porta alla
Riflessioni
a margine
I
conclusione che i collegamenti nel
Mediterraneo continueranno ad
essere di tipo aereo e marittimo,
quindi l’attraversamento dello
Stretto non assume alcun rilievo.
MOBILITA’ CONTINENTALE
Nel 1992 l’Unione Europea
aveva individuato lo Stretto di
Messina come uno dei “nodi critici” per la realizzazione di una rete
continentale, con il varo del programma TEN (Trans European
Network). In questa fase le politiche dei trasporti comunitari prevedevano la realizzazione e la
costruzione di collegamenti terrestri veloci. Negli anni successivi
questa idea è stata modificata, da
una parte per l’ampliamento della
stessa Comunità e quindi per le
difficoltà tecniche e politiche conseguenti, dall’altra, per gli evidenti svantaggi economici che
presenterebbe un sistema interamente basato sui trasporti terrestri.
In questo quadro, la Sicilia
continua ad essere il terminale
della direttrice Nord-Sud relativa
alla nostra penisola, ma i collegamenti con essa devono oggi tener
conto dei nuovi assetti previsti,
sul territorio italiano, per l’Alta
Velocità Ferroviaria e per i grandi
traffici commerciali. Ed ancora,
del forte incremento del trasporto
aereo riguardo al traffico passeggeri tra l’isola e lo spazio comunitario non nazionale. “Un dato
significativo è quello relativo al
movimento dei passeggeri che
hanno usato il mezzo aereo per la
Sicilia (…). Il processo evolutivo
del trasporto aereo è certamente
molto forte e dimostra come, pur
di fronte ad un elevato costo delle
tariffe, quasi 1/3 degli spostamenti
di lunga distanza tra la Sicilia e il
Nord avviene per mezzo aereo”
(Cfr. C. Campeol “Serve davvero
l’attraversamento stabile dello
Stretto di Messina?” in Il nuovo
cantiere, 1/87).
Carlo Azeglio Ciampi, prima in
qualità di Ministro del tesoro poi
come Presidente della Repubblica
ha più volte ribadito la necessità
delle autostrade del Mare.
“Il nostro paese ha un evidente
bisogno di avviare e incentivare lo
sviluppo del cabotaggio marittimo
per spostare milioni di tonnellate
dalla gomma alla nave: tutto questo però non deve compromettere
la tutela dei nostri mari, già
pesantemente minacciati. Occorre
innanzitutto ribadire che in Italia,
con un totale di 384 porti (uno
ogni 27 Km di costa), non c’è
bisogno di costruire nuove infrastrutture – basterebbe piuttosto –
far funzionare i porti esistenti,
assumendoli come suoli operativi
di un sistema coordinato e unitario” (R. Grimaldi “Sviluppo, integrazione e sicurezza del
cabotaggio” in A. Donati, G.
Rambelli, M. Zambrini (ed.s.),
Ambiente e politica dei trasporti,
Milano, ed. Ambiente, 1999).
Si prevede che la crescita del
cabotaggio e del traffico aereo
taglieranno fuori lo Stretto di
Messina dai grandi collegamenti,
privilegiando i porti e gli aeroporti siciliani.
Nel periodo medio-lungo il
traffico sullo Stretto sarà dunque
destinato a coprire una domanda
locale, in rapporto a questa previsione occorre chiedersi quale tipo
di collegamento convenga.
* * *
S
i possono prendere in
considerazione
tre
distinti ambiti:
- l’ambito Tirrenico, costituito
dall’Autostrada A3 ristrutturata,
terminale di Gioia Tauro, direttrice marittima Gioia Tauro – Milazzo, porto di Milazzo;
- l’ambito Jonico, costituito
dalla Statale 106 ristrutturata, terminale di Saline Joniche, direttrice marittima Saline - Catania
Riposto, porto di Catania Riposto;
- l’ambito interno allo Stretto
da utilizzare razionalizzando i
traffici.
l progetto del Ponte, in conclusione, non è altro se
non una possibile “visione” dello Stretto, dunque
rappresenta un solo punto di vista legato, come spesso accade, alla cultura dominante in una determinata fase
storica.
Leggendo infatti il paragrafo dedicato alla Storia del
Ponte si può notare come nelle precedenti epoche il progetto
non sia stato sempre e necessariamente proposto.
Un’altra puntualizzazione necessaria riguarda la definizione di questo tipo di progetto: è chiaro, dopo l’analisi sin qui
condotta, che si tratta di un intervento che non può essere definito come una “iniziativa di sviluppo sostenibile”.
Esistono, invece, altri punti di vista, già operativi, che possono facilmente essere ascritti all’interno di quest’ultima
definizione.
Queste altre “visioni” sono il risultato del grande fenomeno culturale presente sul territorio meridionale.
Nell’Area dello Stretto si stanno sperimentando, infatti,
grazie al lavoro di associazioni e organizzazioni no profit,
azioni di sviluppo sostenibile, che puntano “a ricostruire un
tessuto sociale ed economico spazzato via dal grande impatto
provocato dalla modernizzazione senza sviluppo che ha colpito la società del Mezzogiorno italiano, e dalla globalizzazione dei mercati”.
Ecco alcuni esempi di queste “visioni diverse”. Solo il
primo è stato realizzato, gli altri sono rimasti allo stato
embrionale:
- il Parco Letterario dello Stretto “Horcinus Orca”
- Ecolandia
- il Parco ludico-scientifico-ambientale a Reggio Calabria
- il programma Life-ambiente nel quartiere Giostra a Messina
L’ambito Tirrenico comprende
l’Autostrada Salerno – Reggio
Calabria come canale principale
nord-sud del traffico passeggeri e
merci su gomma, terminante nell’infrastruttura portuale di Gioia
Tauro trasformato in polo integrato, all’interno del quale è realizzato un interporto per lo stoccaggio
e la movimentazione delle merci,
ed infine, collegato tramite traghettamento diretto con Milazzo.
L’uso di navi veloci (già in funzione sulla tratta Napoli – Palermo) renderebbe i tempi di durata
dello stesso non maggiori di 4550 minuti.
Per quanto riguarda il porto di
Milazzo, oltre alla realizzazione
di una banchina adibita al traghettamento è già prevista, perché
necessaria, la realizzazione di uno
svincolo che raccordi direttamente
il porto al sistema autostradale
Palermo-Messina. L’attivazione
del collegamento diretto comporterebbe un investimento di circa
200 miliardi in cinque anni, ed
un’occupazione di circa 800 unità
(di cui il 75% nel polo di Gioia
Tauro).
L’ambito Jonico comprende la
Statale 106, ristrutturata e trasformata in autostrada, come collettore nord-sud. Il porto di Saline nel
quale andrebbero effettuate una
serie di operazioni: pulitura del
bacino, quindi rimozione del
materiale sabbioso in deposito;
attrezzatura delle banchine destinate ad attività commerciali ed ai
traghettamenti nonché al diporto;
creazione delle strutture di gestione del porto, compresi gli edifici
ad essa adibiti; realizzazione di
attrezzature compatibili, dal punto
di vista ambientale, col litorale
adiacente. Anche in questo caso
l’uso di navi veloci consentirebbe
l’attraversamento in 80-90 minuti.
Il porto di Catania Riposto che
non necessita di ulteriori lavori di
ammodernamento perché le banchinature sono state recentemente
ristrutturate.
Per questo sistema si può ipotizzare un investimento di 150
miliardi in cinque anni e la creazione di 400 unità occupazionali
(di cui l’80% a Saline).
L’ambito interno allo Stretto,
infine, dovrebbe prevedere l’utilizzazione integrata dei porti esistenti e la costituzione di
un’Authority, che gestisca e coordini le diverse direttrici di mobilità. Per quanto riguarda poi la
razionalizzazione dei traghettamenti andrebbe attuato quanto già
previsto nell’Accordo di Programma del 1990, siglato tra i comuni
di Messina, Villa San Giovanni e
Reggio Calabria e le altre istituzioni interessate.
Dunque è possibile immaginare
un’organizzazione diversa da
quella esistente, semplicemente
sfruttando meglio le infrastrutture
disponibili (porti, strade, ferrovie).
Da questo quadro emerge chiaramente l’inutilità di progetti
faraonici come il ponte e la possibilità di realizzare soluzioni alternative, economiche, più funzionali
e facilmente realizzabili.
L ETTERE
M ERIDIANE
N. 2 / 3 - Luglio - Agosto - Settembre 2005
17
Impariamo a progettare Continua la fuga di
cervelli dal Meridione
insieme l’abitare
Ambiente, individuo e comunità nella
rivista di architettura di Falzea editore
E’
nata da poco, ma fa
già tanto parlare di
sé. “Il progetto dell’abitare”, la rivista semestrale
dedicata all’architettura edita da
Falzea Edizioni di Reggio Calabria,
ha saputo raccogliere un folto gruppo di esperti, anche stranieri, pronti
a dare il proprio contributo ad una
pubblicazione con obiettivi ambiziosi. Giunta al suo terzo numero,
la rivista nasce in un contesto aperto e vivo, come può essere la
facoltà di Architettura di Reggio
Calabria, che pur non partecipandovi direttamente come Istituzione,
rappresenta sicuramente una parte
dell’humus culturale grazie a cui
l’idea si è sviluppata. I giovani e i
meno giovani architetti, chiamati a
realizzare il periodico, si sono
infatti formati o hanno contatti con
la Facoltà Mediterranea. Direttore
scientifico è il professore Adriano
Paolella, docente per la stessa
facoltà di Progettazione dei sistemi
costruttivi e Materiali ed innovazione tecnologica per il paesaggio.
Si legge nella presentazione che
la rivista opera nell’ambito “delle
soluzioni tecnologiche volte all’aumento dell’efficienza ambientale e
sociale degli edifici. In questo
porge attenzione alla individuazione di sistemi complessi atti a favorire il benessere e a mantenere o
recuperare un’autonomia culturale,
tecnica, costruttiva, ed economica
degli individui e delle comunità”.
Le convinzioni che stanno alla
base de Il progetto dell’abitare
interpretano “la tecnologia come
processo progettuale consapevole e
finalizzato alla ricerca di soluzioni
appropriate a produrre il massimo
benessere per gli abitanti, con il
minimo impatto ambientale e la
ritiene mezzo insostituibile per il
raggiungimento di tale obiettivo”.
Attraverso la pubblicazione di
studi, ricerche, realizzazioni, elaborazioni teoriche, riflessioni ed esperienze, promuove un modo di
abitare non imposto né ai luoghi,
né agli abitanti, ma caratterizzato
da soluzioni tecniche specifiche
che, consolidando la stretta relazione con l’ambiente, siano finalizzate
ad un benessere equilibrato con le
risorse, stabile e diffuso.
La rivista promuove una visione
sistemica del costruire, visione in
cui le tematiche ambientali e sociali assumono un’ importanza centrale nella definizione del progetto.
Si parte dal principio che una
progettazione deve essere finalizzata al perseguimento del benessere
degli abitanti ed al soddisfacimento
dei loro desideri, quando essi risultino congrui con la necessità di
risparmiare energia, materiali,
ridurre le emissioni, conservare e
riqualificare gli ecosistemi. Per cui
si promuovono soluzioni abitative
tese al recupero di edifici esistenti,
al riuso di materiali e componenti,
al riciclo, alla riduzione dell’uso di
energia, soluzioni tecnologiche
praticabili direttamente dai cittadini
o attuabili all’interno dell’attuale
processo di edificazione.
Gli ecosistemi naturali e le loro
relazioni con l’abitare trovano spazio nella rivista che si interessa di
insediamenti, di processi progettuali, di sistemi e componenti tecnologiche esclusivamente dal punto di
vista delle soluzioni ipotizzate, progettate, attuate per migliorare le
relazioni con l’ambiente, ridurre il
malessere sociale, aumentare l’azione attiva degli abitanti.
La rivista illustra, quindi, quei
progetti che si ispirino a tali principi e perseguono gli obiettivi della
salvaguardia ambientale, dell’integrazione uomo-ambiente e di sistemi volti a migliorare in questo
senso l’esistente, piuttosto che alla
edificazione ex-novo
Rivolta a esperti, tecnici, architetti, ingegneri, studenti, non tralascia di lanciare il proprio
messaggio ai soggetti, anche internazionali, che operano sui temi
trattati.
I contributi sono plurilingue,
tutti debitamente tradotti. Il successo della rivista è ampiamente confermato dalla crescita degli
abbonamenti internazionali, in special modo provenienti dall’America
Latina, Stati Uniti, Canada, Australia.
Luigi Corrado
D
opo un rallentamento registrato agli inizi degli anni ’90 la fuga di
forza lavoro qualificata e specializzata dal Sud verso il CentroNord è ripresa a pieno ritmo. Questo, in sintesi, il dato “grave per
lo sviluppo dell’area” registrato dallo Svimez (Associazione per lo Sviluppo
Industriale del Mezzogiorno).
Infatti se in Calabria nel 1994 il tasso di emigrazione (rapporto tra numero
di laureati persi rispetto a quelli residenti) era pari all’1,3%, solo cinque anni
dopo il valore era esattamente raddoppiato al 2,6%. Il tasso di immigrazione,
invece, dopo essere cresciuto dall’1,1% del ‘94 al 2,4% del ‘98, l’anno successivo era crollato di nuovo all’1,1%. È, pertanto, evidente che il saldo tra
laureati in uscita e quelli in entrata è chiaramente sbilanciato a favore dei
primi.
Di contro il Nord Italia risulta essere la regione con il maggior numero di
giovani analfabeti, secondo quanto emerge da un’indagine di “Cierre Ricerche” effettuata su dati Istat. È il Trentino Alto Adige a guidare questa particolare classifica con 19 giovani analfabeti su 100, seguito dal Friuli Venezia
Giulia con il 13,2%, quindi la Lombardia con il 12,6% ed infine il Veneto con
l’11,7%. Questo gap, che si tradurrebbe in termini pratici con un inevitabile
rallentamento dello sviluppo industriale del Settentrione, viene però colmato
dalla fuga di capitale umano qualificato di cui sopra.
Ovviamente all’origine di questi dati vi è una problematica occupazionale
cronica propria delle Regioni del Mezzogiorno a fronte di un Centro-Nord che
può offrire posti lavoro con condizioni che al Sud, il più delle volte, sono considerate delle chimere.
Questa mobilità geografica dei lavoratori, che doveva essere accompagnata
da un processo di delocalizzazione delle imprese, è stata in parte promossa e
sostenuta dal ministero del Welfare, con il progetto “Sud Nord-Nord Sud” realizzato dall’agenzia per le politiche attive dell’occupazione, Italia Lavoro, nel
tentativo di dare nuova linfa alla crescita occupazionale. Tale progetto prevedeva che un certo numero di giovani meridionali avrebbe dovuto seguire percorsi di formazione in aziende del Nord, per poi tornare nella Regione
d’origine arricchito di nuove esperienze professionali. Peccato che tale progetto si sia fermato al primo stadio, tanto che lo si sarebbe potuto ribattezzare
“Sud-Nord solo andata”; ma la cosa più grave è che tale progetto ha contribuito alla migrazione ed allo “spreco” di capitale umano qualificato, perché troppo spesso i giovani diplomati e laureati del Sud-Italia partiti per accrescere la
propria professionalità si sono poi adattati a ricoprire incarichi di qualsiasi
tipo pur di lavorare.
Viene spontaneo chiedersi, quindi, se invece di investire in progetti come
quello appena menzionato, non fosse meglio pianificare una serie di interventi
di politica economica rivolti al Mezzogiorno d’Italia capaci di fermare questa
“emorragia di risorse umane qualificate”, senza le quali è assolutamente insostenibile qualsiasi ipotesi di sviluppo territoriale.
Nicola Maluccio
A Cittanova in Sulla Via Appia ad incontrar Le Muse...
ricordo di Carlino
Lucanità di Orazio in una diagnosi serrata di Marino Faggella
C
hissà da dove arriva questo profumo? Se
lo chiedono quasi tutti i visitatori della
Fiera del libro, che tra le piante rare della
Villa Comunale di Cittanova, negli stand, sfogliano
libri o sbirciano riviste. In effetti un’inconfondibile
fragranza di pitosfori e zagare, rende più bella e suggestiva questa serata dedicata ai libri ed all’editoria
calabrese, con uno spazio riservato alla commemorazione della figura di Carlo Carlino, saggista, poeta,
critico e soprattutto grande promotore culturale. Sono
complessivamente ventisette le case editrici presenti
alla fiera dell’editoria calabrese, ad esse si deve la
difesa e diffusione della cultura, nonostante le difficoltà operative derivanti dalla crisi generale del mercato. Va riconosciuto infatti ai nostri editori, di essere
da sempre coraggiosamente in prima linea.
Franco Morano, Sindaco di Cittanova, inizia a raccontare l’avventura culturale di Carlino, scomparso
recentemente, e ne traccia anche un intenso ritratto
umano. Carlino, uomo timido e riservato, lontano dai
clamori, era piuttosto interno a trovare nella conoscenza e nella lettura una “lanterna” che illumina il
mondo e le cose. Dopo Morano, Domenico Nunnari,
della sede RAI di Cosenza, ricorda la fattiva collaborazione di Carlino in RAI ed il tema sempre presente
nell’opera dello scrittore di Cinquefrondi: la Calabria.
La domanda che tutti i calabresi si pongono, pensava
Carlino, è partire o restare! Per il nostro critico era
inevitabile rimanere anche con l’amarezza di notare
come le trasformazioni culturali e sociali siano lente e
difficili. Un altro tema sviluppato da Carlino, è quello
del viaggio, argomento dell’intervento della Dott.ssa
Micella, Assessore alla Cultura della Provincia di
Reggio Calabria.
In “Le Calabrie e i calabresi“ saggio dedicato
all’arretratezza ed al bisogno di mutamenti nella
nostra terra, vi è un ampio riferimento a Corrado
Alvaro (calabrese illustre che viveva in modo conflittuale l’appartenenza a questi luoghi dolcissimi e
amari).
Lombardi Satriani, affronta il tema della necessità
di non mimetizzarsi “mescolandosi” con la cultura di
un altro paese, e ciò non per esaltare la propria terra,
ma perché rimanendo fedeli ad essa, con la lealtà nei
comportamenti quotidiani la si conosce, la sia rispetta,
la si ama. Per Satriani, l’impegno di Carlino era restare per “fare”, per essere portatori di una nuova voce,
di nuovi strumenti.
La serata dedicata a Carlino termina con un tenero
ricordo espresso da suo figlio, il quale racconta: “Mio
padre mi diceva sempre apri un libro, ci troverai sempre qualcosa”. Un caldo applauso segue alle parole di
questo ragazzo dal viso pulito che ricorda il padre.
Con un bicchiere di vino rosso ed alla presenza di
Clelia Bruzzi dell’associazione culturale “Cittanuova“
si conclude il nostro itinerario a Cittanova, questa
associazione promuove incontri culturali, rassegne
cinematografiche e musicali ed organizza con il
Comune la Fiera del libro.
In una calda ma ventilata sera di giugno, questo la
Calabria è in grado di offrirci: persone che si impegnano come Clelia e che si sono impegnate come Carlino, perché qualcosa veramente cambi.
Cinzia Messina
S
crivere di un poeta
classico, latino o
greco, il traduttore
tende inconsapevolmente a
modernizzare il testo, questo è
un errore frequente deprecabile, e ora di dire basta ai luoghi
comuni, come nel caso: quanto è moderno di un “antico”,
anche Monti e il Caro più che
tradurre l’Iliade e l’Eneide, la
riscrissero. Un libro serio
scritto con tutti i crismi e le
accortezze del critico ci viene
da un professore ordinario di
Italiano e Latino: Marino
Faggella. Il libro ha un titolo
poetico: “Sulla Via Appia ad
incontrar le Muse” - Lucanità di Orazio ed altri saggi
(Arti grafiche, Lavello,
2005, pp. 144, € 15,00).
Faggella sostiene con testi alla mano la probabile nascita di Orazio a Venosa, la ricerca è certosina e tutto lascia
arguire - gli scritti di Svetonio sono fonte primaria - che il genitore
del poeta svolgesse l’attività di salsamentarius nella zona ad oriente di Venosa, per poi raggranellare al punto (e qui intuiamo come i
commerci fossero a quei tempi fiorenti) di fare un salto di qualità e
diventare banchiere. Marino Fagella privilegia la lucanità di Orazio
e le fonti portano a insistere almeno su quei primi anni (in tutto
dieci) e anche dopo per la verità: il poeta venosino ci parla di più
del suo carattere; questa è la tesi di Fraenkel il quale osserva che il
poeta “parla di sé del suo carattere, della sua evoluzione e del suo
modo di vivere assai più diffusamente di qualsiasi altro grande poeta
dell’antichità”. Tutto ciò è sostenuto anche, in particolare nella V
Satira, ma anche in altre in cui Orazio rievoca i suoi viaggi nel percorso che l’aveva condotto a Roma e a Brindisi.
Come tutti i poeti, Orazio amava i silenzi della campagna non la
ridondanza delle città, si rifugiava spesso nei siti più interni ed eremitici per poter pensare e stendere il migliore canto nelle Satire,
anche negli ultimi tempi vi rivolge lo sguardo più alla campagna
romana che ai luoghi nativi. Fu l’irrequieto poeta, l’inistabile e
fugace detentore di una strenua inertia sempre, fino alla fine dei
suoi giorni. Il paesaggio lo rese allegro e estroverso nel carattere,
certo Orazio non fu Virgilio asserisce il Faggella che “con animo
romantico aderisce totalmente al mondo della natura di cui avverte
con immediatezza il respiro”. La lucanità di Orazio è bene in vista
nei suoi assidui ritorni nelle Satire, ma non prevale con disperata
generosità; questo libro di Faggella non è soltanto la scheggia che
fa rumore e passa e un confronto netto, appassionato sulle idee, il
fine, la morte in una composita e stretta finale con la Weltanschauung oraziana.
Come non citare Leuconoe del tempo geloso in quel Carpe
diem che oggi più che mai diventa un’ininsopprimibile suggello e
viaggia nell’intimum con noi e ci da una dritta facendoci meditare
sulla morte.
Un libro convincente, puntuale e di facile accesso e di memoria
tenax, Faggella ci ha riportato con la mente e col cuore al mondo
della Venosa del poeta cui nacque nel 65 a.C. Non si può disconoscere il fervore e la passione che ha messo Faggella per non farci
mancare la lucanità, il segno delle sue origini che meglio di ogni
cosa traducano e inquadrano il personaggio nelle sue volute, in
quella giovinezza crepuscolare, poi tormentata, dalla vita delle
città. Non posso esimermi di chiudere questa nota senza citare un
passo giustappunto dell’infanzia oraziana, così suasivamente
descritta da Faggella: [...] Per confortarsi si rifugiava talvolta nella
memoria evocando il favoloso tempo della sua infanzia, che riaffiora nei suoi versi con gli incantevoli scorci del paesaggio daunico, percorso dal fragoroso Aufido, e le corse spensierate sulle balze
del Vulture, mentre in lontananza si stagliava Acerenza, alta come
un nido di aquila, i pascoli bantini e, più lontano, la fertile campagna di Forento (l’attuale Lavello).
Antonio Coppola
Nei fondali della “cucina marinara”
in compagnia con il Rhombus Podas
O
sservando l’imponente impalcatura acquaria che si apre
ai nostri passi rimaniamo colpiti negli occhi dal nuovo
bel libro di Roberto Pagan “Il sale sulla coda” (Zone
editrice, Roma, 2005). E’ poesia haiku, quella che gli sprovveduti
osano banalizzare perchè non tiene, importata dall’Oriente: noi di
quaggiù conosciamo a mala pena Bashò come il maggiore poeta
giapponese che ha liberato il haiku da ogni artificiosità. L’Oriente
estremo cui Bashò nasce e si ritira in un eremo per dedicarsi alla
poesia, ha qualche affinità con Pagan, uomo schivo, oggi possiamo
dire “in ritiro” nella Maremma.
Il nostro poeta ha colto una luce, o l’impressione di un istante,
nel mare micrologico dei fondali, e nella strepitosa e irriducibile
lezione scientifica ci catapulta nel suo speciale divertissement da
teatro ittico. Ma quale soccorso abbiamo noi che viviamo in apnea
per “riprenderci” la quantità zoologica di termini e varietà ittiche?
Nessun soccorso; noi lo comprendiamo e sembra di trovarsi con
il poeta ai bordi di un grande acquario dove dall’oblò osserviamo,
tra il germogliare del plancton, le stranezze di un’infinitesimo
mondo dall’alone magnetico.
Pagan è uno dei pochi poeti che sa dare alla parola la luce, un
telecomunicatore con un mondo muto e però presente e vivo che ci
segnala a farci scoprire questi maiuscolati haiku.
Me l’aspettavo da Pagan quest’impresa; della brevità prediletta
c’è una suggestione fortissima nel leggere questo libro; Donato Di
Stasi nella post-fazione ci ricorda, “uno dei suoi tragitti più acuti e
mordaci verso le isole della Letteratura”.
Una forza guizzante, un implacabile fiocinatore di poesia ittica,
sa “infierire” sorridendo fino all’osso e in bilico su un paradosso
nel far parlare un mondo muto. Ha passato in rassegna un pianeta
sottomarino, le sue “remote emozioni da sub dilettante” tanto da
azzardare l’escatologico nell’uomo:
“Se il mare è cosmo/e noi nel cosmo siamo/dunque siam
pesci?”.
Un plauso va a Giulia Romano, finissima esecutrice delle tavole
originali nel testo: una magnificenza di esemplarità ittica, alcuni
esemplari mai incontrati o rari.
Antonio Coppola
L ETTERE
M ERIDIANE
18
C ALABRIA A NTICA
N. 2 / 3 - Luglio - Agosto - Settembre 2005
Rubrica di Domenico Coppola
Un energico intervento sovrano
in materia di archivi: Dai dispacci
della regia udienza di Catanzaro (1795)
N
elle nostre periodiche indagini nel fondo della Regia
Udienza di Catanzaro (1654-1808), ci è occorso di
imbatterci in un dispaccio che ha per oggetto gli archivi
e che dimostra la notevole considerazione e la cura che l’Amministrazione Borbonica aveva per gli istituti in cui erano depositati gli
atti riguardanti la storia delle varie province del Regno.
Il dispaccio ha per oggetto una disposizione di carattere generale
valevole per tutto il Regno.
Commentiamo qui di seguito il documento di cui daremo in
appendice il testo completo.
Occorre ricordare che il Regno era suddiviso in province, così
denominate sin dall’epoca aragonese (1442-1503) quando avevano
sostituito i Giustizierati dell’epoca normanno-sveva (1140-1266)
nella quale erano in numero di 11 divenute poi 12. La magistratura
suprema operante nelle province era appunto la Regia Udienza durata sino al 1806 ed il cui capo era il Preside: è a questo personaggio
che viene indirizzato da Napoli il dispaccio di cui tratteremo. Nel
nostro caso l’autorità mittente è Fabrizio Ruffo principe di Castelcicala, dal maggio 1795 direttore (ministro) agli Affari Esteri, Marina
e Commercio e dal gennaio 1798 segretario agli Affari di Grazia e
Giustizia. Nell’indice del registro che contiene il dispaccio, esso così
figura inserito: “Sua Maestà comanda che tutti i Reggi Governatori
non possano mai nel caso di partenza dà loro Governi amuovere o
seco loro condurre la menoma carta d’uffizio da essi fatta”.
Occorre infine ricordare che nei territori di dominio feudale i
governatori rappresentavano il potere regio.
Dunque abbiamo già visto dall’ “oggetto” del documento che si
emana una direttiva da valere erga omnes, che viene originata da
una lamentela di un organo locale: era accaduto che un giudice non
aveva potuto dar corso ad un ordine ricevuto dal Preside e che
riguardava una lista dei forestieri e dei militari in ritiro dimoranti
nella sua giurisdizione di cui trattava un Real Dispaccio che a sua
volta si richiamava a un Reale Editto per i forestieri dimoranti nel
Reali Dominii. Questa mancata esecuzione di un ordine superiore
aveva formato oggetto di una relazione del giudice al re: con essa il
giudice lamentava che il governatore del luogo, Ferdinando Merola,
essendo stato richiamato in Napoli, aveva portato con sè non solamente quel Real Dispaccio, “ma ben anche moltissime altre carte
che dovevano essere conservate nell’Archivio di quella Corte”. Era
come si vede, l’inosservanza di una norma fondamentale riguardante
gli archivi, che dovevano essere conservati integri nelle loro serie
cardine. Il re dunque coglieva l’occasione di questa grave inosservanza per emanare un ordine drastico: “Tutti i Regj Governatori non
possano mai, nel caso di partenza dà loro Governi, per qualunque
ragione amovere o seco loro condurre la menoma carta d’uffizio da
essi fatta o ad essi diretta per cagione del loro impiego, la quale deve
perciò passare in archivio e restare al successore e soprattutto i Reali
Dipacci1 che loro si dirigono”.
Nel dispositivo in calce al dispaccio ove si sottolinea l’assenza
momentanea del Preside, l’Udienza- trasmettendo il dispaccio –
ordina che ciascuna Regia Corte registri l’ordine impartito “per la
cieca osservanza ed esecuzione in ogni tempo”.
Il dispaccio che abbiamo commentato è indicativo – ove ve ne
fosse bisogno – del sollecito e regolare funzionamento delle Cancellerie del tempo. Per gli archivisti - lo abbiamo sottolineato – il documento è altresì dimostrazione della buona tenuta e conservazione
degli archivi dell’epoca.
1
Il corsivo è nostro e mette nel dovuto rilievo quelle che noi archivisti chiamiamo le “serie cardini”.
APPENDICE
Testo del dispaccio
(Archivio di Stato di Catanzaro. Regia Udienza Provinciale. Registri. Busta 20/42 (ex 1073) Aa 1793-1798. Carta 607 – R. e V. ).
“Il re ha letta la relazione del giudice di Ditonto1, con la quale questi
dava conto di non aver potuto eseguire l’ordine ricevuto dal Preside
Provinciale, di rimettergli nota distinta e legale degl’ Individui Militari ritirati e dè Forati2 esistenti in quella giurisdizione, che non
siano eccettuati nel Real Dispaccio dè 15 aprile corrente anno, continente alcune dilucidazioni del Real Editto pè forestieri dimoranti
nei Reali Dominii, e di non aver potuto esso Giudice eseguire un tal
ordine, atteso, che il governatore di quel luogho Don Ferdinando
Merola nel partire di colà per venire in Napoli, ove, (con Real
Dispaccio) è stato chiamato, portò seco non solamente l’enunciato
Real Dispaccio ma ben’anche moltissime altre carte, che dovevano
essere conservate nell’Archivio di quella Corte.
Sua Maestà in vista ha risoluto e vuole, che tutti i Regii Governatori
non possano mai, nel caso di partenza dà loro Governi per qualunque ragione amuovere o seco condurre la menoma carta di uffizio da
essi fatta o ad essi diretta per cagione del loro impiego, la quale
deve perciò passare in archivio e restare al successore, e soprattutto
i Reali Dispacci che loro si diriggano. Nel Real Nome communico
tutto ciò a Vostra Signoria Illustrissima affinché ella ne disponga
l’adempimento. Napoli 5 luglio 1795. Il Principe di Castelcicala =
Signor Preside di Catanzaro.
Ob absentiam Illustrissimi Domini Presidi = Exequatur et communicetur ominibus Regiis Curiis huius provinciae cun inserta forma
Realis Rescripti. Si dica con le lettere che la presente Sovrana determinazione si registri in ciaschuna Regia Corte affinché partendo gli
attuali Regj Governatori possa essere a notizia dè successori per la
cieca osservanza ed esecuzione in ogni tempo.
Si accusi il ricevo e si umili a Sua Maestà la providenza data.
16 luglio Adempito.
Dovrebbe leggersi Bitonto.
Il termine non è chiaro; dovrebbe intendersi Forestieri, cui si
accenna in prosieguo nel testo.
1
2
Dal manicomio alla società:
viaggio tra le strutture intermedie
La casa editrice di Renato Curcio pubblica le testimonianze di chi sopravvive ai margini
Istituti post-manicomali
A cura di Nicola Valentino
Edizioni Sensibili alle foglie
pp. 104 - € 12,00
opo la Legge 180, meglio nota come Legge Basaglia, che
D
nel 1978 decretava la chiusura degli Ospedali Psichiatrici,
sono nate le SIR - Strutture Intermedie Residenziali – ancora prima
che il ministro Rosy Bindi emanasse il decreto per lo svuotamento
dei manicomi. L’aggettivo “intermedie” configura, innanzi tutto, la
transitorietà dei ricoveri, auspicando che tali strutture funzionino da
interfaccia tra il sanitario e il sociale. Ma, fin dall’inizio, ogni struttura si è dovuta misurare con l’eredità sociale del manicomio. In termini pratici, ciò sta a significare che alle SIR sono state affidate
soprattutto “persone abbandonate da tutta una vita” fino alla morte,
mettendone, in tal modo, in discussione il principio di transitorietà.
Una problematica funzionale che si trova all’apice di una serie di
difficoltà prettamente formali, e che quindi vanno affrontate nello
specifico. Prima fra tutte, la necessità di “una trasparenza sociale
dell’istituzione e di rottura dei suoi confini artificiosi di separazione
dalla collettività”. In linea con le osservazioni di Basaglia in merito
alla comunità, la quale dovrà imparare ad accettare le proprie contraddizioni, non avendo più luoghi in cui negarle. Questo libro raccoglie, infatti, storie emblematiche, raccontate da operatori e residenti
di strutture residenziali attive in diverse parti d’Italia. Approfondendo, in questo modo, la difficoltà di attuazione di un progetto istituzionale che si scontra inevitabilmente con la realtà del quotidiano. Una
difficoltà che è, in primo luogo, frutto di una classificazione, spesso
equivoca, della “malattia mentale”, la quale rappresenta, pertanto, il
terreno su cui si fonda un approccio terapeutico inadeguato. Alla
luce di questo, è essenziale una bonifica dei circuiti funzionali, delle
finalità, e soprattutto è importante uniformare le modalità, lasciando,
comunque, spazio alla necessarietà dello specifico. D’altronde si
tratta di “dispositivi totalizzanti” ma in termini più umani sono vere e
proprie “risorse di sopravvivenza” e queste storie ne sono testimonianza.
La Chioccia d’oro
di Vincenzo Fusco,
“espressione compiuta
del genius loci”
La Chioccia d’oro
di Vincenzo Fusco
Laruffa Editore
pp. 190 - € 16,00
N
e “La Chioccia d’oro” di Vincenzo Fusco, la
dimensione del ricordo percuote l’esistenza di un
uomo che fa ritorno al suo paese d’origine, riscoprendo quel
legame di appartenenza che diviene, in breve tempo, la sua
ragione di vita.
“L’espressione compiuta del genius loci. Il punto più alto
di sintesi della storia di una comunità”; come afferma il
prof. Francesco Adornato, storico e docente presso l’Università di Macerata.
Il paese tanto amato ed odiato, allo stesso tempo; vittima
dei limiti incarnati alla società meridionale. Ma quell’esistenza incerta, quelle speranze senza futuro, fanno parte di
un dolore addolcito dalla memoria. “E, da quel momento,
vivere per lui cominciò a voler dire ritornare soprattutto a
quell’immagine di sé, alleggerita dal peso del tempo…”.
Ogni luogo, ogni scorcio di vita, immobile in quel suo
perpetuo movimento, si insinua nella mente del protagonista, come sintomo di un sincero rimpianto che non ha saputo mai cedere alla rassegnazione. “Aveva perciò deciso di
andarsene, non quale atto di resa ma per meglio contribuire
a salvare dal fallimento definitivo il progetto di rinascita
dell’uomo del Sud, di cui Giuseppe costituiva l’esempio
negativo più marcato, votato com’era a nutrirsi masochisticamente dei liquami dello scacco e della disperazione”.
Pasquino Crupi, critico letterario, sottolinea come l’opera del prof. Fusco “ridìa alla letteratura calabrese la capacità
di riconoscersi come romanzo pluritematico e pluritemporale. Fatto di una nostalgia progressiva, che non rimane, quindi, imprigionata nel passato”.
Mediante un’attenta analisi del territorio, Fusco, ha dato
voce al processo storico compiuto, nel ventesimo secolo,
dalla società meridionale, in linea con quella letteratura del
reale, atta a testimoniare il rapporto, che intercorre necessariamente, tra l’uomo e la storia. L’incomunicabilità tra le
classi sociali, il divario, sempre più pressante al Sud, tra la
“borghesia ingenua che è venuta in possesso di una ricchezza terriera che ha utilizzato in maniera parassitaria; l’oceano
di contadini aggrappati alla speranza di ricevere qualcosa; e
nel mezzo gli artigiani che per mantenere un certo decoro
sociale, mettono da parte il contadino come nemico. Che ne
risulta più volte calpestato”. “…mettendo a nudo le reali
condizioni di vita dei contadini meridionali. Si veniva così a
scoprire che essi facevano parte di un drammatico contesto
antropologico, tagliati fuori da ogni rapporto con gli altri
ceti sociali che non fosse di vera e propria sudditanza, chiusi nei rituali lenti e monotoni delle consuetudini e segnati
dal convincimento dell’ineluttabilità della loro condizione e
di come fosse un prodotto naturale, e perciò non evitabile,
la stessa disuguaglianza sociale da loro vissuta”.
Il realismo, in senso antropologico, della società meridionale, diviene, in fine, la chiave di lettura, conclusiva e in
un certo senso complessiva, nella sua valenza esistenziale,
di un popolo che “ama attribuire gli eventi ai fenomeni
esterni, per non esserne responsabile”. “…A P. tutti sapevano della chioccia d’oro e degli effetti negativi che erano
sempre seguiti alla sua comparsa, sin dal più remoto passato… Prevalse, cioè, il timore che, fattasi vedere la chioccia
tra gli anfratti inaccessibili della sua supposta dimora, ne
dovessero inevitabilmente seguire, a breve o media scadenza, spiacevoli conseguenze per tutti…”.
Federica Legato
NOTE BIOGRAFICHE
V
incenzo Fusco, ordinario di Filosofia e Storia nei
licei, è noto, anche fuori dell’ambito territoriale in
cui ha operato ed opera, grazie alle sue apprezzate pubblicazioni di carattere speculativo e storico-sociologico (Dell’angoscia. Ipotesi per una filosofia della speranza, Ed. Pagine
Polistena 1971; Polistena, storia sociale e politica, 19221979, Ed. Parallelo 38, Reggio Calabria 1981; Dolce
paese… Ed. Ione, Polistena 1992; Attività creditizia e
società calabrese. Il caso della Cassa Rurale Cooperativa
Depositi e Prestiti di Polistena, 1914-1939, Ed. Laruffa,
Reggio Calabria 2001). I suoi molteplici interessi culturali,
che vanno dalle problematiche etico-giuridiche a quelle
estetico-letterarie, nonché a quelle proprie del versante storico-antropologico, sono ben testimoniati dalla vasta produzione di articoli e saggi via via pubblicati su quotidiani,
periodici e riviste specializzate.
Dal macabro arto-fantasma spuntano azzurre
trasparenze nella Poesia di Ninny Di Stefano Busà
U
n titolo inconsueto quanto macabro “L’arto-fantasma” di Ninny Di
Stefano Busà; un titolo come sfida che getta luce su molte situazioni difficili dell’esistenza; il senso in questo caso non è di strumenti psicologici per rendere felice la persona in difficoltà, ma piuttosto quella
doppia dimensione, socio-individuale (in questo caso il mezzo è la poesia) di
trovarvi un insieme nell’io, rendere il diviso un “atto unico” come scrive, in
nota, l’autrice. Quindi, qui siamo immersi poeticamente in un’ucronia allusiva,
in un progetto dove è implicita l’utopia che ha come archetipo lo stato edenico,
una sfida e una denuncia, ma anche un memento.
Questo bel libro riproduce una lettera-prefazione del compianto Giovanni
Raboni, che scrive della poesia busaniana in termini ultra positivi ed elogiativi,
richiamando Ia padronanza di un verso fatto a misura di crudezza-unità non
esibita fino in fondo, ma che fa la differenza, per quel grado superiore di trovare un esito di minor turbamento nel clima dell’irregolarità poetica, fatta di
“ipernovità”. Noi della Busà abbiamo fatto un culto; diciamo che questa poesia
è incontenibile, straripa dal suo alveo, non ha finzioni melodrammatiche di
tanta poesia intimistica meliosa, che è solo la caricatura di se stessi, lascia solo
un “fruscio d’ali”.
Si colloca in una dimensione montaliana del correlativo oggettivo spinto fin
dove il mondo si respinge e si rintuzza; qui le “assenze” sono figurate in un
corpo unico, nella compiuta parenesi del divenire e dall’io staccato il vulnera-
bile corpo è teso nello stesso spazio e pullula di immagini e rigonfiamenti, si
distilla e implode contorcendosi; Busà è una donna che non va a genio il corteo
di corifei che postulano e intricano il proprio io, è spogliata dal vento intimo in
una febbre continua di assalti e sangue, voce dispiegata e anche dissonante, non
sa lustrare le scarpe quando il resto è spoliazione, una perdita che si schianta
nel niente.
Opera totale “L’arto-fantasma” non è una facile passeggiata, il terreno è in
acclive e con spaventosi dirupi. Si presenta come una sorta di altro mondo, di
visione precorritrice e infernale insieme, il più difficoltoso itinerario che ci è
parso da scalare, funambolica impresa attraverso arrischiate terre di nessuno.
Cercavo un campo di margherite e vi trovo mine inesplose, terra ferrigna e
lucori della terra di Sicilia, quella della natia Partanna traboccante di pathos e
rischio: un Sud avvampato, piretico, ipnotico.
Ninni Di Stefano raduna tutto il suo potenziale d’armi e fa di questo libro
un campo di battaglia, una Bastiglia con laceranti strappi in un cielo fosco dentro “l’enigma insondabile a risarcire dall’inganno l’ultima fatica del presente”.
Terreno aspro, fanghiglia, sudore, una macerante e suprema “autodifesa” si alza
a controprova di una poesia che non “grida alla roccia” ma è un mare incontenibile “d’echi e libecciate” che sfrangia dal muro d’ombra nella luce abbagliante di poetica del terzo nostro Novecento letterario.
Antonino Coppola
L ETTERE
M ERIDIANE
N. 2 / 3 - Luglio - Agosto - Settembre 2005
L’OFFICINA DELLE
LETTERE
19
Il profumo della cenere
“Per ritrovarsi è necessario perdersi”.
PT.W. Wolf 1817-1873
L
a seduzione delle parole
è data dalla visione d’insieme, non dall’inusualità delle stesse. Il fascino è creato
dagli abbacinamenti delle immagini
generate, dagli spazi che ti si aprono
all’improvviso, là dove sembrava di
essere in un vicolo cieco. Senti le
rocce buie di una gola dentro la
quale ti sei infilato, poi, all’improvviso, ti si apre una vallata davanti.
Lasci fluire il lento incedere delle
parole, rallenti, ti fermi, aspetti il tuo
ascoltatore, scarti, finti, per poi tornare ad affabulare.
Quattro elementi, combinati in
maniera diversa, permettono la composizione di un numero estremamente ampio di esseri viventi.
Ventisei lettere possono aprire nuovi
mondi, che ci rappresentino e ci
mentano.
Questo cercava.
Questo diceva di avere trovato in
me.
Il rumore della macchina mi dava
il ritmo della mia ricerca di lei.
C’è qualcosa di ipnotico ed, al
contempo, di angosciante nella
moderna scansione del tempo.
Metronomi meccanici ci ricordano il
fluire.
Il pistone si infilò nel cilindro,
provocando un veloce fruscio, in
quel frattempo le mie cellule erano
invecchiate di qualche millesimo di
secondo.
La consapevolezza ci rende forti
o deboli?
Lei era bellissima. Non credo di
averglielo mai detto. Al mio solito.
Difficile focalizzare il fascino di
una donna.
Capelli mossi da un vento umido
e vellutato.
Uno sguardo perso su una collina.
Il tatuaggio di un delfino.
Il fianco di una collina, particolarmente levigato, era ricoperto da
papaveri di un rosso carico, ma non
squillante. Guidavo tranquillo.
La tonalità delle macchie sul
campo era data dal peculiare incontro del colore dei piccoli fiori, con la
luce intensa e dorata di una tarda
mattinata di ottobre.
La macchina tagliava l’aria tiepida, come se provasse un piacere carnale nel farlo. Leggeri scuotimenti
impastavano l’aria all’interno dell’abitacolo e le note dei Cure vagavano
rimbalzando tra i parabrezza. Onde
morbide e perdute tra muri di vetro.
Alla mia sinistra un prato, che forse
un tempo era stato verde. Forse.
Sterpi stopposi che, colpiti dai
raggi del sole, diventavano una
trama fitta.
Quasi un tappeto bizantino, in
ginestra intrecciata.
Sul lato destro il mare aveva
deciso di riposarsi.
Era piacevole lasciarsi andare
alla guida, farsi succhiare dalla strada, senza porre resistenza.
Era stato tanti anni prima. Forse
non moltissimi, ma direi abbastanza.
Lei si era avvicinata a me.
Mi girai. Una nube di un bianco
lattiginoso aveva cancellato una
tozza sagoma nera. Non fu una cosa
repentina. Prima vidi questa figura
di uomo. Un contadino con una
falce in mano, quasi tratteggiato a
carboncino nell’aria. Ne potevi saggiare il contorno, ma non la tridimensionalità. Mi ricordava le immagini
che creavo da bambino, mettendo
una moneta sotto un foglio e strofinando sopra la punta della matita.
Una sindone di contadino.
Poi il fumo bianco di un fuoco la
cancellò, riga per riga.
Ginevra. Si chiamava Ginevra.
Ed io la amavo. Lei ed il suo delfino. Non le avevo mai detto neanche
questo.
Era longilinea ed elegante. Aveva
un che di nobile nei suoi movimenti,
ma nulla di costruito. Quando camminava non spingeva in avanti il
corpo, ma sembrava venisse aspirata
dallo spazio antistante. Aveva un
modo curioso di sistemarsi i capelli
dietro le orecchie.
In alto, dei pini marittimi rompevano la monotonia di brulle e sfaccendate colline. Erano color corda,
con vistose macchie ruggine intenso,
create da arbusti bruciati. Gli alberi
sembravano file di indiani pronti a
sferrare un attacco.
Il cielo era così sereno da non
darti scampo. Ti sentivi scrutato,
spogliato, preso, vinto da quella
luminosa lastra di un celeste senza
ritegno. Una sottile punta di masochismo ti incitava a farti possedere
da quella luce.
“È difficile starmi vicino!” Le
dissi una volta.
“Ci credo” rispose “ma quanto
deve essere stimolante?”
“Quanto?”
Cerchiamo davvero degli stimoli
negli altri? Che cosa ci fa invaghire
di un altro essere? Quello che ci
svela o quello che ci nasconde?
Quello che ci consente o quello che
ci vieta?
“Mi piaci, mi piaci molto. Ti
amo!” disse.
I suoi occhi erano trasparenti,
sembravano fresca acqua di un
ruscello di montagna. Pareva volesse farsi penetrare dal mio sguardo.
La osservavo minuziosamente,
respirando calmo. Boccate d’aria
scendevano tranquille a lenire la mia
ansia. Le mia pupille allargate le
lisciavano i tratti.
Indossava una camicia bianca che
profumava di pulito. In basso, sotto
il primo bottone, c’era il delfino. Lo
visualizzai felice, mentre saltava tra
le onde. Era lì, perso tra quel panneggio, inebriato dal profumo di
sapone di Marsiglia. Non c’era malizia in lui.
“Sei speciale!” disse. Questa
volta il suo sguardo aveva agganciato qualcosa. Mi girai. Stava guardando un vecchio casolare, oramai
diroccato. Doveva avere avuto
diversi e maggiori fasti, quell’edificio. Delle rampicanti lo avevano
assalito e si stavano cibando delle
sue mura. Macchie di intonaco color
cipria disegnavano delle mappe sulle
parti di mattoni a vista. Una nuova
geografia. Una cartografia fantastica. Ci parlavamo fitto ed io immaginavo nuove isole, mai abitate, mai
state. Una penisola, vicino allo spigolo, aveva la forma di un pugno
levato in alto. Quale popolo la abitava? Quali erano i costumi, le leggi,
di cosa vivevano?
Quali i loro Dei, cui potersi ribellare? Anche la forma della loro terra
lo diceva: mettiamo qualcuno in alto
contro il quale adirarci nei momenti
di disgrazia.
La guardai e pensai alla sua capacità di sviscerare le cose, di entrare
in dettagli invisibili agli altri, di
sezionare il pensiero.
Anche io pensai che era speciale.
Ma non glielo dissi.
Il pistone entrò ancora nel cilindro. Cioè, lo aveva fatto innumerevoli volte, ma in questa occasione
me lo stavo figurando ancora. Quel
cilindro metallico che si infilava in
una teca lucida.
Mi ero avvicinato di qualche millesimo di secondo a lei.
L’avrei incontrata ancora. Presto.
Sarei stato ancora vicino a lei.
Sul cielo si era disteso un sottile
strato uniforme di nuvole, i bordi
delle quali erano dolcemente abrasi
e sfumavano in un celeste diafano,
che mi portavano verso un nulla
ipnotico. Mi soffermai su quella
tonalità di colore. Una specie di
carta da zucchero, ma più lieve,
innocente.
Arrestai l’automobile su uno slargo in terra battuta. Il mare si infilava
formando un’ansa che arrivava quasi
alle ruote della macchina, e sbatteva
le onde su degli scogli spigolosi. Era
curioso sentire la diversità di suoni
che si riproduceva: l’acqua che si
srotolava sul tratto sabbioso della
spiaggia come uno scialle setoso
sulle spalle di una donna, le onde
che percuotevano come dei gong
nere e lucide pietre.
In controluce, una macchina nera.
Cinque sagome. Una piccola anforetta senza manici, nelle mani di uno
di loro.
Mi mantenni a distanza. Il vento
divenne trasparente e gelido.
La sua barca, a quest’ora, doveva
essere tra piccole onde dorate, da
qualche parte.
“Ti amo.” Mi disse una volta. “E
mi rimane poco ancora.”
L’uomo più alto del gruppo salì
su una striscia di scogli, mantenendo
un equilibrio precario. Aprì l’urna e
chiuse gli occhi, rivolgendo il capo
verso l’alto.
Il sole gli rischiarò le palpebre
chiuse. Gli altri guardavano lontano,
verso il mare. Le onde sollevavano
spruzzi e macchiavano di bianco il
cielo.
L’uomo infilò la mano ed estrasse
un pugno chiuso e rancoroso. Lo
levò al cielo. Gli occhi gli si bagnarono d’amore e odio. Fermo, con
quella cenere fra le mani. Cosa era
lui? Un’irrilevante rugosità sulla
crosta terrestre. Un indistinguibile
punto in una sfera lanciata nell’universo.
Dove era Dio?
Non voleva aprirla, quella mano.
Poi si schiuse, quasi da sola. Ginevra scivolò via, per l’ultima volta,
lontano da suo padre.
Una splendida pioggia di cenere.
Minuscole particelle color ardesia si
lanciarono in una danza. Una puntinatura indistinta, come un lontano
volo di rondini. Il vento parve bloccarsi, come un una piccola nube grigia, poi quella polvere piovve sullo
scoglio amato da Ginevra.
Enrico Antonio Cameriere
Testamento d’Amore
La mia mente, fissa in quell’insostenibile
apparenza del passato, mi riporta al tempo
in cui, io consumai la tua immagine al fuoco
della speranza.
Era l’infedeltà delle correnti a lambirmi,
era l’aria calda delle tempeste del sud.
Dalle mie mani, dai tuoi occhi assenti
nell’oscurità del silenzio, dall’impunita codardia
del bisogno, è sorto l’inguaribile esilio del
pianto.
Ho atteso che l’impossibile potesse superare la
tirannia del suo ventre, ho atteso te in quella
rara abnegazione del sempre.
Tu eri un’isola molestata da un oscuro destino.
Accoglievi il mio richiamo, con la tua
indolente accondiscendenza e intanto
suggellavi l’eternità del tuo abbandono.
Ora, nelle sere in cui un’inquieta luna mi aiuta
a ricordare, io ti vedo, illuminata dal presente, e
mi accorgo di quanto di me ancora tu non sai.
Florentino Ariza
Il mio primo giorno al mare
A
nche quell’anno, la primavera lasciava il posto ad
un’estate che si annunciava con caldo e afa; noi
ragazzetti, con la scuola oramai chiusa, eravamo
totalmente presi dai nostri giochi all’aperto, trascorrendo molte
ore in divertimenti, i più disparati. Da poco, giugno aveva
lasciato il posto al mese più caldo dell’anno: luglio; i miei
amici, Carmelo e suo fratello Domenico, compagni di giochi,
iniziavano la stagione balneare e ogni giorno partivano felici
con la loro automobile luccicante con destinazione mare. Per
me, invece, si presentava un’altra estate a casa, tutt’al più mia
madre mi avrebbe mandato come gli altri anni, nel salone del
barbiere senza restare per strada a combinare guai.
Un pomeriggio caldo e soleggiato, ero seduto nel giardino di
casa, sotto un albero di limone, all’ombra, intento a ripassare le
figurine dei calciatori che conoscevo a menadito, quando la
voce di mia madre destandomi m’invitava ad alzarmi e raggiungerla in cucina. A casa nostra, era venuta a trovarci la Sig.
Francesca, una nostra vicina di casa e amica di famiglia; parlando dei figli, disse che Francesco suo figlio mio coetaneo,
avrebbe iniziato la stagione dei bagni con suo padre e invitava
anche me ad andare con loro. Al sentire ciò, un’immensa gioia
mi pervase, pensando che finalmente potevo vedere il mare,
fare il bagno, giocare sulla spiaggia, e poterlo raccontare agli
amici la sera. La mamma acconsentì, ma rivolgendomi uno
sguardo severo, mi raccomandò di non crear problemi ed essere
educato ed ubbidiente. Io naturalmente feci un cenno d’assenso
col capo. Ora un problema si presentava, infatti, non possedevo
un costume da bagno, la mamma si ricordò che mia zia ne possedeva uno che era stato di un mio cugino più grande di me,
pertanto andò a cercarlo a casa della zia. Aspettando che
mamma tornasse, fremevo con trepidazione; da lì a poco, la
mamma tornò con in mano un “costumino” color pastello. Saltai di gioia, lo afferrai e corsi in camera per indossarlo, il costume mi andava una meraviglia. Quella notte, ricordo che mi
svegliai parecchie volte, pensavo al mare, non riposai bene. Il
mattino seguente trascorse velocemente, a pranzo mangiai
poco, le mie sorelle, più piccole di me, erano invidiose e mi
schernivano. Il papà di Francesco, arrivò puntuale alle 15,30
davanti casa mia con la sua motoape color grigio topo; era un
pomeriggio caldissimo, io aspettavo da almeno un’ora pronto
con il mio zainetto cucito dalla mamma. Montai accanto al Sig.
Giovanni, mentre Francesco era sistemato dal lato opposto,
indossava una canottiera bianca e un pantaloncino azzurro chiaro, un saluto e via lungo la Strada Provinciale che conduceva
alla spiaggia. La strada si snodava tra alberi d’ulivo immensi
che a quell’ora proiettavano l’ombra sull’asfalto rovente. La
motoape percorreva la strada, poco frequentata a quell’ora; ad
un tratto il paesaggio cambiò di colpo, ora, agli alberi d’ulivo,
si sostituivano meravigliosi vigneti e piante di fico d’india che
mostravano i loro frutti dai colori giallo e rosso. Durante il
lungo il viaggio, osservai il Sig. Giovanni, era un uomo quasi
calvo, con una canottiera bianca, pantaloncini color cachi e ai
piedi un paio di calze bianche e dei sandali marrone; intento
alla guida, raccontava di quando ancora giovane emigrò in
Australia a cercar fortuna con la nave e impiegò più di un mese
per arrivarci. “I sacrifici furono tanti”, ripeteva il Sig. Giovanni,
“lavorai tanto in quella grande nazione che dava lavoro a tutti e
tutti hanno contribuito alla sua grandezza”. Ad un tratto, dopo
una curva a gomito, come per incanto, si aprì una visione meravigliosa, un’immensa distesa d’acqua azzurra sino all’orizzonte,
dove si intravedeva, simile ad un grande cono, un’isola, il Sig.
Giovanni disse “Quello è il vulcano Stromboli, guardate come
dalla sommità esce il fumo”; infatti, dalla sua sommità si alzava
una lunga stria scura. Era la prima volta che vedevo il mare.
Giunti vicino alla spiaggia, il Sig.Giovanni parcheggiò la motoape sotto un albero di eucalipto che, facendo ombra, la riparava
dal caldo torrido. Prese un ombrellone, con la scritta “Coca
cola”, e ci avviammo verso la spiaggia; la sabbia era caldissima,
in un punto vicino alla battigia, il Sig.Giovanni piantò l’ombrellone e lo aprì. Io ero intento ad osservare tutto quanto era attorno
a me, quando il Sig.Giovanni mi invitò a levare la mia camiciola
blu e i pantaloncini bianchi. Ci sedemmo con Francesco a prendere il sole e osservavamo i bambini che festosi giocavano nella
battigia e ci scambiavamo delle impressioni; suo padre intanto
fumava seduto sotto l’ombrellone e ascoltava la musica da una
piccola transistor. Poco dopo, il Sig.Giovanni ci diede il permesso di fare il bagno, contenti, ci avviammo a piedi nudi sulla sabbia calda; il mare davanti a noi assumeva un colore blu cobalto,
mentre i raggi del sole saettavano sulla superficie. Intorno a noi
era un vociare festoso, l’acqua mi accarezzava le caviglie dandomi una sensazione mai provata prima, era calda e mi sentivo felice, allora mi stesi a bagnar tutto il corpo, mentre Francesco, che
sapeva nuotare, era lontano da me un bel pò. Davanti a noi, un
enorme scoglio dal quale parecchia gente si tuffava; io osservavo
il mare per vederli riaffiorare, Francesco si avvicinò a me ed io
allora cercai di imitarlo, ma dell’acqua mi entrò in bocca e sentì
il suo sapore salato. Il tempo trascorse velocemente, ben presto
uscimmo dall’acqua e ci asciugammo con i teli, prendemmo la
merenda e la consumammo in un baleno. Ora, il sole stava adagiato sull’orizzonte, i suoi raggi assumevano un colore rosa
tenue, mentre scompariva lentamente. Il Sig.Giovanni, seduto
sulla sdraio di legno color verde e bianco, fumava un’altra sigaretta e lanciava il fumo in alto formando anelli che scomparivano
nell’aria. La spiaggia ora era meno chiassosa, la gente a gruppetti
si avviava lentamente verso la strada; eravamo rimasti in spiaggia in pochi; alzandosi di scatto, il Sig.Giovanni ci invitò a rivestirci, chiuse l’ombrellone mentre noi raccogliemmo le nostre
cose e con passo tranquillo raggiungemmo la motoape sotto
l’eucalipto. Ci sistemammo e allora il papà di Francesco avviò
la motoape e lentamente guadagnò la strada. Lungo il viaggio di
ritorno, il Sig.Giovanni continuò a raccontarci del suo trascorso
in Australia, noi stanchi e distratti non lo seguivamo più. Giunti
a casa, all’imbrunire, scesi dalla motoape, salutai Francesco e
suo padre, varcai il cancelletto di casa e le mie sorelle mi corsero incontro chiedendomi come era andata. Cominciai a raccontare tutti i particolari, quanto era bello il mare, com’era l’acqua;
ero felice, era stato il mio primo giorno al mare e già pensavo
all’indomani, al nuovo giorno sulla spiaggia.
Estratto da “Ricordi di fanciullezza”
di Mercurio Sanchez
L ETTERE
M ERIDIANE
20
N. 2 / 3 - Luglio - Agosto - Settembre
Vincenzo Tieri, una vita
per il giornalismo e il teatro
C
origliano Calabro era un calderone
di idee, un vulcano d’inventiva,
quando il 28 novembre 1895 nacque
Vincenzo Tieri. Le sue doti artistiche, che si
rivelarono un vero tesoro, Tieri le scoprì e sperimentò nella “fucina” del giornale cittadino “Il
Popolano”. Incontrò Don Ciccio Dragosei, il
Mecenate del paese, e d’allora cominciò un
sodalizio, destinato a tracciare la strada a quel
giovane studente del Ginnasio “Garopoli”.
«Non so che cosa sarebbe accaduto di me se un
giorno essendo ancora alunno delle prime classi
ginnasiali non fossi entrato nella “Tipografia del
Popolano”. Io quel giorno ero entrato nella tipografia per comprare un quaderno», scrisse egli
stesso nel 1955.
A tredici anni era direttore di un giornaletto
interamente scritto, curato e stampato da lui,
che diffondeva tra i suoi compagni di scuola. A
diciotto “Il Popolano” era ormai quasi interamente scritto dal giovane Tieri, che, contemporaneamente, era già corrispondente locale di
alcuni quotidiani romani. Vincenzo Tieri non
abbandonò mai la sua penna, emigrò a Roma e
continuò la sua attività giornalistica cominciata
nel paese natio. Lavorò con Cardarelli, di cui fu
vice, e con Tilgher, critici del quotidiano “Il
Tempo”. La sua fu una carriera tutta in salita e
densa di riconoscimenti, successo e soddisfazione. Offrì la sua vita al teatro, componendo circa
quaranta commedie, che furono tradotte e messe
in scena in Francia, Germania, Argentina, e
Spagna. Le sue opere girarono l’Italia in lungo e
largo, e la RAI trasmise più volte alcune sue
commedie come “Questi poveri amanti” e “Chirurgia estetica”. Quello di Tieri è un curriculum
di tutto rispetto. Fu critico teatrale, regista, e
presidente della Società Italiana Autori ed Editori. Diresse compagnie e fu direttore del Teatro
Piccolo di Palermo. Tieri fu molto legato a Ruggiero Ruggeri che allestì molte delle sue commedie. Per un breve periodo fece anche politica,
divenendo Deputato alla Costituente e, fondando insieme a Guglielmo Giannini, il movimento
ed il giornale “L’uomo qualunque”.
Suo figlio Aroldo Tieri, investito dalla natura
del genio paterno, calcò la scena e la dominò,
facendo sia cinema che teatro, accanto ad artisti
come Totò, Andreina Pagnani, Rina Morelli,
Gino Cervi, Paolo Stoppa. “Maestro di vita e di
teatro” definisce suo padre ed egli stesso suo
allievo e testimone. E teneramente racconta, in
un’intervista rilasciata ad un suo conterraneo, le
loro “conversazioni di mezzanotte”. Aroldo
rientrava a casa dal teatro e trovando il padre
ancora sveglio, si trattenevano nello studio a
parlare della serata e Tieri padre leggeva ed
interpretava la scena che stava scrivendo. Dopo
quel 4 gennaio 1970, data della sua morte, il
nome di Vincenzo Tieri sembra essere stato
inghiottito nel nulla. Nel silenzio che può cancellare anche i più grandi e tacere le loro virtù al
fine di farle dimenticare. Quel giorno Aroldo
era a Pesaro, al Teatro Rossini con la commedia
“La colpa è del giardino” di Edward Albee e
corse subito a Roma appena informato della
morte del genitore. Il commediografo calabrese,
che fu protagonista del clima culturale della
prima metà del secolo scorso, trascorse la maggior parte della sua esistenza nella capitale, nel
suo studio a scrivere, ma non dimenticò mai la
sua Calabria, il suo “ Popolano”. Ed Aroldo, suo
figlio, continua a sentirsi indissolubilmente
legato alla terra di suo padre. “Più vado avanti
negli anni e più ritrovo dentro di me, accentuati,
alcuni segni della mia origine coriglianese:
forza di carattere facilmente puntigliosa, fedeltà
all’amicizia, tendenza all’introspezione, cervello raziocinante, scarsa socievolezza, orgoglio
che sconfina nella superbia e un’invincibile pessimismo nel giudicare gli uomini e la vita”,
scrisse in un momento di riflessione sulla sua
“calabresità”.
Vincenzo Tieri non dimenticò il profumo
Vincenzo Tieri con il figlio Aroldo
dell’olio, il sole che cala dietro il Monte Pollino, le prime ombre della notte sul Castello
ducale, le campane che suonano l’Ave Maria,
l’odore della liquirizia e degli aranceti, ed il
sapore delle sue specialità. Non rinnegò mai le
Viaggio da Parigi a Roma
L’originale mostra di arte contemporanea a Corigliano Calabro
L
e belle sale del Castello ducale di Corigliano Calabro,
fortezza normanna del XI secolo, dal 7 al 29 maggio
hanno fatto da ponte fra diverse generazioni di artisti.
La mostra Parigi-Roma è un momento di fusione tra i giovani
artisti del Corso di Grafica-Tecniche dell’Incisione dell’Accademia delle belle Arti di Roma e i noti artisti internazionali dell’Atelier 17 di Parigi.
È il frutto di un’esperienza di laboratorio durata quattro anni.
Un’esperienza d’atelier sulle orme dei maestri alla ricerca della
propria originalità. Lo scenario è splendido: l’arte contemporanea
si fonde con un’atmosfera di antico, fatta di affreschi alla vecchia
maniera che, armonicamente, lasciano spazio alle nuove creazioni, assai più bizzarre e molto più difficili da comprendere. Il trittico di Morelli nella cappella di S. Agostino ed al piano di sopra le
esposizioni del maestro Stanley William Hayter, il rivoluzionario
dell’arte dell’incisione. Hayter, il fondatore intorno agli anni trenta dell’Atelier 17, luogo d’incontro di grandi come Mirò, Ernst,
Duchamp.
Le macchie di colore sono ovunque. Colore che sembra schizzare fuori dalle stampe nelle sue infinite linee e intersecazioni.
La mostra è un itinerario tutto da interpretare. Nel limite del
consentito, naturalmente, date le firme che compaiono sulle varie
opere: l’argentino Hector Saunier, la coriglianese Anna Romanello, Shu-Line Chen, il cileno Eugenio Tellez, lo spagnolo Joaquìn
Capa. I giovani dell’Accademia di Roma, dal canto loro, dimostrano grinta, tecnica e personalità.
Francesca Mollicone ci prospetta dinanzi un “Bivio”, uno dei
tanti, che ci costringono a scegliere.
Cenerentola di Angelo Basile
Andrea Montesi con il suo “Dove è finito Sisifo?” induce a
riflettere sulla nostra condizione di uomini, spesso non del tutto
felice. La proiezione della citazione, estratta dal “Mito di Sisifo”
del filosofo e scrittore Camus, non può che essere un chiaro
rimando alla sua interpretazione del mito. Sisifo è il simbolo del
contrasto tra finito ed infinito che domina l’esistenza umana. L’infinità dei nostri desideri e la finitezza delle nostre possibilità.
“Fontane” di Shu-Line Chen ha tutto il movimento degli schizzi di una fontana. Il suo acquaforte “Epiphanie” ha qualcosa di
tipicamente alla James Joyce. Un’epifania, una rivelazione che ha
come sfondo un cielo illuminato da tre sfere imperfette, forse tre
soli. O solo tre chiazze colorate, una gialla, una verde, una rossa.
Strambe le vedute di Nicola Maglio. Tetti e campanili, accenni
di montagne e prati verdi, interrotti da strisce categoricamente
bianche, categoricamente vuote ad intervallare il paesaggio.
Da favola le due opere esposte di Angelo Basile, non solo per
il titolo. Una scarpa di cristallo che un piede sta per indossare:
una “Cenerentola” con le calze di nylon. Due loschi individui,
vestiti loscamente, in un losco paesaggio: “Il gatto e la volpe”.
La Romanello, docente dell’Accademia romana, si cimenta in
una nuova rivisitazione nelle sue acqueforti di grandi monumenti
italiani. Fontana di Trevi e Fontana dei fiumi vengono interpretate
in modo innovativo giocando con tinte e collages.
“Verja” di Hector Saunier, direttore dell’Atelier, sembra la
scomposizione di una coloratissima cartina geografica tra strisce
variopinte. Ed il suo “Ariadnè” è un movimentato gioco azzurro
di grande effetto, che fa pensare al tempo ed al suo scorrere.
Le opere contemporanee sono,
di sicuro, più allegoriche rispetto
all’arte tradizionalmente intesa, meno
dirette e lampanti
nei loro messaggi.
L’arte contemporanea è difficile da
interpretare nei
suoi significati,
forse perché spesso non ne ha. È
arte per arte che
vuol esprimere un
sentimento ed esprimerlo senza intermediari, con una
linea o una macchia. È l’arte dei
nostri tempi con la
loro precarietà,
delle nostre città
con loro confusione. E non si preoccupa di esser bella
e non insegue né
perfezione né sublime.
Vuol solo essere limpida come
uno specchio e
darci la possibilità
di specchiarci.
Carolina Leonetti
sue origini, ma la sua terra sembra ignorare uno
dei più bei “frutti” che dalle sue viscere sia mai
spuntato.
Carolina Leonetti
Le macchie
di vita
di Kaly Jones
“Chaque instant est une lutte féroce
pour tacher les pages avec la vie”
Edmond Jabès
D
al 2 marzo al 2 aprile a Napoli presso l’Istituto Francese Le Grenoble si è tenuta la mostra
dell’artista canadese Kali Jones. Nata a Montréal nel 1970 la Jones è una pittrice che ha già al suo attivo numerose esposizioni, sia personali che collettive, in
Canada e in Italia.
Sono testi, busti, corpi a formare l’opera pittorica di
Kaly Jones, simboli ed immagini di una realtà soggettiva,
ma anche organica. Materia che si sfalda, non più fondo,
ma trama di un tessuto cromatico attivo, che è segno egli
stesso. “I colori tracciano figure che sembrano inquietanti,
che emergono dalla materia per esprimere una loro particolarità”. Il critico Carmelo Strano non vuole definire queste figure individualità “Sono come delle presenze, delle
manifestazioni ectoplasmiche. Nei lavori dell’ultimo anno
esse sembrano affermare una propria maggiore autonomia
e individualità, sono anatomicamente più dichiarate, ma
restano comunque ben lontane dalla descrizione e dalla
caratterizzazione. Le figure di Kaly Jones si collocano
rispetto al piano d’azione vagamente decentrate, determinando un effetto di colpo d’occhio e di straniamento”.
È la stessa artista a spiegare la natura della sua ricerca e
il percorso seguito fino ad ora. “Alcuni anni fa ho avuto
una crisi della rappresentazione, della sua inutilità. Mi
sembrava un gioco illusorio simulare la vita. Ho cessato di
dipingere per due anni. Mi sono avvicinata alla calligrafia,
alla parola scritta, il cui potere simbolico va oltre la forma.
Questa astrazione mi ha dato il distacco necessario per
poter ritornare al figurativo. I miei personaggi sono spesso
in trasformazione, si formano, si dissolvono; si parla di personaggi feriti e lacerati dalla vita”. Con queste sue figure
evanescenti sembra che l’artista voglia seguire le tracce di
stati mentali umani, frammenti di una vita che scorre,
impossibile da cogliere pienamente. “Io lavoro nel vuoto, lo
spazio della non-forma, fatto di memorie, stati psicologici,
impulsi, frammenti. Senza modelli” dice ancora.
“Captare l’essenza di uno stato mentale o di un movimento interno” e raffigurarlo, una sorta di contemplazione,
dove l’immagine e lo spazio vuoto contano allo stesso
modo, osservati da differenti prospettive. Questa è l’arte di
Kaly Jones che da qualche tempo sperimenta anche la
fotografia. La fotografia che, al contrario della pittura,
capta una realtà o illusione di realtà, fissando un momento
dato nel tempo, è l’inizio di una nuova ricerca che vuole
trovare un dialogo tra differenti medium. Attualmente, con
Jonathan Belisle, realizzatore-artista di nuove tecnologie,
sta preparando Fire Cello, un montaggio di disegni calligrafici ispirati dalla musica del compositore- violoncellista
siciliano, Giovanni Sollima. I disegni sono frammentati e
proiettati con la musica di Sollima in uno spazio dove la
linea prende la forma della stanza. È un lavoro sulla frammentazione e la ricostruzione dell’immagine attraverso la
ripetizione e la memoria, un lavoro che rassomiglia a quello di Sollima, alla ricerca di una sintesi totale tra la linea
ed il suono.
N. 2 / 3 - Luglio - Agosto - Settembre 2005
L ETTERE
M ERIDIANE
Luigi Aliquò Lenzi,
una penna sagace
a difesa della Calabria
D
ecisi ad abbandonare i
campi per lo studio, eravamo arrivati a Reggio da
un paesetto della provincia, dove non
c’è stata mai (né c’è ancora!) una edicola e dove l’unico “foglio” che si
poteva leggere era, al massimo, il retro
del santino che distribuivano in chiesa
i questuanti. Eravamo affamati di carta
stampata e, una volta in città, non solo
abbiamo cercato di saziarci, ma ci
siamo messi in religioso fervore alla
ricerca di poeti e scrittori dei quali
avevamo sentito parlare e di testate,
nella speranza che qualcuna accogliesse la nostra collaborazione. Ricordiamo l’ansia con la quale siamo saliti al
rione Schiavone a bussare alla porta
del caro Fiumara, direttore de La Procellaria, e non ci sembrava vero
apprendere che, nello stesso Istituto
Tecnico Commerciale, al quale eravamo iscritti, frequentasse Mimmo Aliquò, perché il cognome Aliquò
significava per noi Il Corriere di Reggio, un traguardo. E fu attraverso
Mimmo Aliquò che al “Piria” s’è
potuto varare il quindicinale di vita
studentesca Intervallo (una copia, lire
20- poi 25 -, abbonamento L.350,
sostenitore L.1000!), stampato proprio
dalla tipografia del Corriere, sul quale
pubblicare sogni fatti di raccontini,
versi ingenui e cronache. Un grande e
meritato successo le poesie vere,
profonde, ironiche di Mimmo Calandruccio… Fu bazzicando quella tipografia che abbiamo potuto estendere le
nostre amicizie, arrivando a Saccà,
Puzzanghera, Tympani (scoprendo che
insegnava nel nostro Istituto!), che dirigeva Italia Intellettuale (stampata altrove); Alfonso Frangipane e Brutium,
bella rivista (stampata anch’essa altrove), poi passata alla figlia professoressa
Raffaella, nostra indimenticabile insegnante, così cordiale e alla mano da
non rifiutare di scrivere la Prefazione al
nostro atto unico “La mania del coltello” (pubblicato da La Procellaria di
Fiumara nel 1963); lì abbiamo cono-
sciuto Piero Ales, che pubblicava La
Nuova Sorgente (stampata sempre dalla
tipografia del Corriere); lì la bella rivista, in carta patinata, ma non lì stampata, La Fata Morgana e fu lì che
qualcuno ci indirizzò anche a La Voce
di Calabria…. Ed è ancora lì, in quella
tipografia che leggemmo, come ghiotto
romanzo, lo scritto che Luigi Aliquò
aveva dedicato allo zio Luigi AliquòLenzi e che Mimmo Aliquò ripropone
per i tipi della Fata Morgana.
Luigi Aliquò Lenzi (29 luglio 1875
– 18 settembre 1944) non è stato soltanto il direttore della Civica di Reggio Calabria, ma scrittore, giornalista
e ricercato conferenziere. Di lui si
ricorda, in particolare, l’opera “Gli
Scrittori Calabresi”, pubblicata nel
1913, rivista e ristampata nel 1955 dal
figlio Filippo Aliquò-Taverriti – il
quale vi aggiunse altri volumi tra il
1958 e il 1972 – e ripresa dal figlio di
questi, Luigi Aliquò, immaturamente
scomparso. In Luigi Aliquò-Lenzi
profondo era l’amore per la propria
città e la propria terra e forte l’orgoglio di sentirsi calabrese e italiano,
tanto da rigettare con sdegno l’idea di
chi voleva la Calabria eterna colonia
del Nord, alla quale inviare rifiuti e
dopo che, di rapina in rapina, depauperate, le sue “terre ubertose” erano
state “ridotte a sterili lande”. “Affrettiamoci – incitava e con sarcasmo –
perché qui più non ci mandino, col
debito pubblico e coi numeri del lotto,
sigari, monete, vetture ferroviarie,
funzionari e ogni altra merce di
scarto”. Giornalista sagace, scrisse per
numerose testate (La Gazzetta di Reggio, La Voce di Calabria), fu redattore
capo del Corriere di Calabria, poi
soppresso dal Governo. Felice Cavallotti lo voleva al Secolo, ma egli
rinunciò per non doversi trasferire e
abbandonare la città e la sua terra. Ma
eccelleva nelle conferenze, nelle quali
trattò i temi più disparati, commemorò
grandi uomini, sommi poeti e musicisti (Dante, Leopardi, Puccini, Mazzini,
la Duse…) e tanti illustri conterranei,
come Tripepi, Vitrioli, Boccioni…. La
Calabria era sempre in cima al suo
pensiero. Parlando per esempio, della
prima guerra mondiale affermava:
“Questa guerra ha reso anche alla
Calabria una grande giustizia: il riconoscimento del suo valore”. Ma c’era
in lui ironia, perché, in verità, giustizia
alla Calabria non fu mai resa, se tra le
regioni meridionali è stata e continua
ad essere la più dimenticata e bistrattata. Ne era consapevole, tanto che,
nella stessa conferenza, precisava che
nessuno aveva mai riconosciuto il versamento del nostro sangue per la
Patria. Aliquò-Lenzi, tuttavia, non fu
esente dalla imperante retorica del
tempo, dominata dal maestro di retorica Gabriele D’Annunzio. Le sue conferenze, come quella dell’otto luglio
1917 e quella del 27 dicembre dello
stesso anno, ne sono intrise, ma non
per questo si può dubitare della sua
sincerità d’intenti. Quegli “Oh”, quelle
domande e risposte, quei voli di oratoria che oggi fanno sorridere (“Venite!
Oh, voi…), non sono che il pedaggio
formale da pagare ad una società e ad
un linguaggio che si beavano di frasi
roboanti e punti esclamativi. Allora,
bene ha fatto Mimmo Aliquò – presentatore e curatore del volume di (e su)
Luigi Aliquò-Lenzi – a riportare due
conferenze quasi prive di retorica: “La
Calabria nella “Divina Commedia” e
“Leggendo la Divina Commedia”,
rispettivamente del 1915 e del 1921,
che dimostrano come Aliquò-Lenzi,
per tutta la vita, “operò per rivendicare la civiltà trimillenaria” della nostra
regione. Luigi Aliquò-Lenzi fa parte di
una ristretta schiera di grandi uomini
che nei secoli rese civile, bella e ordinata la città di Reggio, oggi appannata; ed è nel ricordo di tali uomini, e nei
valori che essi hanno propugnato e
difeso, che se ne invoca, e con urgenza, il necessario riscatto.
Domenico Defelice
21
Tra gli scogli dell’io
di Fortunato Aloi
Luigi Pellegrini Editore
pp.199 - €. 12,00
ortunato Aloi (per noi Natino) non è un uomo da scoprire oggi nel
panorama letterario regionale e nazionale, giacché ha svolto, sin
F
da giovanissimo, e svolge attualmente, un’intensa attività politico-culturale. Ha percorso lunghi itinerari: consigliere comunale e provinciale della
sua città, consigliere regionale e deputato, sottosegretario di Stato alla Pubblica Istruzione, giornalista, scrittore, componente del Sindacato Libero
Scrittori Italiani, docente di storia e filosofia nei Licei, presidente dell’Istituto studi Gentiliani per la Calabria e la Lucania, ecc. Le sue opere spaziano in campi diversi: dalla saggistica alla storia, dalla filosofia alla
narrativa, dalla sociologia alla pedagogia, e (il dolce come al solito viene
alla fine…) alla Poesia!
E della sua poesia, del suo primo e recente libro “Fra gli scogli dell’Io”,
(Edizioni Luigi Pellegrini Editore, Cosenza) intendo qui soffermarmi a parlare. Un libro impegnativo sia per contenuto che per forma. Un autentico
capolavoro dell’arte creativa di Aloi, poeta umano e profondo. Dedicata
alla memoria, la raccolta è testimonianza di una poesia sentita, pura e fresca. Una poesia, direi, completa, vibrante in tutta la sua maestosità.
La produzione contenuta in questo volume risale in parte agli anni
ottanta e fino ai giorni nostri, e si compone di due tempi iniziali ed uno
conclusivo più ridotto, seguito da un interrogativo che non tradisce sorprese. In effetti, però, il filo conduttore dei tre momenti rimane ben saldo alla
trama, come l’ordito di un tessuto oppure come gli atti di un’opera lirica,
teatrale o cinematografica, i cui tempi mantengono inalterata la loro unicità
rappresentativa. I fatti di “ieri” e quelli di “oggi” possono essere rievocati
nella loro successiva e naturale cronologia, giacché entrambi ricadono
sotto la lente della nostra esperienza. Quelli del “domani”, invece, appartengono solo ad un mondo immaginario, di fantasia perché non è concessa
agli uomini la capacità divinatoria di conoscere il futuro come era possibile
per la Sibilla Cumana e per quella Delfica. Di qui la necessità, pratica e
simbolica, di far seguire il punto interrogativo al termine “domani”. E l’opportunità, per il nostro Autore, di soffermarsi più a lungo nelle prime due
parti, e molto meno nella terza. Aloi rivive, con la memoria, il tempo trascorso, le vicende vissute, i ricordi, il tutto non disgiunto dalla sua indomita volontà di conoscere meglio le cose, il mondo, se stesso.
Ricorda il proprio periodo adolescenziale con tutta quella carica di turbolenza psicologica, e non solo, da cui quegli anni sono caratterizzati. Da
cui i versi: “ Tacito e solo son sulla marina:…il pensiero a Dio: /passan le
ore del meriggio estivo”. Oppure i lapidari versi. “Vuota campana/piena di
mistero…”. Tuttavia, il Poeta, si aggrappa alla speranza di migliori schiarite pensando: “Forse col tempo/ non risuonano/ misteri”. Ma l’autore, pur
conoscendo tanto del mondo, non esita a dire: “Ma sono/ lo straniero del
mio cuore”, giacché egli rimane proteso alla ricerca del suo “Io” più intimo
mentre affida al cuore di cercare la luce. Note simili si susseguono, con
analogo impeto, nel prosieguo delle restanti liriche. Dedica a Guido Gozzano e a Giovanni Gentile due splendide composizioni per ricordare, forse,
l’umiltà crepuscolare del primo e la forza del pensiero pensante del secondo. In altri versi ricompare il suo assillo a voler meditare per meglio poter
rispondere al richiamo socratico del “Nosce te ipsum”, da cui i versi:
“Lasciatemi/ solo/alle prese/ col mio io lacerato dal dubbio…nel silenzio/
del nulla/…” E prosegue “Interrogarsi/ sul dramma/ dell’io/ è come cavalcare un’onda/ di nebulosa illusione”.
Si può affermare con certezza che la poesia di Aloi scaturisce, sì, da una
eccezionale vis culturale ed umana, ma l’originalità dei versi esprime una
vasta gamma di sentimenti, di ricerca, di emozioni, di solitudine, di “perché” E si colora di un pathos di intensa liricità.
Luigi Pellegrini
L’Eros nella tragedia antica
L
a tragedia è il genere letterario la cui origine
rappresenta uno dei problemi di più difficile
risoluzione a causa della povertà delle fonti.
Nella Poetica Aristotele parla di derivazione della tragedia: La tragedia nasce «da coloro che intonavano il ditirambo» che si cantava in onore di Dionisio e in un altro
passo la lega ai rapporti con «le rappresentazioni dei satiri»: Il ditirambo, gli elementi dialogici e mimici e il travestimento degli attori con maschere di capri attesterebbero
una evoluzione che si snoda attraverso il ditirambo e il
dramma satiresco. L’etimo tragedia è formato da Tragos
e odè che può significare «il canto per un capro» oppure
«il canto dei capri» cioè di uomini mascherati da capri. Se
la seconda etimologia è esatta sarebbe un ulteriore conferma. Naturalmente la questione dell’origine non è stata
risolta sebbene molte teorie e ipotesi siano state proposte
nel corso dei secoli fino ai nostri tempi.
La tragedia si configura come un genere letterario in
cui è prevalente il sentimento tragico e fa riflettere sul
problema del dolore e della debolezza umana. L’uomo
della tragedia non può sottrarsi a una forza superiore sia
essa una divinità o il fato. Egli non sa riconoscere il limite
oltre al quale non è lecito andare: “Quale uomo mortale
sfuggirà allo scaltro inganno del dio?” (Eschilo, Persiani
vv. 93-94). Eschilo il primo in ordine cronologico dei tragici ateniesi nacque verso il 525 a.C. ad Eleusi, la sua vita
s’intersecò con gli avvenimenti cruciali di Atene che s’incamminava a divenire la potenza egemonica del mondo
greco. I personaggi del suo teatro «a una sola dimensione» mostrano un solo aspetto della loro personalità, le cui
passioni totalizzanti li fanno apparire «scolpite in forme
definite». Le Supplici, una delle sette tragedie rimaste, è
l’unico dramma di una trilogia che comprendeva Egizi e
Danaidi. Alla base vi è il mito di Danao e Egitto, fratelli
gemelli. Le Danaidi si ribellano alla supremazia maschile,
sono donne che si sottraggono a un futuro di schiave,
rifiutano la sessualità e quindi l’ordine familiare. Il loro
comportamento è contrario alla legge dell’eros, la pulsione che spinge ogni persona a trovare nell’altra il suo complemento. L’Orestea è l’unica trilogia legata che ci è
pervenuta dal teatro greco antico. Portata sulla scena nel
458 a.C. il poeta tratta il mito dei Pelopidi. Nell’Agamennone Clitennestra, donna, sposa e madre è la protagonista.
Si mostra in apparenza premurosa nell’accogliere Agamennone come conviene ad una donna che da anni attende il ritorno dello sposo e non ha pudore a manifestare i
suoi sentimenti: «Cittadini che siete qui, degna nobiltà di
Argo, a voi svelo la passione d’amore per questo mio
sposo. Non avrò pudori» (Ag. 855-577). Clitennestra è
spinta dalla sete di vendetta e da due sentimenti estremi:
l’odio per il marito, che si è macchiato di un delitto orrendo, e l’amore per la figlia, Ifigenia, vittima sacrificata al
volere della divinità. Inoltre in lei agisce l’amore per Egisto, cugino di Agamennone, che vuole vendicarsi dell’usurpazione del regno da parte di Atreo, padre di
Agamennone, a Tieste, padre di Egisto. La vendetta si
compirà con l’uccisione di Agamennone colpito nel
bagno da lei e da Egisto. Nelle Coefore protagonisti sono
Oreste ed Elettra che vogliono vendicare l’assassinio del
padre. Oreste, introdottosi nel palazzo, dapprima uccide
Egisto poi si trova davanti alla madre sta per colpirla, lei
apre la veste e scopre il seno e dice: «Fermati, o figlio,
abbi rispetto di questo seno, su cui tante volte il capo ti
cadde nel sonno, e tu seguitavi a suggere il dolce latte che
ti nutriva». (vv. 896-987). Oreste prova smarrimento e
chiede aiuto all’amico Pilade. «Che debbo fare?». Questi
gli ricorda i giuramenti fatti agli dei e lo ammonisce:
«Non si possono tradire i giuramenti. Meglio avere nemici gli uomini tutti anziché gli déi». (vv. 901-02) Oreste
compie il matricidio. Nelle Eumenidi, ultimo dramma
della trilogia, rompono la catena di sangue. Oreste è salvato da Apollo e da Atena che fa pendere la bilancia della
giustizia dalla sua parte e le Erinni diventano Eumenidi
cioè benevole. In Sofocle emerge la visione eroica della
vita dei personaggi della tragedia. L’eroe deve vivere con
onore «kalòs zen» o morire con onore «kalòs tethnekenai». L’Antigone è una delle tragedie più famose del teatro greco antico, al centro vi è il divieto della sepoltura di
Polinice e l’aspro contrasto tra Creonte, re di Tebe, e
Antigone che afferma che vi sono «leggi non scritte»
superiori alle leggi umane. Antigone sacrifica la sua stessa vita per dare sepoltura a Polinice. Convinta che l’amore è una grande forza vitale lo proclama con convinzione:
«Io sono fatta per condividere l’amore, non l’odio» (v.
523). Nel terzo stasimo il coro commenta la forza dell’amore che ha fatto schierare Emone, il figlio di Creonte,
contro il padre. (vv. 781-800). Il dramma raggiunge il suo
culmine quando Antigone avviandosi verso la morte si
accorge di morire senza essersi realizzata come donna.
Nell’età in cui avrebbe dovuto convolare a nozze con
Emone, il coro la vede mentre s’incammina «verso il talamo dove tutti riposano» cioè la tomba. Lo strazio di Antigone è disumano: «Ades che tutti assopisce/ viva mi
conduce alla riva d’Acheronte,/ defraudata dagli imenei».
Antigone prende consapevolezza della sua solitudine
«senza compianto senza amici/ senza imenei/ a questo
viaggio imminente/ infelice sono tratta».
Nelle Trachinie, Deianira, sposa di Eracle, apprende
che l’eroe si è innamorato di Jole, preda di guerra nella
conquista della città di Ecalia. Deianira per riguadagnare
l’amore di Eracle gli invia la tunica «tessuta di sua mano»
imbevuta del sangue del centauro Nesso. Questi prima di
morire le ha confidato che se l’immergerà nel suo sangue
otterrà un filtro magico. Il sangue però è un veleno mortale ed Eracle morirà fra atroci sofferenze. Deianira spiccava fra le sue coetanee per bellezza e gli uomini se la
contendevano. Eracle combatte contro Acheloo e la conquista come premio contro di lui. Deianira, donna innamorata dell’eroe sempre vittorioso, paga la sua ingenuità
dando ascolto al centauro. La gelosia e l’inquietudine per
il tradimento la spingono a recuperare dal suo passato il
veleno del centauro. L’esistenza della sposa si è dipanata
nella solitudine, abbandonata dall’eroe sempre lontano da
lei preso dalle sue fatiche: «Nessuno sa dirmi il mio uomo
dov’è… ormai non è più qualche giorno: dieci mesi, poi
cinque ancora, e non un messaggio niente». (vv. 43-45);
Con Euripide, anticonformista ideologico e intellettuale appartato, i personaggi dei suoi drammi cessano di
essere eroi come in Eschilo e Sofocle e assumono il carattere di uomini e donne comuni. In loro sono prevalenti le
forze irrazionali che li spingono ad agire oltre alla loro
volontà. Abbeveratosi alla fonte della sofistica, assorbì da
essa lo spirito critico e si pose in polemica con la religione tradizionale sottoponendo dei miti al vaglio della
ragione. Euripide analizza l’eros che
assume forme terribili e distruttrici, lo
scontro tra le pulsioni e il sentimento
amoroso, la follia che sconvolge la
mente. Le figure femminili Alcesti,
Medea, Fedra esprimono una sensibilità
nuova. Manifestano immediatezza di
sentimenti e passione istintiva che il
poeta riesce a tradurre con grande forza
pratica. Euripide penetra nei meandri
della psiche e fa emergere emozioni,
angosce, ira che travagliano il loro
animo. Alcesti è una donna innamorata,
in lei prevale l’amore coniugale. Admeto, re di Fere, ha ottenuto da Apollo
l’immortalità se qualcuno fosse disposto a morire al suo posto. I genitori,
sebbene vecchi, rifiutano tale sacrificio
e Alcesti con animo nobile compie l’estremo atto. Eracle arriva nella reggia
che è in lutto e viene a conoscere da un
servo l’accaduto. Allora scende nell’Ade combatte contro thanatos e la riporta
in vita. Alcesti vittima del suo amore
con generosità paga il suo legame di
sposa e di madre. Medea, il mito a cui
Euripide si ispira è quello degli Argonauti, è la donna che per amore di Giasone «più innamorata che saggia»
tradisce il padre e uccide il fratello.
Medea è la sposa tradita e in lei si scatenano in modo selvaggio sentimenti
primitivi di crudeltà. Forze oscure e
irrazionali agitano il suo animo. E’ una Marte e Venere da un quadro del Tiziano. La guerra e l’adonna gelosa e offesa che comprende la more, la morte e la vita: un tema eterno
condizione in cui verrà a trovarsi «cacmento alla nutrice, che rivela a Ippolito l’amore di Fedra.
ciata in bando di questa terra, priva di amici e sola con i L’eroina insultata e offesa dal giovane si uccide per non
soli figli». (vv. 512-13). Giasone non comprende la ragio- sopravvivere al disonore. Fedra prima di morire lo accusa
ne per cui Medea si ribella e rifiuta di essere la sua concu- con una lettera a Teseo di essere stata insidiata da Ippolibina. L’eroe dimentica di avere una donna innamorata che to. Teseo maledice il figlio e Poseidone manda un mostro
ha un grande senso dell’onore e non «vuole essere degra- che fa imbizzarrire i cavalli che lo straziano. Entrambi
data da sposa ad amica». Nel confronto tra i due Medea sono vittime della divinità. Ippolito è un fanatico campioesprime tutto il suo odio e disprezzo rinfacciandogli l’in- ne dell’aretè, pertanto identifica la saggezza con la castità
gratitudine e l’infedeltà, l’altro accampa con molto cini- e non comprende di dare ad essa un significato riduttivo
smo le convenienze sociali. Il coro, spettatore, è colpito mostrando una sorta di misoginia. Si sottrae all’eros, è
dalla violenza delle loro parole e dice: «Terribile e impla- freddo, intollerante e insensibile e finisce con l’innalzare
cabile è l’odio,/ quando persone che si amavano si sca- come esclusivo valore la castità negando le leggi della
gliano l’una contro l’altra». (vv. 520-21).
natura. Fedra obbedisce alla legge di natura dell’innamoLa tragedia ha il suo epilogo con la morte di Glauce e ramento. La passione amorosa la conduce alla consunziol’uccisione dei figli. In Medea e Giasone si possono ne fisica e psichica. Nel suo vaneggiare sogna un prato
cogliere nell’una l’aspetto irrazionale: «Il male mi vince. erboso e aspira ad un’esistenza vicina ad Ippolito. Uscita
Conosco il misfatto che sto per compiere. Ma il furore dal delirio riflette come liberarsi da questa passione e il
dell’animo che spinge i mortali alle più grandi colpe è più suicidio le sembra la soluzione estrema: «Questo mi ucciforte in me di ogni altro volere». (vv. 1078-79). Nell’altro de: per non essere sorpresa a recare vergogna al marito e
si rivela il sofista teso al suo interesse e esperto nella dia- ai figli che ho generato». (vv. 419-21).
lettica tanto che il coro gli rimprovera di fare “bei discorNelle tragedie di Eschilo e Sofocle sono messi in
si”. Medea è una personalità passionale e selvaggia che rilievo i vincoli familiari di solidarietà in Euripide emersuscita ammirazione per il senso dell’onore ma anche un gono le passioni sfrenate, gli odi e le crudeltà. I sentimenprofondo sentimento di compassione.
ti sono soffocati e avviliti. La famiglia, con le tradizioni e
Fedra rivela una travolgente passione per Ippolito. le leggi che la dominano, esce distrutta.
Sposa di Teseo e matrigna del giovane s’innamora di lui.
Combattuta tra amore e pudore confessa il suo innamoraFrancesco Dell’Apa
L ETTERE
M ERIDIANE
22
N. 2 / 3 - Luglio - Agosto - Settembre 2005
Le ultime novità “CIT
Il sogno e la poesia per Cinzia Messina
La relazione tenuta dalla psicoanalista Maria Barbuto in
occasione della presentazione alla Fiera del Libro di Torino 2005
Sopra la mia casa
ovviamente la luna
di Cinzia Messina
Collana Il viaggio del poeta
pp.55 - € 7,00
C
inzia Messina scrive perché come
tutti i poeti ha un sogno, forse più
di uno, ma non le basta averlo per
sé, vuole che il suo sogno faccia sognare anche
gli altri. Questo desiderio si trasforma in scrittura, non una scrittura qualunque, ma una scrittura poetica.
Come dice il titolo del suo libro: “Sopra la
mia casa ovviamente la luna”, Cinzia sogna di
notte, preferisce forse l’ora del crepuscolo,
l’ora più vicina al silenzio, e con le sue parole
ci restituisce senz’altro anche questa dimensione: quella del legame tra la parola e il silenzio.
Il mio lavoro di psicoanalista mi ha sensibilizzato a cogliere in un testo, non tanto quello che la parola vorrebbe dire, ma quello che
non riesce a dire, il silenzio della parola, cioè
il punto di vuoto intorno a cui si costruisce un
discorso. L’atto dello scrivere nella poesia non
ha una finalità descrittiva o esplicativa, ma
evocativa: la parola poetica invoca il sogno, la
verità, la mancanza che abita il cuore del poeta
e che si fa motore della sua scrittura.
Vi è uno scarto, irriducibile, tra la parola
che si scrive o si pronuncia e quello che si
vuole, cioè tra la parola e l’oggetto del desiderio a cui la parola si rivolge.
Un testo poetico, come quello di Cinzia
Messina, si costruisce su questo punto di indicibilità, sull’incontro impossibile tra la parola e
l’oggetto, sulla fame per l’oggetto e sulla sua
assenza indefinita, indescrivibile.
Per questo, la poesia non ha a che fare col
senso, ma con una realtà pulsionale e, in modo
particolare, col sogno che sta al centro del
discorso poetico. Il sogno inteso non tanto
come sfera dell’immaginario, ma come pulsazione del reale. In modo particolare, nel percorso poetico di Cinzia qual è il sogno, qual è
l’incontro mancato che insiste, che si ripete,
per farsi poi parola poetica?
Non è un caso che una delle espressioni
della ripetizione nella psicoanalisi siano pro-
prio i sogni. I sogni in quanto sono la via che
indica il desiderio, come dice Freud. Ma il
sogno per quanto ricco di elementi simbolici è
sempre l’espressione di un non-realizzato, di
un non-ancora, cioè il contenitore di un’aspirazione all’essere. Forse non c’è mai una verità
ultima del sogno, come nella poesia. La verità
non ha niente a che fare col sapere esatto, con
ciò che è deducibile. La verità è sulla bocca del
poeta come uno sguardo che ci sorprende, di
soppiatto, quando noi non lo attendiamo: è per
questo che la poesia di Cinzia è dedicata ai
sognatori, cioè a chi ama farsi sorprendere,
perché la sorpresa porta all’invenzione, al
nuovo. La poesia è proprio per questo parola
straniera a chi la scrive. Non è parola dotta. È
parola inventata, è parola trasgressiva. Quando
un poeta scrive è sorpreso dalle sue parole. La
sorpresa consiste nel fatto di scoprire che il
sogno nascosto tra le parole è sempre indefinibile, un po’ nascosto, un po’ opaco, ma che l’opacità al fondo della parola poetica è la sua
ricchezza. Come si traduce questa ricchezza
nei versi di Cinzia? Cosa si ripete nel sogno di
Cinzia che si fa scrittura straniera per lei stessa, come un fondo lagunoso, malinconico,
errante, che cogliamo nei suoi versi? Jacques
Lacan ha definito la scrittura di Marguerite
Duras come il luogo in cui si celebrano “le
nozze silenziose della vita vuota con l’oggetto
indescrivibile”, dandoci una sintesi formidabile che definisce il senso di ogni creazione artistica. Molti aspetti nella scrittura di Cinzia
Messina mi riportano allo stile della Duras, per
il fatto di rievocare con le parole una sensibilità femminile per antonomasia, proprio perché
capace di dare voce al desiderio femminile,
alla sua natura malinconica, alla passione
mistica che caratterizza spesso l’amore femminile. In quest’uso della parola colgo che anche
Cinzia, come Marguerite, mostra che l’oggetto
del desiderio rincorso nei suoi versi non è mai
interamente definito dalla costruzione del
verso, è piuttosto rievocato, accarezzato, si
veste di parvenza, cioè di mancanza, e rimane
nella sua essenza un oggetto tratteggiato, inafferrabile. Si tratta di una scrittura essenziale,
“ossificata”, ma femminile proprio per il fatto
di mostrarsi nella sua funzione di velo rispetto
alla mancanza, un velo che ha lo scopo di
sostenere l’inadeguatezza tra la cosa evocata e
il linguaggio che orienta il dire del poeta.
È femminile, inoltre, per il fatto che questo
uso della parola che vela e rivela allo stesso
tempo, ci mette in rapporto col nascondimento,
con la dimensione della segretezza. Soprattutto
non è la parola che mira a possedere l’oggetto.
Vale a dire che non è semplice parola della
comunicazione, ma parola che eccede il registro della comunicazione in quanto non si situa
sul piano di una trasmissione di un sapere universale, ma in quello del “velamento originario”, cioè dell’inconscio del poeta.
Il sogno stesso è quest’oggetto perturbante,
un po’ nascosto, un po’ opaco anche se animato
paradossalmente da immagini, come la poesia,
sebbene si costruisca intorno a una cornice, a un
quadro, non per questo illumina a cielo aperto
l’oggetto della sua rappresentazione. Non illudiamoci, perciò, che le immagini poetiche di
Cinzia Messina ci restituiscano la pienezza di
un ricordo o di un desiderio, ci restituiscono
piuttosto la pregnanza di un enigma:
“Quando il nostro corpo
segue la caduta
si segue la luce.
Com’è sconsiderato
divenire quel che si perde.
Il mio sguardo può perfino entrare
in una scollatura
dove è più discinto il cuore.
Ho ascoltato più cose così
che trattenendo coi passi la terra
a cui non importa perdere
ininterrottamente
le tracce
del mare.”
Come poetessa, Cinzia sa che parlare d’amore è fare il giro con le parole intorno a un
vuoto, e che si scrive d’amore perché in fondo
non si possiede mai interamente l’oggetto dell’amore, che si scrive proprio per colmare questo scarto tra noi e il nostro oggetto, per
colmare l’assenza dell’oggetto amato.
Cinzia ci sa insegnare coi suoi versi che
questa è la realtà della poesia. Essere il segno
di un’impossibilità, di un incontro mancato.
Non a caso sceglie come frontespizio dei versi
di Pessoa: “I miei versi eccoli già lontani come
su una diligenza”.
Versi che sono già, per il fatto di esistere,
delle tracce perdute e, insieme, rincorse.
Ecco come Cinzia ama descrivere il posto
che la scrittura occupa nella sua soggettività:
“Con le mie parole ho taciuto ed ho parlato. Senza di esse non avrei potuto respirare,
perché dal loro palpito, ho tratto ristoro,
inquietudine, risposte, calore. Per le parole ho
memoria di me stessa ed ho rispetto del dolore.
La vita non si esaurisce nei versi, ma la poesia
sa donarci le sue mani. Una stretta tenera,
struggente, come chi ci ama.”
Torino, 5 maggio 2005
Maria Barbuto
NOTE BIOGRAFICHE
DI CINZIA MESSINA
C
inzia Messina è nata a Reggio
Calabria nel 1958. Ha studiato
teatro al Laboratorio dell’attore di Milano
e ha partecipato a stage teatrali internazionali con Lindsay Kemp e Jango Edwards.
Ha recitato in varie compagnie teatrali
quali “Il Teatro Calabria” ed “Il rombo” di
Reggio Calabria e la compagnia teatrale
“Giovenale”di Milano. Ha pubblicato i
suoi versi su Malvagia, rivista letteraria di
cui è stata redattrice.
Frammenti di vita e ricordi spezzati
nei racconti di Gerardo Pontecorvo
pure chi vedeva in me semplicemente il riscatto
dell’amore sulla follia e l’odio…
Nel nostro piccolo appartamento di via
Baracca (diventato di colpo troppo grande) la
vita riprese e io scoprii il vuoto che può provocare la scoperta dei dettagli, il senso tradito delle
cose dietro i vetri di una credenza, l’inutilità di
una poltrona vuota, il peso del silenzio quando
mancano le parole. I resti della mia famiglia
come le ultime stelle nell’aurora. Le ore più difficili erano quelle della sera, prima di prendere
sonno, quando per non sentirmi perduto mi
aggrappavo ai passi di mio padre in cucina, a
qualche voce amica per le scale, ad un motore
per strada…
Io ripresi la mia vita di bambino nel quartiere
57 che avrebbe portato per molto tempo ancora i
segni devastanti dei bombardamenti e delle
macerie… scenario ideale per giocare alla guerra, serbatoio di giovani emarginati e a volte
disposti ad accettare le proposte della malavita
che controllava la zona nord della città…» (Cieli
d’autunno).
L’ultimo prigioniero
di Gerardo Pontecorvo
Collana Narro come sono
pp.95 - € 10,00
«I
o conobbi presto i fumosi circoli
politici. Imparai a giocare a scopa
e briscola tra volti rugosi, grandi
dita e mani callose. A volte, mi facevano salire
su palchi che mi sembravano enormi; mia madre
che urlava rossa in viso con quella espressione
troppo severa come in un quadro alla parete di
cucina. Qualcuno mi prendeva in braccio per
farmi sporgere sulla folla e le bandiere rosse. La
singolare storia del figlio di un campo di concentramento si allargò a macchia d’olio; dovunque mi portassero ricevevo sguardi di curiosità
ed ammirazione, manifestazioni d’affetto come
semplici carezze, piccoli regali. Per molti militanti politici ero, senza saperlo, una specie d’eroe della Resistenza. Probabilmente incrociai
* * *
L’
ultimo prigioniero non smette
ancora di sentirsi schiavo e perduto. La libertà conquistata non è
solo la libertà dalle sbarre di ferro e dal filo spinato, ma quella che scuote il dominio dei ricordi
e il loro carico di paure e di dolori che rendono
una vita inconsolabile. Una schiavitù che non
risparmia nessuno. Nei racconti di Gerardo Pontecorvo c’è il peso di un’assenza. È l’assenza
delle persone che ci hanno amato troppo o troppo poco, o per breve tempo e male, quelle che
vanno via, lasciando dietro di sé gli ostaggi del
rancore e della sofferenza, mancanza di una felicità assaporata e perduta, di una condizione di
serenità ormai irrecuperabile. Che lascia il
posto, a chi è capace di conquistarla, alla maturità dell’anima. La profonda umanità, la tensione morale, il registro stilistico a volte lineare e
pulito, a volte torbido e frantumato, rendono il
lavoro di Gerardo Pontecorvo una prova sor-
NOTE BIOGRAFICHE DI GERARDO PONTECORVO
G
erardo Pontecorvo è nato a Reggio Calabria nel 1955. Dopo gli studi classici si laurea in Scienze Forestali. È stato docente e ricercatore al C.N.R. Attualmente è ufficiale presso il corpo della Guardia Forestale. Dal 1987 collabora con le riviste “Calabria
Sconosciuta”, “Vivere il Parco”, “Calabria Letteraria”, “Costa Viola”.
Con la Città del Sole Edizioni ha pubblicato Gli alberi di Gambarie (1997), Gambarie,
l’Aspromonte e il Parco (1998), Gambarie in bianco e nero; con la Edimedia I grandi alberi
del Parco Nazionale di Aspromonte.
Nel 2001 il suo primo racconto L’ultima possibilità, finalista al concorso internazionale
“Le Agavi”, viene pubblicato dalla REM edizioni. Sempre nel 2001 vince il 1° Premio nella
sezione racconti al concorso internazionale “Città di Villa San Giovanni” con il racconto Due
cacciatori. Nel 2003 con La vittoria che conta si aggiudica la menzione d’onore al 17° Premio letterario Internazionale “Amicizia” di Palermo che ne cura la pubblicazione in antologia.
Nello stesso anno viene pubblicato in antologia il racconto Bus Stop a cura del Comune di
Firenze e ottiene la segnalazione di merito per il racconto Cieli d’Autunno al “Rhegium Julii
inedito”. Nel 2004 questo stesso racconto è finalista al concorso internazionale “I racconti
della memoria” di Nova Milanese ed è pubblicato in antologia. Sempre nel 2004 vince il
primo premio “Rhegium Julii” con il racconto L’ultimo prigioniero.
prendente e interessante. Con i suoi racconti ha
vinto e partecipato a numerosi premi letterari a
Reggio Calabria, Villa San Giovanni, Palermo,
Firenze, Nova Milanese. Ottiene la segnalazione
di merito per il racconto Cieli d’autunno al Rhegium Julii inedito. Vince il primo premio del
Rhegium Julii per il racconto L’ultimo Prigioniero. Questa pubblicata dalla Città del Sole
Edizioni di Reggio Calabria è la sua prima raccolta. Tra le righe si rincorrono cronaca di vita
vissuta, traspaiono avvenimenti storici vicini nel
tempo, il piano della fantasia e del ricordo s’intrecciano, confondendo e sorprendendo il lettore, convinto dapprima di trovarsi davanti a una
scrittura autobiografica e poi stupito di scorgere
identità diverse che si offrono con una prosa
duttile e intensa. In questi racconti, tutti più o
meno brevi, non si sa mai dove finisce il ricordo
personale e inizia la trasfigurazione letteraria,
dove la nota autobiografica fa un balzo nella
fantasia o quando questa ultima prende il
sopravvento. L’amore clandestino tra una studentessa e il suo professore viene narrato con
stile visionario e spezzato, un registro che contrasta con l’estrema lucidità e amarezza del racconto della morte della madre e del campo di
concentramento, o ancora con la sottile ironia
con cui un ragazzo del ’69 guarda alle avventure spaziali dell’uomo del suo tempo.
L’unico filo conduttore è la storia di Jaime,
figlio di una giovane donna comunista rinchiusa
nel campo di concentramento calabrese Ferramonti e lì concepito; la sua storia, con l’uccisione della madre in un agguato durante un
comizio, la morte del fratello, è una storia
segnata dall’orrore della follia, dal dolore della
perdita. Appare e scompare lungo alcuni racconti, offrendo in modo disarticolato i singoli tasselli di questa vicenda. Che racchiude
l’impressione attonita dei ricordi dolorosi, attraversati a un tempo dalla tensione di raccontare
per sollecitare le coscienze altrui e dal desiderio
di tenere gelosamente conservato quell’unico
legame ad un affetto e ad un dolore, diventati
cifra di tutta una vita.
N. 2 / 3 - Luglio - Agosto - Settembre 2005
L ETTERE
M ERIDIANE
23
TÀ DEL SOLE Edizioni ”
Gambarie in bianco e nero.
Dalle origini agli anni Settanta.
Il Risorgimento oltre i miti e i revisionismi
di Pasquale Amato
Collana I tempi della storia
pp. 188 - € 10,00
di Gerardo Pontecorvo e Giuseppe Meduri
Catalogo della mostra omonima
Collana Conoscere per amare
pp. 47 - € 7,00
a raccolta fotografica della mostra multimediale Gambarie
L
in bianco e nero, realizzata con il patrocinio dell’Ente
Parco di Aspromonte e dell’Assotur di Gambarie, ripercorre, attraverso le immagini proposte al pubblico presso il Teatro della Pineta nell’estate del 2004, la storia del piccolo paese incastonato
nelle montagne dell’Aspromonte che si affacciano sullo stretto di
Messina. A 1.300 metri sul livello del mare all’inizio degli anni
Venti, sorgono le prime baracche e i rifugi di boscaioli, cacciatori, pastori e di qualche sparuto sciatore. Porta un nome che deriva dal greco, Kamparia, “piccoli campi”.
La zona circostante è ricca di foreste, sorgenti e fauna selvatica, un piccolo paradiso nella Calabria
rurale, poco lontano da Reggio Calabria. Negli anni successivi comincia a crescere come ricercata
località turistica. Nascono i primi alberghi e le numerose ville di privati che vengono a trascorrere le
loro vacanze estive e invernali, le piste da sci. Gambarie è un’icona per chi, innamorato del mare, scopre per la prima volta come luogo di divertimento quella montagna sconosciuta che incombe alle sue
spalle. “Per la mia generazione, o meglio per i più fortunati, Gambarie ha significato una sorta di luogo
di iniziazione per adolescenti, di grande socializzazione, di recupero di un rapporto con la natura che
la città, crescendo, cominciava a seppellire” scrive nella prefazione il Prof. Tonino Perna, già presidente
di quell’Ente Parco d’Aspromonte nato nel 1994 di cui il paese è sede e simbolo. Una ricerca iconografica tra gli album di famiglia, archivi pubblici e raccolte private per i due autori, consapevoli di una
memoria condivisa tra tanti, concittadini e coetanei, che in quel piccolo villaggio hanno tessuto i
momenti intensi di una giovinezza e di una comunità ormai perdute.
n agile saggio che rappresenta una rilettura delle vicende
U
risorgimentali italiane che intende distaccarsi dalle due
principali interpretazioni storiche che di quel periodo sono state
proposte. Da una parte l’esaltazione filo-sabauda di personaggi ed
eventi sino a esasperate mistificazioni, dall’altra gli scritti revisionistici che, pur partendo dalla giusta intenzioni di reagire ad alcune
distorsioni, sono scivolati spesso verso l’esaltazione smisurata degli
Stati preunitari.
Amato ha innanzitutto messo a fuoco l’influenza francese, nelle
sue diverse fasi, quella repubblicana e quella napoleonica. Ha
descritto poi la complementarità delle due figure più rappresentative, ma antitetiche, Cavour e Mazzini, che hanno costituito due
poli d’attrazione per un aggrovigliato succedersi di eventi in linea
con la tradizione storica italiana. Ha infine puntato l’attenzione proprio sulla proclamazione del
Regno d’Italia come estensione del Regno di Sardegna. La storia italiana è stata caratterizzata dalla tendenza alla separazione tra localismi esasperati, ma inevitabili, dalla vocazione all’individualismo, dalla
propensione a frammentarsi in gruppi e sottogruppi. Le spinte contraddittorie del Risorgimento, il concatenarsi di esse con circostanze fortuite e concorsi di eventi fortunati, le scombinate fasi finali e l’intricata “malaunità” sono state il risultato della frastagliata storia italiana di lunga durata. Nel contempo
hanno pesato sul successivo percorso storico dell’Italia. E pesano tuttora.
I Tuareg dell’Aïr
di Rino Cardone – Ketty Adornato
pp. 72 - € 10,00
Crayons
di Rita Crisarà
Collana Il viaggio del poeta
pp. 43 - € 7,00
immagini a colori che raccontano di
4
8
un particolare sodalizio tra italiani
venuti da lontano, amanti dell’Africa e dei suoi
a prima sensazione che si avverte nel leggere i “graffiti
L
alessandrini” di Rita Crisarà è quella di un immediato
benessere: la consapevolezza dell’essere chiamati a fare parte, sia
pure per qualche breve istante, di un gioco intellettuale ed artistico di consumata esperienza. Per chi, smaliziato dallo studio, sa
cogliere le astuzie dell’arte, niente è stato posto casualmente nell’apparente disordine di ricordi che si affastellano sulle pagine,
specchio vivo e vitale di una mente sensibile e raffinata, che guarda la realtà circostante sottoponendola ad una duplice lente
deformante: quella della cultura letteraria e quella di una sensibilità squisitamente femminile. Nessuno si lasci ingannare dall’apparente levità della narrazione: in quelle righe ed in quei versi
l’autrice ha trasfuso la sua anima, preziosa testimone di un passaggio di millennio in cui secolare tradizione e incalzante modernità si sono mescolate e si miscelano in una città, quale è la nostra Reggio, perennemente alla ricerca di un suo equilibrio precario ed
instabile. La forma letteraria scelta è quella che si può definire “graffito” o “frammento”, che ha un
profondo parallelo - non so fino a che punto consapevole - con l’eredità trasmessaci dal mondo ellenistico-romano che raramente ci pone di fronte a opere letterarie estese, ma che si è espressa quasi per
excerpta, per disiecta membra: un caleidoscopio ricco di fascino e suggestione, di levità e ricercatezza,
di finta semplicità frutto di studio e paziente limatura, anche per il suo essere solo una parte da emendare e da integrare, una scheggia di un mondo assai più ricco, raffinato e complesso.
meravigliosi abitanti, e un popolo leggendario,
che conserva, malgrado le avversità, un’identità
fiera e integra. Uno splendido reportage fotografico realizzato dal reggino Rino Cardone, viaggiatore nel deserto, sostenitore della Onlus
Bambini nel deserto che, con l’ausilio dei testi
di Ketty Adornato, ha realizzato un interessantissimo documento sulla vita dei Tuareg e l’attività
dell’Associazione. I Tuareg sono circa un milione, vivono nel sud del Maghreb, in Algeria e in
Libia, le tribù più numerose si trovano proprio
nel Sahel del Niger, e poi nel Mali, in Burkina
Faso, in Ciad, e anche in Senegal. Non hanno
un proprio territorio, vivono di piccoli commerci, pochi possono dedicarsi alla
pastorizia, tradizionalmente la loro fonte di sopravvivenza, e le loro condizioni sono di estrema indigenza; rimangono comunque molto attaccati alle proprie tradizioni, usi e costumi. L’Associazione Bambini
nel Deserto Onlus si dedica da anni ad aiutare questa popolazione, nel pieno rispetto dei suoi modi di
vivere e affinché essa possa sopravvivere e svilupparsi autonomamente. I due autori devolveranno i proventi delle vendite del libro a favore dell’Associazione per realizzare, tra gli altri, anche il progetto di
un’ambulanza che si muova tra gli insediamenti più sperduti, portando assistenza sanitaria là dove un
medico si vede forse ogni tre mesi
Per una storia della pubblica
beneficenza a Rizziconi: il
beneficio di San Carlo Borromeo
di Drosi (sec. XVIII-XX)
Parlamento in… chiaroscuro
di Fortunato Aloi
Collana Il Calepino
pp. 79 - € 5,00
di Domenico Coppola
Collana Monumenta Rerum
pp. 103 - € 10,00
itorno in Parlamento. Non solo per varcare, come faccio
“
R
spesso, il portone di Montecitorio. Un rito o, di frequente, un’abitudine. Per il sottoscritto la conoscenza dura da oltre
trent’anni. Esattamente da trentacinque…”. Il sottoscritto è uno dei
parlamentari reggini più noti, Fortunato Aloi, militante del Msi
prima, di Alleanza Nazionale poi, ora passato tra le fila di Alternativa Sociale di Alessandra Mussolini. Onorevole che ha ricoperto
numerosi incarichi di partito e di governo, sottosegretario alla
Pubblica Istruzione, dopo essere stato anche professore di storia
e filosofia nei licei. Un curriculum lunghissimo per un personaggio che è sulla scena politica nazionale da quando varcò la soglia
della massima Assemblea nel 1970, ai tempi della rivolta di Reggio, quando apprese della comunicazione giudiziaria che l’allora
Ministro della Giustizia, On. Restivo, aveva inviato ai parlamentari, tra cui egli stesso, che avevano sposato la causa del capoluogo. Comincia con questo ricordo legato alla propria città, il racconto che Aloi
fa della sua esperienza alla Camera dei Deputati in questo libro.
Oggi propone qui una carrellata di ricordi, immagini, eventi, personaggi, che hanno affollato la sua
esperienza romana e che fanno ormai parte non solo del suo vissuto personale, ma si iscrivono nelle
pagine della storia politica nazionale. Di estremo interesse, quindi, leggere questo piccolo quaderno per
conoscere i retroscena del “Palazzo” dell’ultimo quarto di secolo e più.
opo la ricerca su “Scuola e Istituzioni Pubbliche in età
D
borbonica” (Città del Sole Edizioni, pp. 341, € 20,00)
condotta dall’ex –Dirigente Superiore degli Archivi di Stato segue
questo volume Attraverso la storia del beneficio di San Carlo Borromeo di Drosi dal 1700, anno della sua fondazione, fino al secolo XX può essere analizzato l’iter giuridico della pubblica
beneficenza attraverso le fonti del diritto canonico e le leggi del
giovane Stato italiano. Il beneficio di Drosi “Casale di Melicuccà
del Priorato in Calabria Ultra, in diocesi di Mileto”, è stato fondato da Federico Carafa Branciforte. Lo studio di Coppola segue attentamente, attraverso documenti ritrovati in archivi statali, comunali,
ecclesiastici e privati, i passaggi che il beneficio ha subito, intrecciando la sua storia a quella del piccolo borgo e dei suoi abitanti. “Per avere un’idea di quella che era l’amministrazione della pubblica beneficenza nell’area storica entro cui ci muoviamo, e cioè nell’antico Regno di Napoli, occorre dire che
sino alla metà del ‘700 l’ingerenza dei vescovi nell’amministrazione delle OO.PP. sancita dal concilio di
Trento, fu indiscussa, ma le numerose controversie sorte per la frequente lesione dei diritti regi portarono ad una necessaria regolamentazione delle dette Istituzioni”, specifica Coppola, sottolineando come
attraverso questo aspetto della storia possano essere studiati scontri e continuità tra la legislazione
ecclesiastica e quella italiana.
Storia del Bergamotto di Reggio Calabria
di Pasquale Amato
Collana I tempi della storia
pp. 111 - € 5,00
asquale Amato ha ricostruito, mediante uno straordinario
P
e felice intreccio tra storia locale e storia italiana, europea
e mondiale, l’affascinante percorso del prezioso agrume autoctono di cui Reggio Calabria e la fascia costiera da Scilla a Monasterace detengono l’esclusiva mondiale da secoli.
Il percorso storico del Bergamotto ha coinciso con le vicende
di un’intera comunità, coinvolta nel destino del suo giacimento
più ricco: dalla misteriosa origine al gran debutto nella corte del
Sole a Versailles; dal Café Procope alla conquista dei salotti,
caffè e botteghe del secolo dei Lumi, dalla fase d’oro dopo l’unità italiana alle crisi che si sono succedute fino ai nostri giorni.
Un agrume eccezionale, che s’è affermato nel mondo per la
molteplicità dei suoi usi nell’arte della profumeria e della cosmesi, nella farmaceutica e nell’alimentazione. Un agrume unico, per il suo ostinato rifiuto a riprodursi in aree diverse dalla sua terra
d’origine. Un agrume che ha prodotto tante ricchezze, ma più per gli altri che per i suoi possessori.
Amato ha cercato le ragioni profonde, interne ed esterne, di questo sviluppo mancato. Le ha individuate
e mirabilmente spiegate con il suo stile brillante e incisivo. Si è soffermato, infine, sull’ultimo decennio,
che ha rappresentato la ripresa della centralità del bergamotto. E, da storico militante, ha indicato infine la via per riprendere il cammino del suo rilancio, facendo tesoro della lezione della storia.
Ur-schrei- L’urlo originario
di Federica Legato
pp. 126 - € 7,00
Torna in seconda edizione il successo della giovane autrice
Federica Legato. La seconda ristampa propone una prefazione
del critico e scrittore Vincenzo Fusco, che legge nell’opera della
Legato profondi influssi del pensiero filosofico e delle ricerche
di psicologia clinica del Novecento.
Una rilettura dell’opera che affascinerà e stupirà ancora di
più i lettori che hanno avuto già la possibilità di conoscere questo originalissimo scritto e per chi invece si accinge per la
prima volta a confrontarsi con esso. Il rapporto con la malattia
mentale, con le improbabili cure e con gli affetti personali che
affliggono e consolano, descritti in un avvolgente intreccio di
prosa e poesia, ricordano la scrittura tormentata della più
grande poetessa italiana vivente, Alda Merini. Una donna
senza volto e senza nome si rinchiude volontariamente nel
1965 nel tristemente famoso Ospedale di Montelupo Fiorentino, prima dell’applicazione della
legge Basaglia. Con analisi lucida racconta di un dolore inconsolabile e tetro, da cui non sembra
potere uscire che con la sola forza di una volontà continuamente sul punto di naufragare.
L ETTERE
M ERIDIANE
24
N. 2 / 3 - Luglio - Agosto - Settembre 2005
Si è chiusa la II edizione del concorso
letterario del “Corrado Alvaro” di Palmi
G
iorno 10 giugno presso
i locali dell’Istituto
Magistrale “C. Alvaro”
di Palmi si è svolta la cerimonia di
consegna dei premi della seconda
edizione del concorso letterario
omonimo dedicato alle sezioni poesia e narrativa (racconti).
Sono risultati vincitori per la
sezione poesia al primo posto Fortunata Romagnosi della I B indirizzo socio-psicopedagogico, al
secondo posto Manuela Arruzzo
della IV A sociopsicopedagogico,
al terzo posto ex equo a Silvia
Ciappina della I A linguistico ed
ad Oxana Kushniretskaya della IV
B linguistico Per la sezione narrativa (racconti) il primo posto è
andato a Marta La Malfa della I A
linguistico, il II a Tarzia Rosamaria della V A sociopsicopedagogico, il terzo posto se l’è
aggiudicato Debora Catananzi
della I B sociopsicopedagogico.
I lavori hanno unito poesia,
creatività e musica su temi come
la pace, la solidarietà e l’amore;
due le sezioni, poesia e saggistica.
Hanno fatto parte della giuria i
docenti Anna Maria Gioffrè e
Carlo Monteleone.
Con questa iniziativa la scuola
ha inteso stimolare i ragazzi in
una ricerca di espressione, ma a
fare emergere le loro capacità
creative soprattutto nella nostra
epoca caratterizzata fortemente
dai mezzi di comunicazione di
massa, dalla telematica, dall’informatica che stanno trasformando il pensiero individuale in
espressioni personali assimilate in
convenzioni linguistiche che spesso coincidono in convenzioni
uniformi e stereotipate.
La tecnologia non può certo
essere una risposta adeguata al
benessere, se si trascura l’essenza
dell’uomo. Gli alunni oggi devono essere guidati attraverso la
poesia e le altre forme di scrittura,
a cercare di osservare tutto ciò che
li circonda, per trasformarsi in
soggetti integri e retti durante le
esperienze che poi faranno nel
corso del tempo.
Molto importante quindi è la
motivazione che riesce a fare
esprimere le proprie emozioni. È
quindi essenziale che la scuola di
oggi tenga conto delle abilità specifiche da sviluppare e di conseguenza di quali siano le pratiche
di scrittura più diffuse. La poesia
consente di comunicare qualcosa
di originale, offrendo a chi scrive
di trasmettere agli altri qualcosa
di proprio.
Per un insegnamento moderno
il docente deve dare l’opportunità
agli alunni di sperimentare modi
di scrittura gratificanti ed efficaci.
La poesia certamente è uno
strumento attraverso cui i pensieri
che non riescono ad emergere si
trasformano in un linguaggio
diverso da quello comune, di ogni
giorno, consentendo all’alunno di
provare sentimenti, dando loro
voce. Anche i concorsi attraverso
Internet permettono di identificare
la cultura con il divertimento.
Esso può diventare una macchina
comunicativa piacevolmente interattiva e non un vuoto ed arido
contenitore. La Professoressa
Anna Maria Gioffrè, docente di
psicologia, metodologia, pedagogia presso il “C. Alvaro”di Palmi
intervistata su questo importante
evento per le scuole della provincia di Reggio Calabria ha affermato che “Questi concorsi hanno
una grande valenza pedagogica e
psicologica soprattutto oggi che la
televisione colpisce l’attenzione
con le sue immagini e suggestioni.
Il problema è quello di dare
una visione personale del mondo
che consenta la percezione critica
della bellezza da parte degli alunni, l’emozione come affermava lo
studioso Matteblanc è la madre
del pensiero”.
La poesia e le altre forme di
scrittura a parere della Gioffrè
devono stimolare i sentimenti
sopiti ed appiattiti dai mass media
e che sono rimossi come affermava Freud.
È giusto, sempre secondo la
Gioffrè, che sia la scuola ad avvicinare i giovani all’arte del bello,
obiettivo indifferibile in un
mondo che si allontana dall’uomo
come fonte di armonia possibile.
Il Professore Monteleone ha
manifestato entusiasmo per la
manifestazione in quanto tutti i
lavori si sono distinti per spontaneità ed originalità. Il Monteleone
auspica che il concorso nel corso
degli anni prossimi possa essere
esteso a tutte le scuole di Palmi.
Tutti i lavori dei ragazzi hanno
trovato consenso ed avranno un
sostegno da parte della scuola.
La scelta dei lavori da premiare
è stata difficile, ma alcuni si sono
distinti più di altri per efficacia e
sensibilità nel trasmettere emozioni e messaggi.
L’inno per la pace
Degli anni freddi e crudeli
abbiamo perso il conto.
Il confine tra vita e morte
è sottile: questione solo di
un secondo……
E i soldati morti in battaglia?
Non li pensiamo solo come
eroi!
Son tutti morti per la pace,
ma erano ragazzi come noi...
Ma non possiamo stare in
disparte, i protagonisti di
oggi siamo noi.
Cantiamo insieme un inno
alla pace, questa volta
Saremo degli eroi!
(Silvia Ciappina)
Francesca Zappia
Il tuo viso racconta
Esule di ieri,
esule di oggi,
con la valigia
di cartone in mano,
col sacco
di povere cose sulle spalle,
il tuo viso racconta:
affetti perduti,
cose lasciate,
lacrime ingoiate.
Il tuo viso racconta
Speranze sempre vive
Sogni mai sopiti.
Alcune opere premiate
30 Novembre
Chiudo gli occhi, ti rivedo…
Sei con me
Forte, buono, sincero
mi avvolgi col tuo amore
e triste piango,
piango il destino,
che ha chiuso le porte al nostro amore
piango la morte
che ti ha portato via
troppo presto papà
troppo presto…
Quanti ricordi…chiari, sbiaditi…
Mai ti dimenticherò,
e ti cercherò
in un campo fiorito
dove troverò il tuo profumo.
Un plauso quindi agli organizzatori di questo secondo appuntamento del mondo scolastico con
la cultura, ed in particolare al dirigente scolastico Professore Antonino Sergi, persona attenta ed
impegnata alle istanze dei giovani, consapevole che il ruolo di
educatori consiste anche in un
preciso lavoro di ricerca nel suscitare partecipazione, entusiasmo,
anche se l’ispirazione talvolta è
suscitata da esperienze negative
tipiche dell’adolescenza o da fatti
violenti e questo perché la poesia
li può e li deve sublimare in un
presagio nascosto di felicità.
Apri le braccia più che puoi
E stringi a te la vita.
Se cerca di scappare
Stringila ancora più forte
E se cerca di corromperti
Non stare ad ascoltarla.
Per colpa sua soffri,
piangi, a volte ti spegni
e poche volte sei felice…
tutto di te dà gioia al mondo
perché la vita è in te
e tu sei la mia vita
Zumbo Giovanni
IV° E Scuola “R.De Zerbi”-Palmi
(Fortunata Romagnosi)
Vincitore del concorso
“Intermezzi di poesia, prosa e musica”
secondo premio sezione Lucciole
(Oxana Kushniretskaya)
Manifesto a fondo perduto
D
iciamolo subito: la narrativa non è roba per
tutti. Non darà mai nulla agli esseri umani
soddisfatti del loro destino. Uno del calibro
di Mario Vargas Llosa dice che essa è “alimento degli
animi indocili e propagatrice di disaccordo, un rifugio
per chi ha troppo o troppo poco nella vita”.
Il luogo dove poter non essere infelici. O meglio, il
non-luogo della felicità.
Non-luogo per eccellenza perché è l’utopia di cavalcare con lo smorto Ronzinante braccio a braccio con il
suo scapestrato cavaliere. Oppure l’utopia di percorrere i
mari alla ricerca della balena bianca con il capitano
Achab. O forse prendere l’arsenico con Emma Bovary o
diventare un insetto come Gregor Samsa.
La narrativa, alla fine, questo è: solo un modo astuto
che abbiamo inventato per alleggerire noi stessi dalle
offese e dalle imposizioni della vita ingiusta.
In tal senso, se ci offre un mondo migliore e una vita
più bella e più varia di quella che viviamo “da svegli”,
allora potremmo dire che “raccontare è sfidare ciò che
esiste”.
Ecco. È già un buon punto di partenza. Sfidare la
mediocrità, ribellarsi allo squallore e alla pochezza della
vita attraverso il gesto rivoluzionario di narrare. Di posare lo sguardo su quelle pagine bianche e immacolate e
lordarle di noi e delle nostre ispide e meravigliose, tetre
e luccicanti vite. Senza paura di farci male. Senza paura
che le parole ci graffino gli occhi. Quand’anche fosse, ne
sarebbe valsa la pena.
Ma l’abbiamo già detto: non è roba per tutti, la narrativa. Perché se ti chiedi a che cosa servono, poi, i romanzi o che cosa producono, le risposte sono tante. La
migliore forse l’ha data Eraldo Affinati: “Servono a perpetuare l’illusione di poter comprendere il senso della
vita. Producono intensità. Anche se a fondo perduto”.
Ecco. Non vuole esser altro che un Manifesto a fondo
perduto. A scriverlo ci vorrebbero gli Alba Pratalia di un
indovinello di tanti secoli fa. Ci vorrebbero i bianchi
campi dove arare… Cominciamo pure:
Elogio di Donna in Tacchi a Spillo
E
io che lotto quotidianamente per salvarmi dal trendismo. Tutto inutile. Arrivi tu a mandarmi a pallottole
tutta la mia voglia di originalità.
Mi sarebbe piaciuto attendere ancora. Anche giorni. In silenzio.
Con tutta la mia protezione, le mie proteine… la palestra a rafforzarmi i glutei, allenarli e bene per tenere l’equilibrio.
Non come te. Che attacchi l’asfalto a piedate oblique, a inclinazioni paurose. Io l’abisso lo cerco nei rassicuranti fondi delle
tazzine… per non farmi troppo male quando ci cado dentro.
A te le altitudini vertiginose ti fanno un baffo. Vivere in bilico
è la tua normalità. Anche quando la strada ti applaude dietro,
anche quando l’inclinazione della tua piedatura si stabilizza fino
al contatto del tallone con l’asfalto (sì, insomma, hai capito,
anche coi sandali ai piedi), non cambia molto.
La verità è che quella inclinazione te la porti dentro, te la coccoli come un bambolotto, ci scherzi sopra, financo. Pollino,
Madonie, Euganei, loro sì che sanno di te. O, se vogliamo, Fossa
delle Marianne, o Enzo Maiorca in apnea mentre batte il record
d’immersione a polmonate.
Se vuoi proprio saperlo, quando mi sporgo un po’ da questo mio
belvedere circondato da ringhiere e transennato e cinto di mura e
protetto da ampie vetrate che mi fanno da effetto serra come coadiuvante per la ricrescita dei miei capelli, oh che bella parola, capelli
capelli capelli capelli (toh, anche i controlli ortografici del mio pc la
segnano in rosso), quando trovo il coraggio per buttare il cuore oltre
l’ostacolo (mi si conceda il vezzo della banalità), allora ti vedo
seduta comoda su un ponte a strapiombo sul nulla mentre divori
sfoglie ricotta e spinaci. E quello è il tuo sofà. Dietro c’è qualcuno
con una camera digitale che riprende tutto: solo allora mi rendo
conto che Dio esiste e nella vita fa il cameraman. E mi chiedo: ma
allora il regista chi è?
Maurizio Marino
L ETTERE
M ERIDIANE
N. 2 / 3 - Luglio - Agosto - Settembre 2005
L’O CCHIO
DI
M EDUSA
25
- Rubrica di Sofismi e Inattualità
a cura di Marco Benoît Carbone - [email protected] - www.marcobenoit.net/medusa.htm
La Musica della Mafia
RECENSIONE
Album:
Autori:
Produttori:
Il canto di malavita – la musica della mafia
Vari
Francesco Sbano, Maxilimian Dax, Peter Cadera
www.malavita.com
Anno:
2000
Etichetta:
PIAS recordings GmbH, Hamburg
Distribuzione: Connected Musikvertrieb BmbH, Hamburg
ISBN:
5-413356-749823
CD digipack con testi in calabrese e traduzione in inglese e tedescoy
Formato:
D
io, Marx, il rock sono morti.
Rimane solo la mafia.
Più estremo dell’experimental thrashcore e più scorretto dell’oi rock
nazionalsocialista, il Canto della
Mafia è davvero l’ultima trasgressione
possibile - e conseguentemente la
meno apprezzata e visibile - per un
mondo di consumatori e produttori di
musica che si muovono come pedine
seriali e ossessionate, mosse da una
voglia di trasgressione che si traduce
in messe in scena dalla patetica omologazione. E se la musica è considerabile un termometro dello zeitgeist,
allora ne consegue pure che la mafia,
piaccia o meno, è una delle poche
ideologie rimaste vive, e capaci persino di darsi una rappresentazione realmente inquietante senza scadere nella
sola posa.
Il canto di malavita è una “semplice” raccolta di un repertorio realmente
underground, così underground che
rischia di seppellirti: gli stornelli, le
ballate folk e le tarantelle di questo
album sono testimonianza e accompagnamento di reali storie di sangue e
omertà, documenti storici e insieme di
attualità che proliferano nel mercato
delle bancarelle delle feste locali. Le
danze con tamburello e organetto, o lo
scacciapensieri che introduce le tarantelle, sono al servizio di testi apologetici nei confronti del “malandrino”
finito in cella per non tradire l’onore,
spietati nei confronti del “tradituri”
che deve finire soltanto murato nel
cemento, netti nel messaggio di antico
fascino per cui “sangu chiama sangu”.
A questo punto la recensione di
mestiere richiederebbe quello che oggi
è chiamato il disclaimer: vale a dire, la
rivendicazione del fatto che non si
condivide del tutto la pubblicazione di
questa raccolta, perchè istigherebbe il
“pensiero mafioso”; oppure, peggio
ancora, dai valori mafiosi si prenderebbero le distanze suggerendo una
scissione tra il valore documentale e la
fattura della musica, tranciando a
carne viva il tessuto di senso dell’opera. A ben vedere, sarebbe come sostenere che il valore di un film di
Coppola risieda nella sola padronanza
linguistica del cinema, e non nella
direzione verso la quale fa leva. Al
limite, si tratterebbe di usare due pesi
e due misure.
In realtà, il valore della raccolta è
proprio nella sua serafica autenticità,
la quale entra in una tensione notevole
con la musica. Alla musica della
mafia, così popolare e atica da essere
aliena al concetto di classifica, manca-
no proprio i tratti della massificata
esperienza musicale di massa: sia il
politically correct che il cattivismo di
maniera, malattie della mente che
mietono cervelli a milioni nella nostra
epoca, le sono estranei. Il sentimento
mafioso, e di conseguenza la sua
musica, sono alieni al senso di costante abbassamento del livello di coinvolgimento della musica contemporanea,
ridotta o a fenomeno di posa rilassata
o a quello di trasgressione plastificata,
fino all’assurda unione dei due estremi
Cruciverba # 3
negli hit gothic christian. Nella sua
schietta inattualità, invece, e nel suo
vivere al bordo tra solenne e kitsch, la
musica di questa raccolta - inclusi i
pezzi più scanzonati - è realmente
disturbante. Il death folk della mafia si
staglia con violenza rispetto a una
situazione di sfondo in cui le frequenze di ogni mezzo sono saturate da
tamarrume chill-out per orde e orde di
novelli DJ, da slogan risciacquati e
versi onomatopeici di pseudo-gang hip
hop, da metallari barbuti e dipinti fatti
in serie negli stessi stampini dei draghi
di plastica, da trasgressivissime imitazioni christian-rock di una cultura
gothic defunta e svenduta a tranci per
le ragazzine della porta accanto (le
quali passano da questa droga musicale a ascolti più pericolosi per il loro
cervello, fino all’irreversibile stadio
del gradimento della musica in classifica e i relativi “bei valori”: consumismo e sciaquettismo).
Ecco quindi che quanto più scorretto e sincero sarà il repertorio della
musica della mafia, tanto il suo valore
artistico andrà considerato alto.
Ad esser sinceri, d’altronde, chi
scrive apprezza più il canto della
mafia per l’estremismo dei suoi contenuti che per il repertorio musicale:
pur essendo calabrese, il repertorio tradizionale della musica mediterranea
mi è relativamente estraneo all’orecchio, a detrimento dell’esperienza
puramente musicale.
Questo non vuol dire che l’album
sia musicalmente non valido o prodotto con scarsa professionalità: è, al contrario, prima di tutto una raccolta di
musica tradizionale dalla produzione
finalmente professionale, capace di
restituire un quadro musicale che si
affranca dalle derive nel kitsch che il
livello medio di queste produzioni
imprime generalmente al risultato
finale. Di questo, credito ai curatori,
che hanno anche corredato la raccolta
di traduzioni in lingua inglese e tedesca e di un booklet con foto di corredo
prodotto con standard qualitativi e
distributivi europei, con una buona
introduzione di Goffredo Plastino.
Alla fine, però, è proprio il livello lirico a far trasalire - e dunque ad attingere al più alto dominio estetico - in frasi
come “russi si fannu i lami ri cuteddi”
o “preparati a muriri, chi è gia l’ura”.
Il fascino che un tale sentimento evocato può suscitare, va precisato, non è
del tutto merito dell’opera: buona
parte di un simile animus terribilis
può discendere proprio dalla perniciosa desolazione estetica nella quale ci
getta la musica delle charts contemporanee.
Marco Benoit Carbone fecit MMV
ORIZZONTALI
1 C’è di fiume e salmonata
6 Può travolgere l’individuo
11 Ci si è su quando si decolla
12 Esalare l’ultimo respiro
15 Targa di Lodi
16 Prive di testa, di guida
17 L’URL dei siti toscani
18 Un fenomeno di degradazione
19 Una memoria di sola lettura
20 La fine dell’arte
21 Massacro, carneficina
22 Due terzi dell’Emma radicale
23 Se ce l’hai corto non vai lontano
24 La Leatitia di Rue des Plaisirs
25 Stimabile, dabbene
26 Il nome volgare di Cyprinus Carpio
27 I vegetariani ne fanno a meno
28 Di lunghezza scarsa o inferiore alla norma
30 Il punto culminante
31 Vanagloria altezzosa
32 Così finiscono i siti argentini
33 Non sono tue, non sono sue
34 Un gioco in cui si salta
35 L’intelligenza delle macchine
36 Formano barriere in Austrialia e nel mar rosso
37 Iniziali del nome di Eliot
38 Un vecchio tipo di democristiano
39 Assemblea regionale siciliana
40 Lo sono la mirra e la lavanda
41 Discorsi monotoni e seriosi
VERTICALI
1 Affermò che la Terra galleggia sull’acqua
2 Il quartiere di una città
3 Targa di Oristano
4 Olive… gastronomiche
5 Diviso in due parti, biforcuto
6 Un rituale estivo di spiaggia
7 Trascorrono scadendo il giorno
8 Articolo femminile plurale
10 Lo stato di assenza di norme sociali
13 Arricchito in pepe nero
14 Distinto ed elegante per natura
16 Severe ed antipatiche
17 Stupida, poco reattiva
19 Si trasforma a volte in principe
22 Era famoso come “Gino il pio”
23 Arrestate, non in movimento
24 Producono melodie per mezzo di lamelle
25 La regione degli antichi geti
26 Un’azione concorde e unanime
27 Lo usano Babbo Natale e la Befana
28 Tutte le uova del volatile
29 Grasse, corpose, pesanti
31 Non rispetta le regole
32 Vi si annidano i mostri
34 Insiemi di voci
36 Al centro della cicoria
38 Una delle sette note
39 Una particella privativa
le soluzioni sul prossimo numero
L ETTERE
M ERIDIANE
26
N. 2 / 3 - Luglio - Agosto - Settembre 2005
Nasce in Calabria la sezione regionale
di “Bambini nel Deserto” ONLUS
L
a presentazione ufficiale
d e l l ’ O rg a n i z z a z i o n e
Umanitaria “Bambini
nel Deserto” ha avuto luogo la sera
del 1° giugno nel Giardino d’Inverno del Circolo del Tennis “Rocco
Polimeni”. Il direttivo del Circolo
ha accolto con favore l’inaugurazione di questa associazione di volontariato; la mattina dello stesso
giorno si è svolta presso il “Polimeni” la conferenza stampa con la presenza delle più importanti testate
giornalistiche locali (Gazzetta del
Sud, Il Quotidiano, Telereggio, Rai
Tre e Radio Touring). Tra queste
Rai Tre Calabria ha dato all’intervista diffusione nazionale.
L’ “Organizzazione Umanitaria Bambini nel Deserto” nasce in Emilia Romagna, a Modena, nel 2000.
E’ una ONLUS costituta principalmente da viaggiatori del deserto:
appassionati di Sahara che da anni
si avventurano in luoghi difficil-
mente accessibili, caratterizzati da
bellezze naturali inimmaginabili.
Durante questi raid tra le dune e le
oasi ci si imbatte nelle popolazioni
sahariane (Berberi, Tuareg, Peul,
Mussi, ecc…). Sono persone appartenenti a diverse etnie, ciascuna con
le proprie tradizioni e la propria cultura, accomunate dall’abitudine a
vivere da innumerevoli generazioni
in territori difficilissimi. Gente dalla
grande disponibilità verso il viaggiatore, dotata di un innato senso di
accoglienza e di umanità. Ma basta
poco per rendersi conto di come le
condizioni di sopravvivenza siano
spesso ai limiti estremi della vita.
L’elemento più scarso è l’acqua e il
suo approvvigionamento costringe a
volte la gente dei villaggi a estenuanti viaggi per raggiungere i
pozzi più vicini.
I problemi sono tanti: in molti
paesi dell’Africa l’assistenza sanitaria è davvero precaria. Gli operatori
sanitari sono pochissimi e la quantità di medicinali destinata alla
popolazione è assolutamente insufficiente. Sono molto diffuse le epidemie e il tasso di mortalità
infantile è altissimo, soprattutto in
Mali, Niger e Mauritania. Problemi
molto gravi affliggono gli abitanti di
questi luoghi: cecità, infezioni di
ogni genere, ferite non curate che
spesso degenerano.
Il livello di scolarizzazione è al
di sotto di un livello soddisfacente;
la possibilità di poter praticare un
mestiere che possa dare un futuro
alle nuove generazioni è sempre più
esigua.
I soci di BnD vogliono unire la
voglia di viaggiare in questi luoghi
alla possibilità di fare qualcosa di
concreto per le popolazioni sahariane. Il metodo di distribuzione dei
beni di prima necessità non è casuale e soprattutto non vuole connotarsi
come una semplice “elemosina”.
L’Organizzazione studia le problematiche territoriali e su richiesta
delle stesse popolazioni elabora
adeguate strategie di intervento. Tra
gli sforzi principali di BnD c’è
quello di restituire l’indipendenza
alla gente dei villaggi, sia dal punto
di vista alimentare che sanitario e
scolastico.
Per esempio, recentemente il
governo del Niger ha realizzato edifici scolastici fatiscenti e privi di
servizi per accontentare le tribù
Tuareg che vivono nel massiccio
dell’Aïr. I maestri incaricati dallo
stesso governo sono dotati di una
buona dose di volontà e preparazione, ma non hanno gli strumenti per
poter svolgere il loro lavoro. In questo contesto BnD ha realizzato presso il villaggio di Tewart, in Niger,
un edificio scolastico esemplare
dotato dei servizi essenziali quali:
aule attrezzate, cucina, dispensa,
refettorio, pozzo e giardino da coltivare. Così facendo le strutture possono rientrare nella tipologia
standard necessaria per la richiesta
dei fondi governativi del Piano di
Alimentazione Mondiale della FAO.
Dopo questi interventi la scuola
potrà offrire tre pasti al giorno agli
allievi, incoraggiando ancor di più
le famiglie a mandare i propri figli
a lezione per aumentare il livello di
scolarizzazione di queste popolazioni.
Nei progetti di BnD rientra pure
il rifornimento delle infermerie e dei
piccoli ospedali nel tentativo di
arginare le emergenze sanitarie
spesso drammatiche. I volontari
distribuiscono direttamente alle
infermerie locali materiale sanitario
raccolto in Italia. La situazione sanitaria è molto precaria in quasi tutta
l’Africa e necessiterebbe di interventi governativi mirati e massicci,
come pure della presenza costante
di medici tra la gente dei villaggi.
BnD mette in atto molte altre tipologie di interventi: scuole di artigianato per insegnare un mestiere ai più
giovani; sostegno economico per la
nascita e la continuità delle piccole
cooperative locali; costruzione di
case-famiglia per l’accoglienza dei
bambini orfani di guerra; costruzione di pozzi di diversa tipologia per
l’approvvigionamento dei villaggi;
allestimento di mezzi fuoristrada
come ambulanze attrezzate. In Italia
l’Organizzazione lavora mettendo in
atto una serie di strategie molto
varie; nelle diverse sedi regionali
prendono il via attività che consentono di poter divulgare le finalità
associative e raccogliere i fondi
necessari agli interventi. Cene
sociali, mercatini di oggetti di artigianato, mostre fotografiche, spettacoli per l’Africa, conferenze
divulgative nelle scuole di vario
ordine e grado sono un esempio di
come BnD opera sul territorio. Le
opere portate a termine – pozzi,
infermerie, scuole - sono realizzate
direttamente a cura dei soci dell’associazione che si recano sul posto a
proprie spese e curano personalmente i rapporti con la manodopera
locale.
BnD raccoglie e distribuisce
anche capi di vestiario e scarpe
destinati ai bambini. Nel deserto la
temperatura scende sotto lo zero di
notte ed è facile ferirsi i piedi con
cespugli spinosi o rocce taglienti.
La consegna avviene spesso lungo
le piste e nel rispetto delle usanze
locali si predilige il sistema del
baratto: semplici scambi di oggetti
di poco conto, come bamboline di
pezza o oggetti di artigianato locale
offerti dagli stessi bambini, in cambio del vestiario.
BnD può contare su sedi regionali in varie parti d’Italia, dal Friuli
alla Calabria. La neonata sede
regionale calabrese si è aggiunta
dall’aprile 2005. Il suo coordinatore
regionale Rino Cardone è un viaggiatore del deserto da più di quindici anni ed un sostenitore di BnD da
quasi tre. Di ritorno dall’ultima missione umanitaria in Niger con altri
membri dell’organizzazione ha sentito l’esigenza di organizzare un
gruppo di lavoro anche nella città di
Reggio Calabria. Nel giro di un
mese si sono riuniti intorno a lui e
agli scopi dell’associazione circa 40
sostenitori. Persone dalle diverse
capacità, tutte animate dallo stesso
entusiasmo del coordinatore, impegnate a divulgare e a sensibilizzare
l’opinione pubblica sui problemi più
scottanti delle popolazioni della
fascia Sahariana e Subsahariana.
Rino è tornato dall’ultimo viaggio di solidarietà con un reportage
fotografico e con una grande determinazione: continuare l’opera di
aiuto ai villaggi africani dalla sua
città. Come prima manifestazione si
è deciso di organizzare una cena
sociale di beneficenza, affiancata
dall’esposizione di 42 pannelli fotografici sul viaggio in Niger e sulla
cultura Tuareg. Il Circolo del Tennis
“Rocco Polimeni” presieduto dal
dott. Igino Postorino ha ospitato con
grande disponibilità l’iniziativa di
“BnD Calabria”. La data dell’incontro è stata stabilita per il 1° giugno
2005; la scommessa era iniziata:
mancava soltanto la risposta degli
amici per la riuscita della serata. Le
telefonate di invito hanno permesso
ai soci sostenitori di spiegare gli
scopi dell’Organizzazione. La risposta non si è fatta attendere: la stragrande maggioranza degli invitati si
è dimostrata entusiasta di poter collaborare ad un’iniziativa simile.
Tanti hanno ringraziato i soci di
BnD ed hanno dimostrato un interesse genuino e partecipe all’iniziativa. Il muro dell’indifferenza era
sfondato, rivelando grande partecipazione emotiva e personale e
dimostrando ancora una volta la
grande generosità della gente, e
soprattutto della gente del sud. È
stato bello sentirsi circondati da
amici nel condividere un momento
così delicato: per una serata quasi
200 persone si sono sentite unite e
consapevoli di poter lasciare un
segno concreto per il Terzo Mondo,
per l’Africa, per tanti bambini lontani. Il messaggio più toccante è stato
affidato alle immagini. Nei 42 pannelli fotografici ingranditi, stampati
gratuitamente dal laboratorio fotografico RC Color di Antonio Raco
di Varapodio, si snocciolava la vita
quotidiana di un villaggio nigerino:
Tewart. La scuola, il maestro e i
giovani scolari immersi nel pieno
del deserto del Sahara hanno calamitato l’attenzione di grandi e bambini. Con grande dignità e
compostezza la scolaresca svolge
ogni mattina l’alzabandiera e poi va
a lezione in un ambiente estremamente primitivo, ma con tanta
voglia di imparare. I volti dei bambini hanno comunicato tutta la loro
gioia di vivere e tutta la voglia di
andare avanti sia pure in mezzo a
mille difficoltà. La sera della cena è
stata inaugurata dal saluto del coordinatore regionale Rino Cardone.
Con un po’ di emozione si è rivolto
ai partecipanti spiegando gli scopi
di BnD e il programma della serata.
Il succo del suo discorso si può riassumere in queste frasi: “Perché BnD
a Reggio Calabria? L’esigenza di
creare un gruppo di sostenitori di
BnD nella mia città è nata nel
tempo, man mano che mi rendevo
conto del potenziale di umanità che
ci distingue, e che spesso non trova
interlocutori validi cui affidarsi e
con cui lavorare. Come avrete modo
di vedere oggi e di verificare in
futuro, BnD si differenzia dal mare
di Organizzazioni similari per la
continua vicinanza ai suoi sostenitori e per la semplicità ed efficacia
degli interventi che porta a termine,
consegnando direttamente ai destinatari aiuti di ogni genere. Per precisa volontà dei soci BnD vuole
restare una Onlus, e mantenere così
nel tempo il metodo di lavoro che
fino ad ora le ha consentito di aiutare migliaia di bambini in oltre 20
stati africani”. Il presidente di BnD
Luca Iotti ha offerto la sua partecipazione virtuale alla serata intervenendo con una videoconferenza
dalla città di Modena; ha fatto gli
auguri alla nuova sede regionale ed
ha esposto i programmi futuri. Alcuni soci sostenitori hanno allestito un
mercatino con oggetti di artigianato
africano, di cui molti provenienti
dal Sahara. Libri sull’argomento,
ciondoli di pietra, scatoline portaoggetti, presepi di materiali vari hanno
contribuito a fare gustare i colori e
gli odori di terre lontane e affascinanti. Ma il momento più importante della manifestazione è stato senza
dubbio la presentazione della
mostra fotografica che ha permesso
ai partecipanti di immergersi con
grande intensità emotiva nella realtà
quotidiana dei nostri fratelli del
Niger. I costumi delle donne, i volti
dei bambini, i visi delle anziane
venditrici di formaggio, la fierezza
del portamento dei giovani Tuareg
hanno colpito i presenti, rendendoli
partecipi di una realtà vicina e lontanissima, dal fascino incommensurabile pur nella sua estrema
semplicità. La serata è proseguita
con il buffet, mentre su uno schermo gigante scorreva il DVD dell’ultimo intervento umanitario in Niger.
La sequela di immagini mostrava
l’incontro con la scolaresca del villaggio di Tewart e l’esecuzione dei
lavori precedentemente descritti. Il
refettorio, la dispensa, la motopompa e le sementi per l’orto destinato
ad alimentare gli scolari si sono
concretizzati sotto gli occhi degli
osservatori.
Il fascino del Sahara e del deserto del Teneré hanno attratto molti
sguardi. Una cultura diversa dalla
nostra, ma carica di elementi di
grande valenza si è snocciolata
attraverso le fotografie. Le immagini delle carovane di dromedari verso
le saline di Bilma e dell’albero del
Teneré hanno riempito lo schermo.
Gli occhi dei bambini africani
hanno commosso i presenti. Una
realtà diversa e ricca di umanità si è
affacciata nella nostra vita, con il
suo messaggio di speranza per una
maggiore dignità per tutti gli abitanti del Mondo.
Ketty Adornato
N. 2 / 3 - Luglio - Agosto - Settembre 2005
L ETTERE
M ERIDIANE
27
I crimini fascisti in Jugoslavia,
pagine di storia “rimosse”
Pagine di storia “rimosse”
di Enrico Vigna
e Don Pietro Brignoli
Edizioni Arterigere - EsseZeta,
Varese, 2005
pp. 192
P
AGINE
DI
“ RIMOSSE ” è
STORIA
un volumetto che contiene due
testi: un breve saggio storico di
Enrico Vigna, La politica e i crimini di guerra dell’Italia fascista in
Jugoslavia, che fornisce un quadro
storico generale sull’occupazione
italiana della Jugoslavia; e Santa
messa per i miei fucilati, il diario in
cui don Pietro Brignoli (1900-1969)
annotò gli eventi di cui fu testimone
dal ‘41 al ‘45 in qualità di Cappellano militare al seguito dell’Esercito
Italiano fascista.
Ricorrendo a studi moderni e a
documenti di prima mano (lettere
di soldati italiani intercettate dalla
Censura; circolari, telegrammi,
comunicazioni tra organi militari),
Vigna ricostruisce il contesto storico dell’occupazione jugoslava, a
partire dal 1941, quando tedeschi e
italiani si dividono la Slovenia e
insediano in Croazia un governo
fantoccio, con a capo il famigerato
Paveli?, leader degli ustascia (il
movimento nazionalista croato –
profondamente antiserbo – che
imperversò in quelle regioni grazie
anche all’appoggio italiano). Subito si instaura un ferocissimo regime di violenza contro serbi
ortodossi, ebrei e zingari, e la resistenza jugoslava si organizza attorno al Partito Comunista. L’Italia
istituì Tribunali Speciali ed attuò
repressioni feroci e indiscriminate
contro la popolazione civile: incendi, saccheggi, furti, violenze, fucilazioni sommarie, deportazioni
(nel ‘42 il Gen. Roatta dirama la
famigerata Circolare 3C, nella
quale vengono impartite nuove e
più feroci disposizioni ai militari
italiani). Nel ‘43 soldati nazisti,
membri delle SS, repubblichini di
Salò, ustascia, cetnici, caucasici e
cosacchi filonazisti compiono
distruzioni, incendi, stupri, torture,
deportazioni, assassini di migliaia
di persone. Dai diari dei partigiani
italiani che si unirono ai partigiani
jugoslavi emerge la conferma delle
violenze italiane, ma anche l’atteggiamento leale con cui i combattenti italiani vennero accolti fra le
fila partigiane slave, fino alla liberazione definitiva della Jugoslavia
avviene il 15 maggio 1945.
In questo clima di violenze un
triste ruolo toccò alla Chiesa cattolica, specie quella croata, che
appoggiò le violenze in modo scoperto (in molte fotografie Paveli?
figura attorniato da centinaia di
sacerdoti). Spietati furono i francescani, molti dei quali presero parte
all’esecuzione materiale dei crimini: il francescano Brzica, ad esempio, nel Lager di Jasenovac
decapitò da solo in una notte 1369
prigionieri. Tristemente noto fu
monsignor A. Stepinac, arcivescovo di Zagabria, che prendeva parte
alle parate di nazisti e fascisti: nel
gennaio ‘42 fu nominato dal Vaticano Vicario militare degli ustascia; nel maggio ‘43 invia alla
curia romana un memorandum in
cui elogia il ruolo degli ustascia
nella conversione degli ortodossi,
ringraziando soprattutto i francescani. Il Vaticano appoggiò dunque
gli ustascia, vedendo nella loro
azione contro i serbi ortodossi la
possibilità per il Cattolicesimo di
espandersi nell’area slava. Non
farà dunque effetto apprendere che
Stepinac verrà beatificato dal
signor Woityla nel 1998.
In Appendice, anche due lettere
Greenpeace contro
la chimica pericolosa
nei prodotti per bambini
M
ercoledì 15 giugno 2005, Greenpeace è tornata a promuovere la raccolta di firme per chiedere una politica chimica
europea (REACH) che preveda il bando delle sostanze più
pericolose o la loro sostituzione qualora esistano alternative più sicure.
Firme che si aggiungono alle circa 20.000 raccolte fino ad oggi. Dopo
aver reso noto il 29 aprile il rapporto sulla presenza di composti potenzialmente pericolosi per la salute in magliette per bambini, detergenti per
l’infanzia e giocattoli, il 20 maggio Greenpeace ha promosso insieme al
Wwf un incontro con alcune delle aziende che sostengono la necessità di
una efficace legislazione europea sulla chimica: hanno partecipato lo
Swedish Chemicals Inspectorate, B&Q e Castorama Italia (entrambi del
gruppi King Fisher), Aboca, Novamont e Coop Italia, presenti anche rappresentanti delle istituzioni e sindacati. Un’ulteriore conferma di un’esigenza sentita anche a livello nazionale, nella consapevolezza che
l’adozione di una legislazione davvero efficace costituisce una spinta
positiva verso la competitività e non un freno. Le firme sulle cartoline,
indirizzate ai tre ministri competenti (Attività Produttive, Ambiente e
Salute) sono state raccolte dal Gruppo locale di Greenpeace di Reggio
Calabria che dalle ore 18:00 è stato presente al Palapentimele in occasione del concerto di Mark Knopfler.
“Ben il 93% dei consumatori europei ritiene che le sostanze chimiche
abbiano un impatto negativo sulla salute. Una preoccupazione cui diamo
voce anche con la raccolta delle firme e che non viene ignorata, a livello
europeo e nazionale, da alcuni grandi gruppi industriali e della distribuzione, che hanno pubblicamente espresso l’auspicio di una nuova normativa europea davvero efficace” spiega Giuseppe Mileto, responsabile del
gruppo locale di Greenpeace.
Greenpeace concorda con i principi cardine della riforma della politica
chimica europea, ma ritiene che debbano essere introdotti alcuni emendamenti necessari a tutelare realmente l’ambiente e la salute pubblica, a iniziare dall’obbligo di sostituzione di quei composti particolarmente
pericolosi laddove esistano le alternative più sicure. L’attuale bozza del
documento permette l’autorizzazione all’uso di composti altamente pericolosi, in quanto non considera l’esistenza di un’alternativa una ragione
sufficiente per negarne l’autorizzazione. “I consumatori hanno il diritto di
essere informati e, allo stesso tempo, hanno il potere di orientare il mercato e quindi le produzioni chimiche verso alternative più sicure per la salute e per l’ambiente” conclude Mileto.
Per maggiori informazioni:
www.greenpeace.it/inquinamento/casadeiveleni
contro la proposta di istituzione
della Giornata dell’Esodo in ricordo degli esuli italiani dalle terre di
Jugoslavia, nonché delle vittime
delle foibe. Questa è una delle questioni più delicate del saggio:
Vigna la affronta opponendosi al
clima revisionista che imperversa
in Italia. Molte delle vittime delle
foibe furono italiane, e certo alcuni
processi furono istruiti e celebrati
in maniera sommaria. Ma chi fu
gettato nelle foibe non lo fu in
quanto italiano, ma in quanto
responsabile, negli anni precedenti,
dei massacri e delle violenze contro quei popoli: così le foibe accomunarono gerarchi, squadristi,
funzionari, soldati fascisti, ed ustascia, collaborazionisti slavi e nazisti tedeschi. In simili situazioni
possono certo verificarsi tragici
errori e farsi strada vendette private, ma gli studi hanno ormai escluso la tesi della pulizia etnica
anti-italiana. Già nel ‘44 il Partito
Comunista Croato comunicava:
«Noi sappiamo benissimo che nelle
foibe finirono non solo gli sfruttatori e assassini fascisti italiani, ma
anche i traditori del popolo croato, i
fascisti ustascia e i degenerati cetnici. Le foibe non furono che l’espressione dell’odio popolare
compresso in decenni di oppressione e sfruttamento, che esplose con
la caratteristica violenza delle insurrezioni di popolo [...] » (pg. 67).
Nella seconda parte del volume,
ampi stralci del diario che don Brignoli tenne quando era Cappellano
Militare al seguito delle truppe
fasciste in Jugoslavia e che fu pubblicato postumo nel 1973, tagliato
nelle parti in cui la descrizione dei
crimini commessi dagli italiani
doveva risultare così orrenda da
superare qualsiasi giustificazione
bellica. Va detto che don Brignoli
non era un partigiano, ma a tutti gli
effetti un militare fascista (ebbe il
grado di Tenente). Ma proprio questa sua posizione rende interessante la sua testimonianza, perché essa
proviene da chi vide con i suoi
occhi le persone morire fucilate per
mano dei fascisti italiani e perché
riporta il punto di vista della parte
che compì questi delitti (sebbene
egli non vi abbia partecipato,
ovviamente) e che dunque avrebbe
potuto avere interesse a tacerli o a
coprirli.
Nel corso dei mesi sembra
avvenire in Brignoli come una
sorta di maturazione, di presa di
coscienza sempre più netta dell’inutilità e della ferocia della guerra,
e della stupidità di chi porta gli
uomini a combattersi. Il suo diario
ha dunque il valore di un’importante testimonianza storica, poiché
narra gli avvenimenti ‘in presa
diretta’, ancora intrisi delle emozioni con cui sono stati vissuti. Ma
non si può tacere nello stesso
tempo che esso presenta anche
notevoli limiti di analisi storica. La
sua indignazione è l’indignazione
di chi non fa nulla per rifiutare la
cultura che ha portato a quella
guerra e a quell’occupazione, di
chi accetta le fucilazioni come
eventi ineluttabili e che vede nella
somministrazione dell’estrema
unzione ai condannati a morte il
punto più alto della sua missione.
Vi è un’adesione alle vicende
umane dei condannati, una certa
solidarietà verso le popolazioni
vessate dai soldati italiani, ma i
partigiani slavi sono sempre sistematicamente dei «ribelli» e non
individui che hanno preso le armi
per liberarsi da un’occupazione
militare. Così ad esempio scrive il
18/8/42: «Se mai tra i fucilati ci fu
uno sacrificato a odio privato, certamente fu quello. Come mi pregò:
“Cappellano, faccia qualcosa per
salvarmi!” Ma come potevo io giustificare la sua fuga dal paese e la
conseguente sua presenza fra i
ribelli?» (pg. 129). Don Brignoli si
limita a guardare le persone morire, avendo come unica preoccupazione quella di ungerli con l’olio
santo e far baciare loro il crocifisso. Forse solo in una circostanza
egli ha davvero dato prova di
carattere: si tratta del giorno del
bombardamento di S. Lorenzo a
Roma il 19 luglio ’43, quando
rimase fuori sotto le bombe a prestare i conforti religiosi alla popolazione e ai militari, riuscendo
anche a salvare una coppia di
anziani intrappolati in casa (per
questi atti fu chiesta per lui la
medaglia d’argento al Valor Militare: il testo ufficiale con le motivazioni è riportato in Appendice, alle
pp. 186-188).
Le ultime pagine sono forse le
più belle del suo diario: vi si fanno
strada dubbi e perplessità sulla
guerra in corso, ormai vissuta con
stanchezza («Vi assicuro che la
pietà nel mio cuore è morta. [...].
Non che non faccia per i sofferenti
ciò che devo fare [...], ma non mi
riesce più di soffrire coi miei fratelli
che soffrono. [...] Avrei bisogno di
vivere, almeno per un anno, come
un eremita sulla vetta di un monte,
a contatto con la vergine natura e
con Dio, solamente a questa condizione potrei rifarmi l’innocenza e
ringiovanire il cuore precocemente
invecchiato», pp. 174-175). Ed è
proprio alla fine del diario che don
Brignoli in un certo senso si riscatta, quando comincia a mettere in
dubbio la retorica fascista («Ma Dio
[...], stanco dell’ipocrisia umana, ha
voluto mostrare che cosa stava
sotto tutta la nostra retorica: ed
ecco scatenarsi la guerra», pg. 177)
e condanna le atrocità delle guerre,
che non risparmiano neppure i
templi e le tombe.
Adriano Gerace
“1 milione di facce per
1 obiettivo sensibile”
Iniziativa dedicata ad Elaid Tourki, cittadino algerino
scomparso nel 1995, e alla Campagna contro
il commercio incontrollato di armi
“1
milione di facce per 1 obiettivo sensibile”, questo lo slogan che il gruppo Italia 227 Reggio
Calabria di Amnesty International ha scelto per promuovere la campagna “Control Arms“ per il
controllo del commercio di armi nel mondo, in occasione della sua iniziativa di raccolta fondi. Mercoledì
1 giugno, infatti, il locale “Spizzigulia” ha ospitato la cena di solidarietà che il gruppo ha organizzato per
raccogliere i fondi necessari alla promozione sul territorio delle attività di educazione al rispetto dei diritti
umani e di sostegno alle vittime delle violazioni. In questa educazione al rispetto dei diritti umani e di
sostegno alle vittime delle violazioni. In questa occasione sono state proposte delle petizioni rivolte all’Onorevole Silvio Berlusconi e sono state scattate delle foto, da inviare affinché nel giugno 2006, in occasione della Conferenza delle Nazioni Unite, sia adottato un trattato che regolamenti il commercio di armi.
Si tratta di un business di miliardi di dollari all’anno nell’ambito del quale gli Stati membri del Consiglio
di Sicurezza dell’Onu (Usa, Russia, Cina, Francia e Gran Bretagna) rappresentano i principali fornitori di
armi ai paesi in via di sviluppo e imperversati da conflitti in Africa, Medioriente e America Latina.
Circa settecento milioni di armi sono in circolazione in questo momento nel mondo, 500 mila le persone che muoiono ogni anno per colpi di arma da fuoco, 300 mila i bambini costretti ad imbracciarle. Per
milioni di persone è addirittura più facile possedere un’arma che avere una bottiglia d’acqua. Un commercio incontrollato, tuttavia non incontrollabile, che produce morte e alimenta povertà. Ci sono, infatti,
aziende che fabbricano e commercializzano armi, governi e privati che le acquistano e le vendono e persone che le utilizzano contro altre persone. Questo il quadro drammatico che è stato illustrato da un video
preparato dal gruppo e proiettato in occasione della serata. Sono state inoltre raccolte delle firme per
Elaid Tourki, cittadino algerino scomparso nel 1995 cui è dedicata la serata. Da anni il gruppo reggino
continua a fare pressione sulle autorità algerine affinché sia fatta luce sui fatti di quegli anni in cui sparirono, strappati alle loro famiglie, numerosi oppositori politici, tra cui anche Elaid Tourki.
I principi di indipendenza e imparzialità, su cui si fonda Amnesty International, garantiscono l’efficacia della sua azione. Amnesty infatti non accetta finanziamenti dai governi per poter mantenere, nei confronti di questi, una posizione assolutamente autonoma e spendibile solo ed esclusivamente in difesa dei
diritti e per la protezione delle vittime. Dunque l’attività di raccolta fondi che gli otto mila gruppi di
Amnesty, tra cui anche quello di Reggio Calabria, portano avanti, rappresenta il fulcro della vita di un
movimento che conta oltre quarant’anni di indagini su abusi e violazioni e migliaia di azioni per sostenerne le vittime. Il gruppo reggino auspica, quindi, di poter continuare ad operare sul territorio offrendo alla
cittadinanza occasioni di formazione e confronto sui diritti umani.
Gruppo Italia 227 Reggio Calabria
Amnesty International, Movimento Internazionale per la difesa
dei Diritti Umani e la liberazione dei Prigionieri di Opinione
Premio Nobel per la Pace 1977
Premio delle nazioni Unite per i Diritti Umani 1978
Ufficio Stampa -Anna Foti - Tel. 0965.890757 - 339.2046023
I C AR
I C AR
I C AR
I C AR
I C AR
I C AR
I C AR
I C AR
I C AR
I C AR
I C AR
I C AR
IC A R
S.R.L.
CONCESSIONARIA
Benedetti
CON LA
DAL 1916
I C AR
I C AR
I C AR
I C AR
I C AR
I C AR
I C AR
I C AR
I C AR
I C AR
I C AR
I C AR
I C AR
I C AR
I C AR
I C AR
I C AR
I C AR
I C AR
I C AR
I C AR
I C AR
I C AR
I C AR
I C AR
I C AR
I C AR
I C AR
I C AR
I C AR
I C AR
I C AR
I C AR
I C AR
I C AR
I C AR
I C AR
I C AR
I C AR
I C AR
I C AR
I C AR
I C AR
I C AR
I C AR
I C AR
I C AR
I C AR
I C AR
I C AR
I C AR
I C AR
I C AR
I C AR
Via Nazionale, 18 - 89013 GIOIA TAURO (RC)
Tel. 096651070 - 096651078 - 096651079
Telefax 096657455