C - Lettere Meridiane
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Anno I - n. 2 / 3 - Trimestrale Luglio / Agosto / Settembre 2005 €uro 1,00 Le voci delle donne nei paesi islamici Appuntamenti culturali in Calabria e Sicilia ETTERE LERIDIANE M de Corrado Alvaro, viaggiatore nel Mediterraneo laltrareggio Direzione, redazione, amministrazione: Via Ravagnese Superiore, 60 89067 RAVAGNESE (REGGIO CALABRIA - CITTA’ DEL BERGAMOTTO) Tel. 0965644464 - Fax 0965630176 - E-mail:[email protected] - www.cittadelsoledizioni.it Una radice di pietra e di mare più forte della diversità delle rive (Franco Cassano) Quasimodo, il poeta e la sua terra impareggiabile “La Chioccia d’oro” di Vincenzo Fusco Corigliano Calabro, una fucina culturale in Calabria Nasce a Reggio la Onlus “Bambini nel deserto” Storia contemporanea, i crimini dell’ Italia fascista in Jugoslavia Un futuro sotto il ponte? Riflessioni su un’opera infausta Inediti poesie e racconti Le novità della Città del Sole Edizioni U tempu cc’è Il Festival dei Circoli del Cinema a Reggio Calabria le poesie di Salvo Basso e le immagini di Aldo Palazzolo L ETTERE M ERIDIANE 2 N. 2 / 3 - Luglio - Agosto - Settembre 2005 Lettera aperta al Presidente del Consiglio Regionale Un progetto Una legge indispensabile ambizioso Egr. On. Giuseppe Bova S iamo giunti al secondo numero di Lettere Meridiane. Mi fa piacere poter riscontrare l’interesse che questa iniziativa editoriale ha suscitato. Sono stati numerosi gli apprezzamenti e gli auguri ricevuti per il primo numero pubblicato, a conferma della mia impressione che un periodico culturale sarebbe stato ben accolto dal pubblico. L’attenzione dimostrata verso le edizioni, gli incontri, i personaggi delle nostre terre è stata prontamente premiata e una viva soddisfazione per il successo ottenuto viene espressa da tutto lo staff che ha contribuito a questo progetto. In questo numero troverete un maggiore spazio dedicato agli appuntamenti culturali e di spettacolo, sia in Calabria che in Sicilia. Vogliamo infatti poter costituire, in questo periodo estivo particolarmente ricco di eventi, una guida utile per gli appassionati che non vogliono lasciarsi sfuggire le rassegne più importanti. Troverete approfondimenti su alcuni aspetti poco conosciuti e un po’ trascurati dell’opera di grandi scrittori e intellettuali, come Corrado Alvaro e Salvatore Quasimodo, ma anche notizie su autori calabresi contemporanei, come Vincenzo Fusco o il prematuramente scomparso Carlo Carlino. Altri nomi illustri del panorama letterario calabrese da tempo dimenticati hanno trovato spazio nelle nostre pagine, Vincenzo Tieri e Luigi Aliquò-Lenzi, per fare due esempi. Un evento di grande prestigio svoltosi a Reggio Calabria, il Festival Internazionale dei Circoli del Cinema, risultato del costante impegno sul campo dei due storici Circoli del Cinema reggini, “Cesare Zavattini” e “Charlie Chaplin”, ha trovato un immediato riscontro nel nostro giornale, attento a tutto quanto di rilevante accada nel nostro territorio. Un altro veicolo d’informazione e cultura, quindi, nel panorama già ampio e variegato che la Calabria possiede. Perché la nostra terra, dagli indici di lettura più bassi in Italia, produce una serie di realtà che operano nel settore editoriale, il cui numero e varietà stupisce. Oltre alle case editrici più note anche a livello nazionale, ce ne sono altre conosciute più che altro dagli addetti ai lavori, ma in grado di produrre uno sforzo ragguardevole nella produzione libraria, tentando di raggiungere una certa visibilità, sia a livello locale, che oltre i confini regionali. Il problema di essere conosciuti al grande pubblico ci accomuna tutti, spesso ci sentiamo realtà isolate che si muovono nel mare dell’indifferenza generale, salvo poi incontrarci negli importanti appuntamenti nazionali di settore. Perché considerando solo Reggio, ben tre case editrici sono presenti al Salone del Libro di Torino e alla Fiera della Piccola e Media Editoria a Roma, la Città del Sole Edizioni, Falzea e Laruffa. Una presenza di tutto rispetto di cui la nostra cittadinanza dovrebbe andare orgogliosa, ma che invece non risulta nota ai più. La recente Fiera del Libro di Torino, dello scorso maggio, ha testimoniato ancora una volta questa significativa partecipazione. Come in passato, ho potuto riscontrare che in queste occasioni i piccoli editori fanno la differenza, costituendo il vero valore aggiunto di queste manifestazioni, dove si tessono i rapporti tra autori, editori e pubblico; quest’ultimo trova accoglienza e assistenza qualificata e attenta proprio negli stand delle case editrici minori, dove sono i titolari – e non semplici commessi – a dare ogni tipo di informazione e a conversare con competenza con tutti i visitatori. Sono occasioni che spalancano grandi possibilità per questo settore, dove sono sicuro che a mancare sono gli strumenti adeguati di promozione e distribuzione, non lo scarso interesse e l’esigua propensione alla lettura. Colgo quindi l’occasione per ribadire un’idea già espressa in altri momenti. Un’idea ambiziosa e anche difficile, ma forse per questo ancora più preziosa e bella. Dare vita al primo appuntamento dell’editoria calabrese e siciliana proprio qui in riva allo Stretto, a Reggio, che raggruppi tutte le varie e numerosissime realtà che operano in queste vivacissime terre. Questa striscia di mare che saggiamente ci divide da quella che è arrivato il momento di riconoscere come la nostra sorella Sicilia è il nostro punto di forza, non la nostra debolezza. Noi ci guardiamo reciprocamente, ci ammiriamo all’unisono di notte e di giorno. È venuta l’ora di tessere un sodalizio più profondo che non passi attraverso ponti di acciaio, ma scorra con la parola scritta, poesia, racconto, idea, pensiero che sia. Franco Arcidiaco Ho letto con interesse e compiacimento il Suo intervento che dava notizia della pubblicazione del volume di Corrado Alvaro “Paris sans fard- un reportage italien de 1950”. Come Lei stesso ha sottolineato, la pubblicazione da parte dell’Istituto Italiano di Cultura di Parigi è stata possibile grazie alla collaborazione dell’editore Giuseppe Falzea, che ne detiene i diritti e sta preparando contemporaneamente un’edizione italiana dell’opera. Mi associo alle congratulazioni da Lei espresse all’amico e collega Falzea, insieme al quale da tanti anni opero nell’ambito editoriale in questa regione. Mi compiaccio inoltre dell’interesse dimostrato da un’alta carica delle Istituzioni regionali per il settore della piccola editoria e per il riferimento ad un comma del nuovo Statuto dove si afferma che la Regione deve “valorizzare il sistema locale delle comunicazioni e deve essere garante di pluralismo e concorrenza” e cita le leggi giacenti in Consiglio regionale proprio inerenti l’editoria cosiddetta “minore”. Da tempo si sente la necessità, e più ho volte ho avuto modo di esprimere questa riflessione, di una normativa che disciplini il settore e lo aiuti a destreggiarsi nelle costanti difficoltà in cui opera. Non chiediamo contributi finanziari, ma semplicemente il riconoscimento delle realtà che operano con impegno, serietà e professionalità. È ovvio che il nodo fondamentale che lega editoria e Enti locali risieda nella disponibilità all’acquisto da parte delle Istituzioni di alcuni volumi editi o nell’eventuale collaborazione per progetti editoriali. Istituire l’albo delle case editrici regionali che abbiano alcune caratteristiche fondamentali mi sembra il primo passo per valorizzare l’editoria calabrese. Si possono veramente definire case editrici solo le strutture organizzate, che possiedono un catalogo articolato, che pubblicano un certo numero di titoli all’anno, che possiedono una certa visibilità nel settore e siano in grado di svolgere attività di promozione e distribuzione anche fuori dai confini regionali. Mi sembrano questi i requisiti minimi per definire una casa editrice, anche se “piccola”. Rivolgersi a queste realtà per procedere alle pubblicazioni finanziate dagli Enti o per acquistare volumi di interesse locale è l’unico modo per sostenere i “veri editori” e non chi svolge questo lavoro in modo occasionale e sporadico. Nella passata legislatura l’allora Assessore alla Cultura Saverio Zavettieri aveva riunito tutte le parti interessate, proponendo una legge regionale sull’editoria che prevedeva tra l’altro proprio la formulazione di questo albo. In quell’occasione il responsabile della Rubbettino Editore, Giacinto Marra, era intervenuto per esprimere la sua perplessità in merito, preoccupato che i fondi regionali si disperdessero troppo tra le varie realtà. Questo discorso mi era apparso egoistico e riduttivo, oltre che teso a mantenere i privilegi di chi in Calabria è nato come tipografo ed è divenuto poi anche editore, facendo ricorso frequentemente alla Regione e ai suoi fondi. Dopo questa rimostranza stranamente non si è più sentito parlare della legge che, come ha detto bene Lei, Signor Presidente, giace ancora in Consiglio regionale. Spero che il Suo intervento serva a risvegliare l’interesse della nuova Giunta verso questo settore e che il varo di una nuova normativa avvenga molto presto, insieme alla messa in atto di tutti gli strumenti utili per promuovere la diffusione della lettura e della cultura. L’editore Franco Arcidiaco Sommario dei libri recensiti in questo numero: Senza velo. Donne dell’Islam contro l’integralismo di Monica Lanfranco e Maria G. Di Rienzo Intramoenia, Napoli Tardara di Licia Cardillo di Prima Editori Riuniti, Roma Gambarie in bianco e nero. Dalle origini agli anni Settanta. La Chioccia D’oro La Calabria. Libro sussidiario di cultura regionale – Calabria di Corrado Alvaro Iiriti Editore, Reggio Calabria Paris sans fard – Un reportage italien de 1950 di Corrado Alvaro Falzea Editore, Reggio Calabria Viaggio in Turchia di Corrado Alvaro Falzea Editore, Reggio Calabria Ragù di capra di Gianfrancesco Turano Flaccovio, Palermo I libri della Città del Sole Edizioni a pag. 22 - 23 di Vincenzo Fusco Laruffa Editore, Reggio Calabria di Gerardo Pontecorvo e Giuseppe Meduri Crayons di Rita Crisarà Istituti post-manicomiali A cura di Nicola Valentino Edizioni Sensibili alle foglie Pagine di storia “rimosse” di Enrico Vigna e Don Pietro Brignoli Edizioni Arterigere - EsseZeta, Varese Tra gli scogli dell’io di Fortunato Aloi Luigi Pellegrini, Cosenza Sulla via Appia a incontrar le Muse di Marino Faggella Arti grafiche, Lavello Per una storia della pubblica beneficenza a Rizziconi di Domenico Coppola Storia del Bergamotto di Reggio Calabria di Pasquale Amato Il Risorgimento oltre i miti e i revisionismi di Pasquale Amato I tuareg dell’Air di Ketty Adornato e Rino Cardone Parlamento in…chiaroscuro di Fortunato Aloi De anima sicula di Gioia Timpanelli Flaccovio, Palermo Il sale sulla coda di Roberto Pagan Zone Editrice, Roma Ur-scherei- L’urlo originario di Federica Legato Concorso letterario NO PONTE Comunichiamo i nomi degli autori dei dieci racconti selezionati Traversata andata e ritorno di Giorgio Ruta Clangore di Giorgio Specioso Certi difetti di Annamaria Sansone Una nebbia finissima ti attraversa il petto di Elena Spadafora Storiella del ponte sullo stretto di Lucia Saguì L’unucu ponti Marco Boccia Sotto il ponte c’è una vecchia di Walter Vastarella 3 kilometri da casello a casello di Andrea Pugliese Una scelta virtuale di Valeria De Benedictis Né ponte, né cemento di Angelo Maddalena L ETTERE MERIDIANE de laltrareggio CITTÀ DEL SOLE EDIZIONI REGGIO CALABRIA Iscrizione Registro Stampa Trib. di Messina n° 17 dell'11 luglio 1991 Iscrizione R.O.C. n° 9262 Via Ravagnese Sup. 60 89067 RAVAGNESE (RC) Tel. 0965644464 Fax 0965630176 e-mail: [email protected] Direttore Responsabile: FRANCO ARCIDIACO Direttore Editoriale: FEDERICA LEGATO Coordinamento Editoriale: ORIANA SCHEMBARI Stampa: AFFARI Zona Asi Larderia - Messina Associato USPI Unione Stampa Periodica Italiana La pubblicazione della raccolta avverrà in autunno La collaborazione al giornale è volontaria ed avviene esclusivamente in FORMA GRATUITA N. 2 / 3 - Luglio - Agosto - Settembre 2005 L ETTERE M ERIDIANE 3 Senza un velo di paura Viaggio nell’Islam delle donne in lotta per i loro diritti I n “Senza velo”, il libro di Monica Lanfranco e Maria G. Di Rienzo edito da Intramoenia, sono solo le donne a parlare. Agile e asciutto, è uno scritto breve che ha un unico obiettivo: offrire un quadro su un variegato mondo femminile che si muove all’interno dell’Islam, ma che all’Islam non si arrende. Tanti i movimenti e i personaggi che non si rassegnano alla versione integralista di una religione che, affermano, non prescrive la subalternità della donna all’uomo, non la priva dei diritti, non le impone il velo. E proprio intorno al velo, per tanti simbolo dell’oppressione islamica sulle donne e per altri, invece, segno di una precisa identità culturale, che si muove il dibattito nei paesi occidentali; divisi tra chi sostiene che il rispetto per la cultura e la religione altrui passi anche attraverso l’accettazione di queste tradizioni e invocano la legittimità per le donne musulmane residenti in Occidente di vestirsi come la loro religione indica, e tra chi sostiene che gli stranieri debbano adattarsi agli ordinamenti e ai costumi del Paese che li ospita (la legge francese sul velo è stato il caso eclatante che ha destato accese polemiche) e considera di fatto il velo testimonianza della sottomissione delle donne nella società islamica e pertanto in opposizione alle leggi degli stati laici e ai diritti che dovrebbero essere universalmente garantiti. Le autrici partono proprio dalle posizioni delle cosiddette “relativiste culturali” che legittimano l’uso del velo come risposta e, diremmo, resistenza alle pressioni omologanti della cultura occidentale. Un discorso che ovviamente si lega a una prospettiva politica ed economica che vede nello sfruttamento dei Paesi più poveri e nell’ingerenza nelle loro politiche interne, anche con la guerra come nel caso dell’Iraq, il segno di una globalizzazione sotto il segno del capitalismo. Di fronte a tali posizioni, le autrici si chiedono come possa essere scambiato per rispetto di una cultura l’accettazione di quello che ha rappresentato di fatto lo strumento di subordinazione e continua per la stragrande maggioranza dei casi ad esserlo. Dice Monica Lanfranco: “Il multiculturalismo autorizza che, poco più in là, non contino per le altre i diritti di scelta che hai conquistato sul tuo territorio sociale e culturale? Il rispetto per le “differenze” è incondizionato sempre e comunque, tanto da imporre l’assenza di critica?” Da qui nasce l’idea di questo libro che rappresenta un viaggio tra chi vive in Paesi musulmani o nelle comunità islamiche in Paesi stranieri e che giornalmente continua a lottare per difendere i diritti delle donne, sostenerle praticamente e si fa portavoce all’opinione pubblica mondiale delle loro tristi condizioni Esiste un femminismo religioso all’interno dei paesi islamici che indaga il Corano e gli Hadith, i detti del Profeta, per trovare le prove della falsità di quanto sostenuto dalle interpretazioni tradizionali sul ruolo della donna nella religione musulmana. Per queste donne, esegeti degli scritti sacri, la verità risiede in queste due parole: interpretazione e tradizione. L’interpretazione dei testi è stata per lo più opera di uomini; la lettura delle parole del Profeta è avvenuta nel senso, facile e ovvio, delle leggi e delle tradizioni preislamiche, che rimandano all’organizzazione di una società di tipo patriarcale e autoritaria nei confronti delle donne. In un solo hadith, tra l’altro non giudicato attendibile dagli studiosi, c’è riferimento alla prescrizione del velo per le Donne dell'Associazione Smileagain Per chi ne vuole sapere di più SIRAD SALAD HASSAN, La donna mutilata, Firenze, Loggia de Lauri, 1996. B. BHUTTO - G. H. BRUNDTLAND, Il pianeta a misura di donna, Manifestolibri, 1995. ELISA GIUNCHI, La donna nell’Islam, I Dossier del CESPI, n. 3,1993. FATIMA MERNISSI, La terrazza proibita. Vita nell’harem. Giunti, 1994. FATIMA MERNISSI, Donne del profeta. La condizione femminile nell’Islam, ECIG, 1992. BIANCAMARIA AMORETTI SCARCIA, Tolleranza e guerra santa nell’Islam, Sansoni, 1974. GIORGIO VERCELLIN, Istituzioni del mondo musulmano, Einaudi, 1996. GIORGIO VERCELLIN, Tra veli e turbanti, Rituali sociali e vita privata nei mondi dell’Islam, Marsilio, 2000. ALESSANDRO FERRARI, (a cura di), L’Islam in Europa. Lo statuto giuridico delle comunità musulmane. II Mulino, 1996. ERSILIA FRANCESCA, Introduzione alle regole alimentari islamiche, Istituto per l’Oriente C.A. Nallino, 1995. ALESSIO D’ANGELO, La presenza islamica in Europa: cicli migratori e impatto sulla società, in “Affari sociali internazionali” n. 3 /2003. EDWARD SAID, Orientalismo: l’immagine europea dell’Oriente, Feltrinelli, 2001. Andare ancora al cuore delle ferite, Renate Siebert intervista Assia Djebar, La Tartaruga, 1997. GIULIANA SGRENA, (a c. di), La schiavitù del velo: voci di donne contro l’integralismo islamico, Manifestolibri, 1999. ASSIA DJEBAR, Bianco d’Algeria, II Saggiatore, 1998. MARTA NUSSBAUM, Diventare persone: donne e universalità dei diritti, II Mulino, 2001. 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Network: www.womensenews.org www.whrnet.org WOMEN’S HUMAN RIGHTS NET www.baobabwomen.org www.wluml.org WOMEN LIVING UNDER MUSLIM LAW www.arabcomedy.org NEW YORK ARAB AMERICAN COMEDY FESTIVAL www.awsa.net ARAB WOMEN’S SOLIDARITY ASSOCIATION www.irinnews.org PAKISTAN www.womenforafghanwomen.org WOMEN FOR AFGHAN WOMEN www.helpafghanwomen.com HELP AFGHAN WOMEN www.wwhr.org WOMEN HUMAN RIGHTS www.parsa-afghanistan.org PARSA AFGHANISTAN www.peacecouncil.org. CONSIGLIO DI PACE www.tramaditerre.org. TRAMA Di TERRE SHADI SADR: www.womeniniran.org SHAZIA MIRZA: www.shaziamirza.org MAYSOON ZAYID: www.maysoon.com TISSA HAMI: www.tissahami.com LUCINDA MARSHALL: www.feministpeacenetwork.org. YANAR MOHAMMED: www.equalityiniraq.com. NAWAL EL SAADAWI: www.nawalsaadawi.net IRSHAD MANJI: www.muslim-refusenik.com donne che lasci scoperto solo “volto e mani”. Troppo poco quindi per giustificare un obbligo secolare e inderogabile. Numerosi invece sono i passi del Corano dove si afferma che la donna sia stata creata dopo l’uomo e che essi rappresentano “le due unità della coppia”, che “Allah ha dato compagne della stessa natura”, che tra loro debba esserci “pace e misericordia”, che “uomo o donna, ogni musulmano deve studiare”. “…Oh, gente, per quel che riguarda le vostre donne, esse hanno un diritto su di voi e voi avete un diritto su di loro”. Un articolato movimento femminile islamico, diverso e frammentato nei vari Paesi, opera già da molto tempo e si è sempre confrontato con la questione religiosa. Proprio utilizzando il discorso islamico come paradigma, rivendica diritti personali, l’uguaglianza di genere, la giustizia sociale e condanna la pratica della violenza contro le donne. Tutto ciò è, nel discorso costruito dalle due autrici, una prova evidente che il reale femminismo presente nei paesi islamici sia molto più radicale di quello occidentale (che sembra guardare con un’ottica lontana e fuorviante queste realtà) e difenda con forti argomentazioni le donne, non confondendo affatto le loro condizioni e i loro diritti con le tradizioni, le usanze e la religione. A conferma di ciò il libro dà spazio a una serie di contributi da parte di coloro che si impegnano contro una visione maschilista della società. Avvocati, direttrici o membri di associazioni e istituzioni per la difesa dei diritti delle donne, africane, pakistane, iraniane, irachene. Raccontano di Stati dove le donne hanno una cittadinanza di serie B, perché lì vige la legge islamica, denunciano violenze e soprusi, abusi sessuali, vendette consumate con acidi, prigioni dove sono rinchiuse bambine di 12 anni che hanno rifiutato di sposare un vecchio scelto dal padre, e tanti altri casi. Sono voci diverse, affrante, decise, sarcastiche, attonite. Si moltiplicano gli appelli e i progetti a livello internazionale. La dichiarazione di Chang-May in Thailandia, realizzata durante l’incontro del Consiglio Internazionale ed Interreligioso per la pace e dal Centro per la salute e le Politiche sociali nel marzo del 2004, afferma la convinzione che le tradizioni religiose e le aspirazioni delle donne non sono in opposizione. L’Associazione delle Donne che vivono sotto le leggi islamiche (Wluml) ha lanciato nello scorso gennaio un appello, dove si legge che “Se è vero che le nostre diversità devono essere riconosciute e l’omogeneità non imposta, non dovremmo mai dimenticare che la ‘differenza’ è stata usata ed abusata dal nazismo, dall’apartheid, dalla schiavitù nel sud degli Stati Uniti, dal fondamentalismo islamico, dalle ideologie contro le donne…Non esiste qualcosa come lo scontro di civiltà, come vorrebbero farci credere Bush e Bin Laden. Lo scontro oggi è tra fascisti e antifascisti”. I pericoli sono più vicini di quanto si pensi e questo libro lo mostra senza alcun dubbio, citando situazioni anche poco note: l’escalation dei delitti d’onore in Stati europei, campioni di libertà sociale, Olanda, Gran Bretagna, dove le comunità musulmane sono numerose e dove i casi di soprusi e omicidi vengono lentamente fuori. Ma ancora più preoccupanti sono i segnali che gli Stati laici danno. In Olanda si è dibattuto se i delitti d’onore dovessero essere giudicati dalla legge dello Stato o dalla legge islamica, in nome del multiculturalismo. In Canada è possibile da alcuni mesi fare ricorso ad arbitrati che seguono la Sharia su alcune questioni, a condizione che le condanne prevedano pene corporali o quanto si scontra con la Costituzione canadese. Ma, si chiedono in molti, con questa sorta di “tolleranza” non si rischia di generare delle comunità chiuse e impermeabili alle leggi del Paese che li ospita, non si aiuta a costruire prigioni per coloro che vorranno dissentire dai regolamenti del popolo di appartenenza? Uno stato aperto, laico e tollerante può permettere che nel suo territorio esistano delle sacche dove i diritti universali non siano riconosciuti? Multiculturalismo o piuttosto la paura di confrontarsi con una realtà complessa, perché “diversa”? Riflettere sulla convivenza di varie etnie su un medesimo territorio, futuro prossimo di ogni parte del globo, sui modi in cui essa può avvenire fino ad arrivare all’osmosi e non all’annullamento, è un modo per ripensare al cambiamento che si produce rapidamente nelle nostre evolute società; ma lo è anche per riflettere su come gli stati laici, aperti e tolleranti, difendano le fasce più deboli delle loro popolazioni, quelli che in ogni cultura sono sconfitti e violati, i poveri, i “diversi”, i bambini, gli anziani e… le donne. Forse si scoprirebbe che ancora tanto c’è da fare e che astenersi dal pensare, rinunciare a decidere, abdicare ad una libera coscienza è una scelta che un giorno tutti prima o poi potremmo pagare. Oriana Schembari Ricostruire un volto, ricostruire una vita F akhra Younas, autrice del libro “Il volto cancellato” (Mondadori, € 16,00), come migliaia di donne in Pakistan, India e Bangladesh è sopravvissuta all’acido. Fakhra è, infatti, una delle mille ragazze e bambine che maschi carnefici, rifiutati e lasciati, o anche solo arrabbiati per gli scarsi beni portati in dote, bruciano vive per vendetta. Fakhra era bellissima. In Pakistan faceva la ballerina. Suo marito, il crudele e ricco Bilal, abbandonato perché violento, le versa addosso un fiume di acido che le scioglie la carne. “Il dolore era come avere un fuoco che infiamma la pelle e il cervello insieme”. Ma Fakhra ce l’ha fatta, per amore di suo figlio Nauman, e con l’aiuto di tante persone, tra cui la grande scrittrice pakistana Themina Durrani. In Italia, dopo vari interventi di chirurgia plastica, Fakhra è riuscita ad alzare la testa che era attaccata al collo e ad aprire gli occhi e la bocca. Solo nel 2002, oltre 900 donne in Pakistan sono state sfregiate con l’acido solforico. La Onlus Italiana Smileagain è impegnata ad aiutarle a ricostruirsi un volto e una vita. Mandando un sms al 48589 si può contribuire a Smileagain con un euro. Per informazioni tel. 06 5565129. APPUNTAMENTI 4 IN L ETTERE M ERIDIANE CALABRIA Le voci del Paleariza Dal 1 al 21 agosto ritorna l’appuntamento all’insegna della musica popolare. Da tutta Italia i gruppi che portano avanti una particolarissima ricerca alle radici della musica delle proprie terre. In un’affascinante viaggio tra antico e moderno nei luoghi dell’area grecanica della provincia reggina. N. 2 / 3 - Luglio - Agosto - Settembre 2005 Magna Graecia. Archeologia di un sapere Catanzaro, Complesso Monumentale di San Giovanni 19 giugno – 31 ottobre 2005 Direttore Artistico: ETTORE CASTAGNA Tutti i concerti inizieranno alle 22.30 A ttraverso un percorso tra materiali di straordinario valore storico-artistico e documentario, la mostra è un viaggio nella storia della civiltà greca d’Occidente e nel passato prossimo della sua riscoperta dall’età illuminista in poi: un viaggio che, partendo dalla cultura greca, permette di ricostruire le origini del sapere di oggi. “Magna Graecia. Archeologia di un sapere” è un evento di richiamo nazionale e internazionale, supportato dal contributo di tutte le Soprintendenze archeologiche dell’Italia meridionale. Il progetto, nato sotto l’alto patronato della Presidenza della Repubblica, con il patrocinio del Ministero per i Beni e le Attività Culturali e del Ministero della Pubblica Istruzione, è un’importante testimonianza della collaborazione stabilitasi tra l’Università di Catanzaro, la Regione Calabria, la Direzione Regionale ai Beni Culturali, la Soprintendenza Archeologica della Calabria e il Comune di Catanzaro. 1 Agosto - Bova SAVINA YANNATOU Stella di prima grandezza del firmamento musicale greco, Savina è fra le più importanti interpreti world al mondo. Un concerto che spazia dal Mediterraneo ai Caraibi. 2 Agosto - Amendolea di Condofuri MADDALENA SCAGNELLI E ENERBIA Dall’Appennino Ligure un gruppo sentimentale e sanguigno. Ci mostreranno come il Nord certe volte è piuttosto a Sud. 3 Agosto - San Lorenzo MIRANDA CORTEZ E LA FRONTERA Dalla musica spagnola a quella balcanica, la band propone un brillante crocevia di gusti e di timbri vissuti con spirito nomade. Teresa De Sio 10 Agosto - Pentedattilo 17 Agosto - Bova Mitica, spumeggiante orchestra angloindiana che esegue le musiche da film di BollyWood. L’impatto live è stratosferico con un’energia impareggiabile. Fantastico per sorridere e per ballare. Raffinato etno d’autore dall’Abruzzo, coloriture fra il popolare e il Jazz per la bella voce di Diana Torto. 11 Agosto - Pietrapennata YASEMIN SANNINO E TAO ALCHEMIC SIMPHONY BOLLYWOOD BRASS BAND DIANA TORTO E SCURA MAJE 18 Agosto - Bova Marina SANTAGATI-VILLANIMORELLO TRE SALENTINE TRE Il concerto si svolgerà sulla spiaggia del lungomare Gruppo etno-trance con magie da DJ che si intrecciano con la voce della cantante turca Yasemin Sannino, che ha partecipato tra l’altro a “Le fate ignoranti”). 6 Agosto - Roccaforte del Greco È uno spettacolo che mette in risalto l’uso delle voci nella tradizione musicale del Salento, dando importanza soprattutto ai canti contadini polivocali. 19 Agosto - Sperlinga / Brancaleone Vecchio Dalla Lucania, musica tradizionale e poesia. Un gruppo che si distingue per l’impegno sociale e per la qualità del discorso musicale. 14 Agosto - Prunella di Melito 7 Agosto - Bagaladi Rai e musica d’autore dall’Algeria, una sentimentale alchimia fra una sensibilità femminile e uno sguardo artistico al maschile. 4 Agosto - Palizzi MARIA SOTO Y LA CARBONERIA FLAMENCA Una vibrante serata di flamenco andaluso, un linguaggio musicale oramai universale nella sua travolgente bellezza. ADELE CAPUTO E TERRAGNORA GABRIELLA GABRIELLI E ZUF DE ZUR Il racconto di piccole e grandi storie fra partigiani e avventure di confine con il mondo slavo: la Liberazione e la Democrazia ma anche l’Incontro e il Viaggio in un angolo d’Europa dove i confini sono stati importanti e difficili. 8 Agosto - Staiti FIM Quintetto interamente femminile di musica irlandese. Poesia ed energia dal cosmo celtico. 9 Agosto - Bova 1561 Evento speciale del festival La musica si mescola alla narrazione della Strage dei Valdesi di Guardia Piemontese (Cosenza) ad opera degli spagnoli nel 1561. Protagonisti il gruppo Occitano dei Gai Saber insieme ad attori/voci recitanti. La realizzazione del testo teatrale è stata effettuata in collaborazione con la compagnia Il Melarancio. Trio di musica tradizionale calabrese eseguita in modo limpido e melodioso. 12 Agosto - Roghudi JAMILA E ABBES BOUFROUIA 15 Agosto - Santa Maria di Tridetti CLAUDIA BOMBARDELLA ENSEMBLE Viaggio fra i paesaggi sonori del mondo nel magnifico contesto della Chiesa Bizantina di Tridetti, Claudia è artista versatile, polistrumentista eclettica. 16 Agosto - Bova Grecia d’Occidente a cura di Valentino Santagati e Domenico Morello 19.30 Un incontro con la Tradizione. Chiesa dello Spirito Santo 22.30 Grecanica Un concerto con la partecipazione esclusiva di musicisti tradizionali. Lo storico ed inossidabile cuore etnoacustico del festival nella piazza della Chora. 24.00 Ballu di lu Camiddu La scoppiettante, pirotecnica, affascinante danza del simbolico animale di fuoco. BARBARA BUCCI E SONIDUMBRA Raffinata ensemble acustica che propone un armonico viaggio nei paesaggi sonori dell’Italia Centrale attingendo con maestria al mondo popolare. Parte del gruppo milita anche nei leggendari Micrologus, gruppo battistrada nella riproposta della musica medioevale in Italia. 20 Agosto - Palizzi TAMBURI DEL VESUVIO Travolgente ensemble vulcanocentrica fra il melodico e il percussivo. Fortissimo il tocco femminile, imperversa la multiforme personalità del suo bandleader, il cantante, attore e musicista Nando Citarella. Una vera e propria eruzione! 21 Agosto - Bova TERESA DE SIO Voce e personalità artistica di tutto rispetto dalla storica fucina musicale napoletana. Teresa è artista ben nota anche al grande pubblico. Le sue produzioni più recenti confermano un percorso artistico orientato appassionatamente a Sud, verso timbri e modi che solcano il Mediterraneo. INFO www.paleariza.it Trono di Ludovisi Più di 800 reperti esposti, tra i quali vasi, statuette in terracotta, rare sculture in marmo, utensili, oreficeria, corredi funerari, iscrizioni, libri antichi, incisioni e quadri provenienti dai principali musei archeologici dell’Italia meridionale e d’Europa, testimonieranno le tappe fondamentali nei ritrovamenti e negli studi che ci hanno permesso di conoscere la civiltà della Magna Grecia, dal rinvenimento delle tavole bronzee di Eraclea fino ad oggi. E proprio la ricostruzione della storia della ricerca archeologica costituiscono il nuovo elemento metodologico dell’esposizione, che si sviluppa comunque secondo l’ordine cronologico delle sezioni. Per l’occasione torna per la prima volta in Calabria, dove forse è stato realizzato nel 470 a.C. circa, il meraviglioso Trono Ludovisi conservato a Roma a Palazzo Altemps. Tra gli altri prestiti di grande fascino la grande e conturbante Testa marmorea di Apollo Aleo, ritrovata a Cirò e oggi conservata nel museo di Reggio e il famoso Kouros, appena restaurato ed esposto a Reggio, e, sempre dalla Calabria, la laminetta orfica di Hipponion, la moderna Vibo Valentia, materiali dal santuario di Hera Lacinia a Crotone e dagli scavi di Caulonia. Dal Museo Archeologico Nazionale di Napoli provengono, tra l’altro, le tavole bronzee di Eraclea e il corredo dal famoso Ipogeo del Vaso di Dario a Canosa. Dal Museo di Paestum, una metopa dell’Heraion del Sele, grandi decorazioni in arenaria del fregio del tempio dedicato a Hera; dal Museo Nazionale di Reggio Calabria cinque pinakes locresi dal santuario di Persefone alla Mannella, tavolette in terracotta, ex-voto poveri che venivano appesi alle pareti del tempio e rappresentavano riti e cerimonie sacre con la dea come protagonista. Inoltre, la Soprintendenza per i Beni Archeologici della Basilicata darà in prestito, oltre ai materiali micenei dallo scavo di Termitito, molti altri reperti di epoca storica, anche inediti, come i corredi di tombe, di Baragiano, di Policoro e di Alianello. Giuseppe Giannetto REGGIO TRA L’ELLADE E L’ETRURIA Un ciclo di incontri sul patrimonio linguistico dell’area grecanica organizzato da Dimensione Sociale L a globalizzazione e la vorticosa accelerazione della storia, propria dei nostri tempi, impone la necessità di difendere vestigia importantissime del nostro passato. Chi, come il nostro popolo, ha alle sue spalle una civiltà trimillenaria, ha il preciso dovere di salvaguardare le sue radici, anche le più lontane; radici che non consistono sempre e solo in opere d’arte, reperti archeologici o rovine mirabili di antichi monumenti e costruzioni. La lingua, infatti, costituisce il collegamento più intimo e diretto con le generazioni precedenti; con la sua struttura, i suoi fonemi, le sue regole ed il suo lessico, è la misura dei modo di essere di un popolo, dei suo modo di vedere il mondo, delta sua psicologia. Essa è, ad un tempo, la causa ed il mezzo della sua cultura che attraversa i secoli. Studiare la lingua è conoscere l’anima di chi la parla, attraverso la storia. L’estinzione di una lingua è perdita grave ed irreparabile per tutta l’umanità. La nostra terra, la Calabria, nutre, al suo interno, realtà linguistiche importantissime, testimoni di storia e di civiltà, come quelle della comunità dei Greci e degli Albanesi di Calabria, e ancora la piccola comunità di Guardia Piemontese. Per quanto riguarda l’area del calabro-greco della Provincia di Reggio, molto è stato fatto, ma l’impegno per lo studio e la difesa di una minoranza linguistica non deve avere soste, poiché sempre nuovi traguardi si pongono oltre a quelli già conseguiti. Per mantenere l’attenzione su questa importante realtà, Dimensione Sociale, in collaborazione con Esperti e con Associazioni che si occupano dello specifico settore, si propone di realizzare un ciclo di incontri pubblici il cui oggetto non sarà solo strettamente linguistico, ma anche di carattere storico e culturale. Gli incontri saranno tenuti, tra gli altri da prof. Franco Mosino e dal prof. Carmelo Santonocito e si articoleranno nelle seguenti ripartizioni 1- L’area linguistica calabro - greca: realtà minacciata? Aspetti della situazione dopo le previdenze legislative. Che cosa è necessario fare per una corretta politica di difesa dei greco di Calabria: proposte ed obbiettivi. 2- Aspetti linguistici: Greco antico, greco bizantino e calabro - greco, evoluzione ed esiti fonetici, lessicali, grammaticali e sintattici. 3- Altre realtà linguistiche dell’antico meridione d’Italia: messapico, umbro ed etrusco. 4- Etruria e Magna Graecia: la lingua etrusca come lingua confinante. Il “problema” della lingua etrusca. 5- Aspetti storici dell’Italia meridionale preromana. Con questa iniziativa, Dimensione Sociale si propone di coinvolgere non solo la ristretta cerchia degli amatori e degli operatori culturali, ma anche le Istituzioni ed il maggior numero possibile di cittadini, stimolandone la curiosità intellettuale nell’ottica della difesa di un inestimabile patrimonio comune. Per il ciclo degli incontri è prevista la redazione di dispense illustrative della trattazione. - La lingua etrusca e l’area egea: le tavole di Lemno Prof. Carmelo Santonocito Sala Pianeta Gaia via Sbarre Superiori dir. Marconi n. 37 Venerdì 30 settembre - ore 18 - Sala Pianeta Gaia - Rapporti tra calabro - greco e neo greco: una possibilità per il Futuro - Dr. Salvatore Dieni. Vice presidente dell’ass. Jalò tu Vua - Greco, calabro - greco, dialetto calabrese: etimologie, toponimi, esiti - Prof. Franco Mosino - Espansione greca nell’Italia antica: Siracusa, Cartagine ed Etrutia Prof. Carmelo Santonocito - Una testimonianza scritta: le Tavole di Pyrgi- Aspetti linguistici Prof. Carmelo Santonocito Venerdì 24 giugno - ore 18 - Presentazione dell’iniziativa: Dr. Marco Nicolò-segreteria politica Dimensione Sociale. - Panorama dell’attuale situazione linguistica dei calabro - greco: Dr. Salvatore Dieni, Vice presidente dell’associazione Jalò tu Vua - Greco classico, greco bizantino, calabro-greco: aspetti linguistici generali: Prof. Franco Mosino - Cenni di storia dell’talia Meridionale preromana: rapporti tra colonizzazione greca e popoli italici - Prof. Carmelo Santonocito - La lingua etrusca come lingua “confinante”: stimoli e problemi Prof. Carmelo Santonocito Venerdì 16 settembre - ore 18 - Sala Pianeta Gaia - Difesa della lingua calabro - greca: aspetti giuridico legislativi Dr. Bruno Traclò, Presidente dell’associazione Jalò tu Vua - Aspetti di evoluzione linguistica: dal greco classico al greco bizantino - Prof. Franco Mosino - La Magna Graecia tra Punici e Rasna - Prof. Carmelo Santonocito Venerdì 23 settembre - ore 18 - Sala Pianeta Gaia - Il calabro - greco oggi: lingua parlata nell’area: problemi e proposte Dr. Tito Squillaci - associazione Jalò tu Vua - Calabria Bizantina: cultura e spiritualità Prof. Domenico Minuto - Aspetti della realtà dell’Italia Meridionale attorno all’ottavo secolo prima di Cristo: l’inizio della civiltà etrusca, gli Osco-Umbri, i Messapi – Prof. Carmelo Santonocito - Le tavole eugubine come esempio di lingua umbra: rapporti con le Iscrizioni etrusche - Prof. Carmelo Santonocito Venerdì 7 ottobre - ore 18 - Sala Pianeta Gaia - La terra di Bova: una speranza per il futuro - Dr. Bruno Traclò, Presidente dell’associazione JaIò tu Vua - Dal greco bizantino al calabro greco- Prof. Franco Mosino - Messaggi da un tempo lontano: l’importanza della lingua – La Mummia di Zagabria - Prof. Carmelo Santonocito - Dal Mediterraneo e dalla sua storia una identità da non dilapidare Prof. Carmelo Santonocito Dimensione Sociale Dipariento Esteri e Cultura (prof. Carmelo Santonocito) N. 2 / 3 - Luglio - Agosto - Settembre 2005 L ETTERE M ERIDIANE Incontri mediterranei dal 14 maggio al 15 novembre 2005 APPUNTAMENTI Castello Ruffo - Scilla Reggio Calabria Domenica 10 Luglio Compagnia Lavia La Bisbetica Domata di William Shakespeare con Tullio Solenghi regia Matteo Marasco Prima Nazionale E’ un progetto di indagine sulle correnti profonde delle arti visive nei paesi mediterranei. Concepito come un percorso triennale, si sviluppa attraverso tre rassegne successive di periodicità circa annuale e una serie di eventi collaterali dedicati ad altre forme artistiche, cinema, musica e letteratura, oltre a convegni, eventi e manifestazioni rivolte specificamente al territorio. Incontri Mediterranei prevede una ricognizione lungo tutto il perimetro di questo confine mobile e tuttavia persistente, spazio inquieto percorso in tempi recenti da un mosaico di conflittualità e di guerre che tuttavia non riescono a distruggere definitivamente e rendere impraticabile la “cosa comune”, il continuum della storia e della memoria che riaffiora sempre, al di là della disomogeneità dei diversi presenti che le singole aree vivono. L’arte contemporanea con la sua mobilità veloce e versatile, si dimostra essere il territorio più adatto per mettere a confronto la condizione al singolare di ogni individuo e l’appartenenza a una dimensione olistica comune. La curatrice della mostra è Martina Corgnati, torinese, docente presso l’Accademia di Belle arti di Catania e critico d’arte. L a mostra è suddivisa in tre tappe principali: Sud-Est l’Europa delle nuove frontiere - Rotte Occidentali. Ogni tappa, che coincide con un evento espositivo, è dedicata specificamente alle ricerche artistiche contemporanee sviluppate in tre aree distinte del Mediterraneo. La prima, “Sud-Est”, prende in considerazione la zona dal Maghreb al Libano, promuovendo un confronto fra artisti provenienti da quelle aree geografiche e alcuni artisti italiani, particolarmente sensibili a tematiche “mediterranee” quali l’identità, l’appartenenza culturale, la memoria, la Giovedì 14 Luglio Anfitrione …. in Sicilia da Plauto con Enrico Guarneri regia Federico Magnano San Lio Venerdì 22 Luglio il Castello di Scilla tradizione e la perdita delle stesse, cui la contemporaneità globalizzata sta andando velocemente incontro. Costo ingresso Capo Peloro - Messina Singolo 7,00 euro Ridotto gruppi (min. 20 persone) 5,00 euro Ridotto scuole 4,00 euro Gratuito bambini minori 8 anni Il martedì per tutti ingresso 4,00 euro *E’ possibile, previa prenotazione, effettuare la visita guidata al PHO. Il costo della guida è di 45,00 euro (max 20 persone) Costo ingresso - Castello di Scilla- Reggio Calabria Singolo 7,00 euro Ridotto gruppi (min. 20 persone) 5,00 euro Ridotto scuole 4,00 euro Gratuito bambini minori 8 anni Il martedì per tutti ingresso 4,00 euro Parco Horcynus Orca (Capo Peloro e Castello di Scilla) Unico 10,00 euro Capo Peloro e Castello di Scilla con traversata in barcone andata e ritorno (Solo su prenotazione) Gruppo (minimo 15 persone) 24,00 euro Scuole 18,00 euro Gratuito bambini minori 8 anni Orari Apertura: 15 maggio/15 settembre dal martedì alla domenica mattina: 10-13 pomeriggio:16-20 16 settembre/15 novembre dal martedì alla domenica mattina: 10-13 pomeriggio:15-18 lunedì chiuso Per info e prenotazioni: Parco Horcynus Orca Tel. 090-325236 www.horcynusorca.it “Gli Italici del Mètauros” R I risultati degli scavi archeologici eseguiti dalla Soprintendenza nel territorio corrispondente agli attuali comuni di Palmi, Oppido, Gioia Tauro abitati in età Ellenistica da popolazioni Italiche sono presentati in questa mostra. L’esposizione si propone di illustrare, attraverso i passati e recenti rinvenimenti, le testimonianze relative al popolo brettio dei Tauriani che, tra la fine del IV ed il I secolo avanti Cristo, abitò il comprensorio territoriale a sud del fiume Petrace, l’antico Mètauros. Orario: dalle 9.00 alle 19.30; Lunedì chiuso. Dal 29 aprile al 31 ottobre Info: Tel. 0965 812255 “Le pratiche alimentari nella Calabria antica. Un percorso archeologico tra quotidianità e ritualità” Museo Nazionale della Magna Grecia - Reggio Calabria gio tra le mense domestiche, i rituali del banchetto, i sacrifici cruenti e non alle divinità pagane. Attraverso la pratica quotidiana dell’alimentazione una scoperta dei modi di vivere degli antichi, delle usanze e tradizioni e di qualche curiosità. Museo Nazionale di Locri Epizefiri SS 106 Jonica, C.da Marasà Tel. 0964 39003 - Locri Dal 22 Maggio al 31 luglio M Orario: dalle 9.00 alle 19.30; Lunedì chiuso. Dal 28 Maggio al 31 Dicembre. Info: www.archeologia.beniculturali.it - www.beniculturali.it N ell’ambito della rassegna “Cibi e Sapori nell’Italia antica” promossa dal Ministero per i Beni Culturali questa esposizione raccoglie reperti già presenti nelle teche e nei depositi del Museo Nazionale di Reggio Calabria in un percorso che illustra l’universo alimentare della Magna Grecia. Cibi, modi di cottura, approvvigionamenti nell’antica Calabria in un affascinante viag- iparte dal 20 al 27 Agosto 2005 la 25° edizione del Roccella Jazz Festival dal titolo “Le mille e una notte. Favole fantasie frottole follie” con la direzione artistica di Paolo Damiani. Numerosi gli ospiti speciali di questa edizione, dalla cantante israeliana Noa ai nostri Nicola Piovani, Enrico Rava e Danilo Rea, molti dei quali si esibiranno in produzioni originali, composte appositamente per il festival. Teatro, danza, favola e musica uniti in uno spettacolo originale e indimenticabile sotto il cielo estivo della Calabria. Le sedi saranno Reggio Calabria, Gerace, Mammola, Marina di Gioiosa Jonica, Martone e Roccella Jonica 20 AGOSTO REGGIO CALABRIA Arena dello Stretto ore 21,30 “Locri Frons Italiae” ostra Archeologica sulla Locride in Età Romana “Arte antica e segni contemporanei” Parco Scolacium Roccelletta (CZ) Dal 19 giugno al 9 ottobre I nstallazioni monumentali di tre protagonisti indiscussi della scena internazionale: Tony Cragg, Jan Fabre e Mimmo Paladino. Allestite nei suggestivi scorci del Foro, del Teatro romano e della Basilica, riemersi dopo lunghe campagne di scavo. 5 Ecuba di Euripide con Paola Gassman, Sebastiano Tringali regia Giovanni Anfuso Giovedì 28 Luglio La commedia degli errori di William Shakespeare con Giuseppe e Micol Pambieri regia Giuseppe Pambieri Lunedì 1 Agosto Don Giovanni di Molière con Lando Buzzanca regia Lando Buzzanca Giovedì 4 Agosto Mi soledad con Joaquìn Cortès Evento Internazionale Domenica 7 Agosto Patrizia - un giovane amore nel vortice della droga Musical Libretto di Arnoldo Foà Musiche di Fabio Concato regia Roberto Innocente Mercoledì 10 agosto Evento straordinario Stelle internazionali sotto la luna Primo evento Serata d’onore con Giuseppe Filianoti Secondo evento Carillon - il volo del tempo con Kitonb Extreme Theatre Company Prima Nazionale Martedì 16 Agosto Tutto per Eva, solo per Eva di Bruno Tabacchini e Biagio Izzo con Biagio Izzo regia Claudio e Pino Insegno Venerdì 19 Agosto Compagnia della Rancia Pinocchio Musical di Saverio Marconi musiche dei POOH con Manuel Frattini regia Saverio Marconi Mercoledì 23 Agosto Footloose Musical con i ragazzi di “AMICI” regia Patrick Rossi Gastaldi Christopher Malcolm Gli spettacoli avranno inizio alle ore 21.15. Non sarà consentito l’ingresso a spettacolo iniziato. La Direzione si riserva di apportare eventuali modifiche al programma. Lo spettatore è tenuto a prendere visione e rispettare tutte le norme del regolamento interno del Festival Catonateatro. Informazioni: Coop. Polis-Cultura, Via Marina Arena Catonateatro - 89053 Catona - Reggio Calabria Tel./Fax 0965/301092-304054 [email protected] www.catonateatro.it Prenotazione: presso il botteghino del teatro Arena “A. Neri” Via Marina Catona Reggio Calabria Orario Botteghino ore: 9.30-13.00 / 16.00-21.00 Rumori mediterranei Roccella Jazz 2005 Altre Mostre archeologiche Museo Nazionale della Magna Grecia Piazza De Nava, 26 Reggio Calabria Tel. 0965 812255 - 0965 812256 Infowww.museodellacalabria.com CALABRIA La rassegna estiva di Catona Teatro L a rassegna Catona Teatro è giunta alla sua 17° edizione e presenta anche quest’anno un ricco programma di spettacoli che si svolgeranno tra luglio ed agosto all’Arena “Alberto Neri” di Catona - Reggio Calabria. Parco Horcynus Orca Capo Peloro - Messina IN VITTORIO MEZZA pianoforte ALESSIO SEBASTIO pianoforte Prima nazionale ore 22,00 WAYNE SHORTER QUARTET 21 AGOSTO GERACE ore 21,00 DANZA DI UNA NINFA Un progetto inedito su Luigi Tenco di ADA MONTELLANICO e ENRICO PIERANUNZI 21 AGOSTO MAMMOLA ore 21,00 DANILO MONTENEGRO SESTETTO Produzione originale 22 AGOSTO MARINA DI GIOIOSA JONICA ore 21,00 PIETRO TONOLO TRIO 23 AGOSTO MARTONE ore 21,00 STEFANO BOLLANI QUINTET 24 Agosto ROCCELLA JONICA Auditorium Comunale ore 18.00 26 AGOSTO ROCCELLA JONICA Teatro Musica Auditorium Comunale Cinema Musica ore 18.00 CIPRI’ & MARESCO regia ENRICO RAVA tromba SALVATORE BONAFEDE pianoforte Teatro al Castello ore 21,00 Produzione originale “PER ROCCELLA” musiche di Germano Mazzocchetti EGEA ORCHESTRA Teatro al Castello ore 22.30 Produzione originale NOA ACUSTIC BAND & SOLIS STRING QUARTET Special Guest NICOLA PIOVANI pianoforte 25 Agosto ROCCELLA JONICA Auditorium Comunale ore 18.00 Favola Musica PIERINO E IL LUPO da Prokofiev IVANO MARESCOTTI voce recitante STEFANO BOLLANI pianoforte Teatro al Castello ore 21.00 Produzione originale TRIBUTE TO KENNY WHEELER Special guest: Kenny Wheeler tromba e flicorno Teatro al Castello ore 22.00 JOHN GREAVES PROJECT “RoXsongs” Omaggio a Lisi Natoli IL CANTO DELL’ALFIERE CRISTOPH RILKE tratto da un racconto di Rilke, traduzione e adattamento di Lisi Natoli Teatro al Castello ore 21.00 DANILO REA pianoforte ENZO PIETROPAOLI contrabbasso a seguire ENRICO PIERANUNZI pianoforte LOUIS SCLAVIS clarinetti Teatro al castello ore 22.00 LE MILLE E UNA NOTTE SHÉHÉRAZADE Con Arnoldo Foa e Lella Costa 27 Agosto ROCCELLA JONICA Auditorium Comunale ore 18.00 Danza Musica LOUIS SCLAVIS clarinetti VIRGILIO SIENI danza Teatro al Castello ore 21.00 ROSSINTESTA in viaggio con PAOLO ROSSI e GIANMARIA TESTA Teatro al Castello ore 22.00 MICHAEL NYMAN BAND Il programma potrà subire variazioni Info: www.roccellajazz.it e-mail: [email protected] Tel. 06 3222896 - 0964 863399 6 APPUNTAMENTI IN L ETTERE M ERIDIANE SICILIA N. 2 / 3 - Luglio - Agosto - Settembre 2005 KALS’ART 2005, cultura e Etnafest, alle pendici spettacolo nel quartiere arabo del vulcano… C oncerti nelle piazze, teatro, cinema. Il quartiere arabo della Kalsa tra luglio, agosto e settembre sarà il luogo più animato di Palermo; visite guidate nelle chiese e nei musei aperti di sera; un parco d’arte con installazioni e luminarie d’autore lungo strade e vicoli; botteghe artigiane e gastronomiche allestite in appositi stand. Nella grande isola pedonale in una cornice estremamente suggestiva ritorna dal 1° luglio al 15 settembre la seconda edizione di Kals’art, la manifestazione promossa dal Comune, diretta da Davide Rampello. Teatro nell’atrio di Palazzo Bonagia, cinema allo Spasimo, la musica a Piazza Kalsa e a piazza Magione, tutto il quartiere fino al Foro Italico nella via marina sarà coinvolto in una kermesse estiva indimenticabile. Musica - Cinque le sezioni in cui è stato diviso il cartellone, che prenderà il via il 1° luglio. “Maree” vedrà alcune tra le realtà più celebri sulla scena internazionale: dai Madredeus ai francesi della Nouvelle Vogue;e poi, una carrellata di straordinarie voci femminili: da Rokia Traorè, considerata la più brava cantante africana dell’ultima generazione, a Erica Stuky, da Franca Masu a Sandra Luna, da Cristina Donà a Maria Pia De Vito, da Mafalda Arnoux a Victoria Tolstoj. Nella sezione “Riflessi” un insolito confronto fra artisti e strumentisti a volte di tradizioni diverse e a volte coinvolti in associazioni spericolate, fra musica etnica, minimalista e jazz; qualche coppia: Gebbia-Regèf, Guerzoni-Mirandola, Sciaino-Curran e i duo tutti palermitani Leopizzi-Gullo, Giannetto-Politi, Pasquini-Sulis e Bonafede-D’Anna. In “Mare aperto” solo rock: quello dei Modena City Ramblers, dei Devendra Banard, dei Mamabassa, degli Agricantus, dei Delano e dei Jentle. Tante altre le proposte, fra cui “Musica alle parole”, dove protagonista sarà il rapporto, appunto, fra musica e parole, con concerti inframmezzati da letture. Teatro dal 1° al 31 agosto a Palazzo Bonagia - Al centro del cartellone, l’idea di teatralizzare la grande narrativa: nel senso di proporre celebri romanzi fra ‘800 e primi ‘900, opportunamente riadattati. Nella rassegna “Teatro narrato” troveremo 14 spettacoli in programma, “Le affinità elettive” di Goethe con Edoardo Siravo, “Alice nel paese delle meraviglie” di Lewis Carroll con Milena Vukotic, “Lo strano caso del Dottor Jekyll e Mr. Hyde” di Stevenson con Franco Castellano, “Forte come la morte” di Maupassant con Flavio Bucci, “Il ritratto di Dorian Gray” di Oscar Wilde con Giancarlo Zanetti; ma ci saranno anche alcune novelle di Verga e “Le metamorfosi” di Kafka con i nostri Franco Scaldati e Roberto Burgio. E si chiuderà con un “omaggio” a Gianrico Tedeschi, autore e protagonista di un suo recital. Teatro ai Giardini della Zisa dal 25 al 31 luglio- sette serate “a sorprePalermo - Palazzo Bonagia sa”, di luci, parole, musica e danza, su “Le mille e una notte”; e alcuni spettacoli della sperimentazione più sensibile, per le regie di Geroger Lavaudant, Emma Dante, Claudio Collovà, Franco Scaldati ed Enzo Moscato. Cinema dal 12 agosto Complesso monumentale dello Spasimo - Il film noir sarà la punta di diamante della rassegna cinematografica, curata da Mario Bellone e Franco Marineo, con sei “classici” hollywoodiani appositamente restaurati. Una sezione speciale sarà, poi, dedicata ai rapporti tra cinema e letteratura, coinvolgendo alcuni tra i migliori “giallisti” italiani. Ed un’altra sarà dedicata alla cinematografia dell’Estremo Oriente. Previsti, poi, una serie di documentari centrati sulla realtà politica contemporanea e sul cinema italiano cosiddetto “minore”; in alcuni casi, saranno “prime” per Palermo. Porte aperte la sera per i tesori di palazzo Abatellis e del Museo di palazzo Mirto, delle chiese della Catena e della Magione, di San Giovanni dei Napoletani, della Gancia e della Pietà, degli oratori di San Lorenzo e dei Bianchi. E ancora, palazzo Chiaramonte, il Museo internazionale delle Marionette e il Gymnasium dell’Orto Botanico. Per informazioni: www.kalsart.it Gli eventi delle Officine Il Festino, il volto mistico e popolare di Palermo dell’Arte di Palermo U na maratona all’insegna della cultura, attraverso la realizzazione di mostre, workshop, proiezioni, laboratori, teatro e convegni, allo scopo di ampliare il numero dei fruitori d’arte contemporanea, rilanciando il ruolo dei Cantieri culturali alla Zisa come motore di cultura e di sperimentazioni. Tutto questo è “Le Officine dell’arte”, progetto realizzato dall’assessorato alla Cultura del Comune in collaborazione con l’Accademia di Belle Arti, che si protrarrà fino al 16 dicembre Alcuni eventi hanno già avuto luogo alla Zisa a partire da febbraio di quest’anno: Prima parete, confronto/esposizione fra studenti delle Accademie di Belle Arti di Palermo e Catania; Cine…teca, in cui il critico Philippe-Alain Michaud (conservatore responsabile della collezione di film al Centre Pompidou) ha presentato una sezione sulle Avanguardie storiche e sull’underground americano, tratta dalle collezioni cinematografiche del Centre parigino, mentre da sabato 2 aprile al 30 giugno lo spazio Tre Navate è stato dedicato alla festa di Santa Rosalia, patrona di Palermo; Reinvenzione del Festino, scenografie e metamorfosi: gli studenti dell’Accademia di Belle Arti di Palermo daranno vita a una libera interpretazione dei manufatti e delle macchine sceniche dei Festini passati. Le vecchie scenografie sono state riprodotte, smontate, rielaborate e riutilizzate in originali allestimenti, dando vita ad una sorta di archivio in progress dell’immaginario collettivo di un’intera comunità. Venerdì 25 marzo, nello spazio Grande Vasca, ha preso il via Il luogo del dubbio che, fino al 16 dicembre, vedrà i giovani artisti dell’Accademia dare vita a opere en plein air a tema libero nello spazio della Grande Vasca che diverrà, perciò, luogo di riflessione e indagine sui linguaggi dell’arte contemporanea. Nella Galleria Bianca è già iniziato anche il progetto Nomadismi, il set dell’arte che dal 14 marzo si protrarrà anch’esso fino al 16 dicembre: saranno organizzati laboratori con gli studenti dell’Accademia delle Belle Arti e selezionati vari progetti (di scultura, scenografia, pittura, installazione, video e fotografia) formulati dagli stessi studenti, che avranno come tema il “nomadismo”, inteso come fondamento culturale della ricerca artistica contemporanea. Si svolgeranno workshop, durante i quali si darà vita a scambi fra artisti di Paesi diversi. Ogni due mesi gli elaborati verranno esposti al pubblico. Dal 14 ottobre al 14 novembre, nello spazio Grande Vasca e nello Spazio Tre Navate, sarà allestito Passport #2: Emergenze dall’Accademia delle Belle Art, una ricognizione sulla ricerca artistica giovanile, fra produzione e sperimentazione di nuovi linguaggi. Dal 4 novembre al 16 dicembre, nello spazio Tre Navate, Il teatro e i suoi doppi, un laboratorio sulla drammaturgia siciliana, attraver- Palermo - Spasimo so pratiche della scrittura scenica. T ra fede, leggenda e storia ritorna a Palermo il festino di Santa Rosalia, patrona della città, che sarà rappresentato il 14 e 15 luglio per la 381esima volta. Lo spettacolo che Patrick Brydone definì nel 1773 “il più bello d’ Europa” quest’ anno sarà ancora una volta all’insegna della tradizione con le coreografie firmate dall’americano Daniel Ezralow. Quattro grandi attori faranno rivivere la storia della città salvata dalla peste dal miracolo di Santa Rosalia nel 1624. Remo Girone, Jean Sorel, Roberto Herlitzka e Marco Foschi nei panni rispettivamente del Viceré Emanuele Filiberto di Savoia, del Cardinale Giannettino Doria, del Narratore Don Marco Gezio e del pittore fiammingo Anton Van Dyck. La storia inizia con l’arrivo dell’artista olandese, giunto per ritrarre il Viceré che morirà colpito dal contagio che sta devastando Palermo. A prendere il suo posto alla guida della città il Cardinale, fino all’intervento miracoloso della Santa, le cui reliquie erano state da poco ritrovate presso il Monte Pellegrino. La figura del narratore, introdotta quest’anno, sarà quella di Marco Gezio, cappellano della cattedrale e collaboratore di Doria, appassionato d’arte e estimatore di Van Dyck. La città della gioia (quella trovata dal pittore) e la città del dolore (dilaniata dalla peste) rappresenteranno i due quadri principali che si svolgeranno nel piano del Palazzo Reale e della Cattedrale. Le musiche sono di Mario Sbroglia. Motivi colti e popolareschi, echi arabeggianti e secenteschi saranno eseguiti da 15 cantanti in scena che si esibiranno insieme ai danzatori. Il carro proseguirà fino ai Quattro Canti, dove il Sindaco offre la corona di fiori alla Santa, e alla Marina, davanti a Palazzo de Seta, sotto un gazebo di luci, dove resterà fino a settembre, in continuità con le manifestazioni culturali di Kals’art. Subito dopo lo spettacolo di fuochi di artificio al Foro Italico conclude il Festino con il tradizionale Palio di arti pirotecniche. E tnafest è una rassegna di arte, musica, cinema che si svolge tutto l’anno nella zona di Catania. Iniziati nella primavera 2005 gli spettacoli continuano senza sosta per tutta l’estate con la collaborazione del comune e della provincia di Catania e della Regione Sicilia e grazie anche al Centro Culturale Le Ciminiere. L’edizione 2005 è di nuovo affidata per la direzione artistica a Gianni Morelenbaum Gualberto, per la sezione musicale, e al poeta Angelo Scandurra per la sezione culturale. Ecco alcuni degli appuntamenti: 22 LUGLIO 2005 GILBERTO GIL “ELETRACUSTICO” Anfiteatro di Zafferana Etnea Posto unico € 10.00 Gilberto Gil è uno fra i massimi e più acclamati esponenti della musica brasiliana, oltre ad essere Ministro per la Cultura brasiliano. 28 LUGLIO 2005 - “THE POSIES” Anfiteatro Le Ciminiere Posto unico € 5.00 - Fuori rassegna C on la partecipazione di Ken Stringfellow, chitarrista dei R.E.M, in occasione del 5° Tributo a Francesco Virlinzi. LO SCIROCCO E L’ETNA Voci e Forme a Catania nel ‘900 16 LUGLIO – 18 SETTEMBRE / Centro Culturale Le Ciminiere orari: 10.00 - 13.00 / 17.00 - 22.00 chiuso lunedì - ingresso libero S i tratta di una vasta mostra di opere di pittori, scultori e letterati della Catania del dopoguerra. Il tentativo è quello di stigmatizzare un periodo storico ricco di avvenimenti e di personaggi che hanno fatto di Catania un luogo di importanti eventi artistici. Per la prima volta si vuole “leggere” fra le pagine culturali rimaste per troppo tempo in oblio. Catania ha rappresentato e rappresenta sicuramente una delle più ardenti fucine del pensiero artistico. Si parla di “scuole” di varie città italiane, ma finora nessuno ha voluto raccogliere il vasto e interessante patrimonio legato alla “scuola” catanese. Questa iniziativa vuole essere un punto di partenza per cominciare a scrivere e ad annoverare il fermento che ha sempre contraddistinto le menti artistiche e non, di questa ammaliante e gesticolante città. O MONDO, QUESTO SEI TU! Antologia di spoon River 16 LUGLIO / Anfiteatro Le Ciminiere Ore 21.15 - ingresso libero C on l’intervento di grandi interpreti e con relativo intervento musicale, saranno lette le pagine più toccanti dell’antologia di Lee Masters che ricreano attraverso le epigrafi scritte sulle tombe la storia di una città. La solitudine, la corruzione e la disperazione di coloro che appaiono vincitori nella nostra epoca vengono additate dalle storie dei semplici che ci richiamano al nostro amaro destino di poveri mortali. La manifestazione sarà realizzata dal Gruppo Teatro dell’Undici di Catania con la regia di Antonio Reina. COME NEL MARE L’ONDA Costanza d’Aragona la regina dei Vespri 30 LUGLIO / Anfiteatro Le Ciminiere Ore 21.15 - ingresso libero N ella figura e nella vita della Regina di Sicilia Costanza d’Aragona è compendiato un intero periodo storico segnato dalla dominazione angioina e poi aragonese nell’Isola e culminante nel marzo 1282 nella rivolta dei Vespri siciliani contro gli odiatissini francesi, evento carico di segni simbolici e significati mitici sia dal punto di vista storico-politico sia da quello artistico-letterario. Su un tessuto intriso di autobiografia il personaggio di Costanza, nel ricucire fatti e misteri che la videro protagonista o testimone, potrebbe aprire delle “finestre” verso i documenti letterari dell’epoca (quasi mezzo secolo, a partire dalla morte di Federico). Gli episodi così ricostruiti saranno introdotti da canti e ballate dell’epoca. La manifestazione, con protagonisti grandi interpreti, sarà realizzata dal Piccolo Teatro di Catania con la regia di Gianni Salvo. TI PORTERO’ DAI MONTI FIORI ALLEGRI Poesie d’amore di tutti i tempi 24 SETTEMBRE / Anfiteatro Le Ciminiere C on l’intervento di grandi interpreti saranno lette le pagine più toccanti delle poesie d’amore di tutti i tempi con appropriato accompagnamento musicale. La manifestazione sarà realizzata dal Teatro del Molo 2 di Catania con la regia di Gioacchino Palumbo. Info: www.etnafest.it L ETTERE M ERIDIANE N. 2 / 3 - Luglio - Agosto - Settembre 2005 7 Salvatore Quasimodo, il poeta e la sua terra impareggiabile I luoghi che ispirarono il celebre premio Nobel divenuti Parco Letterario S alvatore Quasimodo è autore-simbolo di una poesia del “distacco”, una poesia volta alla ricerca di un’originaria innocenza. La parola del poeta si sottrae alla storia e alla società, per collocarsi in una dimensione assoluta, la stessa descrizione esclude, pertanto, riferimenti puntuali alle cose, prevale, infatti, la tendenza all’astrazione e alla mitizzazione, secondo l’insegnamento ermetico. Con un’arte che ricorda quella dei poeti greci della sua Sicilia, Quasimodo, dissolve il discorso poetico, al fine di isolare la parola nel suo più alto tono, l’immagine nella sua purezza illuminatrice, dandoci il senso della sua faticosa solitudine, della sua ansia di un paradiso perduto e oscuramente ricordato. Nel periodo “postermetico”, pur continuando a adoperare modi espressivi densi e analogici, giunge ad esprimere una volontà “sociale”, vicina nello spirito se non nelle forme alle aspirazioni del “neorealismo”. “La vita non è sogno” è una breve raccolta di nove liriche, dove ai temi posti dalla guerra ne succedono altri posti dal dopoguerra, soprattutto quelli sociali. Nella lirica Lamento per il Sud, Quasimodo, ormai stabilitosi nell’Italia settentrionale, ripensa al suo Sud lontano, in anni nei quali l’antica “questione meridionale” si riproponeva con urgenza dando luogo a movimenti politici e a scritti di sociologia, di economia, di letteratura. Lo ripensa con la sua miseria e il suo fascino, e intanto lo mitizza e lo piange con un sentimento, fatto d’amore, dolore e rabbia. Federica Legato NOTE BIOGRAFICHE S alvatore Quasimodo nasce a Modica (Ragusa), in Sicilia, il 20 agosto 1901. Nel 1908 si trasferisce con il padre, ferroviere, a Messina, distrutta dal terremoto. Segue gli studi tecnici a Palermo e nel 1919 va a Roma per studiare ingegneria. Ma deve lavorare per vivere: impiegato al Genio civile, è trasferito a Reggio Calabria. Nel 1929 va a vivere a Firenze, su invito di amici legati all’ambiente della rivista “Solaria”, sulla quale nel 1930 pubblica le prime poesie. Nello stesso anno esordisce con la raccolta Acque e terre. Nel 1932 esce l’Oboe sommerso. Ma il lavoro lo costringe a vari spostamenti, finché si stabilisce a Milano, dove riesce a trovare un’attività stabile come giornalista. Nel 1942 esce Ed è subito sera, che raccoglie tutta la produzione precedente. E intanto lavora a numerose traduzioni dei classici latini e greci, oltre che di Shakespeare e di pochi moderni. Pubblica altre raccolte di versi: Giorno dopo giorno (1947), La vita non è sogno (1949), Il falso e vero verde (1956), La terra impareggiabile (1958), Dare e avere (1966). Dal 1941 insegna letteratura italiana al Conservatorio musicale milanese, senza abbandonare mai l’attività giornalistica e partecipando attivamente al dibattito letterario e politico. Legato prima al clima della letteratura ermetica degli anni Trenta e poi a quello dell’impegno neorealistico tra 1943 e il 1956, Quasimodo resta nella sostanza sempre fedele ad una concezione della poesia come momento di sintesi delle contraddizioni (personali e storiche) e come punto di vista superiore e privilegiato. Nel 1959 gli viene assegnato il premio Nobel per la letteratura. Muore improvvisamente a Napoli il 14 giugno 1968. Lamento per il Sud La luna rossa, il vento, il tuo colore di donna del Nord, la distesa di neve… Il mio cuore è ormai su queste praterie, in queste acque annuvolate dalle nebbie. Ho dimenticato il mare, la grave conchiglia soffiata dai pastori siciliani, le cantilene dei carri lungo le strade dove il carrubo trema nel fumo delle stoppie, ho dimenticato il passo degli aironi e delle gru nell’aria dei verdi altipiani per le terre e i fiumi della Lombardia. Ma l’uomo grida dovunque la sorte d’una patria. Più nessuno mi porterà nel Sud. Oh, il Sud è stanco di trascinare morti in riva alle paludi di malaria, è stanco di solitudine, stanco di catene, è stanco nella sua bocca delle bestemmie di tutte le razze che hanno urlato morte con l’eco dei suoi pozzi, che hanno bevuto il sangue del suo cuore. Per questo i suoi fanciulli tornano suoi monti, costringono i cavalli sotto coltri di stelle, mangiano fiori d’acacia lungo le piste, nuovamente rosse, ancora rosse, ancora rosse. Più nessuno mi porterà nel Sud. E questa sera carica d’inverno è ancora nostra, e qui ripeto a te il mio assurdo contrappunto di dolcezze e di furori, un lamento d’amore senza amore. Il parco letterario tra Modica e Roccalumera dedicato al poeta siciliano I La casa natale di Salvatore Quasimodo l “Parco Letterario Salvatore Quasimodo - La terra impareggiabile” nasce dall’idea di Alessandro Quasimodo, unico erede vivente di Salvatore, di riunire in Sicilia coloro che hanno contributo a divulgare le opere quasimodiane nei luoghi di ispirazione del celebre premio Nobel: Francesco Giunta e Maria Elena D’Angelo dell’associazione Cielozero di Palermo, i fratelli Carlo e Sergio Mastroeni di Roccalumera dell’associazione Impegno Civile e Walter Buscema ed Ernesto Ruta che con lo staff della cooperativa Etnos di Modica hanno avviato il primo nucleo della casa museo Quasimodo a Modica. Questi soggetti sono ora a vario titolo coinvolti nell’attuazione del progetto del Parco Letterario. Finalità dell’iniziativa è la valorizzazione dei luoghi dell’ispirazione poetica, facendo rivivere la poesia nei territori che la hanno determinata: Modica (città natale del Poeta), Roccalumera (luogo di origine della famiglia Quasimodo) cui sono collegati Messina, Tindari, le Eolie, Siracusa, l’Anapo con Pantalica ed Agrigento. Questi sono luoghi che conservano intatto il fascino delle radici di Quasimodo, nella Sicilia che lui stesso definì “la terra impareggiabile”. La sua poesia così canta di quel mondo mitico in cui vibra il segreto di una parentela misteriosa, affascinante, crudele e vivi- ficante, tra l’uomo, i miti greci ed il fascino della terra di Sicilia. Entrare a contatto con quella poesia di Quasimodo significa aprirci alla nostalgia di un modo sacrale di intendere la natura e la nostra vita e di trovarne, insperate, le connessioni. Il Parco Letterario ha due poli in cui sono presenti delle strutture fisse, in particolare a Modica: della Casa Natale di Quasimodo in via Posterla è stata ampliata la struttura del nucleo iniziale aggiungendo altri elementi relativi alla vita di Quasimodo; la Quasimodoteca sita sulla piazza principale della città: un percorso scenograficamente articolato all’interno di essa consente una virtuale immersione nella poesia. Nella Quasimodoteca è possibile reperire attraverso sistemi multimediali tutte le opere di e su Quasimodo, servizio accessibile tramite internet con il sito www.quasimodo.it. Nella città di Modica, i quartieri del centro storico sono valorizzati con l’inserimento di otto pannelli in ceramica portanti altrettante poesie di Quasimodo, cosicché i visitatori “fai da te” avranno possibilità di seguire degli itinerari cittadini quasimodiani. Vicino Taormina la Torre Saracena di Roccalumera che ispirò Salvatore Quasimodo per la poesia “Vicino ad una Torre Saracena”, costituisce l’elemento principale del Parco nel paese jonico. È un antico manufatto che in epoca medievale fu utilizzato per la difesa delle coste dagli assalti dei pirati saraceni. All’interno del suggestivo sito ricavato nella Torre è allestita una esposizione permanente di guaches di Quasimodo, e viene fatta rivivere la voce del poeta. Roccalumera è luogo di un viaggio sentimentale che, prendendo le mosse dalla Torre Saracena, si snoda per l’antico quartiere dei pescatori detto “u’ bagghiu” (in dialetto messinese indica la zona abitata dai pescatori) attraversando l’antica via Consolare Valeria costruita dai Romani. I luoghi dell’infanzia di Quasimodo nella suggestione ancora viva della realtà folkoristica, gastronomica e tradizionale del luogo fra cui la pesca ancora oggi viene effettuata con imbarcazioni e metodologie tradizionali potranno essere scoperti dal visitatore. Sarà occasione di ammirare il mare di Roccalumera dal colore blu denso che contrasta con il verde delle colline folti di limoni profumati e si confonde con l’azzurro del cielo e con lo sfondo della Calabria. Gli enti proponenti sono stati le associazioni Cielozero di Palermo, Impegno Civile di Messina, la cooperativa ETNOS di Modica e la Provincia Regionale di Messina. I referenti sono Giuseppe Walter Buscema (Modica) e Sergio Mastroeni (Roccalumera), ente beneficiario è la cooperativa ETNOS di Modica. Infoline, direzione ed amministrazione: Corso Umberto I, 242 MODICA - Tel. 0932 753864 Orari di apertura: 10,00-13,00 / 17,00-20,00 - chiusura domenica mattina Centro di accoglienza di Modica presso Casa Natale Quasimodo: Via Posterla MODICA - Tel. 0932.753864 Centro di accoglienza di Roccalumera presso Torre Saracena: Via Umberto ROCCALUMERA - Tel. 0942.744719 e-mail: [email protected] Internet: www.quasimodo.it L ETTERE M ERIDIANE 8 N. 2 / 3 - Luglio - Agosto - Settembre 2005 Corrado Alvaro, universalità e cosmopolitismo delle civiltà mediterranee Il grande scrittore calabrese alla scoperta della verità, delle cose, dell’uomo A ll’inizio di “Memoria e vita”, Alvaro racconta che suo padre voleva che il suo primo figlio fosse poeta. Forse per questo motivo, cominciò in versi, con le “Poesie grigioverdi” (19151917), ma di certo tutta la sua opera in prosa è opera d’un poeta e d’un poeta lirico. Un autore che trae poesia da ciò che è razionalmente intelligibile quanto da ciò che fa parte del suo mondo interiore. Corrado Alvaro è stato uno degli scrittori contemporanei più rappresentativi e originali. Nato a San Luca (Reggio Cal.) il 15 aprile 1895, che a quel tempo era un piccolo villaggio abbarbicato ai piedi del massiccio aspromontano. In questo particolare ambiente di fine ‘800, Alvaro rimase fino all’età di dieci anni. I migliori come dirà più tardi. Lascerà in seguito la sua amata terra per proseguire gli studi, stabilendosi per anni a Roma, la città nella quale morirà all’età di 61 anni, l’11 giugno 1956. A quasi cinquant’anni dalla sua morte, Alvaro resta uno scrittore sotto molti aspetti impenetrabile. Egli volle precisare di vivere come una “doppia vita”, quella normale della propria quotidianità e quella letteraria del racconto, inventando “sulla trama dell’esperienza e della memoria una seconda vita che non conosce età”. Aveva vissuto a lungo in Germania e ne aveva assorbito umori e cultura, nel segno del mito che lo riportava direttamente alle sue origini mediterranee. “Il Mediterraneo è istinto, intuizione; prima che parlino in lui i motivi di vita lo spingono le ragioni ideali e istintive. L’intuizione delle razze mediterranee è stata il motore del mondo”. In tal modo, Alvaro, sottolinea “l’universalità e il cosmopolitismo delle civiltà mediterranee”. Proprio per questo, nella sua complessa figura, possiamo scorgere le facce di una stessa medaglia: l’uomo mediterraneo e lo scrittore europeo. Egli, infatti, si mostra mediterraneo per nascita e per vocazione; ama il mondo mediterraneo con i suoi ulivi e le sue agavi, il suo mare e le sue montagne. Nella produzione letteraria alvariana sono rintracciabili i valori, i limiti, i modelli e le istituzioni della cultura mediterranea. Ma, Alvaro è, allo stesso tempo, uno scrittore europeo, perché come pochi fu animato dalla volontà di dialogo con altre culture, e riconobbe il principio secondo il quale, la vera cultura è un patrimonio collettivo, una ricchezza universale che porta con sé le peculiarità delle singole etnie, senza mai trascurare l’orgoglio per la propria tradizione. “Noi siamo cresciuti, la natura è rimasta infante…e noi andiamo cantando nei nostri viaggi, i beni di cui disponiamo, le piccole cose che paiono felici, i paesaggi che hanno consolato molti prima di noi. Fuggiamo da luogo a luogo, cercando un’intimità che non troviamo perché questo è il mondo dei padri, pieno dei loro ricordi e del loro senso della vita. Che non è più il nostro”. Alvaro narra e descrive, procedendo per immagini sobrie e scultoree e per brevi notazioni psicologiche, che hanno il potere di farci penetrare in quella regione oscura dell’anima umana, dove hanno origine i sentimenti più spontanei generati dagli istinti, dai ricordi, dalle nostalgie, dalle sensazioni lontane, dai desideri più intensi e meno “ Ho sentito dire da molti stranieri che è una delle più belle d’Italia. Io non so perché l’amo. Ma so che si fugge e si rimpiange con la sua pena; si torna e si vuole fuggire: come con la casa paterna dove il pane non basta”. Corrado Alvaro, Calabria in fuga (in Un treno nel Sud) identificati. Egli visse ed operò in un periodo critico della nostra storia, tra il 1895 e il 1956, un periodo durante il quale le condizioni socioeconomiche del Paese, soprattutto nel meridione, erano di estrema arretratezza che si contrapponeva alla crescente urbanizzazione; anni in cui si succedettero le distruzioni di due guerre mondiali, nonché l’avvento ed il crollo del fascismo. “Ero antifascista per temperamento, per cultura, per indole, per inclinazione, per natura… non perdono che mi si dia del vile, quando nella mia vita ho fuggito sempre il sospetto della viltà, anche se posso esser caduto in qualche piccola viltà, come accade a tutti gli uomini, ma che mi rimorde. Odio la viltà perché diminuisce l’uomo, lo rende meno efficiente. Purtroppo la mia vita migliore è passata in un tempo in cui la viltà era di rigore.” Alvaro non poteva essere un narratore puro. Senza averne piena consapevolezza, ma con risultati di fortissima suggestione, egli si colloca nella cornice di quella “narrativa senza romanzo”, che costituisce la novità del secolo scorso. In modo drammatico, per lo scrittore venuto dai paesi remoti dell’Aspromonte dove la nebbia di notte si posa sulle case addormentate “come un respiro” e la luna nel cielo “pareva un pane”, la modernità è una cittadinanza da conquistare. Dell’uomo moderno ha colto le forze che lo lacerano, da un lato la memoria, la nostalgia dell’innocenza, dall’altro lato l’amara disposizione ad essere ferito e ingannato. Pietro Pancrazi, che forse fu uno dei suoi critici più congeniali, nel 1931 scriveva: “Q UALCHE SETTIMANA FA , HO INTESO C ORRADO A LVARO PARLARE IN PUBBLICO IN UNA ILLUSTRE SALA FIORENTINA CHE È SEMPRE PER UNO SCRITTORE NON TOSCANO UNA BELLA PROVA … PARLAVA DELLA SUA CALABRIA, E CALABRESE RESTÒ. C ON QUELLA SUA FACCIA CHE SEMBRA UN PUGNO CHIUSO VISTO DI PROFILO , SI POSE DI FRONTE ALLA SALA E PER UN’ORA DISSE IL FATTO SUO….; COSA SU COSA E QUASI CON UN SENSO DI NECESSITÀ. CI AVEVA MESSO LE MANI DENTRO E SEMBRAVA INTRIDERE UNA FARINA, IMPASTARE UN PANE. SPARPAGLIAVA LONTANO LE SUE IMPRESSIONI , I RICORDI, I PROVERBI, LE FIGURE DELLA SUA TERRA, LI LASCIAVA ANDARE; E POI AD UN TRATTO, CON UN ACCENNO … DELLA MANO TOZZA, LI RACCOGLIEVA, LI RIBADIVA A SÉ. RIAPRIVA, POI, LA MANO DI TAGLIO, A MEZZ’ARIA, E GLI RIDAVA LA VIA . D ICEVA E TORNAVA A DIRE… IL PUBBLICO INTESE . N ELL ’ ORATORE CHE VOLEVA , MA NON RIUSCIVA A STACCARSI DAL TEMA , AVVERTÌ QUALCOSA DI INSOLITO , UNA VERITÀ, UNA POESIA… SCOPPIARONO ALLA FINE , A DUE TRE RIPRESE, QUEGLI APPLAUSI FITTI, SECCHI, CHE SI FANNO A GOLA STRETTA. L’ORATORE IN PIEDI SI ILLUMINÒ UN MOMENTO APPENA, E QUASI DI STUPORE ; POI SI RICHIUSE, E VENNE VIA CON LE BRACCIA LENTE E IL PASSO LUNGO DEL CALABRESE CHE HA ANCORA MOLTO DA CAMMINARE” . Un ritratto ricco di significati, intessuto di quella angosciosa inquietudine che lo ha accompagnato per tutto il corso della vita, e che lo stesso Alvaro definì “curiosità viva dei fatti moderni”. “La novità del mondo era tanta che non riuscivo a contenerla… la vita era così bella che certe notti non dormivo aspettando il giorno seguente”. Il suo capolavoro “Gente in Aspromonte” (1930), che rievoca la natia Calabria, è uno stupendo affresco dai colori intensi sul quale si muovono creature ricche di intima vita e di significato poetico. La verità, le cose, l’uomo: è questa la trinitaria tessitura tematica, quella che di continuo rivive nelle pagine di Alvaro. Quasi tutti i protagonisti dei suoi romanzi sono degli sconfitti, degli antieroi, che hanno però il privilegio di tentare. I vincitori sono soltanto nella proiezione del mito che si sovrappone alla realtà, affidati al messaggio della parola, che da letteraria diventa sociale e politica. “La descrizione dei pastori in Aspromonte si imprime nella nostra mente per la sua efficacia e per l’alone di poesia che la circonda. L’Autore ci rappresenta prima i pastori nella loro vita esteriore e fisica: ci parla dei loro vestiti, dei loro cibi, dei loro giacigli; poi, quando noi siamo sul punto di chiederci se esseri ridotti ad una esistenza così dura e quasi animalesca possano avere una vita interiore, ecco che egli ci descrive i loro sentimenti, i loro sogni, i loro desideri e mette nelle sue parole il calore di una simpatia umana che si comunica anche a noi e sentiamo che essi trovano conforto al triste presente, solo pensando al dolce giorno del ritorno, quando “appenderanno la giacca e la fiasca all’albero della pianura”. Corrado Alvaro è stato un vero profeta “umano”, che ha cercato di portare in salvo i valori umani, liberandoli da tutte quelle sovrastrutture che ci impediscono di vedere la realtà con “occhi puri”. Note Bibliografiche Corrado Alvaro, l’Aspromonte e l’Europa Atti del Convegno - Reggio Cal. (Novembre 1978) Casa del libro Editrice Reggio Cal. (1981) Alvaro, uomo mediterraneo, scrittore europeo Atti del Convegno – San Luca (19-20 aprile 1995) Gente in Aspromonte C.Alvaro - Ed.Garzanti Milano, 1970 Prosatori e Poeti Italiani e Stranieri C.Baj – G.A. Pellegrinetti Ed. Petrini, Torino, 1966 Federica Legato La Calabria. Libro Sussidiario di cultura regionale - Calabria di Corrado Alvaro Iiriti Editore, Reggio Calabria, 2003 pp. 106 - € 16,00 l 1925 fu anno duro per Corrado Alvaro, il quale aveva pubblicato un “profilo” di Luigi Albertini che I era un violento atto d’accusa contro il fascismo. Lo scrittore, in difficili condizioni economiche, accettò la proposta dell’editore Carraba di curare una collana di sussidiari e di antologie per le scuole. Nacque così La Calabria. Libro Sussidiario di cultura regionale, pubblicato dall’editore di Lanciano nel 1925. Il libro, spesso citato, introvabile, propone un “catasto” di quella “civiltà che scompare” che lo scrittore di San Luca evocò tra malìe e rimpianti; una terra di miti e memorie, magica e aspra, ricca di misteri e di leggende a cui Alvaro dà voce tra ricordi e storie e ricomponendo i tanti volti di questa regione con la gravità che gli è propria. Un testo in cui non è difficile trovare molte di quelle figurazioni che animano Gente in Aspromonte e tanti altri scritti di Alvaro sulla Calabria, e quei dati dell’esperienza che nei suoi racconti si trasformano in immagini “d’una gravità a volte involuta” ma di una verità inoppugnabile. Un libro che ancora conserva il suo fascino e la sua valenza, che qui si propone in edizione anastatica insieme a un altro scritto di Alvaro, il testo di Calabria, la conferenza tenuta al “Lyceum” di Firenze nel 1931 e pubblicata nello stesso anno dall’editore Nemi. Due testi che vanno letti come testimonianza del sofferto e controverso sentimento di uno scrittore che “Parlava della sua Calabria”, “e calabrese restò”, secondo la nota definizione di Pietro Pancrazi, ma anche come partecipazione lucida di una coscienza al dramma della sua terra. N. 2 / 3 - Luglio - Agosto - Settembre 2005 L ETTERE M ERIDIANE 9 Il riflesso del Mediterraneo La Parigi negli occhi di Alvaro di Corrado Alvaro Viaggio in Turchia di Corrado Alvaro A cura di Anne Christine Faitrop Porta Falzea Editore pp. 272 - € 16,00 l Viaggio in Turchia di Corrado Alvaro, pubblicato da Treves nel I 1932, viene ristampato in nuova edizione. Alla precedente si aggiungono oggi articoli dispersi e un racconto sulla Turchia, mai compreso in raccolta, una lunga novella ambientata a Parigi e a Istanbul e il capitolo dedicato al soggiorno in Grecia e in Turchia dal 1931 nel diario Quasi una vita del 1950 che vinse il Premio Strega nel 1951. In questa edizione, il Viaggio in Turchia è preceduto da un’Introduzione di 45 pagine e seguito da un’accuratissima Nota ai testi con interessanti passi eliminati dall’edizione del 1932. La curatrice, Anne Christine Faitrop-Porta, professoressa all’Università della Corsica, continua l’opera di riscoperta degli scritti di Corrado Alvaro, sul quale ha pubblicato 4 dei suoi 12 libri: Lettere parigine nel 1997, Il viaggio nel 1999 e Colore di Berlino. Viaggio in Germania nel 2001. Il Viaggio in Turchia è uno dei più belli mai pubblicati, un sublime omaggio al Mediterraneo. Alvaro fu uno dei primi scrittori viaggiatori. In Puglia, dove inizia il viaggio, in Turchia e in Grecia, Alvaro interpreta l’architettura, come già a Parigi e a Berlino, come poi a Mosca, quale traduzione della necessità degli uomini, tanto spirituali ed estetiche quanto materiali. Descrive le moschee “bolle venute su dal mare abissale” con il minareto “albero chiaro di questa terra senza alberi”, la “rotondità femminile” delle tombe nei cimiteri che sprizzano vita, le case greche a mo’ di tempietti, i ponti romani, le strade italiane e la “sinfonia equivoca e squisita” di Istanbul “tutta dorata di fritture”. Pianure e nubi, cielo e monti si uniscono in veri poemetti in prosa. È Ankara, attendamento “in piena steppa”, nuova capitale, a tradurre l’”assalto all’avvenire”, l’ambizioso progetto della repubblica turca che dal 1923 è subentrata all’impero degli ottomani che regnavano dal 1453. Mustafà Kemal, primo presidente della giovane repubblica, ne ha fatto un “regno razionale e insieme chimerico” che contrasta il lungo passato della sua gente, nomade e religiosa, come testimonia la festa del Bairam, alla quale accorrono i turchi con il tappetino colorato, “terreno d’incontro con Dio”. Sopprimendo i conventi, imponendo il costume occidentale con l’abolizione del velo per le donne e del fez per gli uomini, “quel nonnulla pesante”, introducendo nuovi codici sul modello europeo e sostituendo l’alfabeto arabo con quello latino, Kemal si mostra “internazionale e insieme autoctono”. La sua forza è di appoggiarsi sulle radici profonde del suo popolo. Tuttavia ad Alvaro non sfuggono le ritrosie dei turchi che stentano ad imparare il nuovo alfabeto e ad adottare il cappello. Lo scrittore non nasconde i gravi problemi della nuova Turchia, come la mortalità infantile, le carenze dell’agricoltura e dell’industria, la latitanza della borghesia e degli intellettuali. Come già a Berlino e poi in Russia, Alvaro accusa l’influsso dell’America che esporta cappelli, grammofoni e film, violentando le tradizioni, mentre elogia l’Europa che sta riscoprendo il genio delle razze. In Turchia, Alvaro ricorda l’Italia e a Brussa, la fontana suona come la voce “d’un amico ritrovato” e sembra di sentire l’eco delle acque della Calabria, che vibra nell’Itinerario italiano, pagine che l’editore Falzea ha inserito nell’agile volume Memoria e vita pubblicato nel 2001 nella collana di narrativa per ragazzi Il melograno. Stupenda è la liricità del Viaggio in Turchia, nel quale si moltiplicano con arte abilissima le figure stilistiche. È la profusione dei colori a colpire il lettore: il turchino di Corinto, il viola dell’Anatolia, il grigio rosa di Rodi, il grigio rosso delle Cicladi, il giallo “fulgido” in Puglia, “carico” a Cipro, “luminoso” ad Atene perché è il “colore di tutta l’arte greca”. Solo il lirismo è in grado di tradurre l’armonia che in Turchia e in Grecia regna tra la natura e l’arte, che si fondono nella “duna” delle cupole nel “museo di pietra” delle strade e nel “mare ghiacciato” di uno stadio ad Atene. Questo Viaggio in Turchia è infatti anche un viaggio in Grecia, che si chiude sull’Acropoli, è un ritorno al grembo del Mediterraneo, da Itaca “mantello caldo come il ricordo dei lari” alla “perfezione finita” di Atene e alla “forza vitale” di Roma. È “l’antico mare” a costituire per i popoli più vari “una patria sola” e a concepire nei suoi miti “le angosce della vita moderna”. Il Viaggio in Turchia illustra le diverse sfaccettature di Alvaro tra scrittura, pittura, teatro e cinema, e due articoli sono animati da tecnica grammatica e cinematografica; ma anche tra diario scarno e lirico itinerario, tra le verità menzognere della realtà e le menzogne veritiere della finzione. Così il racconto riscoperto che assume toni pirandelliani, offre della Turchia tradizionale una preziosa immagine che completa il viaggio, quasi un’arcana gemma rimasta celata. Per Alvaro il vero non si specchia, ma si riflette e solo la poesia consente di penetrare oltre i paesaggi e le apparenze, per raggiungere l’essenza di un paese, le fonti della storia, le radici dell’essere. Paolo Falzea Note Biografiche C orrado Alvaro nasce a San Luca il 15 aprile 1895. Primogenito dei sei figli di Antonio, maestro elementare, e di Antonia Giampaolo, figlia di agiati proprietari. In quel piccolo paese dell’Aspromonte, trascorre un’infanzia felice. Terminate le scuole elementari, viene mandato a proseguire gli studi nel famoso collegio di Mondragone, a Frascati, diretto dai Padri Gesuiti. Dopo i primi anni di Ginnasio viene espulso perché scoperto a leggere testi considerati allora proibiti: l’Intermezzo di rime di D’Annunzio e l’Inno a Satana di Carducci. Frequenta, quindi, il collegio di Amelia (Pg) e in seguito il Liceo “Galluppi” di Catanzaro. Si dedica alla lettura impegnata ed esordisce come giovane scrittore con la pubblicazione di un opuscolo: Polsi, nell’arte, nella leggenda, e nella storia (1912). Nel 1914 pubblica le prime poesie su il Nuovo Biricchino Calabrese. Nel 1915 è chiamato alle armi. Rimasto ferito ad entrambe le braccia, paga il suo personale tributo alla guerra; una sofferenza che la medaglia d’argento non riuscirà a lenire. Il braccio destro lo tormenterà per il resto della vita. Entrò, su segnalazione di Giuseppe Antonio Borgese, come redattore al “Resto del Carlino”. Nel 1916 pubblica “Poesie grigioverdi”, che cantano il tormento della propria e dell’altrui esperienza di guerra. L’8 aprile 1918 sposa la bolognese Laura Babini e un anno e mezzo dopo nasce il suo primogenito, Massimo. Viene chiamato al “Corriere della Sera” di Luigi Albertini. Nel 1920 si iscrive al terzo anno di lettere all’Accademia scientifico-letteraria, in base al decreto che riguardava i reduci di guerra, e pubblica la sua prima raccolta di novelle La siepe e l’orto. Lascia il Corriere della sera perché si ritiene impegnato in mansioni troppo umili, e si trasferisce a Roma. Scrive su Il Tempo e Il Resto del Carlino. Dal 1921 soggiorna a Parigi e scrive il suo primo romanzo L’uomo nel labirinto. Chiamato al “Mondo” da Giovanni Amendola è prima corrispondente da Parigi, e successivamente redattore, appena rientrato a Roma. Firmatario del manifesto antifascista di Croce, difese fisicamente Adriano Tilgher e fu, a sua volta, processato da una squadraccia fascista; nell’ottobre del 1928 fu costretto per l’impossibilità di continuare la collaborazione con i giornali, con la quale viveva, a trasferirsi a Berlino. Ritornato in Italia, collaborare con varie Testate: La Stampa, Novecento, La Fiera Letteraria. Nel 1930 pubblica Gente in Aspromonte, considerato il suo capolavoro. Nel ’34 pubblica da Mondadori il romanzo Il Mare e Terra nuova un volume che gli verrà da molti rinfacciato come difesa delle imprese del Fascismo. In questo periodo scrive anche su Il Messagero. Nel ’38 annulla improvvisamente il contratto che lo legava all’editore Mondadori e offre a Bompiani il romanzo L’uomo è forte, per il quale viene insignito con il Premio dell’Accademia d’Italia. Nel gennaio 1941 torna per l’ultima volta a San Luca per i funerali del padre. Nel ’43 assume la direzione de Il Popolo di Roma. In seguito all’occupazione tedesca, è costretto a fuggire, sotto falso nome, in Abruzzo, perché colpito da mandato di cattura ed in pericolo di vita. Nel ’44 fonda insieme a F.Jovine e Libero Bigiaretti il Sindacato Nazionale degli Scrittori, di cui sarà segretario fino alla morte. Nel dopoguerra si schiera risolutamente con il Fronte progressista, assumendo posizioni ideologicamente decise, che non gli consentono di rimanere a lungo nella direzione de Il Risorgimento. Nel 1951 vince il Premio Strega con Quasi una vita. Giornale di uno scrittore. Nel ’54 è costretto a sottoporsi a un intervento chirurgico per un tumore addominale, inizialmente ritenuto benigno. Ristabilitosi, pubblica su Confluence, prestigiosa rivista dell’Università di Harward, un lungo saggio dedicato ai problemi dell’Italia meridionale. Mondadori gli affida l’incarico di curare l’edizione delle novelle di Luigi Pirandello. Stende una lunga ed impegnata introduzione che uscirà postuma. Il 20 aprile 1956 esce su Il Corriere della Sera il suo ultimo articolo. Muore all’età di 61 anni, nella sua casa di Piazza di Spagna, l’11 giugno 1956, per l’aggravarsi della malattia per la quale si era sottoposto all’intervento chirurgico, lasciando alcuni romanzi incompiuti e vari altri inediti. Tra le sue opere più importanti: L’amata alla finestra, 1928; La Signora dell’Isola, 1930; Vent’anni, 1930; L’età breve, 1946; Mastrangelina, 1960; La Calabria, 1925; Viaggio in Turchia, 1931; I maestri del diluvio. Viaggio nella Russia Sovietica, 1935; Un treno nel Sud, 1958; Ultimo diario 1959; Lunga notte di Medea, 1949. I reportage del 1950 pubblicati oggi in Francia Paris sans fard - Un reportage italien de 1950 di Corrado Alvaro pp. 156 - € 13,00 Prefazione di Anne Christine Faitrop Porta Cahiers de l’Hotel de Gallifet diretta da Paolo Grossi ISTITUTO ITALIANO DI CULTURA - PARIS opo tanti lavori, condotti in Italia, volti a sottolineare il D carattere poliedrico dell’opera di Corrado Alvaro, anche in Francia, e precisamente all’Istituto Italiano di Cultura di Parigi, si è sentita la necessità di aggiornare la critica sull’attività dello stesso autore. È in questo contesto, e nella “Collana Cahiers de l’Hotel de Gallifet” del medesimo istituto, che si inserisce la pubblicazione Paris sans fard – un reportage italien de 1950”, una del volume “P selezione di testi giornalistici pubblicati da “Alvaro” sul quotidiano “La Stampa” ai tempi del suo secondo soggiorno parigino. La prefazione di Anne-Christine Faitrop Porta introduce alla conoscenza di Corrado Alvaro che, nato in Calabria nel 1895, conosciuto soprattutto per aver scritto “Gente in Aspromonte” (1930), è anche autore di articoli come inviato speciale del quotidiano “La Stampa”. La scelta, rivolta ad una serie di tredici testi (anno 1950) che evidenziano le caratteristiche precipue della scrittura di Alvaro “inviato speciale”, è stata effettuata grazie agli studi condotti dall’Università di Caen ed alla collaborazione dell’Istituto di Cultura di Parigi, dove il volume è stato presentato il 19 maggio. La misura dell’enorme successo è stata data dall’emozione nel vedere così tanta gente, non calabrese, non italiana, attenta agli interventi dei relatori, tanto che il lungo ed interessante dibattito instaurato con essi è stato interrotto per la consueta chiusura giornaliera dell’Istituto. Tornando al volume è da notare che negli articoli di Alvaro il riferimento ai monumenti, ai musei della città, non avviene mai direttamente, ma essi sono sottilmente inseriti nei ricordi sparsi un po’ ovunque nella sua corrispondenza. Fra tutti i quartieri di Parigi lo scrittore sceglie la “Senna” per fermarsi nei dettagli descrittivi, trascinando anche lì il suo animo calabrese di uomo di montagna che ben sa l’importanza dell’acqua. L’ironia dello scrittore affiora nel contrapporre ai luoghi più mondani, un posto crudamente popolare: il mercato delle pulci. L’autore riesce a cogliere lo spirito degli abitanti parigini, quell’amalgama di antico e moderno che tollera il contrasto, negli stessi posti, tra negozi fastosi e modeste botteghe. Doveva essere un uomo del sud, figlio di contadini meridionali a cogliere lo spirito parigino, quella particolare “allure” determinata dal tono contemporaneamente perentorio e cortese, un viaggiatore, che vivendo i lunghi silenzi delle montagne, aveva certo capito che l’obiettivo stava nel cogliere i particolari del viaggio e non la meta. Paolo Falzea L ETTERE M ERIDIANE 10 N. 2 / 3 - Luglio - Agosto - Settembre 2005 La ricerca cinematografica e l’amor Festival Internazionale dei Circoli L’importante appuntamento ritorna con due interrogativi. Qual Un festival ha “avuto luogo” “A vere luogo”, questa sembra essere la vena sotterranea che percorre i film dell’ultimo Festival dei Circoli del Cinema, svoltosi a Reggio Calabria dal 7 all’11 Giugno. “Avere luogo” significa trovare radicamento, avvertire un sentimento di solidarietà con gli spazi in cui si vive. Significa sottrarre alla mancanza di significato i luoghi, trovare in essi una densità simbolica che li faccia apparire unici. Il movimento che preme per la “delocalizzazione”, in favore della matematizzazione e massima resa economica degli spazi, resi tutti uguali l’uno all’altro, sembra essere uno degli effetti più diffusi e perversi, a livello mondiale, di questa congiuntura socio-politica. Ma ad esso si contrappone un confortante e spontaneo movimento di resistenza, che milita per l’ “amor loci”, inteso come dimensione pregna di significato. Lo si nota in Maquillas, film di Giuseppe Gaudino e Isabella Sandri: dalle zone interne del Messico la miseria costringe all’autodeportazione per lavorare in fabbriche sorte grazie ad un programma governativo che consente alle multinazionali americane di assumere a basso costo e alti ritmi di lavoro in una città dalla drammatica situazione ambientale, dove le condizioni di vita e la dimensione “domestica” e familiare sono completamente escluse. Ciudad Juarez non è altro che un immenso dormitorio-cloaca. Tutto questo naturalmente prima che le dismissioni delle fabbriche si avviino, per dare adito all’ennesimo trasferimento in luoghi dove il costo del lavoro è ancora più basso e il potere agli operai quasi nullo, abbandonando alla miseria e allo sradicamento i lavoratori messicani, come emerge dalla notevole scena in cui una famiglia di una lavoratrice, ancora legata ai “luoghi sacri” della foresta, nella sua modestia sembra condurre una vita più serena di quella della figlia che vive in città. Altrettanto legati alla propria terra d’origine, luogo sacro di cui si riconoscono miti e densità simbolica anche da lontano, sono le storie d’emigrazione meridionale di Una patria che non ci appartiene e Ti vedranno a Cosenza. Sebbene nelle nuove generazioni si formi un’identità differente dalle precedenti, la persistenza di dimensioni “simboliche” forti è radicata. Ne rende testimonianza la ragazza settentrionale “emancipata” di Una patria che non ci appartiene, trasferitasi in Germania per insofferenza delle “rigidità” familistiche del suo paese, che però una volta lì, dichiara di trovarsi meglio con gli italiani, non dovendo discutere con loro di banalità come il cibo, che però sono “identitarie”, o ancora Flying misters, nel quale si sperimenta duramente la distanza della propria terra dai propri sogni e ideali (il concerto rock) e nonostante questo si continua ad avvertirla come “propria” e semanticamente “ricca”. Il radicamento si forma anche condividendo il genius loci di posti dove la delocalizzazione economicistica è lontana, come la Sardegna interna che l’artista Pablo Volta sceglie, in un documentario dedicatogli da Giovanni Columbu, come “residenza” e terra d’elezione, declinando i motivi di questa preferenza in virtù dell’ “avere luogo”, o come si forma costruendo l’identità attraverso atti socializzanti radicalmente “moderni” come l’apertura di un cinema in Abre el Helvetico o trova l’orgoglio della sua sussistenza anche in zone dalla difficile abitabilità come la Calabria arcaica di EllenoFonie o l’India di Invisibili e Terzo mondo che si vogliono preservare da una modernizzazione “sradicante”. L’ultimo film da citare che riassume la posizione dell’ “avere luogo” dell’intero festival è Entre duas terras, film di chiusura. È la storia di un paesello portoghese destinato ad essere sommerso dall’acqua che confluirà in una diga in costruzione. Gli abitanti del nuovo paese, nonostante sia distante pochi chilometri dal vecchio, non riescono a fare “mente locale”, come dice Franco La Cecla, non riescono a ritrovare i percorsi mitici e simbolici che costituiscono una terra al di là delle architetture. Una strada non è solo una strada, è un coacervo di significati, più evidenti e nascosti, che non si possono riprodurre trasportandoli altrove, anche ricostruendo tutto a menadito. L’ “aver luogo” è questione di spazi e di tempi precisi. Le sezioni I l festival si è snodato, come sempre, in più sezioni, alcune monografiche, altre miscellanee. La sezione “Don Quijote”, quest’anno divenuta competitiva, ha raccolto le produzioni qualitativamente più interessanti, cioè quelli dove la forma si sposa meglio con la sostanza: di questa sezione, infatti hanno fatto parte Traveller and Magician con la sua dimensione trasognata e poeticizzante e Vanya, col suo bianco e nero “fiammeggiante” (ossimoro nel quale è contenuta la ricchezza e ambiguità del breve film) che si innestano su vicende di “fuga” da una condizione di localizzazione, sociale ed esistenziale, che non si riconosce più propria. La forte presenza dei lungometraggi in pellicola, più rari nelle altre sezioni, segnala il carattere più tradizionalmente da “festival cinematografico” di questa, e come si diceva un più spiccato senso della composizione e all’estetica formale dell’immagine, determinata anche dal supporto. Una vetrina ricca di significati è stata quella offerta dal “Progetto Cinema dei Balcani” ad un gruppo di film che, nella sua interezza e compattezza di filmografia monografica ha scarse occasioni di visibilità. A un primo sguardo sul corpus filmografico proveniente dalla ex Jugoslavia, un po’ intuitivo e senza particolari mediazioni storiche o teoriche, sembra che in questi film domini un’atmosfera di sospensione. Gesti trattenuti, aria d’attesa, il ricordo della guerra dietro l’angolo: questo sembra essere lo spirito del tempo. Si avverte una curiosa sensazione di comunanza con certi film italiani degli anni ottanta o dei primi anni novanta come L’aria serena dell’Ovest di Silvio Soldini, dove insabbia e toglie il respiro la sensazione diffusa d’essere sopravvissuti ad una crisi che si trascina degli strascichi intimi insormontabili (come emerge dai sogni tormentati e dalle inquietudini del soldato-genitore in Tu/Qui). La disfatta si fa sociale e quello che poteva essere rigetto per una situazione concreta (la guerra) si fa incapacità di affrontare una qualunque situazione di disagio sociale, o meglio si fa presentimento dell’impossibilità di abbattere il muro che la società oppone ad una qualunque coesione che faccia rimuovere i problemi (ad esempio la malattia o la droga di Zurka/La festa). La via d’uscita sembra essere l’attesa Jean Vigo immobile di un intervento messianico, il quale non si capisce se sia mistico, metafisico, o il suo opposto. È una popolazione “consumata”, sfibrata sia nelle generazioni più recenti che in quelle per le quali la guerra è stata solo l’ultima delle esperienze di una vita che in passato ha avuto il proprio centro in altro. Non si riesce ad opporre un piano ideale rinnovato e personale, al massimo si riesce ad imitare gli ideali degli altri o a rivangare il passato, mentre attorno tutti corrono in un affanno del movimento senza scopo, vacuo, quasi compensatore dell’impossibilità di proporre un credibile sistema di vita e di pensiero. Si veda in proposito La festa dove dei giovani operano il tentativo di costruire un brandello di normalità “occidentale” chiusi, come nel Decameron, in una casa di campagna lontani dalle ambasce della città, imponendosi la finzione d’essere soggetti ai modi di vita dei giovani dell’Occidente ricco e “rilassato”, dove i soli problemi sono i rapporti interpersonali e la gestione del possesso degli oggetti, non riuscendo a riconoscere la propria “differenza” e specificità orientale e balcanica di paese dall’identità eterogenea e di paese in guerra. Ma tra di loro e appena fuori dalla villa le tensioni sono latenti (anche concretamente nei posti di blocco dietro l’angolo): c’è chi scappa dalla chiamata alle armi, chi è malato, chi nasconde pulsioni sadiche, chi non sa gestire la comunicazione col prossimo. Oppure Tu/Qui dove le peregrinazioni di un famoso attore di sceneggiati televisivi si scontra con la violenza insensata di un gruppo di ragazzi o con le tensioni livide che scatena nella sua ex moglie. Infine Esame di maturità/Ispit zrelosti che pur parlando di generazioni molto al di là negli anni e che dunque legittimamente potrebbero nutrire distacco nei confronti dei loro tempi, sembra introdotto nel quadro che si sta tracciando: un ex professore, a distanza di 57 anni dal suo esame di maturità, torna smarrito a Sarajevo per chiedere ai suoi ex compagni di scuola se mai avrebbero potuto immaginare al tempo dell’esame, o anche solo al quarantesimo anniversario di esso, lo smembramento della Jugoslavia. Anche quando si sorride lo si fa a denti stretti o avvertendo il sottofondo ferale dello humour (come in Dolce profumo di naftalina/Slatti miris naftalina dove le gag nascono dal ritorno in vita di una donna, la nonna della protagonista Danica, estratta “fisicamente” da una lapide per soccorrere le ansie quotidiane della nipote alle prese con un rapporto sbagliato: i morti sono più vitali dei vivi e ci si attende dal loro intervento salvifico, dalla vitalità di altre generazioni, ormai perduta nell’oggi, una soluzione “fantastica” all’angoscia della paralisi. Proprio da questi scarti fantastici nascono i brandelli di luce, le piccole zone dove l’ottimismo si spande. Nei sogni di Danica, nell’amore poetico e fuori dal mondo del giovane infermo di mente in Tu/Qui, nel balletto semi-astratto delle luci della città e del pagliaccio-zombie di 8,5 minuti di una notte…/Osam ipo minuta jedne noci…, nella straordinaria pianura rimodulata e resa fiabesca da Josef Nadu che un breve documentario su questo autore misconosciuto rivela in maniera folgorante. Egli sembra possedere un tocco e un lavoro sul profilmico a mezzo tra Fellini e Paradzanov, come è giusto aspettarsi da un autore di una “terra di mezzo” fra Oriente e Occidente come i Balcani. N. 2 / 3 - Luglio - Agosto - Settembre 2005 L ETTERE M ERIDIANE 11 loci: lo spazio e l’indagine sociale al del Cinema a Reggio Calabria è la sua esatta identità? E perché la città che lo ospita lo ignora? Certamente il primo teorizza la fuga nel sogno, il secondo nella follia, il terzo nell’estetismo delle “cose”, il quarto nelle nostalgie del bel tempo che fu e della natura che si oppone alla cultura delle macchine, nessuno ha il coraggio di prendere di petto la realtà, ma è già un primo passo e la ferita è fresca d’altronde. Le sezioni “Children and Youth Films” e “Sebastiano Di Marco” sono orientate l’una a mostrare produzioni che riguardano l’infanzia e l’adolescenza più che racchiudersi nella categoria angusta del “film per ragazzi”, l’altra, come di consueto, a fornire una panoramica su alcune interessanti e neglette (quantomeno alle nostre latitudini) produzioni nazionali, con uno sguardo particolarmente attento alla realtà meridionale e ai suoi registi. In entrambi i casi la dimensione sociale ha avuto ampio spazio, concedendo alle questioni della vita concreta delle popolazioni coinvolte – il lavoro per garantirsi il sostentamento in primo luogo e tutte le conseguenze psicologiche della sua ricerca o della sua realizzazione –. Altrettanto attenta alla questione dei diritti e alla sua estensione a livello mondiale è la sezione “Cineclub New Network”, usuale “finestra sul mondo”, che divulga spesso questioni delle quali si ha notizia in maniera molto approssimativa o come eco lontana, e mostrandole in tutta la loro urgenza drammatica e purtroppo pervasiva, diffusa a tutto il mondo. Una visibilità e un impatto “rivelatore” delle difficoltà comuni, in cui si trovano uomini di tutte le età sparsi in tutte le latitudini, che fa impallidire la piattezza di tante immagini televisive, edulcorate anche quando vorrebbero essere reportage. Ne dà contezza, uno per tutti, Childhood among mines/Infanzia fra le mine straziante testimonianza della vita offesa cui sono obbligati i ragazzi colpiti dalle mine attraverso le parole di uno di essi costretto all’amputazione, che fa il paio con un altro film, altrettanto commovente, El hijo de la luna/Il figlio della luna dove si racconta la storia di un bambino costretto a vivere di notte per una rara forma di intolleranza alla luce, fatto questo che lo condanna nella sostanza a non avere più una vita comune con i suoi coetanei oltre che gettare nella prostrazione e provocare disagi economici alla sua famiglia. I genitori divengono il solo strumento di svago per il bambino, ma il lavoro e la stanchezza conseguente non sono conciliabili con i ritmi del figlio, intanto le chiazze del piccolo crescono portando con sé il loro carico di angoscia per una morte che può essere imminente. Quando le storture del mondo si misurano sulle afflizioni “fisiche” dei bambini, nella loro quotidianità e “normalità” documentaristica, la loro dissennatezza emerge con un’evidenza immediata spazzando via mille petizioni di principio, dichiarazioni d’intenti, buoni propositi e immagini ad effetto di tanti servizi televisivi e film “impegnati”. Talvolta mostrare la banalità del male senza troppi fronzoli “taglia l’occhio” molto più della retorica, per quanto ben costruita. Questi film semplici e brevi stanno lì a dimostrarlo. Infine va menzionata la retrospettiva dedicata a Jean Vigo, alla presenza di Luce Vigo, occasione per rivedere le opere del cineasta francese. Tra queste spicca per la sua freschezza rispetto a quelle “celebrate” e notissime la meno conosciuta Taris, che, pur nella sua dimensione di film d’occasione semidocumentaristico, rivela straordinari “deragliamenti” nella dimensione spaziale e temporale attraverso i meccanismi di rallentamento, ripetizione e inversione della direzione di scorrimento dei fotogrammi, oltre che un principio d’indagine della “destrutturazione” del corpo del nuotatore molto moderna e vicina a questioni che oggi sono all’ordine del giorno. A queste e ad altre questioni si è accennato in una tavola rotonda sul regista fra il critico Emile Breton, Luce Vigo e l’urbanista Enrico Costa, nella quale si è potuto fare il punto del dibattito critico sul regista, ripercorrendo la sua biografia e ricollegando la sua poetica e la sua figura ad alcune delle esperienze artistiche (in senso lato, non esclusivamente cinematografiche) e politiche a lui contemporanee: dall’anarchia all’impressionismo, dal futurismo alle esperienze architettoniche. L’identità del Festival P er quanto riguarda le questioni organizzative, in particolare il rapporto fra il festival e i suoi fruitori, va sottolineato con forza che grandi problemi dall’esterno non ne sono emersi, se non qualche ritardo o spostamento nelle proiezioni, che comunque sono il pane quotidiano di ogni festival che si rispetti e in ogni caso sono rimasti ampiamente al di sotto della media. Piuttosto va rilevata con soddisfazione, per l’ennesima volta, la presenza dei delegati internazionali e nazionali dei circoli del cinema (o corrispondenti istituzioni per i rispettivi paesi) e di molti registi delle opere visionate. Presenza colorata e che contribuisce alla circolazione e allo scambio di idee, oltre che interna al gruppo, anche col resto della città. Certamente i delegati conserveranno un’immagine della nostra città legata ad un evento di crescita culturale e, per quel poco che avranno potuto godere della città (che è fatta anche di cittadini e non solo di strade e di piazze) avranno contribuito ad un turismo consapevole e maturo, che persegua la logica dello scambio e non quella del saccheggio o dell’ottundimento fra monumenti e cibi tradizionali “inventati”. Da quel poco che ho potuto discutere con i delegati (italiani ovviamente) e col pubblico la cosa che sembra più evidente nella composizione del festival è la sua struttura diarchica, con un polo indirizzato verso il “cinema cinema” e l’altro più attento alle questioni sociali e politiche, che si traducono solitamente anche in una suddivisione di formati, l’uno in pellicola l’altro in digitale. Questa composizione sembra essere una dimensione che stupisce e talvolta turba. Da parte dei delegati sembra esserci più una richiesta di “cinema cinema”, di modo che si ritrovino nell’atmosfera familiare dei festival di cinema tradizionali. A mio parere al festival gioverebbe un’identità unitaria e una riconoscibilità forte, al fine di essere individuabile immediatamente come la manifestazione nella quale si possono vedere un certo tipo di cose molto ben determinate. Per me, ed è un opinione condivisa da altri con cui ho discusso, questa identità dovrebbe costruirsi non tanto sul “cinema cinema”, riproponendo l’ennesimo festival uguale agli altri e disperso nel magma delle mille manifestazioni simili in Italia, quanto sfruttare proprio quella vocazione già interna al festival reggino del fare uscire il cinema da se stesso, porsi come obiettivo l’attenzione alle nervature del sociale, ai disagi comuni e al tema dei diritti (e d’altronde già il festival si concede incursioni nel sociale puro come gli interventi della Fondazione Falcomatà o del comboniano Padre Giovanni Ladiana per rendere noti dei progetti sull’istruzione nel terzo mondo e sull’accoglienza dei migranti). Se, pur mantenendo la prestigiosa denominazione di Festival Internazionale dei Circoli del Cinema”, si apponesse l’ulteriore appellativo di “Festival dei popoli e dei diritti” o qualcosa di simile e si indirizzasse la scelta dei film in maniera ancora più diretta e più spinta alla selezione di quelli che illustrino tali argomenti, si valicherebbe l’ostacolo delle perplessità di chi si attenderebbe, vista la denominazione, più 35 mm e più fiction, e in più si guadagnerebbe in riconoscibilità, in virtù di un’identità forte e in pubblico, attirando chi magari al cinema è meno propenso ma più sensibile a misurarsi con le tematiche della passione civile e civica. Questo non è un festival che ha bisogno di sezioni competitive (d’altronde le competizioni sono discutibili in tutti i festival) e, in fondo, non ha bisogno nemmeno che i film presentati siano particolarmente raffinati dal punto di vista formale o dell’estetica pura, né tanto meno di costruire “macchine spettacolari” roboanti. Tale incombenza spetta ad altro tipo di festival, con altri obiettivi primari. Il Festival dei Circoli del Cinema ha ormai una sua identità ben strutturata, nobile ed austera, orientata sull’indagine dei diritti e delle questioni d’urgenza sociale, ha solo bisogno che que- Il film Vanya di Christina Zulauf sta identità diventi patrimonio diffuso, venga comunicata con maggiore ampiezza, e a tale scopo l’orgoglio di riconoscersi in essa e il rafforzamento dell’organicità della stessa attraverso questi piccoli accorgimenti segnalati, mi sembrerebbe la strada più proficua. Per realizzare un tale proposito, che corrisponderebbe ad una crescita sostanziale del Festival sono necessarie due cose: disponibilità ad una maggiore apertura e risorse maggiori. Per la disponibilità è facile provvedere, ad esempio, di fronte ad un eventuale incremento dei finanziamenti, resistendo alla “tentazione” di allargare il parco film per dedicare le nuove risorse a marketing e promozione. Ma sono discorsi che lasciano il tempo che trovano di fronte alla sordità istituzionale lamentata da un, solitamente combattivo, questa volta preoccupantemente sconfortato, direttore del Festival, Paolo Minuto. Se davvero i motivi dello scarso sostegno fossero quelli addotti dal direttore (e non mi risulta vi siano state smentite di fronte a una dichiarazione pubblica, sintomo più di disinteresse che di una vera e propria presa di posizione, e non so quale sia il male minore), ovvero una preclusione dovuta a motivi “banalmente” politici, sarebbe davvero una condizione avvilente, di fronte alla quale il senso d’impotenza e di accerchiamento che qui e là si respirava in sala avrebbe qualche motivo di essersi scatenato. Fate salve queste considerazioni, e presupponendo con animo pio che un giudizio del genere, di tale rozzezza da sembrare poco credibile, non si sia espresso e immaginando che la scelta di non sostenere il Festival sia scaturita piuttosto da una ponderata scelta di politica culturale, anche in questo caso la decisione apparirebbe, sebbene legittima, ampiamente discutibile. Turisti o visitatori? I n città ultimamente si è discusso di una vocazione “turistica della stessa (cosa poi vorrà dire…). È forse tempo di chiedersi quale tipo di turismo questa città dovrebbe porsi l’obiettivo di attrarre, questione strettamente correlata alla politica culturale. Il termine “sviluppo” è un termine complesso e naturalmente ha a che fare con la crescita qualitativa e non esclusivamente quantitativa. Altrimenti si dovrebbe indicare come “sviluppo” la disordinata crescita urbanistica della città degli ultimi anni. Quando si parla di turismo si conviene che esso contribuisca allo sviluppo, poi, però, si aggiunge “economico”. È questo il punto: “più turisti” non significa “città migliore”. L’invasione delle “orde barbariche” e le loro “perdite sul campo” di lattine, bottiglie di birra e bucce d’anguria o la trasformazione del centro cittadino in un luna park stile riviera romagnola, con corollario l’impennata dei prezzi per “dissanguare” i turisti, immagino (ma purtroppo non ne ho la certezza…) non sia auspicabile da nessuno. Lo sviluppo è dato dalla coesione sociale dalla qualità della vita. Un turismo stile Rimini significa svuotamento reciproco. I turisti passano come le cavallette e “consumano” occasioni di svago standardizzate, che potrebbero trovare identiche ovunque. Non si può certo chiedere a un Festival “serio” e rigoroso come quello dei Circoli del Cinema, che prova a misurarsi anzitutto con altre manifestazioni internazionali simili e non – con tutto il rispetto – con la sagra della melanzana, di farsi carico dell’intera questione turistica cittadina, ma la strada corretta la ha tracciata in quello scambio fra cittadini e visitatori “consapevoli”, come sono i delegati dei Circoli del cinema che si incontrano a Reggio. Se accanto al Festival dei Circoli del Cinema, al quale andrebbe dato modo di crescere e sopravvivere, ci fosse una rete di altre manifestazioni analoghe, magari immaginando una cornice che sappia mediare fra qualità e quantità, come tutto attorno a noi si sta capendo (dal Festival delle Invasioni di Cosenza all’Ortigia Festival di Siracusa, dall’Etna Fest di Catania al Kals’Art di Palermo, dalla tradizionale Taoarte al tessuto di manifestazioni di Catanzaro: la mostra di Cragg Fabre Paladino a Roccelletta di Borgia, Mirabilia, la mostra sulla Magna Grecia, i concerti rock), questo tipo di turismo si “materializzerebbe” miracolosamente, e il vicino Paleariza, in un territorio assai meno facile da raggiungersi, lo dimostra con le sue presenze numerose, ma non iperboliche e, soprattutto, consapevoli. Naturalmente è la qualità delle manifestazioni a determinare tale tipo di presenze. Ad esempio una proiezione di film restaurati, a meno che non siano film del muto o film dispersi e recuperati, NON è un festival, ma una rassegna, perché manca del fondamentale elemento della sperimentazione, e il numero di apparizioni televisive di un artista NON determina la qualità del suo lavoro, né sancisce la sua abilità come direttore artistico. In entrambi questi casi chi desidera fare turismo culturalmente ed ecologicamente “compatibile” si muove per vedere uno spettacolo stimolante poiché innovativo, “sperimentatore”, in un contesto che lo favorisca, ovvero una cornice organizzativa degna, altrimenti non si muoverà affatto, lo farà solo per vedere eventi di alto profilo che non può vedere altrove. Poi dipende da cosa si vuole: nelle discoteche “seriali” o alla sagra della melanzana o all’ennesima replica delle operette o di una rappresentazione di teatro classico imbolsito o alle proiezioni dei “filmoni” americani, non sottotitolati per carità, spesso accorre un pubblico numeroso, e non nego che eventi del genere debbano esserci, ma tutto sta nello scegliere quale modello di sviluppo voglia una città, se quello dello “scambio” col visitatore, con l’ospite, oppure quello della lotta col turista. Federico Giordano L ETTERE M ERIDIANE 12 N. 2 / 3 - Luglio - Agosto - Settembre 2005 Un noir in salsa calabrese per raccontare una terra difficile D i “Ragù di capra” si accenna appena, ma non c’era da scegliere titolo migliore. Sia perché commercialmente appetibile (in libreria attira inevitabilmente tutti i calabresi sparsi per l’Italia e per il mondo e, lo sappiamo, sono tanti) e poi la Calabria descritta da Gianfrancesco Turano è proprio così, dal sapore forte, intenso, poco digeribile, ma indimenticabile. “Ragù di capra”, opera prima del giornalista reggino Gianfrancesco Turano, annuncia la sua “calabresità” offrendo al lettore un suo piatto tipico. Il romanzo noir ambientato nella Locride e pubblicato dall’editore Flaccovio di Palermo nella collana Gialloteca difficilmente potrebbe essere definito un giallo: non ci sono misteri da scoprire e le morti sono annunciate nella vicenda di Stefano Airaghi, milanese faccendiere ed arrogante, che finge la morte nelle acque dello Jonio reggino per intascare i soldi dell’assicurazione. Dopo essersi nascosto grazie al socio calabrese nello sperduto paesino con la protezione della mafia locale, anziché attendere tranquillamente la conclusione del suo stesso piano, Airaghi decide di creare lui stesso una piccola “ ‘ndrina” e gestire da lì nuovi illeciti affari. Ma la mafia dalle ferree leggi non tollera intromissioni nel proprio territorio e la validità del detto “Potere è volere” da Milano alla Calabria si dissolve ineluttabilmente. Uscito da soli due mesi, il libro ha ricevuto un buon successo di pubblico e di critica. Presentato a Milano, Roma, Palermo, e anche al Salone del Libro di Torino, arriva a Reggio, città che l’autore ha lasciato a 18 anni per seguire una laurea in greco antico e la carriera giornalistica. Per questa presentazione, forse la più delicata, Turano ha scelto due critici insoliti: il professore della Facoltà di Ingegneria di Firenze, Alberto Ziparo, e il professore di Sociologia a Messina, Tonino Perna, già presidente dell’Ente Parco di Aspromonte. Non due esperti di letteratura, ma due studiosi che conoscono bene il territorio reggino e calabrese. Perché quell’opposizione tra Nord e Sud che vive nel romanzo, divenendone il dato immediatamente riscontrabile, non può fare a meno di suscitare analisi che travalicano lo spessore letterario. Lo stile ironico e graffiante di una narrazione, permeata qua e là da elementi dialettali, esalta il quadro desolante e drammatico di una terra di Calabria, dove a comandare è sempre la mafia, le istituzioni sono assenti e i giovani non hanno alcuna speranza, né desiderio, se non i soldi facili e le promesse di qualcuno che è altrettanto privo di scrupoli dei boss locali. Il Milanese è deciso e calcolatore, con pochi punti deboli, applica nella vita gli insegnamenti del suo maestro di karatè, ma cede a poco a poco ai ritmi di una Calabria estiva e sonnolenta, solo apparentemente immobile. Qui le macchine si muovono lentamente, gli occhi osservano, i saluti sono segni precisi e misurati. Il Milanese sa leggere l’atmosfera, ma non capisce i codici, non nota i confini e li oltrepassa. Uomo del Nord, furbo, esperto, con vestiti costosi, sembra essere sempre un vincitore. Riesce così ad attrarre alcuni sbandati del paese, quelli che nessuno considera. Ma sono solo solitudini quelle che si incontrano in questo romanzo. Tra faccendieri e sfaccendati, gente di nessuno e di niente, si consuma una vaga alleanza; vaga, perché al contrario di quella che unisce i componenti della ‘ndrina’, non è fondata sulla paura e la sottomissione, ma solo dal desiderio di fare soldi, di andare via dalla Calabria ricchi e liberi; questo accomuna i ragazzi calabresi e Airaghi; e questo sarà il motivo per cui non riusciranno nella loro impresa, che diventerà una beffa e allo stesso tempo una ribellione alla mafia locale. L’autore dice di essersi vendicato, attraverso questo personaggio, di una società un po’ razzista nei confronti del Sud e con ben altri lati negativi. Airaghi è un uomo solo ancora prima di venire in Calabria, non parla da 10 anni con la madre, non ha amici, ma solo soci che rischiano di trasformarsi ad ogni passo in nemici, e una ragazza russa, che non si può certo definire fidanzata. La vendetta è quella di averlo lasciato vivo e sconfitto. Spezzato nel suo orgoglio, nulla in mano, riconsegnato ad una madre, che ha un certo punto da donna acida e incattivita si trasforma in una semplice madre, come quelle del sud, che si prende cura del figlio. La vendetta è di avergli lasciato la Calabria in testa. Nel torpore e nella stanchezza rimane al protagonista l’immagine del mare luccicante, il movimento della risacca che purifica, il lento ondeggiare delle felci al vento di scirocco, tutto quel verde del sud che sopravvive prepotentemente e senza freni a dispetto degli uomini. Nell’interpretazione di Alberto Ziparo, condivisa dall’autore, è proprio questo paesaggio aspro nelle montagne, ingentilito dal mare, tranquillizzante nel vento, e frustante nell’afa e nello scirocco, a costituire “l’unico personaggio positivo, l’unico che dà speranza”. Non possiede niente altro il popolo calabrese? Forse, non è proprio così, il desiderio degli sbandati di avere qualcosa di meglio, di essere liberi è forse un piccolo spiraglio di fiducia per il futuro. Dal taglio cinematografico (era nato come sceneggiatura per un film), con atmosfere alla Sergio Leone e Quentin Tarantino, è stato definito un western calabrese, con personaggi fortemente caratterizzati, un linguaggio secco e una costante vena ironica, tagliente e disincantata, che diventa cifra di tutto il romanzo; perché, riconosce lo stesso autore “salva i personaggi dalla vera disperazione ed è un aspetto di questa città che ho voluto far emergere. Con tutti i suoi difetti, Reggio è una città che apprezza e rispetta l’ironia, che considero la caratteristica del nostro tempo, come non accade in altri luoghi del mondo che hanno i suoi stessi problemi”. Una piccola curiosità. Sulla copertina s’intravede nel buio una cabina telefonica con la cornetta staccata. Il lettore ci fa caso solo dopo aver letto il libro. Sembra suggerire un mistero, un momento di angoscia e di attesa, come in un buon film giallo; ma potremmo osare un’altra interpretazione. Le cabine sono quasi sempre rotte al Sud e, per l’autore, sono i giovani che non hanno nulla da fare che sfogano la loro noia rompendole. Forse rappresentano il simbolo di un filo interrotto con l’esterno, di un isolamento vissuto, imposto e alla fine accettato. E se quello scatto di rabbia e di noia potesse essere interpretato come segno positivo di insofferenza, di voglia di cambiamento, un desiderio di spezzare ben altri fili? Speriamo di sì. Oriana Schembari Due voci femminili narrano una “indicibile” Sicilia Due racconti per liberare l’anima siciliana… …Un romanzo ne racconta l’antica schiavitù De anima sicula Tardara di Gioia Timpanelli Dario Falccovio Editore pp.223 - € 14,00 di Licia Cardillo di Prima Editori Riuniti pp. 166 - € 12,00 i cunta e si raccunta…di una Sicilia calda e luminosa, di S una donna giovane e bella chiusa in un palazzo antico, di un pappagallo colorato che un giorno entra da un’ alta fine- un’altra Sicilia quella che ci racconta Licia Cardillo Di E ’ Prima. Un’altra voce per riferirci ancora di parole non dette e di significati nascosti che rimangono sospesi su questa stra, rimasta fino a quel momento serrata. È l’inizio di una fiaba che rimanda ad altre fiabe, ma anche del racconto di uno strano viaggio per ritrovare se stessi, di uno smarrimento muto, da cui solo voci sconosciute sono in grado di sottrarre la protagonista. Una nobildonna siciliana sceglie di trincerarsi nel buio di un palazzo nel cuore di una Palermo di inizio Novecento, al riparo dalla confusione e dal frastuono di una città chiassosa e in movimento. Vive con le finestre chiuse anche di giorno, legge nello studio, ha contatti solo con i domestici, fino a quando un giorno un gruppu di chiantu le chiude la gola, la costringe ad aprire una finestra, ad emettere un suono di sollievo, richiamando così l’attenzione di due uomini nel palazzo di fronte… Si mette in moto la strana vicenda che sottrarrà la donna al suo volontario esilio, il canto di un pappagallo la restituirà a quella vita che non permette di essere ignorata a lungo. È Gioia Timpanelli a raccontarci questa e altre storie, restituendoci l’atmosfera dei racconti popolari tramandati dalla tradizione orale e delle novelle di Giuseppe Pitrè. Ad essi si ispira nel suo lavoro che l’ha resa celebre negli Stati Uniti. Con “Sometimes the Soul-Two novellas of Sicily”, di cui Flaccovio propone oggi la traduzione di Fulvia Masi con il titolo “De anima sicula”, ha vinto l’American Book Award 1999. I suoi programmi televisivi sono stati trasmessi dalla rete nazionale Bps e premiati con due Emmy Awards. È una storyteller, una splendida voce della tradizione orale contemporanea e di lei Frank McCourt dice “Non c’è nessuno al mondo che sappia raccontare una storia come lei”. Il racconto, per Gioia Timpanelli, ha una forza liberatrice e purificatoria, e trova la sua più perfetta espressione nella fiaba, dove tutto non è quello che sembra, e dove l’epilogo si trova solo alla fine di un lungo viaggio, dopo tante avversità; è la “storiella” che si raccontava un tempo seduti a tavola, provando meraviglia, ansia, emozione. La possibilità di immedesimarsi, di perdersi in una storia ha una valenza del tutto particolare per la Timpanelli. “Oggi si parla solo per slogan, impoverendo così il linguaggio e di conseguenza il pensiero. Si perde la capacità di leggere oltre l’univocità dei significati, oltre la nettezza delle immagini”. Sottesa a tutto ciò, la convinzione che la Sicilia conservi un linguaggio, quello dialettale, e una sensibilità, da qui il titolo “De anima sicula”, aperti ai simbolismi, ricchi, variegati, mutevoli nelle interpretazioni, nelle parole non dette, nelle verità non svelate, ma magari da scoprire, inventare o re-inventare. Un mondo così diverso da un’ America e, in generale, da una società come quella moderna, che sembra aver perso la capacità di stupirsi, di emozionarsi, che si è come atrofizzata, meccanizzata e si risveglia solo per provare paura davanti alle minacce che rischiano di annientarla. Gioia Timpanelli conosce bene l’America, e il dopo 11 settembre, e con orrore ci parla di una politica che si esprime anch’essa solo per slogan, facendo leva su sentimenti falsi, come il terrore, il bisogno di sicurezza, il miraggio del benessere. Un’ America non così lontana dall’Italia, e da quella stessa Sicilia, in cui l’autrice è convinta di scorgere ancora le radici di un pensiero diverso, più ricco, più aperto e duttile, e per questo in grado di costituire un esempio positivo. Per questo nel suo lavoro Gioia racconta storie, nel disperato tentativo di risvegliare in chi l’ascolta il senso dello stupore, convinta che la magia della parola possa ancora operare il miracolo del risveglio dell’anima, come accade alle donne protagoniste dei due racconti, Costanza e Rusina. Forse Gioia ha troppa fiducia nella “sicilianità”, o forse semplicemente sceglie di scorgere quelle poche tracce rimaste di un sentire diverso, ma lo fa senza ingenuità. Di certo, al termine della lettura, ci è rimasto un senso vago di benessere, un sorriso compiaciuto; anche noi come Costanza, la protagonista del primo racconto, abbiamo attraversato un sottopassaggio buio e con ansia ed eccitazione siamo riemersi alla luce, udendo come se fosse la prima volta tutto il baccano della vita che avevamo dimenticato di ascoltare. E questo forse può ancora bastare. O.S. terra che non è più quella fiabesca dei racconti, ma quella dove troppi misteri si nascondono. “Qui tutto è magia, illusione dei sensi, castello d’Atlante…”, ma nel senso che qui “non è vera neanche la natura”, “l’artificio è una necessità, una protezione ”. Queste due diverse impostazioni di lettura nascono da una medesima convinzione; nell’Isola tutto non è come sembra, l’apparenza è un gioco dietro al quale ci sono verità che non è dato di sapere. Ma se l’artificio per la Timpanelli è una forma per sublimare la liberazione dell’anima nascosta, qui al contrario è il mezzo per tenerla per sempre intrappolata. La Sicilia descritta nel romanzo “Tardara” è più vicina alla realtà di oggi e alle cronache dei giornali. Una vicenda di mafia, con morti e scomparse incomprensibili, il mistero di una cava di tufo, una condizione di omertà, indifferenza e paura che avvolge tutti, tranne i pochi personaggi positivi. Sono due uomini e una donna ad arrivare alla risoluzione di questo giallo, tutti accomunati dall’amicizia verso il morto, e gli unici a non assoggettarsi ad una tradizione di rassegnazione. La rabbia malcelata verso coloro che prevaricano con arroganza e prepotenza nelle vite di tutti può scoppiare ad un tratto, provocare un cambiamento, apparente anche questo, perché nasconde un ritorno alla precedente condizione. Quello che esce dalla penna della giornalista siciliana è un ritratto di una Sicilia, dove anche la natura non è che l’immagine di una realtà quasi onirica, che sembra essere sempre sul punto di dissolversi, senza lasciare tracce di sé, come se non fosse mai esistita. Non a caso l’autrice sceglie come apertura una frase de Il Libro dell’Inquietudine di Fernando Pessoa, “Terra di giuncaie lungo i fiumi, lande fatte per cacciatori e angosce, con rive irregolari che entrano come piccole corde sporche nelle acque color piombo giallo. Non vi arriva nessuno, né vi arriverà mai. E anche se per una fuga contraddittoria del tempo e dello spazio io potessi evadere dal mondo per entrare in quel paesaggio, nessuno mai vi arriverebbe”. Non si arriva quindi in Sicilia, forse vi si può entrare, ma senza dimorare in essa, respinge come una molla tutto quello che cerca di scuoterla. Possiamo dire che l’apparenza vive nel romanzo anche in un altro senso; sembra quasi che l’autrice abbia voluto prendere a pretesto una storia che sembra uscita da un romanzo di Sciascia, per raccontarci del suo modo di vedere la propria terra e i suoi abitanti. I dialoghi tra i personaggi sono uno strumento efficace a dare sfogo ad un’analisi che sembrava da tanto tempo conservata tra le pieghe dell’attività di giornalista. Le pause durante le conversazioni servono a far capire i pensieri tenuti nascosti, tra chi vorrebbe sapere e non può domandare direttamente e chi forse potrebbe sapere e non vuole parlare apertamente. I siciliani, divisi come sono tra popolo e baroni, sono impermeabili ai cambiamenti; così come ai tempi antichi, quando la nobiltà aveva potere di vita e di morte sul popolo, i potenti governano indisturbati e senza limiti e al popolo bastano panem et circensem. Circensem, sì. Dice uno dei personaggi, amaro: “Dimmi in quale altro paese del mondo ci sono così tante feste…per Santa Rita, Santa Lucia… Santa Rosalia…?” Le feste servono al popolo per stordirlo, come in un rito pagano, per liberarsi e sfogarsi, in un miscuglio tra sacro e profano irrinunciabile. Guai a togliere la festa ai siciliani, si ribellano come non hanno mai fatto, si mettono contro l’autorità e minacciano “o la festa o la testa” come al malcapitato Marchese Caracciolo che cercò di combattere i privilegi dei potenti e per emancipare il popolo volle togliere la festa di Santa Rosalia a Palermo, ma “o la festa o la testa” si gridò. E allora in nome della festa, lo spettacolo continua ancora, diverso per non cambiare mai, in un eterno teatro dove si è marionette e mai nemmeno attori, men che meno protagonisti. O.S. L ETTERE M ERIDIANE N. 2 / 3 - Luglio - Agosto - Settembre 2005 13 Il ponte insostenibile: riflessioni su un’opera infausta a cura di DANIELA PELLICANO’ L’ambiente dello Stretto e la sua storia L a formazione originaria dello Stretto di Messina può farsi risalire a oltre due milioni di anni fa, quando si registrò il distacco della Sicilia dalla Penisola Italiana, con l’emergere del rilievo calabro. (1) “Attraversando questo azzurro braccio di mare e guardando le sue coste, viene subito il sospetto che queste due terre, un giorno congiunte, fossero state separate, come per arcana forza bruta…” (2). In effetti diverse teorie geo-morfologiche confermano l’ipotesi del “distacco” (3), ipotesi che è forse il motivo principale delle forti caratteristiche ambientali e paesaggistiche che hanno dato vita, nel tempo, a miti e leggende. Riguardo all’eccezionalità dell’ambiente dello Stretto va ricordato che “il paesaggio emergente, i fondali marini, la popolazione faunistica e l’ecosistema nel suo complesso ne fanno un luogo unico nel Mediterraneo” (4). “L’interesse scientifico che riveste l’ecosistema dello Stretto è altissimo, da molteplici punti di vista, ed impegna costantemente ricercatori, biologi, fisici, naturalisti (…). Lo Stretto è stato definito ‘paradiso degli zoologi’. Le sue profondità sono state esplorate per la prima volta da Jacques Piccard nel maggio del 1979, producendo risultati conoscitivi che non solo hanno risolto quesiti sulla vita dello Stretto, ma hanno offerto input per affrontare problemi di biologia marina e di idrobiologia in generale”.(5) Anche “il cielo dello Stretto di Messina rappresenta a sua volta un altro particolare sistema aereo: una sorta di collo di bottiglia in cui tutti gli uccelli migratori si concentrano per raggiungere la Penisola e continuare il lungo volo verso il nord”. (6) “Il paesaggio e l’ecosistema dello Stretto di Messina mostrano come natura e cultura possono trovare una relazione non oppositiva. Dalle antiche leggende, ai miti, alla letteratura ed alla poesia recenti questa area ha assunto un significato che permea la cultura e va ben oltre le espressioni locali. Dello Stretto offrono accurate descrizioni Omero, Aristotele, che le accompagna con considerazioni scientifiche e filosofiche, Virgilio (si veda il II canto dell’Eneide), Lucrezio, Ovidio, Sallustio e Seneca. Dante utilizza la metafora di Cariddi nel canto VII dell’Inferno. Galilei dedica a Scilla e Cariddi un’ampia parte della ‘giornata quarta’, sugli effetti dell’acqua e dell’aria, nel ‘Dialogo sopra i Massimi sistemi’. A quest’area è legata una memorialistica letteraria e scientifica europea che annovera, tra gli altri, i notissimi contributi di Goethe. In ogni caso si tratta di una cultura del rispetto della potenza della natura e della coscienza del limite, i cui richiami risultano particolarmente urgenti nell’epoca attuale. (7) L’area è altresì nota perché ad un livello geologicamente più profondo si confrontano placca egea e placca adriatica. Il territorio è insomma zona sismica ad alto grado di pericolosità e le catastrofi sismiche hanno sconvolto e distrutto a più riprese tanto Messina quanto Reggio Calabria. Ogni volta i due insediamenti ed i paesi circostanti sono stati ricostruiti. Le popolazioni superstiti alle decimazioni, non hanno abbandonato i luoghi. In questi eventi, nel rapporto tra disastro naturale e vita sociale, si trovano tratti di una cultura antica e nel contempo attualissima: la cultura della convivenza con il terremoto, che un tempo è stata, e potrebbe tornare ad essere, cultura della prevenzione e della non rimozione del rischio, dell’imprevisto, del caotico. Le società che nel tempo hanno abitato il territorio dello Stretto sono state segnate inoltre dalla strategica importanza della sua collocazione geografica rispetto al Mediterraneo. NOTE Cfr E. Cortese, Descrizione geologica della Calabria, Ricci, Firenze, 1934 (1897) (2) Cfr. F. Lacava, Lo stretto di Messina nell’Antichità, Parallelo 38, Reggio Calabria, 1974 (3) Il Cortese si sofferma a lungo su questi aspetti; Cfr. nota 1. Lucio Gambi li riprende nelle sue indagini sull’Area dello Stretto; cfr. L. Gambi, Calabria, Utet, Torino 1961. Gambi denomina le due sponde dello Stretto “Peloritana” e “Aspromontana”, sottolineando così l’importanza dei massicci interni su tutta l’organizzazione del territorio. (4) Cfr. O. Pieroni ‘Testo per la discussione allegato all’Appello all’Unesco’ per la protezione dello Stretto di Messina quale patrimonio naturale e culturale dell?umanità, Reggio Calabria 1998. (5) Idem. (6) Idem. (7) Idem. (1) La storia del Ponte O gni progetto porta con sé una storia, quella del ponte è veramente lunga. Proviamo a ricostruirne i passaggi: dal dibattito post-unitario che intravede, per la prima volta, la necessità di un collegamento tra le due sponde, alla stesura delle prime ipotesi di piano nel secondo dopoguerra all’Area Metropolitana dello Stretto e Conurbazione con Ponte, immaginata nel Progetto ’80, per arrivare infine alle posizioni attuali, frutto degli studi più recenti. Subito dopo l’unità d’Italia cominciano a farsi strada le prime ipotesi di attraversamento stabile; ciò accade in concomitanza con la necessità di concretizzare l’ossatura principale della rete ferroviaria nazionale. I politici e gli ingegneri dell’epoca si rendono presto conto della complessità dell’opera e preferiscono accantonarla. Il terremoto del 28 dicembre del 1908 distrugge completamente le due città; la ricostruzione è affidata a Borzì per Messina e a De Nava per Reggio. Naturalmente nei loro progetti si teneva conto di un forte sviluppo urbano, ma nonostante ciò sono quasi inesistenti le ipotesi di costruzione di un ponte di collegamento. Nel secondo dopoguerra il Mezzogiorno arretrato necessita di aiuti corposi che si concretizzano in interventi straordinari e nel trasferimento di capitali concentrati in grandi opere. Questo scenario rende più realistica l’ipotesi del ponte inteso come investimento necessario per il reale sviluppo dell’area. Nasce così “Progetto ‘80” (programma economico nazionale 1971-75), che nelle sue “Linee di Coordinamento Territoriale, prevede la creazione dell’Area metropolitana dello Stretto di Messina da realizzarsi attorno all’attraversamento stabile: una grande “Città dello Stretto”. Gli urbanisti e i pianificatori che si occupano del Mezzogiorno negli anni Settanta hanno un peso rilevante nel definire il progetto in questi termini; scottati dopo la delusione dei “contesti agrari” e delle “aree interne” intravedono nel concetto di “città grande e quindi a solida armatura urbana, la nuova pietra filosofale dello sviluppo meridionale”. Ma neanche questa posizione si rivela convincente tanto che le due Regioni si propongono di realizzare “uno sviluppo lineare, ma infraregionale, dei due centri (Messina verso Milazzo e Reggio verso Gioia Tauro e Saline)”. È a questo punto che grazie alle pressioni politiche cambia lo scenario. Con l’aiuto del P.S.I. e della destra D.C., i cui esponenti messinesi sono direttamente coinvolti nell’operazione, il governo vara la costituzione della “Stretto di Messina S.p.A.”, che coinvolge le istituzioni interessate ed ha come compito la redazione di “ricerche e studi atti a verificare la fattibilità di un manufatto di attraversamento stabile dello Stretto di Messina”. La società, che da allora costituisce voce permanente nei bilanci delle regioni, dello Stato e quindi nelle finanziarie (con portafoglio di alcune decine di miliardi annui), promuove subito campagne al fine di legittimare l’operazione. La società, il cui presidente è stato anche proprietario del quotidiano maggiormente diffuso tra le due province, da quando è nata ha cercato consenso commissionando studi a università, istituzioni tecniche, scientifiche e culturali sia locali che nazionali. Anche per la contiguità con tali gruppi, infatti, gli strumenti urbanistici di Messina e Reggio, redatti in quegli anni, in totale difformità dalle linee di programmazione regionale, sposano l’idea di una città dello Stretto. Un concetto destinato ad essere accantonato semplicemente perché non attuato. Negli anni Settanta “il Ponte”, sostanzialmente assente nel dibattito politico, rimane argomento di riflessione e di discussione tra gli specialisti. Viene organizzato un concorso di idee per la scelta della soluzione tecnica, che si risolve senza vincitori, ma consolida attorno all’operazione la presenza di burocrazie di ricercatori: I.R.I favorevole all’attraversamento aereo ed Eni favorevole al tunnel. Agli inizi degli anni Ottanta la crisi fiscale dello Stato e il clamoroso fallimento delle politiche di grandi interventi per il sud, sembrano dover rispedire definitivamente il ponte nel “baule dei sogni”. Invece la seconda metà del decennio, dominata dal rilancio di enormi programmi di opere, diventati fonte permanente di distorsione gestionale e di sottrazione di risorse pubbliche, interessa anche il Progetto del Ponte che viene riproposto da apposito decreto Craxi e per il quale si riverniciano i vecchi simboli: i richiami alla “Buda-Pest dello Stretto” (ma gli urbanisti avevano già chiarito che Reggio e Messina a differenza delle due parti della capitale ungherese, soffrivano degli stessi problemi) ed al Golden State Bridge (di cui gli studiosi di San Francisco e Berkeley sottolineavano la funzione territoriale “ma proprio perché ultimato nel 1938, all’avvio dello sviluppo della civiltà dell’auto). Il 31 dicembre 1992 il progetto viene presentato. L’alleanza tra I.R.I. e Ferrovie porta la “Società dello Stretto” a privilegiare l’attraversamento aereo. I molti metri cubi che compongono l’elaborato restituiscono un manufatto impressionante che viaggia tra la Sicilia e la Calabria a circa 70 mt. d’altezza, sorretto da torri di oltre 350 mt. Sul ponte, cui si accede tramite un enorme groviglio di svincoli e rampe, passerebbero sia i treni a bassa velocità (le pendenze di linea cominciano a salire decine di chilometri prima degli imbocchi) che le auto a velocità limitata (i tempi di percorrenza tra il centro di Reggio e il centro di Messina non si abbasserebbero). Ma i numerosi volumi del progetto sono dedicati quasi esclusivamente a dimensionamenti e verifiche degli elementi tecnico-costruttivi. Dunque mancano o sono trattati genericamente i problemi riguardanti i vari livelli di programmazione e di politiche territoriali. Nel recente “Parere” del Consiglio Superiore dei lavori pubblici, ad esempio, non viene toccato un punto che gli esperti sollevano da sempre: non è ammissibile, nel duemila, concepire un unico enorme “collo di bottiglia” tra la Sicilia e la Calabria, data la totalità di merci e passeggeri, considerando anche il fatto che la riduzione del traffico su gomma è uno dei grandi problemi attuali. Piuttosto non sarebbe più utile puntare sulla diversificazione di modi, mezzi e vie di comunicazione tra la Sicilia e il Continente? A questo proposito non è trascurabile (oltre al consolidamento dei sistemi aeroportuali regionali) il fatto che lo stato abbia già speso oltre 40 mila miliardi in vent’anni per realizzare e ampliare nell’area i porti di Milazzo, Messina e Catania da una parte e Saline, Reggio, Villa S. Giovanni e Gioia Tauro dall’altra. L ETTERE M ERIDIANE 14 Le città e l’Area dello Stretto I l concetto di Area dello Stretto nasce dal punto di vista normativo e programmatico nel 1965 con la redazione e l’approvazione da parte del Cipe, del Progetto 80, il programma economico nazionale 1971-75. L’ipotesi su cui si basa il progetto è costituita dalla creazione di un’area metropolitana, formata dalla conurbazione tra le aree urbane di Messina, Villa San Giovanni e Reggio Calabria, che avrebbe dovuto portare solidità e sviluppo nella struttura urbana ed economica, soprattutto terziaria. La prima osservazione mossa al Progetto 80 riguarda i presupposti sui quali si regge: in quel periodo le relazioni tra le due sponde erano minime, entrambe le regioni, infatti, privilegiavano i contatti all’interno dei propri ambiti regionali. Reggio con la Piana di Gioia Tauro e la formazione salino-melitese, Messina con Taormina e le prime frange catanesi sullo Jonio e, sul Tirreno, verso l’area industriale di Milazzo. Inoltre le indicazioni presenti nel Progetto contrastavano con l’evoluzione dell’assetto ecologico dell’area. “La giustapposizione critica di due aree fragili che per di più avevano preso ad ignorarsi” si presentava dunque problematica. (1) Il “programma di sviluppo economico regionale e le linee di assetto territoriale” redatto nel 1976 dalla Regione Calabria, d’intesa con la CasMez ed il Ministero per il Mezzogiorno prevedeva di riorganizzare così il territorio regionale: Cosenza con la nuova università (terziario culturale), Catanzaro con l’attribuzione degli uffici della Regione (terziario amministrativo) il Reggino con l’area industriale di Gioia Tauro (secondario). La programmazione regionale calabrese, come del resto quella siciliana, ha continuato a proporre visioni del territorio regionale caratterizzate da relazioni interne, dando dunque scarso peso alla “Città dello Stretto”. Date queste premesse, ciò che oggi dovrebbe verificarsi nell’Area dello Stretto, come in molte aree del Mezzogiorno, è il recupero ambientale; i nuovi progetti dovrebbero reinterpretare, valorizzandole, morfologie, ecologie, culture, saperi esistenti; dunque esattamente il contrario di ciò che invece si intende fare: introdurre dall’esterno grandi strutture che negano le identità locali. Questa posizione, peraltro dettata anche dal comune buon senso, sembra essere stata colta nell’ultimo atto di programmazione redatto per l’area. L’accordo di programma siglato nel 1990 dai tre comuni interessati, d’intesa con le due province e le due regioni, parla di necessità di riequilibrio dei rapporti fra le diverse parti del territorio interessato e l’esterno che si può ottenere grazie anche all’integrazione del sistema dei trasporti, che va però realizzato con attrezzature tali da favorire e non negare la valorizzazione del territorio e del paesaggio. (2) NOTE Cfr. A. Ziparo “Il ritorno delle grandi infrastrutture: il progetto del Ponte sullo Stretto”, Bollettino DUPT, Firenze 1998 (2) Idem. (1) N. 2 / 3 - Luglio - Agosto - Settembre 2005 Introduzione a e analisi critich L e immagini più recenti del territorio nazionale offrono un quadro di relazioni tra insediamenti, infrastrutture e sistema ambientale, complicato da una logica di sviluppo quantitativo tutt’altro che pianificata. (Itaten, 1996; Secchi, 1995). Questo da una parte ha permesso il soddisfacimento sostanziale del “bisogno di traffico” in molte aree, dall’altra ha favorito una crescita quantitativa del sistema; di conseguenza non si è realizzata un’organizzazione basata su interazioni utili e innovative tra territorio e trasporti, ma piuttosto si è agito all’insegna della parzialità e dell’occasionalità. L’esito complessivo di questa mancanza di strategia ha comportato una tendenza allo squilibrio, con dannosi esuberi, ed una diminuzione della possibile efficienza nell’uso dello spazio disponibile; quest’ultimo, infatti, ha subito una “caduta di senso”. Inoltre molte delle ricerche regionali Itaten registrano un acuirsi dei conflitti legati alle nuove domande di spostamento. Le opposizioni, non solo ambientaliste, a molte nuove proposte di infrastrutturazione, sono indicative di tali processi: si pensi soltanto all’Alta velocità, che “attraversa e disastra” sistemi (infra) regionali e locali, mentre privilegia i grandi collegamenti continentali. Dagli studi Itaten e successivamente RetUrb (ricerca nazionale sulle relazioni tra assetto e reti infrastrutturali) è emersa la necessità di politiche che ricompongano i conflitti sopra citati. Se attuate offrirebbero una visione “innovativa e differenziale” delle reti infrastrutturali, e svolgerebbero in modo “intelligente” la funzione di servizio del territorio. Per immaginare nuove compatibilità tra territorio e infrastrutture o, se si vuole, una “mobilità sostenibile”, occorre verificare le attrezzature di trasporto, esistenti e previste nelle diverse regioni, dai soggetti che vi risiedono. Questo passaggio appare quanto mai necessario nel Mezzogiorno che da una parte “ancora subisce gli effetti dell’arretratezza dei sistemi infrastrutturali primari” e dall’altra continua a pagare, in termini di degrado ambientale, di dissesto idrogeologico e di deterritorializzazione, il prezzo del fallimento delle politiche dei “poli industriali ed infrastrutturali”. Su tale punto è bene soffermarsi per ricordare che proprio questi ultimi, concepiti con caratteristiche di dubbia utilità sociale, grave impatto e grande ingombro spaziale, avrebbero dovuto favorire il trasferimento “straordinario” di risorse pubbliche al Mezzogiorno ed invece si sono spesso risolti oltre che in ingenti sprechi e in ritorni di disoccupazione, anche in cancellazione di economie locali e forti condizionamenti sul territorio, per arrivare infine alla grande e sistematica distorsione nella gestione della cosa pubblica con penetrazioni della criminalità organizzata (allorché al Sud Tangentopoli incrociava Mafiopoli). In questo quadro esiste il rischio che il perpetuarsi di vecchie logiche produca nuove aporie: accanto alle operazioni chiaramente necessarie, quali la ristrutturazione della Salerno – Reggio Calabria, il completamento e la riqualificazione delle reti idriche, il consolidamento delle dorsali basso – adriatica e soprattutto jonica, il completamento e la fruizione dei sistemi portuali, si prospettano nuove “grandi opere” di dubbia utilità e piuttosto somiglianti alle operazioni più discutibili del recente passato. Proprio per questo è necessario inquadrare le nuove proposte in adeguate logiche di pianificazione economica, territoriale ed ambientale. Occorre leggere i nuovi programmi seguendo due direttive: gli impatti che ne possono derivare e la valenza sociale che ne consegue. * * * O ccorre fare una lettura sintetica del sistema degli impatti e soffermarsi su alcune delle principali incognite riguardanti la realizzabilità del progetto. Innanzitutto è utile sottolineare le rilevanti carenze di tipo metodologico inerenti l’organizzazione dello studio di Impatto Ambientale presentato dal proponente. “In particolare, nonostante gli ingenti finanziamenti pubblici investiti nell’elaborazione del progetto di massima e del Sia, si rilevano diversi elementi critici nella strutturazione del Sia, riguardanti metodologie, contenuti e organizzazione del documento” (cfr. sez VI de “Il ponte insostenibile”, Ed. Alinea, Firenze 2002). Inoltre va sottolineata la sostanziale assenza di adeguati scenari di riferimento economico-territoriali, fondamentali per fornire un quadro logico per la valutazione di compatibilità del progetto. Per non parlare poi degli effetti di impatto che comportano trasformazioni paesaggistiche e percettive dello Stretto di Messina, patrimonio di indiscutibile bellezza e unicità. “L’impatto paesaggistico va proiettato almeno su quattro piani: - la modificazione della scena dell’insieme dello Stretto; - la trasformazione della geografia e della orografia dei luoghi; - la modificazione del paesaggio dei versanti; - la nuova percezione dello Stretto e l’impatto soggettivo (emotivo e psicologico) e collettivo (socio-culturale) sulle popolazioni interessate”. In particolare “per quanto riguarda la scena dell’intero ambiente dello Stretto appare più appropriato parlare di trasformazione che di modificazione. Altri elementi del sistema degli impatti principali sottovalutati o non considerati dal Sia riguardano: - gli aspetti idrogeologici e la circolazione idrica sotterranea (“manca uno studio approfondito della situazione idrogeologica delle aree interessate) che comprende anche l’area dei laghetti di Ganzirri; - l’incidenza delle attrezzature di suolo sull’ambiente marino; - l’estrazione di inerte e la posa dei rifiuti: si calcola che per la realizzazione del ponte occorreranno milioni di metri cubi di inerte e centinaia di migliaia di metri cubi di acciaio: si è individuata l’area del prelievo nella zona etnea, ma non esiste nessuna analisi di impatto dei siti; - gli aspetti biologici costieri e marini: i perenni cantieri aperti su tratti rilevanti di costa sicula e calabra comprometterebbero l’esistenza di una serie di habitat unici nel mediterraneo, senza contare la distruzione/cancellazione di numerosissimi biotipi; Valutazione di impatto ambientale M arzo 1986, la Direzione Nazionale di Democrazia Proletaria sollecita una riflessione approfondita sulle ipotesi progettuali del Ponte sullo Stretto di Messina coinvolgendo varie realtà: esponenti della cultura urbanistica, ambientalista, tecnico-scientifica e naturalmente le associazioni presenti sul territorio. Lo scopo è quello di elaborare valide proposte alternative. All’epoca in Italia non esistevano normative in materia di impatto ambientale, ancora oggi non esistono indicazioni precise, ma nonostante ciò si è cercato di condurre comunque una verifica. Dallo studio effettuato è risultato che il progetto era privo di una documentazione scientificamente corretta sulle aree a forte sensibilità, ed inoltre non si faceva alcun cenno alle aree critiche né ad un modello di analisi per la situazione sismica in rapporto all’opera. Quando si decide di dare corso ad un’infrastruttura è necessario approntare una corretta Valutazione di impatto ambientale (VIA). Questa non è un mezzo per giustificare le opere, ma una procedura che consente di valutare le diverse configurazioni del manufatto e, al tempo stesso, una attenta osservazione delle alternative possibili (nel caso del ponte, la dualità del trasbordo delle merci tra Gioia Tauro e Milazzo ed il potenziamento dei traghetti passeggeri nello Stretto). Per stabilire quali sono i requisiti necessari per la VIA bisogna ricorrere alla metodologia usata dalla Metropolitan Trasportation Commission, utilizzata per l’area della Baia di S. Francisco. Facendolo, ci si rende conto che nel caso del ponte, si è molto lontani dai giusti criteri da adottare per una corretta valutazione di impatto ambientale. Ecco dunque come avrebbe dovuto articolarsi una corretta analisi della VIA: - valutazione preliminare dell’area al fine di elaborare un sistema informativo sul tema della qualità dell’ambiente naturale ed antropico e la definizione dei valori di qualità ambientale - elaborazione di mappe sintetiche dei fattori di vincolo non unicamente normativi, da utilizzare come parametri per l’esclusione di alcune aree ben definite - precisi passaggi procedurali sulla R/I degli impatti - identificazione delle alternative - l’uso di modelli predittivi attendibili - criteri di valutazione riconosciuti a livello scientifico ed accademico internazionale - ipotesi do nothing - consultazione della popolazione Dunque, alla luce di queste indicazioni, il rapporto di fattibilità presentato dalla Società Stretto di Messina risulta carente da un lato, perché non individua vincoli di ordine geologico, ma solo di carattere urbanistico, archeologico, monumentale, paesistico, idrogeologico, /forestale, militare, infrastrutturale, peraltro di aree specifiche, e dall’altro perché trascura di studiare soluzioni alternative proprio nel campo dei trasporti. È noto a tutti che il territorio in questione è zona sismica ad alto grado di pericolosità. Il documento sopra esaminato avrebbe dovuto aprire su questo tema ed esaurirlo. Non lo fa. Ecco un’altra grave lacuna: l’impatto irreversibile della situazione geologica sull’opera è chiarissimo, ma non viene considerato. N. 2 / 3 - Luglio - Agosto - Settembre 2005 L ETTERE M ERIDIANE 15 alle ipotesi alternative he al progetto - gli aspetti naturalistici: “in particolare parte della costa calabrese ed in generale l’intera provincia di Reggio Calabria… rappresentano il ‘fondo cieco’ della catena appenninica e parallelamente il ‘collettore’ naturale utilizzato per spostamenti migratori da centinaia di specie di uccelli”. Dunque in questa parte dell’estrema punta della penisola si può parlare di fragilità degli ecosistemi terrestri. Gli aspetti esaminati evidenziano, all’interno del progetto presentato, la mancanza di analisi sulle specie vegetali e faunistiche presenti nelle due aree e i possibili danni che creerebbe una macroalterazione come il ponte. Ancora va ricordato un aspetto critico dettato dalla sismicità dell’area. Il progetto sostiene la realizzabilità dell’opera “in grado di resistere alle sollecitazioni comportate da eventi di natura sismica fino ad una soglia di intensità pari a 7.1 gradi Richter, anche per accadimenti con epicentro compreso nel raggio di quindici chilometri”. Questa tesi si riferisce all’opera ultimata e collaudata quindi non tiene conto di cosa accadrebbe se si verificasse un evento sismico durante la fase di costruzione. Ancora, il progetto, pur soffermandosi sulla “sicurezza intrinseca” della struttura non tiene conto degli effetti di questo tipo di evento sulle macchine e i treni lanciati ad una velocità di circa cento chilometri orari. * * * I l parere favorevole del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici non ha risolto, in alcuni casi nemmeno sfiorato, le questioni che abbiamo finora esposto. Si è limitato, al contrario, a fornire le medesime “non risposte” già contenute nel progetto e nel Sia del proponente, arricchendole con motivazioni riguardanti ambiente, urbanistica e sviluppo economico che rasentano il ridicolo; basta citare, ad esempio, la pretesa del prof. Brown, esimio costruttore di infrastrutture, che si improvvisa pianificatore e ribalta la logica che lega domande territoriali e attrezzature, sostenendo che “tutti i piani urbanistici dell’area vanno riformulati in rapporto al progetto del Ponte”. Una teoria del genere cancella la complessità dei problemi e incautamente trova addirittura eco in qualche amministratore locale. Gli ingenti investimenti sostenuti, i progetti più o meno assemblati, i pareri costruiti nel tempo non rispondono ad una domanda elementare: perché si dovrebbe realizzare un’opera che presenta così tante e pesanti implicazioni? L’unica risposta che emerge dalla monumentale documentazione è giocata sul piano dell’organizzazione dei trasporti e ribadisce quanto si è sempre detto nell’ambito dei collegamenti stradali e ferroviari, non tenendo conto che dalle prime proposte formulate ad oggi, sono stati realizzati o ampliati, nelle regioni interessate, diversi porti e aeroporti. Inoltre, partendo dalle attuali tecnologie e immaginando quelle future, l’acqua e l’aria, come la terra, diventano infrastrutture di trasporto; ciò significa che tutto quello che un tempo era ritenuto elemento ottimale di un sistema di trasporto oggi può invece diventare elemento di congestione. Dunque qualunque nuovo progetto in questo settore va analizzato in relazione alle prossime tipologie infrastrutturali. Considerando tutti i problemi elencati fino ad ora sorprende il ruolo del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici: avrebbe dovuto verificare gli aspetti tecnici, economici, ambientali e territoriali, ha prodotto invece un documento giustificativo, teso a legittimare l’operazione. In un documento redatto da un gruppo di Urbanisti e Territoriali- sti, in gran parte aderenti ai coordinamenti di ricerca CNR e MURST diretti da Alberto Magnaghi, si chiede che si cancelli definitivamente il progetto del Ponte definendolo un’opera “di devastante impatto ambientale, inutile per l’assetto del Sud e poco sensata rispetto alle dinamiche economiche e territoriali in atto”. In particolare si legge nel documento che dal punto di vista urbanistico, l’agglomerato urbano che si creerebbe attorno ad un’attrezzatura così pesante porterebbe a livelli di congestione dell’Area tali da essere paragonata ad una megalopoli da Quarto Mondo. Anche dal punto di vista occupazionale sarebbe un disastro. Occorrerebbero 8 anni per la realizzazione del ponte e secondo le previsioni “il numero di lavoratori direttamente occupati nel periodo di cantiere sarà in media di 2.600 unità; l’indotto occupazionale sull’intero sistema economico locale e nazionale conterà 9.250 addetti per la durata dei cantieri, effetto che proseguirà con ulteriori 3.400 occupati circa per i 5 anni successivi”. Va assolutamente ricordato che si tratterebbe comunque di un lavoro temporaneo che, chiusi i cantieri, lascerebbe sulla strada migliaia di persone e, nello stesso tempo, renderebbe superflui almeno i 2/3 degli attuali addetti ai traghettamenti. Per quanto riguarda poi l’economia della realizzazione va ricordata l’analisi costi-benefici che è risultata nettamente negativa per l’opera. In conclusione si legge inoltre che “a fronte di tali critiche, i sostenitori del progetto si aggrappano ormai a posizioni fantasiose, talora esilaranti, abbandonando ogni senso del ridicolo. Si invocano infatti i grandi scenari di trasporto intercontinentale, proponendo però la singolare soluzione basata sulla contiguità terrestre e sulla continuità fisica tra Sicilia e Calabria prevista dal progetto (secondo taluni, per Il rischio sismico I l terremoto che sconvolse Catania, in memoria del quale venne poi costruita la Fontana dell’Elefante, fece 60.000 morti l’11 febbraio 1693. Altri 60.000 morti il 5 febbraio 1783 tra Reggio Calabria e Messina. Il sisma del 28 dicembre 1908 era già stato annunciato a Nicastro l’8 settembre 1905 (557 morti), ed a Ferruzzano il 23 ottobre 1907 (167 morti). Ci furono “ufficialmente” 86.928 vittime, ma le vittime ufficiose vennero valutate in oltre 200.000, nonostante l’impegno di Ferdinando IV di Borbone per ricostruire Messina, dopo il 1783, con sistemi rigorosamente antisismici. Ricordare le sequenze: 1693, 1783, 1908. La cadenza sta tra i 90 ed i 125 anni. Oggi sono trascorsi 97 anni dal terremoto del 1908. Non possiamo rimuovere il rischio sismico dalla nostra storia culturale, politica e scientifica. Con il rischio dobbiamo convivere, prevenendolo, dunque non possiamo dimenticare e ignorare che il ponte andrebbe costruito in una zona ad alto rischio sismico. Nonostante ciò la relazione di accompagnamento del progetto assicura che il ponte sospeso, come abbiamo già scritto, è in grado di resistere senza danni ad un sisma del grado 7.1 della scala Richter (ossia più potente di quello del 1908), di tollerare venti con velocità 216 chilometri orari con punte di 270 chilometri orari e di essere a prova di bomba atomica (una esplosione a 500 metri di distanza non lo farebbe crollare). Su simili previsioni è lecito dubitare. Non esistono ancora, nel mondo, progetti realizzati o in cantiere, paragonabili a questo. Una puntata di Geo, andata in onda su Rai Tre nel 1997, mostrava le immagini, riprese dalla BBC, di un grande ponte in Giappone, a campata unica, realizzato e poi crollato a causa delle oscillazioni provocate dal vento e dal peso della struttura stessa. In conclusione, un’opera come il ponte o una centrale nucleare, non possono essere realizzate in un’area di rischio sismico così elevato. Infatti se applichiamo la metodologia in uso per le centrali, formalizzata dalla francese CEA, non si può realizzare una centrale in un’area in cui i terremoti hanno una magnitudine maggiore di 5.5 gradi della scala Richter. esempio, per andare da Stoccolma a Tunisi o da Marsiglia ad Algeri… sarebbe utile il Ponte sullo Stretto! Forse si pensa ad una ‘campata unica’ tra la Sicilia e la Tunisia)”. (A. Magnaghi et al., 1998). * * * C i sono altri aspetti importanti da considerare. Il SIA, presente nel progetto presentato, poneva tra le altre due premesse alla scelta dell’opera. La prima era “la straordinaria ‘attesa’ del Ponte: vale a dire che ci troviamo di fronte alla realizzazione di un’opera da lungo tempo ‘raccontata’ ed ‘immaginata’ dalla popolazione, quindi, in qualche modo, già prefigurata ed impressa nell’immaginario collettivo”. Ma prima di dare per scontata una tale affermazione sarebbe necessario effettuare serie analisi e sondaggi. La seconda premessa alla scelta dell’opera era “lo straordinario e complesso contenuto tecnico del progetto” la cui “straordinarietà istituisce un luogo paesaggistico singolare, quello che gli antichi chiamavano meraviglia”. Bene, basta guardare le fotosimulazioni, fatte da diverse angolazioni, per constatare che il paesaggio si presenterebbe tutt’altro che bello, piuttosto, ad opera finita, si potrebbe ammirare la realizzazione di uno scempio. Un’altra posizione importante, da non sottovalutare è quella assunta dagli alti comandi militari. Nel 1987, in un documento riservato si legge che il ponte sospeso sarebbe una rovina: “Il risultato di un’azione offensiva contro tale infrastruttura sarebbe eccezionale, non tanto per le conseguenze politiche derivanti dall’interruzione fisica del collegamento con la Sicilia, quanto in relazione al valore di simbolo, ai contenuti politici e a quelli psicologici che un danno all’opera verrebbe ad assumere. Il manufatto, punto sensibile di dimensione strategica comporterebbe rilevanti oneri per la realizzazione di un’efficace protezione. Da un eventuale collasso dell’infrastruttura potrebbero derivare inoltre anche interruzioni prolungate della navigazione marittima sullo Stretto con grave pregiudizio di un eventuale fronte”. Questa dunque la chiara opposizione espressa in ambito militare da cui deriva la necessaria conclusione: una vasta porzione di territorio circostante gli alloggi a terra del manufatto su entrambe le sponde, verrebbe “militarizzata” per motivi di sicurezza e dunque sottratta all’uso pubblico, divenendo il ponte un possibile obiettivo strategico da salvaguardare. Sistema informativo territoriale ed ambientale I dati utilizzati dai progettisti per una valutazione dell’impatto del ponte sullo Stretto di Messina risultano inservibili. Questo è potuto accadere perché la legge attuale sulla Via non prevede l’obbligatorietà di un sistema informativo territoriale ed ambientale (SIA), che sia valido e quindi applicabile in tutte le regioni italiane. Dunque nel caso del ponte, sono stati racimolati pochi dati insufficienti e marginali, presi inoltre da un territorio, quello reggino e messinese, devastato dall’abusivismo, che ha prodotto i Piani di fabbricazione (e non viceversa), dove i PRG hanno tentato di ricucire senza sanare. In conclusione, mancando parametri chiari per il SIA, questo viene puntualmente sacrificato a vantaggio degli interessi speculativi, pubblici o privati, che prevedono di ricavare utili illeciti dal territorio. È necessario ricapitolare le distorsioni presenti nel progetto: - assenza di un sistema informativo ambientale e territoriale (SIAT) - assenza di un fondo di finanziamenti pubblici efficaci (a disposizione, ad esempio, dell’Amministrazione provinciale) - la manifesta impossibilità di fissare regole, procedure, tempi di discussione, certi e trasparenti per tutti i soggetti pubblici e privati interessati agli effetti ambientali e socio-economici dell’opera. Queste carenze riguardano in particolare gli aspetti legislativi nazionali e regionali della VIA che, allo stato attuale delegano al Ministero dell’Ambiente la funzione “tecnica” di istruzione del procedimento di VIA - la mancanza di un “arbitro” super partes cui spetti l’autorità inappellabile di emettere il verdetto finale sull’autorizzazione e/o correzione dell’opera; nel procedimento di VIA attuale, in molti casi, l’arbitro è addirittura uno dei giocatori in campo (Regione, Governo) - la sempre più consolidata abitudine delle associazioni ambientaliste a svolgere un ruolo “vicariante” delle funzioni di governo, ossessivamente preoccupate dal fatto che dire NO ad un’opera o ad un progetto sbagliato significhi automaticamente “non fare niente”. L ETTERE M ERIDIANE 16 N. 2 / 3 - Luglio - Agosto - Settembre 2005 “Un nuovo sguardo” per lo sviluppo sostenibile dello Stretto G iuseppe Dematteis sostiene che nuove visioni del territorio necessitano di “nuovi sguardi” tali da liberarsi dalle semantiche che hanno favorito le aporie del passato. (1) Pensando ad una possibile conurbazione di Reggio e Messina occorre tralasciare le questioni di puro arredo o restauro urbano e immaginare nuove composizioni nei due grandi apparati che comprendono Peloritani- fiumareCostiera di Messina e Aspromonte-fiumare-costa Viola e dei Gelsomini. In questo modo si può ricostruire un sistema di alta qualità ambientale che può avere forti ricadute sociali positive sia localmente, con riqualificazioni ecomorfologiche, sia globalmente, proiettando questa grande “Area di sostenibilità” verso il Mediterraneo e l’Europa. Per raggiungere questi obiettivi sono importanti le relazioni “ecologiche ed intelligenti” ed i percorsi tra i luoghi dello Stretto, tra le Eolie e Villa San Giovanni, tra il comune di Messina e l’Aspromonte, tra Taormina e la Costa Viola, tra i Porti e l’Aeroporto, solo per fare alcuni esempi. (2) Su queste basi l’Area dello Stretto può crescere come grande “luogo sostenibile” del Mediterraneo, dove si può immaginare un quadro di sviluppo composto da riqualificazione territoriale, valorizzazioni ecologiche e paesaggistiche, turismo eco-sociale, trasporti tecnologicamente avanzati su una striscia di mare che tornerebbe ad essere “elemento di unione”, anziché “di separazione”, ristrutturazioni biologiche dell’agricoltura e nuove produzioni montane, energie rinnovabili, cultura e formazione avanzata. Per costruire questo scenario sono già impegnati diversi attori, non solo locali, appartenenti ad organizzazioni culturali, istituzioni scientifiche, formazioni sociali.(3) NOTE Cfr. G. Dematteis, “Immagini del cambiamento” in Urbanistica n. 106, 1996. (2) E’ stato promosso un coordinamento tra le università e le organizzazioni aderenti al “Comitato tra Scilla e Cariddi” per la tutela e lo sviluppo sostenibile dell’area dello Stretto. È stata avviata la procedura di richiesta dell’Unesco di inserimento dello Stretto di Messina quale “Patrimonio universale dell’Umanità” nella lista dei luoghi tutelati e valorizzati ad opera della stessa istituzione. (3) Cfr. il contributo di P. Polimeni nel volume “Il ponte insostenibile”, Alinea Editrice, Firenze, 2002. (1) * * * U tilizzando questo “nuovo sguardo” è opportuno domandarsi quanto sia realmente necessario il progetto del Ponte in rapporto al reale miglioramento del sistema dei trasporti intercontinentali, europei, nazionali, locali. Per far ciò bisogna tener conto della possibile evoluzione degli scenari attuali e trascurare, invece, le affermazioni studiate per ottenere consenso quali: “Il Ponte per unire l’Europa e l’Africa”… “Il Ponte per porre la Sicilia al centro del Mediterraneo”… “Un Ponte verso l’Europa”. Questi sono soltanto slogan ben congegnati di cui facciamo indigestione quotidiana, e che nonostante ciò, continuano ad avere presa sul pubblico. MOBILITA’ INTERCONTINENTALE (Europa-Africa) Anche la riflessione più superficiale su questo punto porta alla Riflessioni a margine I conclusione che i collegamenti nel Mediterraneo continueranno ad essere di tipo aereo e marittimo, quindi l’attraversamento dello Stretto non assume alcun rilievo. MOBILITA’ CONTINENTALE Nel 1992 l’Unione Europea aveva individuato lo Stretto di Messina come uno dei “nodi critici” per la realizzazione di una rete continentale, con il varo del programma TEN (Trans European Network). In questa fase le politiche dei trasporti comunitari prevedevano la realizzazione e la costruzione di collegamenti terrestri veloci. Negli anni successivi questa idea è stata modificata, da una parte per l’ampliamento della stessa Comunità e quindi per le difficoltà tecniche e politiche conseguenti, dall’altra, per gli evidenti svantaggi economici che presenterebbe un sistema interamente basato sui trasporti terrestri. In questo quadro, la Sicilia continua ad essere il terminale della direttrice Nord-Sud relativa alla nostra penisola, ma i collegamenti con essa devono oggi tener conto dei nuovi assetti previsti, sul territorio italiano, per l’Alta Velocità Ferroviaria e per i grandi traffici commerciali. Ed ancora, del forte incremento del trasporto aereo riguardo al traffico passeggeri tra l’isola e lo spazio comunitario non nazionale. “Un dato significativo è quello relativo al movimento dei passeggeri che hanno usato il mezzo aereo per la Sicilia (…). Il processo evolutivo del trasporto aereo è certamente molto forte e dimostra come, pur di fronte ad un elevato costo delle tariffe, quasi 1/3 degli spostamenti di lunga distanza tra la Sicilia e il Nord avviene per mezzo aereo” (Cfr. C. Campeol “Serve davvero l’attraversamento stabile dello Stretto di Messina?” in Il nuovo cantiere, 1/87). Carlo Azeglio Ciampi, prima in qualità di Ministro del tesoro poi come Presidente della Repubblica ha più volte ribadito la necessità delle autostrade del Mare. “Il nostro paese ha un evidente bisogno di avviare e incentivare lo sviluppo del cabotaggio marittimo per spostare milioni di tonnellate dalla gomma alla nave: tutto questo però non deve compromettere la tutela dei nostri mari, già pesantemente minacciati. Occorre innanzitutto ribadire che in Italia, con un totale di 384 porti (uno ogni 27 Km di costa), non c’è bisogno di costruire nuove infrastrutture – basterebbe piuttosto – far funzionare i porti esistenti, assumendoli come suoli operativi di un sistema coordinato e unitario” (R. Grimaldi “Sviluppo, integrazione e sicurezza del cabotaggio” in A. Donati, G. Rambelli, M. Zambrini (ed.s.), Ambiente e politica dei trasporti, Milano, ed. Ambiente, 1999). Si prevede che la crescita del cabotaggio e del traffico aereo taglieranno fuori lo Stretto di Messina dai grandi collegamenti, privilegiando i porti e gli aeroporti siciliani. Nel periodo medio-lungo il traffico sullo Stretto sarà dunque destinato a coprire una domanda locale, in rapporto a questa previsione occorre chiedersi quale tipo di collegamento convenga. * * * S i possono prendere in considerazione tre distinti ambiti: - l’ambito Tirrenico, costituito dall’Autostrada A3 ristrutturata, terminale di Gioia Tauro, direttrice marittima Gioia Tauro – Milazzo, porto di Milazzo; - l’ambito Jonico, costituito dalla Statale 106 ristrutturata, terminale di Saline Joniche, direttrice marittima Saline - Catania Riposto, porto di Catania Riposto; - l’ambito interno allo Stretto da utilizzare razionalizzando i traffici. l progetto del Ponte, in conclusione, non è altro se non una possibile “visione” dello Stretto, dunque rappresenta un solo punto di vista legato, come spesso accade, alla cultura dominante in una determinata fase storica. Leggendo infatti il paragrafo dedicato alla Storia del Ponte si può notare come nelle precedenti epoche il progetto non sia stato sempre e necessariamente proposto. Un’altra puntualizzazione necessaria riguarda la definizione di questo tipo di progetto: è chiaro, dopo l’analisi sin qui condotta, che si tratta di un intervento che non può essere definito come una “iniziativa di sviluppo sostenibile”. Esistono, invece, altri punti di vista, già operativi, che possono facilmente essere ascritti all’interno di quest’ultima definizione. Queste altre “visioni” sono il risultato del grande fenomeno culturale presente sul territorio meridionale. Nell’Area dello Stretto si stanno sperimentando, infatti, grazie al lavoro di associazioni e organizzazioni no profit, azioni di sviluppo sostenibile, che puntano “a ricostruire un tessuto sociale ed economico spazzato via dal grande impatto provocato dalla modernizzazione senza sviluppo che ha colpito la società del Mezzogiorno italiano, e dalla globalizzazione dei mercati”. Ecco alcuni esempi di queste “visioni diverse”. Solo il primo è stato realizzato, gli altri sono rimasti allo stato embrionale: - il Parco Letterario dello Stretto “Horcinus Orca” - Ecolandia - il Parco ludico-scientifico-ambientale a Reggio Calabria - il programma Life-ambiente nel quartiere Giostra a Messina L’ambito Tirrenico comprende l’Autostrada Salerno – Reggio Calabria come canale principale nord-sud del traffico passeggeri e merci su gomma, terminante nell’infrastruttura portuale di Gioia Tauro trasformato in polo integrato, all’interno del quale è realizzato un interporto per lo stoccaggio e la movimentazione delle merci, ed infine, collegato tramite traghettamento diretto con Milazzo. L’uso di navi veloci (già in funzione sulla tratta Napoli – Palermo) renderebbe i tempi di durata dello stesso non maggiori di 4550 minuti. Per quanto riguarda il porto di Milazzo, oltre alla realizzazione di una banchina adibita al traghettamento è già prevista, perché necessaria, la realizzazione di uno svincolo che raccordi direttamente il porto al sistema autostradale Palermo-Messina. L’attivazione del collegamento diretto comporterebbe un investimento di circa 200 miliardi in cinque anni, ed un’occupazione di circa 800 unità (di cui il 75% nel polo di Gioia Tauro). L’ambito Jonico comprende la Statale 106, ristrutturata e trasformata in autostrada, come collettore nord-sud. Il porto di Saline nel quale andrebbero effettuate una serie di operazioni: pulitura del bacino, quindi rimozione del materiale sabbioso in deposito; attrezzatura delle banchine destinate ad attività commerciali ed ai traghettamenti nonché al diporto; creazione delle strutture di gestione del porto, compresi gli edifici ad essa adibiti; realizzazione di attrezzature compatibili, dal punto di vista ambientale, col litorale adiacente. Anche in questo caso l’uso di navi veloci consentirebbe l’attraversamento in 80-90 minuti. Il porto di Catania Riposto che non necessita di ulteriori lavori di ammodernamento perché le banchinature sono state recentemente ristrutturate. Per questo sistema si può ipotizzare un investimento di 150 miliardi in cinque anni e la creazione di 400 unità occupazionali (di cui l’80% a Saline). L’ambito interno allo Stretto, infine, dovrebbe prevedere l’utilizzazione integrata dei porti esistenti e la costituzione di un’Authority, che gestisca e coordini le diverse direttrici di mobilità. Per quanto riguarda poi la razionalizzazione dei traghettamenti andrebbe attuato quanto già previsto nell’Accordo di Programma del 1990, siglato tra i comuni di Messina, Villa San Giovanni e Reggio Calabria e le altre istituzioni interessate. Dunque è possibile immaginare un’organizzazione diversa da quella esistente, semplicemente sfruttando meglio le infrastrutture disponibili (porti, strade, ferrovie). Da questo quadro emerge chiaramente l’inutilità di progetti faraonici come il ponte e la possibilità di realizzare soluzioni alternative, economiche, più funzionali e facilmente realizzabili. L ETTERE M ERIDIANE N. 2 / 3 - Luglio - Agosto - Settembre 2005 17 Impariamo a progettare Continua la fuga di cervelli dal Meridione insieme l’abitare Ambiente, individuo e comunità nella rivista di architettura di Falzea editore E’ nata da poco, ma fa già tanto parlare di sé. “Il progetto dell’abitare”, la rivista semestrale dedicata all’architettura edita da Falzea Edizioni di Reggio Calabria, ha saputo raccogliere un folto gruppo di esperti, anche stranieri, pronti a dare il proprio contributo ad una pubblicazione con obiettivi ambiziosi. Giunta al suo terzo numero, la rivista nasce in un contesto aperto e vivo, come può essere la facoltà di Architettura di Reggio Calabria, che pur non partecipandovi direttamente come Istituzione, rappresenta sicuramente una parte dell’humus culturale grazie a cui l’idea si è sviluppata. I giovani e i meno giovani architetti, chiamati a realizzare il periodico, si sono infatti formati o hanno contatti con la Facoltà Mediterranea. Direttore scientifico è il professore Adriano Paolella, docente per la stessa facoltà di Progettazione dei sistemi costruttivi e Materiali ed innovazione tecnologica per il paesaggio. Si legge nella presentazione che la rivista opera nell’ambito “delle soluzioni tecnologiche volte all’aumento dell’efficienza ambientale e sociale degli edifici. In questo porge attenzione alla individuazione di sistemi complessi atti a favorire il benessere e a mantenere o recuperare un’autonomia culturale, tecnica, costruttiva, ed economica degli individui e delle comunità”. Le convinzioni che stanno alla base de Il progetto dell’abitare interpretano “la tecnologia come processo progettuale consapevole e finalizzato alla ricerca di soluzioni appropriate a produrre il massimo benessere per gli abitanti, con il minimo impatto ambientale e la ritiene mezzo insostituibile per il raggiungimento di tale obiettivo”. Attraverso la pubblicazione di studi, ricerche, realizzazioni, elaborazioni teoriche, riflessioni ed esperienze, promuove un modo di abitare non imposto né ai luoghi, né agli abitanti, ma caratterizzato da soluzioni tecniche specifiche che, consolidando la stretta relazione con l’ambiente, siano finalizzate ad un benessere equilibrato con le risorse, stabile e diffuso. La rivista promuove una visione sistemica del costruire, visione in cui le tematiche ambientali e sociali assumono un’ importanza centrale nella definizione del progetto. Si parte dal principio che una progettazione deve essere finalizzata al perseguimento del benessere degli abitanti ed al soddisfacimento dei loro desideri, quando essi risultino congrui con la necessità di risparmiare energia, materiali, ridurre le emissioni, conservare e riqualificare gli ecosistemi. Per cui si promuovono soluzioni abitative tese al recupero di edifici esistenti, al riuso di materiali e componenti, al riciclo, alla riduzione dell’uso di energia, soluzioni tecnologiche praticabili direttamente dai cittadini o attuabili all’interno dell’attuale processo di edificazione. Gli ecosistemi naturali e le loro relazioni con l’abitare trovano spazio nella rivista che si interessa di insediamenti, di processi progettuali, di sistemi e componenti tecnologiche esclusivamente dal punto di vista delle soluzioni ipotizzate, progettate, attuate per migliorare le relazioni con l’ambiente, ridurre il malessere sociale, aumentare l’azione attiva degli abitanti. La rivista illustra, quindi, quei progetti che si ispirino a tali principi e perseguono gli obiettivi della salvaguardia ambientale, dell’integrazione uomo-ambiente e di sistemi volti a migliorare in questo senso l’esistente, piuttosto che alla edificazione ex-novo Rivolta a esperti, tecnici, architetti, ingegneri, studenti, non tralascia di lanciare il proprio messaggio ai soggetti, anche internazionali, che operano sui temi trattati. I contributi sono plurilingue, tutti debitamente tradotti. Il successo della rivista è ampiamente confermato dalla crescita degli abbonamenti internazionali, in special modo provenienti dall’America Latina, Stati Uniti, Canada, Australia. Luigi Corrado D opo un rallentamento registrato agli inizi degli anni ’90 la fuga di forza lavoro qualificata e specializzata dal Sud verso il CentroNord è ripresa a pieno ritmo. Questo, in sintesi, il dato “grave per lo sviluppo dell’area” registrato dallo Svimez (Associazione per lo Sviluppo Industriale del Mezzogiorno). Infatti se in Calabria nel 1994 il tasso di emigrazione (rapporto tra numero di laureati persi rispetto a quelli residenti) era pari all’1,3%, solo cinque anni dopo il valore era esattamente raddoppiato al 2,6%. Il tasso di immigrazione, invece, dopo essere cresciuto dall’1,1% del ‘94 al 2,4% del ‘98, l’anno successivo era crollato di nuovo all’1,1%. È, pertanto, evidente che il saldo tra laureati in uscita e quelli in entrata è chiaramente sbilanciato a favore dei primi. Di contro il Nord Italia risulta essere la regione con il maggior numero di giovani analfabeti, secondo quanto emerge da un’indagine di “Cierre Ricerche” effettuata su dati Istat. È il Trentino Alto Adige a guidare questa particolare classifica con 19 giovani analfabeti su 100, seguito dal Friuli Venezia Giulia con il 13,2%, quindi la Lombardia con il 12,6% ed infine il Veneto con l’11,7%. Questo gap, che si tradurrebbe in termini pratici con un inevitabile rallentamento dello sviluppo industriale del Settentrione, viene però colmato dalla fuga di capitale umano qualificato di cui sopra. Ovviamente all’origine di questi dati vi è una problematica occupazionale cronica propria delle Regioni del Mezzogiorno a fronte di un Centro-Nord che può offrire posti lavoro con condizioni che al Sud, il più delle volte, sono considerate delle chimere. Questa mobilità geografica dei lavoratori, che doveva essere accompagnata da un processo di delocalizzazione delle imprese, è stata in parte promossa e sostenuta dal ministero del Welfare, con il progetto “Sud Nord-Nord Sud” realizzato dall’agenzia per le politiche attive dell’occupazione, Italia Lavoro, nel tentativo di dare nuova linfa alla crescita occupazionale. Tale progetto prevedeva che un certo numero di giovani meridionali avrebbe dovuto seguire percorsi di formazione in aziende del Nord, per poi tornare nella Regione d’origine arricchito di nuove esperienze professionali. Peccato che tale progetto si sia fermato al primo stadio, tanto che lo si sarebbe potuto ribattezzare “Sud-Nord solo andata”; ma la cosa più grave è che tale progetto ha contribuito alla migrazione ed allo “spreco” di capitale umano qualificato, perché troppo spesso i giovani diplomati e laureati del Sud-Italia partiti per accrescere la propria professionalità si sono poi adattati a ricoprire incarichi di qualsiasi tipo pur di lavorare. Viene spontaneo chiedersi, quindi, se invece di investire in progetti come quello appena menzionato, non fosse meglio pianificare una serie di interventi di politica economica rivolti al Mezzogiorno d’Italia capaci di fermare questa “emorragia di risorse umane qualificate”, senza le quali è assolutamente insostenibile qualsiasi ipotesi di sviluppo territoriale. Nicola Maluccio A Cittanova in Sulla Via Appia ad incontrar Le Muse... ricordo di Carlino Lucanità di Orazio in una diagnosi serrata di Marino Faggella C hissà da dove arriva questo profumo? Se lo chiedono quasi tutti i visitatori della Fiera del libro, che tra le piante rare della Villa Comunale di Cittanova, negli stand, sfogliano libri o sbirciano riviste. In effetti un’inconfondibile fragranza di pitosfori e zagare, rende più bella e suggestiva questa serata dedicata ai libri ed all’editoria calabrese, con uno spazio riservato alla commemorazione della figura di Carlo Carlino, saggista, poeta, critico e soprattutto grande promotore culturale. Sono complessivamente ventisette le case editrici presenti alla fiera dell’editoria calabrese, ad esse si deve la difesa e diffusione della cultura, nonostante le difficoltà operative derivanti dalla crisi generale del mercato. Va riconosciuto infatti ai nostri editori, di essere da sempre coraggiosamente in prima linea. Franco Morano, Sindaco di Cittanova, inizia a raccontare l’avventura culturale di Carlino, scomparso recentemente, e ne traccia anche un intenso ritratto umano. Carlino, uomo timido e riservato, lontano dai clamori, era piuttosto interno a trovare nella conoscenza e nella lettura una “lanterna” che illumina il mondo e le cose. Dopo Morano, Domenico Nunnari, della sede RAI di Cosenza, ricorda la fattiva collaborazione di Carlino in RAI ed il tema sempre presente nell’opera dello scrittore di Cinquefrondi: la Calabria. La domanda che tutti i calabresi si pongono, pensava Carlino, è partire o restare! Per il nostro critico era inevitabile rimanere anche con l’amarezza di notare come le trasformazioni culturali e sociali siano lente e difficili. Un altro tema sviluppato da Carlino, è quello del viaggio, argomento dell’intervento della Dott.ssa Micella, Assessore alla Cultura della Provincia di Reggio Calabria. In “Le Calabrie e i calabresi“ saggio dedicato all’arretratezza ed al bisogno di mutamenti nella nostra terra, vi è un ampio riferimento a Corrado Alvaro (calabrese illustre che viveva in modo conflittuale l’appartenenza a questi luoghi dolcissimi e amari). Lombardi Satriani, affronta il tema della necessità di non mimetizzarsi “mescolandosi” con la cultura di un altro paese, e ciò non per esaltare la propria terra, ma perché rimanendo fedeli ad essa, con la lealtà nei comportamenti quotidiani la si conosce, la sia rispetta, la si ama. Per Satriani, l’impegno di Carlino era restare per “fare”, per essere portatori di una nuova voce, di nuovi strumenti. La serata dedicata a Carlino termina con un tenero ricordo espresso da suo figlio, il quale racconta: “Mio padre mi diceva sempre apri un libro, ci troverai sempre qualcosa”. Un caldo applauso segue alle parole di questo ragazzo dal viso pulito che ricorda il padre. Con un bicchiere di vino rosso ed alla presenza di Clelia Bruzzi dell’associazione culturale “Cittanuova“ si conclude il nostro itinerario a Cittanova, questa associazione promuove incontri culturali, rassegne cinematografiche e musicali ed organizza con il Comune la Fiera del libro. In una calda ma ventilata sera di giugno, questo la Calabria è in grado di offrirci: persone che si impegnano come Clelia e che si sono impegnate come Carlino, perché qualcosa veramente cambi. Cinzia Messina S crivere di un poeta classico, latino o greco, il traduttore tende inconsapevolmente a modernizzare il testo, questo è un errore frequente deprecabile, e ora di dire basta ai luoghi comuni, come nel caso: quanto è moderno di un “antico”, anche Monti e il Caro più che tradurre l’Iliade e l’Eneide, la riscrissero. Un libro serio scritto con tutti i crismi e le accortezze del critico ci viene da un professore ordinario di Italiano e Latino: Marino Faggella. Il libro ha un titolo poetico: “Sulla Via Appia ad incontrar le Muse” - Lucanità di Orazio ed altri saggi (Arti grafiche, Lavello, 2005, pp. 144, € 15,00). Faggella sostiene con testi alla mano la probabile nascita di Orazio a Venosa, la ricerca è certosina e tutto lascia arguire - gli scritti di Svetonio sono fonte primaria - che il genitore del poeta svolgesse l’attività di salsamentarius nella zona ad oriente di Venosa, per poi raggranellare al punto (e qui intuiamo come i commerci fossero a quei tempi fiorenti) di fare un salto di qualità e diventare banchiere. Marino Fagella privilegia la lucanità di Orazio e le fonti portano a insistere almeno su quei primi anni (in tutto dieci) e anche dopo per la verità: il poeta venosino ci parla di più del suo carattere; questa è la tesi di Fraenkel il quale osserva che il poeta “parla di sé del suo carattere, della sua evoluzione e del suo modo di vivere assai più diffusamente di qualsiasi altro grande poeta dell’antichità”. Tutto ciò è sostenuto anche, in particolare nella V Satira, ma anche in altre in cui Orazio rievoca i suoi viaggi nel percorso che l’aveva condotto a Roma e a Brindisi. Come tutti i poeti, Orazio amava i silenzi della campagna non la ridondanza delle città, si rifugiava spesso nei siti più interni ed eremitici per poter pensare e stendere il migliore canto nelle Satire, anche negli ultimi tempi vi rivolge lo sguardo più alla campagna romana che ai luoghi nativi. Fu l’irrequieto poeta, l’inistabile e fugace detentore di una strenua inertia sempre, fino alla fine dei suoi giorni. Il paesaggio lo rese allegro e estroverso nel carattere, certo Orazio non fu Virgilio asserisce il Faggella che “con animo romantico aderisce totalmente al mondo della natura di cui avverte con immediatezza il respiro”. La lucanità di Orazio è bene in vista nei suoi assidui ritorni nelle Satire, ma non prevale con disperata generosità; questo libro di Faggella non è soltanto la scheggia che fa rumore e passa e un confronto netto, appassionato sulle idee, il fine, la morte in una composita e stretta finale con la Weltanschauung oraziana. Come non citare Leuconoe del tempo geloso in quel Carpe diem che oggi più che mai diventa un’ininsopprimibile suggello e viaggia nell’intimum con noi e ci da una dritta facendoci meditare sulla morte. Un libro convincente, puntuale e di facile accesso e di memoria tenax, Faggella ci ha riportato con la mente e col cuore al mondo della Venosa del poeta cui nacque nel 65 a.C. Non si può disconoscere il fervore e la passione che ha messo Faggella per non farci mancare la lucanità, il segno delle sue origini che meglio di ogni cosa traducano e inquadrano il personaggio nelle sue volute, in quella giovinezza crepuscolare, poi tormentata, dalla vita delle città. Non posso esimermi di chiudere questa nota senza citare un passo giustappunto dell’infanzia oraziana, così suasivamente descritta da Faggella: [...] Per confortarsi si rifugiava talvolta nella memoria evocando il favoloso tempo della sua infanzia, che riaffiora nei suoi versi con gli incantevoli scorci del paesaggio daunico, percorso dal fragoroso Aufido, e le corse spensierate sulle balze del Vulture, mentre in lontananza si stagliava Acerenza, alta come un nido di aquila, i pascoli bantini e, più lontano, la fertile campagna di Forento (l’attuale Lavello). Antonio Coppola Nei fondali della “cucina marinara” in compagnia con il Rhombus Podas O sservando l’imponente impalcatura acquaria che si apre ai nostri passi rimaniamo colpiti negli occhi dal nuovo bel libro di Roberto Pagan “Il sale sulla coda” (Zone editrice, Roma, 2005). E’ poesia haiku, quella che gli sprovveduti osano banalizzare perchè non tiene, importata dall’Oriente: noi di quaggiù conosciamo a mala pena Bashò come il maggiore poeta giapponese che ha liberato il haiku da ogni artificiosità. L’Oriente estremo cui Bashò nasce e si ritira in un eremo per dedicarsi alla poesia, ha qualche affinità con Pagan, uomo schivo, oggi possiamo dire “in ritiro” nella Maremma. Il nostro poeta ha colto una luce, o l’impressione di un istante, nel mare micrologico dei fondali, e nella strepitosa e irriducibile lezione scientifica ci catapulta nel suo speciale divertissement da teatro ittico. Ma quale soccorso abbiamo noi che viviamo in apnea per “riprenderci” la quantità zoologica di termini e varietà ittiche? Nessun soccorso; noi lo comprendiamo e sembra di trovarsi con il poeta ai bordi di un grande acquario dove dall’oblò osserviamo, tra il germogliare del plancton, le stranezze di un’infinitesimo mondo dall’alone magnetico. Pagan è uno dei pochi poeti che sa dare alla parola la luce, un telecomunicatore con un mondo muto e però presente e vivo che ci segnala a farci scoprire questi maiuscolati haiku. Me l’aspettavo da Pagan quest’impresa; della brevità prediletta c’è una suggestione fortissima nel leggere questo libro; Donato Di Stasi nella post-fazione ci ricorda, “uno dei suoi tragitti più acuti e mordaci verso le isole della Letteratura”. Una forza guizzante, un implacabile fiocinatore di poesia ittica, sa “infierire” sorridendo fino all’osso e in bilico su un paradosso nel far parlare un mondo muto. Ha passato in rassegna un pianeta sottomarino, le sue “remote emozioni da sub dilettante” tanto da azzardare l’escatologico nell’uomo: “Se il mare è cosmo/e noi nel cosmo siamo/dunque siam pesci?”. Un plauso va a Giulia Romano, finissima esecutrice delle tavole originali nel testo: una magnificenza di esemplarità ittica, alcuni esemplari mai incontrati o rari. Antonio Coppola L ETTERE M ERIDIANE 18 C ALABRIA A NTICA N. 2 / 3 - Luglio - Agosto - Settembre 2005 Rubrica di Domenico Coppola Un energico intervento sovrano in materia di archivi: Dai dispacci della regia udienza di Catanzaro (1795) N elle nostre periodiche indagini nel fondo della Regia Udienza di Catanzaro (1654-1808), ci è occorso di imbatterci in un dispaccio che ha per oggetto gli archivi e che dimostra la notevole considerazione e la cura che l’Amministrazione Borbonica aveva per gli istituti in cui erano depositati gli atti riguardanti la storia delle varie province del Regno. Il dispaccio ha per oggetto una disposizione di carattere generale valevole per tutto il Regno. Commentiamo qui di seguito il documento di cui daremo in appendice il testo completo. Occorre ricordare che il Regno era suddiviso in province, così denominate sin dall’epoca aragonese (1442-1503) quando avevano sostituito i Giustizierati dell’epoca normanno-sveva (1140-1266) nella quale erano in numero di 11 divenute poi 12. La magistratura suprema operante nelle province era appunto la Regia Udienza durata sino al 1806 ed il cui capo era il Preside: è a questo personaggio che viene indirizzato da Napoli il dispaccio di cui tratteremo. Nel nostro caso l’autorità mittente è Fabrizio Ruffo principe di Castelcicala, dal maggio 1795 direttore (ministro) agli Affari Esteri, Marina e Commercio e dal gennaio 1798 segretario agli Affari di Grazia e Giustizia. Nell’indice del registro che contiene il dispaccio, esso così figura inserito: “Sua Maestà comanda che tutti i Reggi Governatori non possano mai nel caso di partenza dà loro Governi amuovere o seco loro condurre la menoma carta d’uffizio da essi fatta”. Occorre infine ricordare che nei territori di dominio feudale i governatori rappresentavano il potere regio. Dunque abbiamo già visto dall’ “oggetto” del documento che si emana una direttiva da valere erga omnes, che viene originata da una lamentela di un organo locale: era accaduto che un giudice non aveva potuto dar corso ad un ordine ricevuto dal Preside e che riguardava una lista dei forestieri e dei militari in ritiro dimoranti nella sua giurisdizione di cui trattava un Real Dispaccio che a sua volta si richiamava a un Reale Editto per i forestieri dimoranti nel Reali Dominii. Questa mancata esecuzione di un ordine superiore aveva formato oggetto di una relazione del giudice al re: con essa il giudice lamentava che il governatore del luogo, Ferdinando Merola, essendo stato richiamato in Napoli, aveva portato con sè non solamente quel Real Dispaccio, “ma ben anche moltissime altre carte che dovevano essere conservate nell’Archivio di quella Corte”. Era come si vede, l’inosservanza di una norma fondamentale riguardante gli archivi, che dovevano essere conservati integri nelle loro serie cardine. Il re dunque coglieva l’occasione di questa grave inosservanza per emanare un ordine drastico: “Tutti i Regj Governatori non possano mai, nel caso di partenza dà loro Governi, per qualunque ragione amovere o seco loro condurre la menoma carta d’uffizio da essi fatta o ad essi diretta per cagione del loro impiego, la quale deve perciò passare in archivio e restare al successore e soprattutto i Reali Dipacci1 che loro si dirigono”. Nel dispositivo in calce al dispaccio ove si sottolinea l’assenza momentanea del Preside, l’Udienza- trasmettendo il dispaccio – ordina che ciascuna Regia Corte registri l’ordine impartito “per la cieca osservanza ed esecuzione in ogni tempo”. Il dispaccio che abbiamo commentato è indicativo – ove ve ne fosse bisogno – del sollecito e regolare funzionamento delle Cancellerie del tempo. Per gli archivisti - lo abbiamo sottolineato – il documento è altresì dimostrazione della buona tenuta e conservazione degli archivi dell’epoca. 1 Il corsivo è nostro e mette nel dovuto rilievo quelle che noi archivisti chiamiamo le “serie cardini”. APPENDICE Testo del dispaccio (Archivio di Stato di Catanzaro. Regia Udienza Provinciale. Registri. Busta 20/42 (ex 1073) Aa 1793-1798. Carta 607 – R. e V. ). “Il re ha letta la relazione del giudice di Ditonto1, con la quale questi dava conto di non aver potuto eseguire l’ordine ricevuto dal Preside Provinciale, di rimettergli nota distinta e legale degl’ Individui Militari ritirati e dè Forati2 esistenti in quella giurisdizione, che non siano eccettuati nel Real Dispaccio dè 15 aprile corrente anno, continente alcune dilucidazioni del Real Editto pè forestieri dimoranti nei Reali Dominii, e di non aver potuto esso Giudice eseguire un tal ordine, atteso, che il governatore di quel luogho Don Ferdinando Merola nel partire di colà per venire in Napoli, ove, (con Real Dispaccio) è stato chiamato, portò seco non solamente l’enunciato Real Dispaccio ma ben’anche moltissime altre carte, che dovevano essere conservate nell’Archivio di quella Corte. Sua Maestà in vista ha risoluto e vuole, che tutti i Regii Governatori non possano mai, nel caso di partenza dà loro Governi per qualunque ragione amuovere o seco condurre la menoma carta di uffizio da essi fatta o ad essi diretta per cagione del loro impiego, la quale deve perciò passare in archivio e restare al successore, e soprattutto i Reali Dispacci che loro si diriggano. Nel Real Nome communico tutto ciò a Vostra Signoria Illustrissima affinché ella ne disponga l’adempimento. Napoli 5 luglio 1795. Il Principe di Castelcicala = Signor Preside di Catanzaro. Ob absentiam Illustrissimi Domini Presidi = Exequatur et communicetur ominibus Regiis Curiis huius provinciae cun inserta forma Realis Rescripti. Si dica con le lettere che la presente Sovrana determinazione si registri in ciaschuna Regia Corte affinché partendo gli attuali Regj Governatori possa essere a notizia dè successori per la cieca osservanza ed esecuzione in ogni tempo. Si accusi il ricevo e si umili a Sua Maestà la providenza data. 16 luglio Adempito. Dovrebbe leggersi Bitonto. Il termine non è chiaro; dovrebbe intendersi Forestieri, cui si accenna in prosieguo nel testo. 1 2 Dal manicomio alla società: viaggio tra le strutture intermedie La casa editrice di Renato Curcio pubblica le testimonianze di chi sopravvive ai margini Istituti post-manicomali A cura di Nicola Valentino Edizioni Sensibili alle foglie pp. 104 - € 12,00 opo la Legge 180, meglio nota come Legge Basaglia, che D nel 1978 decretava la chiusura degli Ospedali Psichiatrici, sono nate le SIR - Strutture Intermedie Residenziali – ancora prima che il ministro Rosy Bindi emanasse il decreto per lo svuotamento dei manicomi. L’aggettivo “intermedie” configura, innanzi tutto, la transitorietà dei ricoveri, auspicando che tali strutture funzionino da interfaccia tra il sanitario e il sociale. Ma, fin dall’inizio, ogni struttura si è dovuta misurare con l’eredità sociale del manicomio. In termini pratici, ciò sta a significare che alle SIR sono state affidate soprattutto “persone abbandonate da tutta una vita” fino alla morte, mettendone, in tal modo, in discussione il principio di transitorietà. Una problematica funzionale che si trova all’apice di una serie di difficoltà prettamente formali, e che quindi vanno affrontate nello specifico. Prima fra tutte, la necessità di “una trasparenza sociale dell’istituzione e di rottura dei suoi confini artificiosi di separazione dalla collettività”. In linea con le osservazioni di Basaglia in merito alla comunità, la quale dovrà imparare ad accettare le proprie contraddizioni, non avendo più luoghi in cui negarle. Questo libro raccoglie, infatti, storie emblematiche, raccontate da operatori e residenti di strutture residenziali attive in diverse parti d’Italia. Approfondendo, in questo modo, la difficoltà di attuazione di un progetto istituzionale che si scontra inevitabilmente con la realtà del quotidiano. Una difficoltà che è, in primo luogo, frutto di una classificazione, spesso equivoca, della “malattia mentale”, la quale rappresenta, pertanto, il terreno su cui si fonda un approccio terapeutico inadeguato. Alla luce di questo, è essenziale una bonifica dei circuiti funzionali, delle finalità, e soprattutto è importante uniformare le modalità, lasciando, comunque, spazio alla necessarietà dello specifico. D’altronde si tratta di “dispositivi totalizzanti” ma in termini più umani sono vere e proprie “risorse di sopravvivenza” e queste storie ne sono testimonianza. La Chioccia d’oro di Vincenzo Fusco, “espressione compiuta del genius loci” La Chioccia d’oro di Vincenzo Fusco Laruffa Editore pp. 190 - € 16,00 N e “La Chioccia d’oro” di Vincenzo Fusco, la dimensione del ricordo percuote l’esistenza di un uomo che fa ritorno al suo paese d’origine, riscoprendo quel legame di appartenenza che diviene, in breve tempo, la sua ragione di vita. “L’espressione compiuta del genius loci. Il punto più alto di sintesi della storia di una comunità”; come afferma il prof. Francesco Adornato, storico e docente presso l’Università di Macerata. Il paese tanto amato ed odiato, allo stesso tempo; vittima dei limiti incarnati alla società meridionale. Ma quell’esistenza incerta, quelle speranze senza futuro, fanno parte di un dolore addolcito dalla memoria. “E, da quel momento, vivere per lui cominciò a voler dire ritornare soprattutto a quell’immagine di sé, alleggerita dal peso del tempo…”. Ogni luogo, ogni scorcio di vita, immobile in quel suo perpetuo movimento, si insinua nella mente del protagonista, come sintomo di un sincero rimpianto che non ha saputo mai cedere alla rassegnazione. “Aveva perciò deciso di andarsene, non quale atto di resa ma per meglio contribuire a salvare dal fallimento definitivo il progetto di rinascita dell’uomo del Sud, di cui Giuseppe costituiva l’esempio negativo più marcato, votato com’era a nutrirsi masochisticamente dei liquami dello scacco e della disperazione”. Pasquino Crupi, critico letterario, sottolinea come l’opera del prof. Fusco “ridìa alla letteratura calabrese la capacità di riconoscersi come romanzo pluritematico e pluritemporale. Fatto di una nostalgia progressiva, che non rimane, quindi, imprigionata nel passato”. Mediante un’attenta analisi del territorio, Fusco, ha dato voce al processo storico compiuto, nel ventesimo secolo, dalla società meridionale, in linea con quella letteratura del reale, atta a testimoniare il rapporto, che intercorre necessariamente, tra l’uomo e la storia. L’incomunicabilità tra le classi sociali, il divario, sempre più pressante al Sud, tra la “borghesia ingenua che è venuta in possesso di una ricchezza terriera che ha utilizzato in maniera parassitaria; l’oceano di contadini aggrappati alla speranza di ricevere qualcosa; e nel mezzo gli artigiani che per mantenere un certo decoro sociale, mettono da parte il contadino come nemico. Che ne risulta più volte calpestato”. “…mettendo a nudo le reali condizioni di vita dei contadini meridionali. Si veniva così a scoprire che essi facevano parte di un drammatico contesto antropologico, tagliati fuori da ogni rapporto con gli altri ceti sociali che non fosse di vera e propria sudditanza, chiusi nei rituali lenti e monotoni delle consuetudini e segnati dal convincimento dell’ineluttabilità della loro condizione e di come fosse un prodotto naturale, e perciò non evitabile, la stessa disuguaglianza sociale da loro vissuta”. Il realismo, in senso antropologico, della società meridionale, diviene, in fine, la chiave di lettura, conclusiva e in un certo senso complessiva, nella sua valenza esistenziale, di un popolo che “ama attribuire gli eventi ai fenomeni esterni, per non esserne responsabile”. “…A P. tutti sapevano della chioccia d’oro e degli effetti negativi che erano sempre seguiti alla sua comparsa, sin dal più remoto passato… Prevalse, cioè, il timore che, fattasi vedere la chioccia tra gli anfratti inaccessibili della sua supposta dimora, ne dovessero inevitabilmente seguire, a breve o media scadenza, spiacevoli conseguenze per tutti…”. Federica Legato NOTE BIOGRAFICHE V incenzo Fusco, ordinario di Filosofia e Storia nei licei, è noto, anche fuori dell’ambito territoriale in cui ha operato ed opera, grazie alle sue apprezzate pubblicazioni di carattere speculativo e storico-sociologico (Dell’angoscia. Ipotesi per una filosofia della speranza, Ed. Pagine Polistena 1971; Polistena, storia sociale e politica, 19221979, Ed. Parallelo 38, Reggio Calabria 1981; Dolce paese… Ed. Ione, Polistena 1992; Attività creditizia e società calabrese. Il caso della Cassa Rurale Cooperativa Depositi e Prestiti di Polistena, 1914-1939, Ed. Laruffa, Reggio Calabria 2001). I suoi molteplici interessi culturali, che vanno dalle problematiche etico-giuridiche a quelle estetico-letterarie, nonché a quelle proprie del versante storico-antropologico, sono ben testimoniati dalla vasta produzione di articoli e saggi via via pubblicati su quotidiani, periodici e riviste specializzate. Dal macabro arto-fantasma spuntano azzurre trasparenze nella Poesia di Ninny Di Stefano Busà U n titolo inconsueto quanto macabro “L’arto-fantasma” di Ninny Di Stefano Busà; un titolo come sfida che getta luce su molte situazioni difficili dell’esistenza; il senso in questo caso non è di strumenti psicologici per rendere felice la persona in difficoltà, ma piuttosto quella doppia dimensione, socio-individuale (in questo caso il mezzo è la poesia) di trovarvi un insieme nell’io, rendere il diviso un “atto unico” come scrive, in nota, l’autrice. Quindi, qui siamo immersi poeticamente in un’ucronia allusiva, in un progetto dove è implicita l’utopia che ha come archetipo lo stato edenico, una sfida e una denuncia, ma anche un memento. Questo bel libro riproduce una lettera-prefazione del compianto Giovanni Raboni, che scrive della poesia busaniana in termini ultra positivi ed elogiativi, richiamando Ia padronanza di un verso fatto a misura di crudezza-unità non esibita fino in fondo, ma che fa la differenza, per quel grado superiore di trovare un esito di minor turbamento nel clima dell’irregolarità poetica, fatta di “ipernovità”. Noi della Busà abbiamo fatto un culto; diciamo che questa poesia è incontenibile, straripa dal suo alveo, non ha finzioni melodrammatiche di tanta poesia intimistica meliosa, che è solo la caricatura di se stessi, lascia solo un “fruscio d’ali”. Si colloca in una dimensione montaliana del correlativo oggettivo spinto fin dove il mondo si respinge e si rintuzza; qui le “assenze” sono figurate in un corpo unico, nella compiuta parenesi del divenire e dall’io staccato il vulnera- bile corpo è teso nello stesso spazio e pullula di immagini e rigonfiamenti, si distilla e implode contorcendosi; Busà è una donna che non va a genio il corteo di corifei che postulano e intricano il proprio io, è spogliata dal vento intimo in una febbre continua di assalti e sangue, voce dispiegata e anche dissonante, non sa lustrare le scarpe quando il resto è spoliazione, una perdita che si schianta nel niente. Opera totale “L’arto-fantasma” non è una facile passeggiata, il terreno è in acclive e con spaventosi dirupi. Si presenta come una sorta di altro mondo, di visione precorritrice e infernale insieme, il più difficoltoso itinerario che ci è parso da scalare, funambolica impresa attraverso arrischiate terre di nessuno. Cercavo un campo di margherite e vi trovo mine inesplose, terra ferrigna e lucori della terra di Sicilia, quella della natia Partanna traboccante di pathos e rischio: un Sud avvampato, piretico, ipnotico. Ninni Di Stefano raduna tutto il suo potenziale d’armi e fa di questo libro un campo di battaglia, una Bastiglia con laceranti strappi in un cielo fosco dentro “l’enigma insondabile a risarcire dall’inganno l’ultima fatica del presente”. Terreno aspro, fanghiglia, sudore, una macerante e suprema “autodifesa” si alza a controprova di una poesia che non “grida alla roccia” ma è un mare incontenibile “d’echi e libecciate” che sfrangia dal muro d’ombra nella luce abbagliante di poetica del terzo nostro Novecento letterario. Antonino Coppola L ETTERE M ERIDIANE N. 2 / 3 - Luglio - Agosto - Settembre 2005 L’OFFICINA DELLE LETTERE 19 Il profumo della cenere “Per ritrovarsi è necessario perdersi”. PT.W. Wolf 1817-1873 L a seduzione delle parole è data dalla visione d’insieme, non dall’inusualità delle stesse. Il fascino è creato dagli abbacinamenti delle immagini generate, dagli spazi che ti si aprono all’improvviso, là dove sembrava di essere in un vicolo cieco. Senti le rocce buie di una gola dentro la quale ti sei infilato, poi, all’improvviso, ti si apre una vallata davanti. Lasci fluire il lento incedere delle parole, rallenti, ti fermi, aspetti il tuo ascoltatore, scarti, finti, per poi tornare ad affabulare. Quattro elementi, combinati in maniera diversa, permettono la composizione di un numero estremamente ampio di esseri viventi. Ventisei lettere possono aprire nuovi mondi, che ci rappresentino e ci mentano. Questo cercava. Questo diceva di avere trovato in me. Il rumore della macchina mi dava il ritmo della mia ricerca di lei. C’è qualcosa di ipnotico ed, al contempo, di angosciante nella moderna scansione del tempo. Metronomi meccanici ci ricordano il fluire. Il pistone si infilò nel cilindro, provocando un veloce fruscio, in quel frattempo le mie cellule erano invecchiate di qualche millesimo di secondo. La consapevolezza ci rende forti o deboli? Lei era bellissima. Non credo di averglielo mai detto. Al mio solito. Difficile focalizzare il fascino di una donna. Capelli mossi da un vento umido e vellutato. Uno sguardo perso su una collina. Il tatuaggio di un delfino. Il fianco di una collina, particolarmente levigato, era ricoperto da papaveri di un rosso carico, ma non squillante. Guidavo tranquillo. La tonalità delle macchie sul campo era data dal peculiare incontro del colore dei piccoli fiori, con la luce intensa e dorata di una tarda mattinata di ottobre. La macchina tagliava l’aria tiepida, come se provasse un piacere carnale nel farlo. Leggeri scuotimenti impastavano l’aria all’interno dell’abitacolo e le note dei Cure vagavano rimbalzando tra i parabrezza. Onde morbide e perdute tra muri di vetro. Alla mia sinistra un prato, che forse un tempo era stato verde. Forse. Sterpi stopposi che, colpiti dai raggi del sole, diventavano una trama fitta. Quasi un tappeto bizantino, in ginestra intrecciata. Sul lato destro il mare aveva deciso di riposarsi. Era piacevole lasciarsi andare alla guida, farsi succhiare dalla strada, senza porre resistenza. Era stato tanti anni prima. Forse non moltissimi, ma direi abbastanza. Lei si era avvicinata a me. Mi girai. Una nube di un bianco lattiginoso aveva cancellato una tozza sagoma nera. Non fu una cosa repentina. Prima vidi questa figura di uomo. Un contadino con una falce in mano, quasi tratteggiato a carboncino nell’aria. Ne potevi saggiare il contorno, ma non la tridimensionalità. Mi ricordava le immagini che creavo da bambino, mettendo una moneta sotto un foglio e strofinando sopra la punta della matita. Una sindone di contadino. Poi il fumo bianco di un fuoco la cancellò, riga per riga. Ginevra. Si chiamava Ginevra. Ed io la amavo. Lei ed il suo delfino. Non le avevo mai detto neanche questo. Era longilinea ed elegante. Aveva un che di nobile nei suoi movimenti, ma nulla di costruito. Quando camminava non spingeva in avanti il corpo, ma sembrava venisse aspirata dallo spazio antistante. Aveva un modo curioso di sistemarsi i capelli dietro le orecchie. In alto, dei pini marittimi rompevano la monotonia di brulle e sfaccendate colline. Erano color corda, con vistose macchie ruggine intenso, create da arbusti bruciati. Gli alberi sembravano file di indiani pronti a sferrare un attacco. Il cielo era così sereno da non darti scampo. Ti sentivi scrutato, spogliato, preso, vinto da quella luminosa lastra di un celeste senza ritegno. Una sottile punta di masochismo ti incitava a farti possedere da quella luce. “È difficile starmi vicino!” Le dissi una volta. “Ci credo” rispose “ma quanto deve essere stimolante?” “Quanto?” Cerchiamo davvero degli stimoli negli altri? Che cosa ci fa invaghire di un altro essere? Quello che ci svela o quello che ci nasconde? Quello che ci consente o quello che ci vieta? “Mi piaci, mi piaci molto. Ti amo!” disse. I suoi occhi erano trasparenti, sembravano fresca acqua di un ruscello di montagna. Pareva volesse farsi penetrare dal mio sguardo. La osservavo minuziosamente, respirando calmo. Boccate d’aria scendevano tranquille a lenire la mia ansia. Le mia pupille allargate le lisciavano i tratti. Indossava una camicia bianca che profumava di pulito. In basso, sotto il primo bottone, c’era il delfino. Lo visualizzai felice, mentre saltava tra le onde. Era lì, perso tra quel panneggio, inebriato dal profumo di sapone di Marsiglia. Non c’era malizia in lui. “Sei speciale!” disse. Questa volta il suo sguardo aveva agganciato qualcosa. Mi girai. Stava guardando un vecchio casolare, oramai diroccato. Doveva avere avuto diversi e maggiori fasti, quell’edificio. Delle rampicanti lo avevano assalito e si stavano cibando delle sue mura. Macchie di intonaco color cipria disegnavano delle mappe sulle parti di mattoni a vista. Una nuova geografia. Una cartografia fantastica. Ci parlavamo fitto ed io immaginavo nuove isole, mai abitate, mai state. Una penisola, vicino allo spigolo, aveva la forma di un pugno levato in alto. Quale popolo la abitava? Quali erano i costumi, le leggi, di cosa vivevano? Quali i loro Dei, cui potersi ribellare? Anche la forma della loro terra lo diceva: mettiamo qualcuno in alto contro il quale adirarci nei momenti di disgrazia. La guardai e pensai alla sua capacità di sviscerare le cose, di entrare in dettagli invisibili agli altri, di sezionare il pensiero. Anche io pensai che era speciale. Ma non glielo dissi. Il pistone entrò ancora nel cilindro. Cioè, lo aveva fatto innumerevoli volte, ma in questa occasione me lo stavo figurando ancora. Quel cilindro metallico che si infilava in una teca lucida. Mi ero avvicinato di qualche millesimo di secondo a lei. L’avrei incontrata ancora. Presto. Sarei stato ancora vicino a lei. Sul cielo si era disteso un sottile strato uniforme di nuvole, i bordi delle quali erano dolcemente abrasi e sfumavano in un celeste diafano, che mi portavano verso un nulla ipnotico. Mi soffermai su quella tonalità di colore. Una specie di carta da zucchero, ma più lieve, innocente. Arrestai l’automobile su uno slargo in terra battuta. Il mare si infilava formando un’ansa che arrivava quasi alle ruote della macchina, e sbatteva le onde su degli scogli spigolosi. Era curioso sentire la diversità di suoni che si riproduceva: l’acqua che si srotolava sul tratto sabbioso della spiaggia come uno scialle setoso sulle spalle di una donna, le onde che percuotevano come dei gong nere e lucide pietre. In controluce, una macchina nera. Cinque sagome. Una piccola anforetta senza manici, nelle mani di uno di loro. Mi mantenni a distanza. Il vento divenne trasparente e gelido. La sua barca, a quest’ora, doveva essere tra piccole onde dorate, da qualche parte. “Ti amo.” Mi disse una volta. “E mi rimane poco ancora.” L’uomo più alto del gruppo salì su una striscia di scogli, mantenendo un equilibrio precario. Aprì l’urna e chiuse gli occhi, rivolgendo il capo verso l’alto. Il sole gli rischiarò le palpebre chiuse. Gli altri guardavano lontano, verso il mare. Le onde sollevavano spruzzi e macchiavano di bianco il cielo. L’uomo infilò la mano ed estrasse un pugno chiuso e rancoroso. Lo levò al cielo. Gli occhi gli si bagnarono d’amore e odio. Fermo, con quella cenere fra le mani. Cosa era lui? Un’irrilevante rugosità sulla crosta terrestre. Un indistinguibile punto in una sfera lanciata nell’universo. Dove era Dio? Non voleva aprirla, quella mano. Poi si schiuse, quasi da sola. Ginevra scivolò via, per l’ultima volta, lontano da suo padre. Una splendida pioggia di cenere. Minuscole particelle color ardesia si lanciarono in una danza. Una puntinatura indistinta, come un lontano volo di rondini. Il vento parve bloccarsi, come un una piccola nube grigia, poi quella polvere piovve sullo scoglio amato da Ginevra. Enrico Antonio Cameriere Testamento d’Amore La mia mente, fissa in quell’insostenibile apparenza del passato, mi riporta al tempo in cui, io consumai la tua immagine al fuoco della speranza. Era l’infedeltà delle correnti a lambirmi, era l’aria calda delle tempeste del sud. Dalle mie mani, dai tuoi occhi assenti nell’oscurità del silenzio, dall’impunita codardia del bisogno, è sorto l’inguaribile esilio del pianto. Ho atteso che l’impossibile potesse superare la tirannia del suo ventre, ho atteso te in quella rara abnegazione del sempre. Tu eri un’isola molestata da un oscuro destino. Accoglievi il mio richiamo, con la tua indolente accondiscendenza e intanto suggellavi l’eternità del tuo abbandono. Ora, nelle sere in cui un’inquieta luna mi aiuta a ricordare, io ti vedo, illuminata dal presente, e mi accorgo di quanto di me ancora tu non sai. Florentino Ariza Il mio primo giorno al mare A nche quell’anno, la primavera lasciava il posto ad un’estate che si annunciava con caldo e afa; noi ragazzetti, con la scuola oramai chiusa, eravamo totalmente presi dai nostri giochi all’aperto, trascorrendo molte ore in divertimenti, i più disparati. Da poco, giugno aveva lasciato il posto al mese più caldo dell’anno: luglio; i miei amici, Carmelo e suo fratello Domenico, compagni di giochi, iniziavano la stagione balneare e ogni giorno partivano felici con la loro automobile luccicante con destinazione mare. Per me, invece, si presentava un’altra estate a casa, tutt’al più mia madre mi avrebbe mandato come gli altri anni, nel salone del barbiere senza restare per strada a combinare guai. Un pomeriggio caldo e soleggiato, ero seduto nel giardino di casa, sotto un albero di limone, all’ombra, intento a ripassare le figurine dei calciatori che conoscevo a menadito, quando la voce di mia madre destandomi m’invitava ad alzarmi e raggiungerla in cucina. A casa nostra, era venuta a trovarci la Sig. Francesca, una nostra vicina di casa e amica di famiglia; parlando dei figli, disse che Francesco suo figlio mio coetaneo, avrebbe iniziato la stagione dei bagni con suo padre e invitava anche me ad andare con loro. Al sentire ciò, un’immensa gioia mi pervase, pensando che finalmente potevo vedere il mare, fare il bagno, giocare sulla spiaggia, e poterlo raccontare agli amici la sera. La mamma acconsentì, ma rivolgendomi uno sguardo severo, mi raccomandò di non crear problemi ed essere educato ed ubbidiente. Io naturalmente feci un cenno d’assenso col capo. Ora un problema si presentava, infatti, non possedevo un costume da bagno, la mamma si ricordò che mia zia ne possedeva uno che era stato di un mio cugino più grande di me, pertanto andò a cercarlo a casa della zia. Aspettando che mamma tornasse, fremevo con trepidazione; da lì a poco, la mamma tornò con in mano un “costumino” color pastello. Saltai di gioia, lo afferrai e corsi in camera per indossarlo, il costume mi andava una meraviglia. Quella notte, ricordo che mi svegliai parecchie volte, pensavo al mare, non riposai bene. Il mattino seguente trascorse velocemente, a pranzo mangiai poco, le mie sorelle, più piccole di me, erano invidiose e mi schernivano. Il papà di Francesco, arrivò puntuale alle 15,30 davanti casa mia con la sua motoape color grigio topo; era un pomeriggio caldissimo, io aspettavo da almeno un’ora pronto con il mio zainetto cucito dalla mamma. Montai accanto al Sig. Giovanni, mentre Francesco era sistemato dal lato opposto, indossava una canottiera bianca e un pantaloncino azzurro chiaro, un saluto e via lungo la Strada Provinciale che conduceva alla spiaggia. La strada si snodava tra alberi d’ulivo immensi che a quell’ora proiettavano l’ombra sull’asfalto rovente. La motoape percorreva la strada, poco frequentata a quell’ora; ad un tratto il paesaggio cambiò di colpo, ora, agli alberi d’ulivo, si sostituivano meravigliosi vigneti e piante di fico d’india che mostravano i loro frutti dai colori giallo e rosso. Durante il lungo il viaggio, osservai il Sig. Giovanni, era un uomo quasi calvo, con una canottiera bianca, pantaloncini color cachi e ai piedi un paio di calze bianche e dei sandali marrone; intento alla guida, raccontava di quando ancora giovane emigrò in Australia a cercar fortuna con la nave e impiegò più di un mese per arrivarci. “I sacrifici furono tanti”, ripeteva il Sig. Giovanni, “lavorai tanto in quella grande nazione che dava lavoro a tutti e tutti hanno contribuito alla sua grandezza”. Ad un tratto, dopo una curva a gomito, come per incanto, si aprì una visione meravigliosa, un’immensa distesa d’acqua azzurra sino all’orizzonte, dove si intravedeva, simile ad un grande cono, un’isola, il Sig. Giovanni disse “Quello è il vulcano Stromboli, guardate come dalla sommità esce il fumo”; infatti, dalla sua sommità si alzava una lunga stria scura. Era la prima volta che vedevo il mare. Giunti vicino alla spiaggia, il Sig.Giovanni parcheggiò la motoape sotto un albero di eucalipto che, facendo ombra, la riparava dal caldo torrido. Prese un ombrellone, con la scritta “Coca cola”, e ci avviammo verso la spiaggia; la sabbia era caldissima, in un punto vicino alla battigia, il Sig.Giovanni piantò l’ombrellone e lo aprì. Io ero intento ad osservare tutto quanto era attorno a me, quando il Sig.Giovanni mi invitò a levare la mia camiciola blu e i pantaloncini bianchi. Ci sedemmo con Francesco a prendere il sole e osservavamo i bambini che festosi giocavano nella battigia e ci scambiavamo delle impressioni; suo padre intanto fumava seduto sotto l’ombrellone e ascoltava la musica da una piccola transistor. Poco dopo, il Sig.Giovanni ci diede il permesso di fare il bagno, contenti, ci avviammo a piedi nudi sulla sabbia calda; il mare davanti a noi assumeva un colore blu cobalto, mentre i raggi del sole saettavano sulla superficie. Intorno a noi era un vociare festoso, l’acqua mi accarezzava le caviglie dandomi una sensazione mai provata prima, era calda e mi sentivo felice, allora mi stesi a bagnar tutto il corpo, mentre Francesco, che sapeva nuotare, era lontano da me un bel pò. Davanti a noi, un enorme scoglio dal quale parecchia gente si tuffava; io osservavo il mare per vederli riaffiorare, Francesco si avvicinò a me ed io allora cercai di imitarlo, ma dell’acqua mi entrò in bocca e sentì il suo sapore salato. Il tempo trascorse velocemente, ben presto uscimmo dall’acqua e ci asciugammo con i teli, prendemmo la merenda e la consumammo in un baleno. Ora, il sole stava adagiato sull’orizzonte, i suoi raggi assumevano un colore rosa tenue, mentre scompariva lentamente. Il Sig.Giovanni, seduto sulla sdraio di legno color verde e bianco, fumava un’altra sigaretta e lanciava il fumo in alto formando anelli che scomparivano nell’aria. La spiaggia ora era meno chiassosa, la gente a gruppetti si avviava lentamente verso la strada; eravamo rimasti in spiaggia in pochi; alzandosi di scatto, il Sig.Giovanni ci invitò a rivestirci, chiuse l’ombrellone mentre noi raccogliemmo le nostre cose e con passo tranquillo raggiungemmo la motoape sotto l’eucalipto. Ci sistemammo e allora il papà di Francesco avviò la motoape e lentamente guadagnò la strada. Lungo il viaggio di ritorno, il Sig.Giovanni continuò a raccontarci del suo trascorso in Australia, noi stanchi e distratti non lo seguivamo più. Giunti a casa, all’imbrunire, scesi dalla motoape, salutai Francesco e suo padre, varcai il cancelletto di casa e le mie sorelle mi corsero incontro chiedendomi come era andata. Cominciai a raccontare tutti i particolari, quanto era bello il mare, com’era l’acqua; ero felice, era stato il mio primo giorno al mare e già pensavo all’indomani, al nuovo giorno sulla spiaggia. Estratto da “Ricordi di fanciullezza” di Mercurio Sanchez L ETTERE M ERIDIANE 20 N. 2 / 3 - Luglio - Agosto - Settembre Vincenzo Tieri, una vita per il giornalismo e il teatro C origliano Calabro era un calderone di idee, un vulcano d’inventiva, quando il 28 novembre 1895 nacque Vincenzo Tieri. Le sue doti artistiche, che si rivelarono un vero tesoro, Tieri le scoprì e sperimentò nella “fucina” del giornale cittadino “Il Popolano”. Incontrò Don Ciccio Dragosei, il Mecenate del paese, e d’allora cominciò un sodalizio, destinato a tracciare la strada a quel giovane studente del Ginnasio “Garopoli”. «Non so che cosa sarebbe accaduto di me se un giorno essendo ancora alunno delle prime classi ginnasiali non fossi entrato nella “Tipografia del Popolano”. Io quel giorno ero entrato nella tipografia per comprare un quaderno», scrisse egli stesso nel 1955. A tredici anni era direttore di un giornaletto interamente scritto, curato e stampato da lui, che diffondeva tra i suoi compagni di scuola. A diciotto “Il Popolano” era ormai quasi interamente scritto dal giovane Tieri, che, contemporaneamente, era già corrispondente locale di alcuni quotidiani romani. Vincenzo Tieri non abbandonò mai la sua penna, emigrò a Roma e continuò la sua attività giornalistica cominciata nel paese natio. Lavorò con Cardarelli, di cui fu vice, e con Tilgher, critici del quotidiano “Il Tempo”. La sua fu una carriera tutta in salita e densa di riconoscimenti, successo e soddisfazione. Offrì la sua vita al teatro, componendo circa quaranta commedie, che furono tradotte e messe in scena in Francia, Germania, Argentina, e Spagna. Le sue opere girarono l’Italia in lungo e largo, e la RAI trasmise più volte alcune sue commedie come “Questi poveri amanti” e “Chirurgia estetica”. Quello di Tieri è un curriculum di tutto rispetto. Fu critico teatrale, regista, e presidente della Società Italiana Autori ed Editori. Diresse compagnie e fu direttore del Teatro Piccolo di Palermo. Tieri fu molto legato a Ruggiero Ruggeri che allestì molte delle sue commedie. Per un breve periodo fece anche politica, divenendo Deputato alla Costituente e, fondando insieme a Guglielmo Giannini, il movimento ed il giornale “L’uomo qualunque”. Suo figlio Aroldo Tieri, investito dalla natura del genio paterno, calcò la scena e la dominò, facendo sia cinema che teatro, accanto ad artisti come Totò, Andreina Pagnani, Rina Morelli, Gino Cervi, Paolo Stoppa. “Maestro di vita e di teatro” definisce suo padre ed egli stesso suo allievo e testimone. E teneramente racconta, in un’intervista rilasciata ad un suo conterraneo, le loro “conversazioni di mezzanotte”. Aroldo rientrava a casa dal teatro e trovando il padre ancora sveglio, si trattenevano nello studio a parlare della serata e Tieri padre leggeva ed interpretava la scena che stava scrivendo. Dopo quel 4 gennaio 1970, data della sua morte, il nome di Vincenzo Tieri sembra essere stato inghiottito nel nulla. Nel silenzio che può cancellare anche i più grandi e tacere le loro virtù al fine di farle dimenticare. Quel giorno Aroldo era a Pesaro, al Teatro Rossini con la commedia “La colpa è del giardino” di Edward Albee e corse subito a Roma appena informato della morte del genitore. Il commediografo calabrese, che fu protagonista del clima culturale della prima metà del secolo scorso, trascorse la maggior parte della sua esistenza nella capitale, nel suo studio a scrivere, ma non dimenticò mai la sua Calabria, il suo “ Popolano”. Ed Aroldo, suo figlio, continua a sentirsi indissolubilmente legato alla terra di suo padre. “Più vado avanti negli anni e più ritrovo dentro di me, accentuati, alcuni segni della mia origine coriglianese: forza di carattere facilmente puntigliosa, fedeltà all’amicizia, tendenza all’introspezione, cervello raziocinante, scarsa socievolezza, orgoglio che sconfina nella superbia e un’invincibile pessimismo nel giudicare gli uomini e la vita”, scrisse in un momento di riflessione sulla sua “calabresità”. Vincenzo Tieri non dimenticò il profumo Vincenzo Tieri con il figlio Aroldo dell’olio, il sole che cala dietro il Monte Pollino, le prime ombre della notte sul Castello ducale, le campane che suonano l’Ave Maria, l’odore della liquirizia e degli aranceti, ed il sapore delle sue specialità. Non rinnegò mai le Viaggio da Parigi a Roma L’originale mostra di arte contemporanea a Corigliano Calabro L e belle sale del Castello ducale di Corigliano Calabro, fortezza normanna del XI secolo, dal 7 al 29 maggio hanno fatto da ponte fra diverse generazioni di artisti. La mostra Parigi-Roma è un momento di fusione tra i giovani artisti del Corso di Grafica-Tecniche dell’Incisione dell’Accademia delle belle Arti di Roma e i noti artisti internazionali dell’Atelier 17 di Parigi. È il frutto di un’esperienza di laboratorio durata quattro anni. Un’esperienza d’atelier sulle orme dei maestri alla ricerca della propria originalità. Lo scenario è splendido: l’arte contemporanea si fonde con un’atmosfera di antico, fatta di affreschi alla vecchia maniera che, armonicamente, lasciano spazio alle nuove creazioni, assai più bizzarre e molto più difficili da comprendere. Il trittico di Morelli nella cappella di S. Agostino ed al piano di sopra le esposizioni del maestro Stanley William Hayter, il rivoluzionario dell’arte dell’incisione. Hayter, il fondatore intorno agli anni trenta dell’Atelier 17, luogo d’incontro di grandi come Mirò, Ernst, Duchamp. Le macchie di colore sono ovunque. Colore che sembra schizzare fuori dalle stampe nelle sue infinite linee e intersecazioni. La mostra è un itinerario tutto da interpretare. Nel limite del consentito, naturalmente, date le firme che compaiono sulle varie opere: l’argentino Hector Saunier, la coriglianese Anna Romanello, Shu-Line Chen, il cileno Eugenio Tellez, lo spagnolo Joaquìn Capa. I giovani dell’Accademia di Roma, dal canto loro, dimostrano grinta, tecnica e personalità. Francesca Mollicone ci prospetta dinanzi un “Bivio”, uno dei tanti, che ci costringono a scegliere. Cenerentola di Angelo Basile Andrea Montesi con il suo “Dove è finito Sisifo?” induce a riflettere sulla nostra condizione di uomini, spesso non del tutto felice. La proiezione della citazione, estratta dal “Mito di Sisifo” del filosofo e scrittore Camus, non può che essere un chiaro rimando alla sua interpretazione del mito. Sisifo è il simbolo del contrasto tra finito ed infinito che domina l’esistenza umana. L’infinità dei nostri desideri e la finitezza delle nostre possibilità. “Fontane” di Shu-Line Chen ha tutto il movimento degli schizzi di una fontana. Il suo acquaforte “Epiphanie” ha qualcosa di tipicamente alla James Joyce. Un’epifania, una rivelazione che ha come sfondo un cielo illuminato da tre sfere imperfette, forse tre soli. O solo tre chiazze colorate, una gialla, una verde, una rossa. Strambe le vedute di Nicola Maglio. Tetti e campanili, accenni di montagne e prati verdi, interrotti da strisce categoricamente bianche, categoricamente vuote ad intervallare il paesaggio. Da favola le due opere esposte di Angelo Basile, non solo per il titolo. Una scarpa di cristallo che un piede sta per indossare: una “Cenerentola” con le calze di nylon. Due loschi individui, vestiti loscamente, in un losco paesaggio: “Il gatto e la volpe”. La Romanello, docente dell’Accademia romana, si cimenta in una nuova rivisitazione nelle sue acqueforti di grandi monumenti italiani. Fontana di Trevi e Fontana dei fiumi vengono interpretate in modo innovativo giocando con tinte e collages. “Verja” di Hector Saunier, direttore dell’Atelier, sembra la scomposizione di una coloratissima cartina geografica tra strisce variopinte. Ed il suo “Ariadnè” è un movimentato gioco azzurro di grande effetto, che fa pensare al tempo ed al suo scorrere. Le opere contemporanee sono, di sicuro, più allegoriche rispetto all’arte tradizionalmente intesa, meno dirette e lampanti nei loro messaggi. L’arte contemporanea è difficile da interpretare nei suoi significati, forse perché spesso non ne ha. È arte per arte che vuol esprimere un sentimento ed esprimerlo senza intermediari, con una linea o una macchia. È l’arte dei nostri tempi con la loro precarietà, delle nostre città con loro confusione. E non si preoccupa di esser bella e non insegue né perfezione né sublime. Vuol solo essere limpida come uno specchio e darci la possibilità di specchiarci. Carolina Leonetti sue origini, ma la sua terra sembra ignorare uno dei più bei “frutti” che dalle sue viscere sia mai spuntato. Carolina Leonetti Le macchie di vita di Kaly Jones “Chaque instant est une lutte féroce pour tacher les pages avec la vie” Edmond Jabès D al 2 marzo al 2 aprile a Napoli presso l’Istituto Francese Le Grenoble si è tenuta la mostra dell’artista canadese Kali Jones. Nata a Montréal nel 1970 la Jones è una pittrice che ha già al suo attivo numerose esposizioni, sia personali che collettive, in Canada e in Italia. Sono testi, busti, corpi a formare l’opera pittorica di Kaly Jones, simboli ed immagini di una realtà soggettiva, ma anche organica. Materia che si sfalda, non più fondo, ma trama di un tessuto cromatico attivo, che è segno egli stesso. “I colori tracciano figure che sembrano inquietanti, che emergono dalla materia per esprimere una loro particolarità”. Il critico Carmelo Strano non vuole definire queste figure individualità “Sono come delle presenze, delle manifestazioni ectoplasmiche. Nei lavori dell’ultimo anno esse sembrano affermare una propria maggiore autonomia e individualità, sono anatomicamente più dichiarate, ma restano comunque ben lontane dalla descrizione e dalla caratterizzazione. Le figure di Kaly Jones si collocano rispetto al piano d’azione vagamente decentrate, determinando un effetto di colpo d’occhio e di straniamento”. È la stessa artista a spiegare la natura della sua ricerca e il percorso seguito fino ad ora. “Alcuni anni fa ho avuto una crisi della rappresentazione, della sua inutilità. Mi sembrava un gioco illusorio simulare la vita. Ho cessato di dipingere per due anni. Mi sono avvicinata alla calligrafia, alla parola scritta, il cui potere simbolico va oltre la forma. Questa astrazione mi ha dato il distacco necessario per poter ritornare al figurativo. I miei personaggi sono spesso in trasformazione, si formano, si dissolvono; si parla di personaggi feriti e lacerati dalla vita”. Con queste sue figure evanescenti sembra che l’artista voglia seguire le tracce di stati mentali umani, frammenti di una vita che scorre, impossibile da cogliere pienamente. “Io lavoro nel vuoto, lo spazio della non-forma, fatto di memorie, stati psicologici, impulsi, frammenti. Senza modelli” dice ancora. “Captare l’essenza di uno stato mentale o di un movimento interno” e raffigurarlo, una sorta di contemplazione, dove l’immagine e lo spazio vuoto contano allo stesso modo, osservati da differenti prospettive. Questa è l’arte di Kaly Jones che da qualche tempo sperimenta anche la fotografia. La fotografia che, al contrario della pittura, capta una realtà o illusione di realtà, fissando un momento dato nel tempo, è l’inizio di una nuova ricerca che vuole trovare un dialogo tra differenti medium. Attualmente, con Jonathan Belisle, realizzatore-artista di nuove tecnologie, sta preparando Fire Cello, un montaggio di disegni calligrafici ispirati dalla musica del compositore- violoncellista siciliano, Giovanni Sollima. I disegni sono frammentati e proiettati con la musica di Sollima in uno spazio dove la linea prende la forma della stanza. È un lavoro sulla frammentazione e la ricostruzione dell’immagine attraverso la ripetizione e la memoria, un lavoro che rassomiglia a quello di Sollima, alla ricerca di una sintesi totale tra la linea ed il suono. N. 2 / 3 - Luglio - Agosto - Settembre 2005 L ETTERE M ERIDIANE Luigi Aliquò Lenzi, una penna sagace a difesa della Calabria D ecisi ad abbandonare i campi per lo studio, eravamo arrivati a Reggio da un paesetto della provincia, dove non c’è stata mai (né c’è ancora!) una edicola e dove l’unico “foglio” che si poteva leggere era, al massimo, il retro del santino che distribuivano in chiesa i questuanti. Eravamo affamati di carta stampata e, una volta in città, non solo abbiamo cercato di saziarci, ma ci siamo messi in religioso fervore alla ricerca di poeti e scrittori dei quali avevamo sentito parlare e di testate, nella speranza che qualcuna accogliesse la nostra collaborazione. Ricordiamo l’ansia con la quale siamo saliti al rione Schiavone a bussare alla porta del caro Fiumara, direttore de La Procellaria, e non ci sembrava vero apprendere che, nello stesso Istituto Tecnico Commerciale, al quale eravamo iscritti, frequentasse Mimmo Aliquò, perché il cognome Aliquò significava per noi Il Corriere di Reggio, un traguardo. E fu attraverso Mimmo Aliquò che al “Piria” s’è potuto varare il quindicinale di vita studentesca Intervallo (una copia, lire 20- poi 25 -, abbonamento L.350, sostenitore L.1000!), stampato proprio dalla tipografia del Corriere, sul quale pubblicare sogni fatti di raccontini, versi ingenui e cronache. Un grande e meritato successo le poesie vere, profonde, ironiche di Mimmo Calandruccio… Fu bazzicando quella tipografia che abbiamo potuto estendere le nostre amicizie, arrivando a Saccà, Puzzanghera, Tympani (scoprendo che insegnava nel nostro Istituto!), che dirigeva Italia Intellettuale (stampata altrove); Alfonso Frangipane e Brutium, bella rivista (stampata anch’essa altrove), poi passata alla figlia professoressa Raffaella, nostra indimenticabile insegnante, così cordiale e alla mano da non rifiutare di scrivere la Prefazione al nostro atto unico “La mania del coltello” (pubblicato da La Procellaria di Fiumara nel 1963); lì abbiamo cono- sciuto Piero Ales, che pubblicava La Nuova Sorgente (stampata sempre dalla tipografia del Corriere); lì la bella rivista, in carta patinata, ma non lì stampata, La Fata Morgana e fu lì che qualcuno ci indirizzò anche a La Voce di Calabria…. Ed è ancora lì, in quella tipografia che leggemmo, come ghiotto romanzo, lo scritto che Luigi Aliquò aveva dedicato allo zio Luigi AliquòLenzi e che Mimmo Aliquò ripropone per i tipi della Fata Morgana. Luigi Aliquò Lenzi (29 luglio 1875 – 18 settembre 1944) non è stato soltanto il direttore della Civica di Reggio Calabria, ma scrittore, giornalista e ricercato conferenziere. Di lui si ricorda, in particolare, l’opera “Gli Scrittori Calabresi”, pubblicata nel 1913, rivista e ristampata nel 1955 dal figlio Filippo Aliquò-Taverriti – il quale vi aggiunse altri volumi tra il 1958 e il 1972 – e ripresa dal figlio di questi, Luigi Aliquò, immaturamente scomparso. In Luigi Aliquò-Lenzi profondo era l’amore per la propria città e la propria terra e forte l’orgoglio di sentirsi calabrese e italiano, tanto da rigettare con sdegno l’idea di chi voleva la Calabria eterna colonia del Nord, alla quale inviare rifiuti e dopo che, di rapina in rapina, depauperate, le sue “terre ubertose” erano state “ridotte a sterili lande”. “Affrettiamoci – incitava e con sarcasmo – perché qui più non ci mandino, col debito pubblico e coi numeri del lotto, sigari, monete, vetture ferroviarie, funzionari e ogni altra merce di scarto”. Giornalista sagace, scrisse per numerose testate (La Gazzetta di Reggio, La Voce di Calabria), fu redattore capo del Corriere di Calabria, poi soppresso dal Governo. Felice Cavallotti lo voleva al Secolo, ma egli rinunciò per non doversi trasferire e abbandonare la città e la sua terra. Ma eccelleva nelle conferenze, nelle quali trattò i temi più disparati, commemorò grandi uomini, sommi poeti e musicisti (Dante, Leopardi, Puccini, Mazzini, la Duse…) e tanti illustri conterranei, come Tripepi, Vitrioli, Boccioni…. La Calabria era sempre in cima al suo pensiero. Parlando per esempio, della prima guerra mondiale affermava: “Questa guerra ha reso anche alla Calabria una grande giustizia: il riconoscimento del suo valore”. Ma c’era in lui ironia, perché, in verità, giustizia alla Calabria non fu mai resa, se tra le regioni meridionali è stata e continua ad essere la più dimenticata e bistrattata. Ne era consapevole, tanto che, nella stessa conferenza, precisava che nessuno aveva mai riconosciuto il versamento del nostro sangue per la Patria. Aliquò-Lenzi, tuttavia, non fu esente dalla imperante retorica del tempo, dominata dal maestro di retorica Gabriele D’Annunzio. Le sue conferenze, come quella dell’otto luglio 1917 e quella del 27 dicembre dello stesso anno, ne sono intrise, ma non per questo si può dubitare della sua sincerità d’intenti. Quegli “Oh”, quelle domande e risposte, quei voli di oratoria che oggi fanno sorridere (“Venite! Oh, voi…), non sono che il pedaggio formale da pagare ad una società e ad un linguaggio che si beavano di frasi roboanti e punti esclamativi. Allora, bene ha fatto Mimmo Aliquò – presentatore e curatore del volume di (e su) Luigi Aliquò-Lenzi – a riportare due conferenze quasi prive di retorica: “La Calabria nella “Divina Commedia” e “Leggendo la Divina Commedia”, rispettivamente del 1915 e del 1921, che dimostrano come Aliquò-Lenzi, per tutta la vita, “operò per rivendicare la civiltà trimillenaria” della nostra regione. Luigi Aliquò-Lenzi fa parte di una ristretta schiera di grandi uomini che nei secoli rese civile, bella e ordinata la città di Reggio, oggi appannata; ed è nel ricordo di tali uomini, e nei valori che essi hanno propugnato e difeso, che se ne invoca, e con urgenza, il necessario riscatto. Domenico Defelice 21 Tra gli scogli dell’io di Fortunato Aloi Luigi Pellegrini Editore pp.199 - €. 12,00 ortunato Aloi (per noi Natino) non è un uomo da scoprire oggi nel panorama letterario regionale e nazionale, giacché ha svolto, sin F da giovanissimo, e svolge attualmente, un’intensa attività politico-culturale. Ha percorso lunghi itinerari: consigliere comunale e provinciale della sua città, consigliere regionale e deputato, sottosegretario di Stato alla Pubblica Istruzione, giornalista, scrittore, componente del Sindacato Libero Scrittori Italiani, docente di storia e filosofia nei Licei, presidente dell’Istituto studi Gentiliani per la Calabria e la Lucania, ecc. Le sue opere spaziano in campi diversi: dalla saggistica alla storia, dalla filosofia alla narrativa, dalla sociologia alla pedagogia, e (il dolce come al solito viene alla fine…) alla Poesia! E della sua poesia, del suo primo e recente libro “Fra gli scogli dell’Io”, (Edizioni Luigi Pellegrini Editore, Cosenza) intendo qui soffermarmi a parlare. Un libro impegnativo sia per contenuto che per forma. Un autentico capolavoro dell’arte creativa di Aloi, poeta umano e profondo. Dedicata alla memoria, la raccolta è testimonianza di una poesia sentita, pura e fresca. Una poesia, direi, completa, vibrante in tutta la sua maestosità. La produzione contenuta in questo volume risale in parte agli anni ottanta e fino ai giorni nostri, e si compone di due tempi iniziali ed uno conclusivo più ridotto, seguito da un interrogativo che non tradisce sorprese. In effetti, però, il filo conduttore dei tre momenti rimane ben saldo alla trama, come l’ordito di un tessuto oppure come gli atti di un’opera lirica, teatrale o cinematografica, i cui tempi mantengono inalterata la loro unicità rappresentativa. I fatti di “ieri” e quelli di “oggi” possono essere rievocati nella loro successiva e naturale cronologia, giacché entrambi ricadono sotto la lente della nostra esperienza. Quelli del “domani”, invece, appartengono solo ad un mondo immaginario, di fantasia perché non è concessa agli uomini la capacità divinatoria di conoscere il futuro come era possibile per la Sibilla Cumana e per quella Delfica. Di qui la necessità, pratica e simbolica, di far seguire il punto interrogativo al termine “domani”. E l’opportunità, per il nostro Autore, di soffermarsi più a lungo nelle prime due parti, e molto meno nella terza. Aloi rivive, con la memoria, il tempo trascorso, le vicende vissute, i ricordi, il tutto non disgiunto dalla sua indomita volontà di conoscere meglio le cose, il mondo, se stesso. Ricorda il proprio periodo adolescenziale con tutta quella carica di turbolenza psicologica, e non solo, da cui quegli anni sono caratterizzati. Da cui i versi: “ Tacito e solo son sulla marina:…il pensiero a Dio: /passan le ore del meriggio estivo”. Oppure i lapidari versi. “Vuota campana/piena di mistero…”. Tuttavia, il Poeta, si aggrappa alla speranza di migliori schiarite pensando: “Forse col tempo/ non risuonano/ misteri”. Ma l’autore, pur conoscendo tanto del mondo, non esita a dire: “Ma sono/ lo straniero del mio cuore”, giacché egli rimane proteso alla ricerca del suo “Io” più intimo mentre affida al cuore di cercare la luce. Note simili si susseguono, con analogo impeto, nel prosieguo delle restanti liriche. Dedica a Guido Gozzano e a Giovanni Gentile due splendide composizioni per ricordare, forse, l’umiltà crepuscolare del primo e la forza del pensiero pensante del secondo. In altri versi ricompare il suo assillo a voler meditare per meglio poter rispondere al richiamo socratico del “Nosce te ipsum”, da cui i versi: “Lasciatemi/ solo/alle prese/ col mio io lacerato dal dubbio…nel silenzio/ del nulla/…” E prosegue “Interrogarsi/ sul dramma/ dell’io/ è come cavalcare un’onda/ di nebulosa illusione”. Si può affermare con certezza che la poesia di Aloi scaturisce, sì, da una eccezionale vis culturale ed umana, ma l’originalità dei versi esprime una vasta gamma di sentimenti, di ricerca, di emozioni, di solitudine, di “perché” E si colora di un pathos di intensa liricità. Luigi Pellegrini L’Eros nella tragedia antica L a tragedia è il genere letterario la cui origine rappresenta uno dei problemi di più difficile risoluzione a causa della povertà delle fonti. Nella Poetica Aristotele parla di derivazione della tragedia: La tragedia nasce «da coloro che intonavano il ditirambo» che si cantava in onore di Dionisio e in un altro passo la lega ai rapporti con «le rappresentazioni dei satiri»: Il ditirambo, gli elementi dialogici e mimici e il travestimento degli attori con maschere di capri attesterebbero una evoluzione che si snoda attraverso il ditirambo e il dramma satiresco. L’etimo tragedia è formato da Tragos e odè che può significare «il canto per un capro» oppure «il canto dei capri» cioè di uomini mascherati da capri. Se la seconda etimologia è esatta sarebbe un ulteriore conferma. Naturalmente la questione dell’origine non è stata risolta sebbene molte teorie e ipotesi siano state proposte nel corso dei secoli fino ai nostri tempi. La tragedia si configura come un genere letterario in cui è prevalente il sentimento tragico e fa riflettere sul problema del dolore e della debolezza umana. L’uomo della tragedia non può sottrarsi a una forza superiore sia essa una divinità o il fato. Egli non sa riconoscere il limite oltre al quale non è lecito andare: “Quale uomo mortale sfuggirà allo scaltro inganno del dio?” (Eschilo, Persiani vv. 93-94). Eschilo il primo in ordine cronologico dei tragici ateniesi nacque verso il 525 a.C. ad Eleusi, la sua vita s’intersecò con gli avvenimenti cruciali di Atene che s’incamminava a divenire la potenza egemonica del mondo greco. I personaggi del suo teatro «a una sola dimensione» mostrano un solo aspetto della loro personalità, le cui passioni totalizzanti li fanno apparire «scolpite in forme definite». Le Supplici, una delle sette tragedie rimaste, è l’unico dramma di una trilogia che comprendeva Egizi e Danaidi. Alla base vi è il mito di Danao e Egitto, fratelli gemelli. Le Danaidi si ribellano alla supremazia maschile, sono donne che si sottraggono a un futuro di schiave, rifiutano la sessualità e quindi l’ordine familiare. Il loro comportamento è contrario alla legge dell’eros, la pulsione che spinge ogni persona a trovare nell’altra il suo complemento. L’Orestea è l’unica trilogia legata che ci è pervenuta dal teatro greco antico. Portata sulla scena nel 458 a.C. il poeta tratta il mito dei Pelopidi. Nell’Agamennone Clitennestra, donna, sposa e madre è la protagonista. Si mostra in apparenza premurosa nell’accogliere Agamennone come conviene ad una donna che da anni attende il ritorno dello sposo e non ha pudore a manifestare i suoi sentimenti: «Cittadini che siete qui, degna nobiltà di Argo, a voi svelo la passione d’amore per questo mio sposo. Non avrò pudori» (Ag. 855-577). Clitennestra è spinta dalla sete di vendetta e da due sentimenti estremi: l’odio per il marito, che si è macchiato di un delitto orrendo, e l’amore per la figlia, Ifigenia, vittima sacrificata al volere della divinità. Inoltre in lei agisce l’amore per Egisto, cugino di Agamennone, che vuole vendicarsi dell’usurpazione del regno da parte di Atreo, padre di Agamennone, a Tieste, padre di Egisto. La vendetta si compirà con l’uccisione di Agamennone colpito nel bagno da lei e da Egisto. Nelle Coefore protagonisti sono Oreste ed Elettra che vogliono vendicare l’assassinio del padre. Oreste, introdottosi nel palazzo, dapprima uccide Egisto poi si trova davanti alla madre sta per colpirla, lei apre la veste e scopre il seno e dice: «Fermati, o figlio, abbi rispetto di questo seno, su cui tante volte il capo ti cadde nel sonno, e tu seguitavi a suggere il dolce latte che ti nutriva». (vv. 896-987). Oreste prova smarrimento e chiede aiuto all’amico Pilade. «Che debbo fare?». Questi gli ricorda i giuramenti fatti agli dei e lo ammonisce: «Non si possono tradire i giuramenti. Meglio avere nemici gli uomini tutti anziché gli déi». (vv. 901-02) Oreste compie il matricidio. Nelle Eumenidi, ultimo dramma della trilogia, rompono la catena di sangue. Oreste è salvato da Apollo e da Atena che fa pendere la bilancia della giustizia dalla sua parte e le Erinni diventano Eumenidi cioè benevole. In Sofocle emerge la visione eroica della vita dei personaggi della tragedia. L’eroe deve vivere con onore «kalòs zen» o morire con onore «kalòs tethnekenai». L’Antigone è una delle tragedie più famose del teatro greco antico, al centro vi è il divieto della sepoltura di Polinice e l’aspro contrasto tra Creonte, re di Tebe, e Antigone che afferma che vi sono «leggi non scritte» superiori alle leggi umane. Antigone sacrifica la sua stessa vita per dare sepoltura a Polinice. Convinta che l’amore è una grande forza vitale lo proclama con convinzione: «Io sono fatta per condividere l’amore, non l’odio» (v. 523). Nel terzo stasimo il coro commenta la forza dell’amore che ha fatto schierare Emone, il figlio di Creonte, contro il padre. (vv. 781-800). Il dramma raggiunge il suo culmine quando Antigone avviandosi verso la morte si accorge di morire senza essersi realizzata come donna. Nell’età in cui avrebbe dovuto convolare a nozze con Emone, il coro la vede mentre s’incammina «verso il talamo dove tutti riposano» cioè la tomba. Lo strazio di Antigone è disumano: «Ades che tutti assopisce/ viva mi conduce alla riva d’Acheronte,/ defraudata dagli imenei». Antigone prende consapevolezza della sua solitudine «senza compianto senza amici/ senza imenei/ a questo viaggio imminente/ infelice sono tratta». Nelle Trachinie, Deianira, sposa di Eracle, apprende che l’eroe si è innamorato di Jole, preda di guerra nella conquista della città di Ecalia. Deianira per riguadagnare l’amore di Eracle gli invia la tunica «tessuta di sua mano» imbevuta del sangue del centauro Nesso. Questi prima di morire le ha confidato che se l’immergerà nel suo sangue otterrà un filtro magico. Il sangue però è un veleno mortale ed Eracle morirà fra atroci sofferenze. Deianira spiccava fra le sue coetanee per bellezza e gli uomini se la contendevano. Eracle combatte contro Acheloo e la conquista come premio contro di lui. Deianira, donna innamorata dell’eroe sempre vittorioso, paga la sua ingenuità dando ascolto al centauro. La gelosia e l’inquietudine per il tradimento la spingono a recuperare dal suo passato il veleno del centauro. L’esistenza della sposa si è dipanata nella solitudine, abbandonata dall’eroe sempre lontano da lei preso dalle sue fatiche: «Nessuno sa dirmi il mio uomo dov’è… ormai non è più qualche giorno: dieci mesi, poi cinque ancora, e non un messaggio niente». (vv. 43-45); Con Euripide, anticonformista ideologico e intellettuale appartato, i personaggi dei suoi drammi cessano di essere eroi come in Eschilo e Sofocle e assumono il carattere di uomini e donne comuni. In loro sono prevalenti le forze irrazionali che li spingono ad agire oltre alla loro volontà. Abbeveratosi alla fonte della sofistica, assorbì da essa lo spirito critico e si pose in polemica con la religione tradizionale sottoponendo dei miti al vaglio della ragione. Euripide analizza l’eros che assume forme terribili e distruttrici, lo scontro tra le pulsioni e il sentimento amoroso, la follia che sconvolge la mente. Le figure femminili Alcesti, Medea, Fedra esprimono una sensibilità nuova. Manifestano immediatezza di sentimenti e passione istintiva che il poeta riesce a tradurre con grande forza pratica. Euripide penetra nei meandri della psiche e fa emergere emozioni, angosce, ira che travagliano il loro animo. Alcesti è una donna innamorata, in lei prevale l’amore coniugale. Admeto, re di Fere, ha ottenuto da Apollo l’immortalità se qualcuno fosse disposto a morire al suo posto. I genitori, sebbene vecchi, rifiutano tale sacrificio e Alcesti con animo nobile compie l’estremo atto. Eracle arriva nella reggia che è in lutto e viene a conoscere da un servo l’accaduto. Allora scende nell’Ade combatte contro thanatos e la riporta in vita. Alcesti vittima del suo amore con generosità paga il suo legame di sposa e di madre. Medea, il mito a cui Euripide si ispira è quello degli Argonauti, è la donna che per amore di Giasone «più innamorata che saggia» tradisce il padre e uccide il fratello. Medea è la sposa tradita e in lei si scatenano in modo selvaggio sentimenti primitivi di crudeltà. Forze oscure e irrazionali agitano il suo animo. E’ una Marte e Venere da un quadro del Tiziano. La guerra e l’adonna gelosa e offesa che comprende la more, la morte e la vita: un tema eterno condizione in cui verrà a trovarsi «cacmento alla nutrice, che rivela a Ippolito l’amore di Fedra. ciata in bando di questa terra, priva di amici e sola con i L’eroina insultata e offesa dal giovane si uccide per non soli figli». (vv. 512-13). Giasone non comprende la ragio- sopravvivere al disonore. Fedra prima di morire lo accusa ne per cui Medea si ribella e rifiuta di essere la sua concu- con una lettera a Teseo di essere stata insidiata da Ippolibina. L’eroe dimentica di avere una donna innamorata che to. Teseo maledice il figlio e Poseidone manda un mostro ha un grande senso dell’onore e non «vuole essere degra- che fa imbizzarrire i cavalli che lo straziano. Entrambi data da sposa ad amica». Nel confronto tra i due Medea sono vittime della divinità. Ippolito è un fanatico campioesprime tutto il suo odio e disprezzo rinfacciandogli l’in- ne dell’aretè, pertanto identifica la saggezza con la castità gratitudine e l’infedeltà, l’altro accampa con molto cini- e non comprende di dare ad essa un significato riduttivo smo le convenienze sociali. Il coro, spettatore, è colpito mostrando una sorta di misoginia. Si sottrae all’eros, è dalla violenza delle loro parole e dice: «Terribile e impla- freddo, intollerante e insensibile e finisce con l’innalzare cabile è l’odio,/ quando persone che si amavano si sca- come esclusivo valore la castità negando le leggi della gliano l’una contro l’altra». (vv. 520-21). natura. Fedra obbedisce alla legge di natura dell’innamoLa tragedia ha il suo epilogo con la morte di Glauce e ramento. La passione amorosa la conduce alla consunziol’uccisione dei figli. In Medea e Giasone si possono ne fisica e psichica. Nel suo vaneggiare sogna un prato cogliere nell’una l’aspetto irrazionale: «Il male mi vince. erboso e aspira ad un’esistenza vicina ad Ippolito. Uscita Conosco il misfatto che sto per compiere. Ma il furore dal delirio riflette come liberarsi da questa passione e il dell’animo che spinge i mortali alle più grandi colpe è più suicidio le sembra la soluzione estrema: «Questo mi ucciforte in me di ogni altro volere». (vv. 1078-79). Nell’altro de: per non essere sorpresa a recare vergogna al marito e si rivela il sofista teso al suo interesse e esperto nella dia- ai figli che ho generato». (vv. 419-21). lettica tanto che il coro gli rimprovera di fare “bei discorNelle tragedie di Eschilo e Sofocle sono messi in si”. Medea è una personalità passionale e selvaggia che rilievo i vincoli familiari di solidarietà in Euripide emersuscita ammirazione per il senso dell’onore ma anche un gono le passioni sfrenate, gli odi e le crudeltà. I sentimenprofondo sentimento di compassione. ti sono soffocati e avviliti. La famiglia, con le tradizioni e Fedra rivela una travolgente passione per Ippolito. le leggi che la dominano, esce distrutta. Sposa di Teseo e matrigna del giovane s’innamora di lui. Combattuta tra amore e pudore confessa il suo innamoraFrancesco Dell’Apa L ETTERE M ERIDIANE 22 N. 2 / 3 - Luglio - Agosto - Settembre 2005 Le ultime novità “CIT Il sogno e la poesia per Cinzia Messina La relazione tenuta dalla psicoanalista Maria Barbuto in occasione della presentazione alla Fiera del Libro di Torino 2005 Sopra la mia casa ovviamente la luna di Cinzia Messina Collana Il viaggio del poeta pp.55 - € 7,00 C inzia Messina scrive perché come tutti i poeti ha un sogno, forse più di uno, ma non le basta averlo per sé, vuole che il suo sogno faccia sognare anche gli altri. Questo desiderio si trasforma in scrittura, non una scrittura qualunque, ma una scrittura poetica. Come dice il titolo del suo libro: “Sopra la mia casa ovviamente la luna”, Cinzia sogna di notte, preferisce forse l’ora del crepuscolo, l’ora più vicina al silenzio, e con le sue parole ci restituisce senz’altro anche questa dimensione: quella del legame tra la parola e il silenzio. Il mio lavoro di psicoanalista mi ha sensibilizzato a cogliere in un testo, non tanto quello che la parola vorrebbe dire, ma quello che non riesce a dire, il silenzio della parola, cioè il punto di vuoto intorno a cui si costruisce un discorso. L’atto dello scrivere nella poesia non ha una finalità descrittiva o esplicativa, ma evocativa: la parola poetica invoca il sogno, la verità, la mancanza che abita il cuore del poeta e che si fa motore della sua scrittura. Vi è uno scarto, irriducibile, tra la parola che si scrive o si pronuncia e quello che si vuole, cioè tra la parola e l’oggetto del desiderio a cui la parola si rivolge. Un testo poetico, come quello di Cinzia Messina, si costruisce su questo punto di indicibilità, sull’incontro impossibile tra la parola e l’oggetto, sulla fame per l’oggetto e sulla sua assenza indefinita, indescrivibile. Per questo, la poesia non ha a che fare col senso, ma con una realtà pulsionale e, in modo particolare, col sogno che sta al centro del discorso poetico. Il sogno inteso non tanto come sfera dell’immaginario, ma come pulsazione del reale. In modo particolare, nel percorso poetico di Cinzia qual è il sogno, qual è l’incontro mancato che insiste, che si ripete, per farsi poi parola poetica? Non è un caso che una delle espressioni della ripetizione nella psicoanalisi siano pro- prio i sogni. I sogni in quanto sono la via che indica il desiderio, come dice Freud. Ma il sogno per quanto ricco di elementi simbolici è sempre l’espressione di un non-realizzato, di un non-ancora, cioè il contenitore di un’aspirazione all’essere. Forse non c’è mai una verità ultima del sogno, come nella poesia. La verità non ha niente a che fare col sapere esatto, con ciò che è deducibile. La verità è sulla bocca del poeta come uno sguardo che ci sorprende, di soppiatto, quando noi non lo attendiamo: è per questo che la poesia di Cinzia è dedicata ai sognatori, cioè a chi ama farsi sorprendere, perché la sorpresa porta all’invenzione, al nuovo. La poesia è proprio per questo parola straniera a chi la scrive. Non è parola dotta. È parola inventata, è parola trasgressiva. Quando un poeta scrive è sorpreso dalle sue parole. La sorpresa consiste nel fatto di scoprire che il sogno nascosto tra le parole è sempre indefinibile, un po’ nascosto, un po’ opaco, ma che l’opacità al fondo della parola poetica è la sua ricchezza. Come si traduce questa ricchezza nei versi di Cinzia? Cosa si ripete nel sogno di Cinzia che si fa scrittura straniera per lei stessa, come un fondo lagunoso, malinconico, errante, che cogliamo nei suoi versi? Jacques Lacan ha definito la scrittura di Marguerite Duras come il luogo in cui si celebrano “le nozze silenziose della vita vuota con l’oggetto indescrivibile”, dandoci una sintesi formidabile che definisce il senso di ogni creazione artistica. Molti aspetti nella scrittura di Cinzia Messina mi riportano allo stile della Duras, per il fatto di rievocare con le parole una sensibilità femminile per antonomasia, proprio perché capace di dare voce al desiderio femminile, alla sua natura malinconica, alla passione mistica che caratterizza spesso l’amore femminile. In quest’uso della parola colgo che anche Cinzia, come Marguerite, mostra che l’oggetto del desiderio rincorso nei suoi versi non è mai interamente definito dalla costruzione del verso, è piuttosto rievocato, accarezzato, si veste di parvenza, cioè di mancanza, e rimane nella sua essenza un oggetto tratteggiato, inafferrabile. Si tratta di una scrittura essenziale, “ossificata”, ma femminile proprio per il fatto di mostrarsi nella sua funzione di velo rispetto alla mancanza, un velo che ha lo scopo di sostenere l’inadeguatezza tra la cosa evocata e il linguaggio che orienta il dire del poeta. È femminile, inoltre, per il fatto che questo uso della parola che vela e rivela allo stesso tempo, ci mette in rapporto col nascondimento, con la dimensione della segretezza. Soprattutto non è la parola che mira a possedere l’oggetto. Vale a dire che non è semplice parola della comunicazione, ma parola che eccede il registro della comunicazione in quanto non si situa sul piano di una trasmissione di un sapere universale, ma in quello del “velamento originario”, cioè dell’inconscio del poeta. Il sogno stesso è quest’oggetto perturbante, un po’ nascosto, un po’ opaco anche se animato paradossalmente da immagini, come la poesia, sebbene si costruisca intorno a una cornice, a un quadro, non per questo illumina a cielo aperto l’oggetto della sua rappresentazione. Non illudiamoci, perciò, che le immagini poetiche di Cinzia Messina ci restituiscano la pienezza di un ricordo o di un desiderio, ci restituiscono piuttosto la pregnanza di un enigma: “Quando il nostro corpo segue la caduta si segue la luce. Com’è sconsiderato divenire quel che si perde. Il mio sguardo può perfino entrare in una scollatura dove è più discinto il cuore. Ho ascoltato più cose così che trattenendo coi passi la terra a cui non importa perdere ininterrottamente le tracce del mare.” Come poetessa, Cinzia sa che parlare d’amore è fare il giro con le parole intorno a un vuoto, e che si scrive d’amore perché in fondo non si possiede mai interamente l’oggetto dell’amore, che si scrive proprio per colmare questo scarto tra noi e il nostro oggetto, per colmare l’assenza dell’oggetto amato. Cinzia ci sa insegnare coi suoi versi che questa è la realtà della poesia. Essere il segno di un’impossibilità, di un incontro mancato. Non a caso sceglie come frontespizio dei versi di Pessoa: “I miei versi eccoli già lontani come su una diligenza”. Versi che sono già, per il fatto di esistere, delle tracce perdute e, insieme, rincorse. Ecco come Cinzia ama descrivere il posto che la scrittura occupa nella sua soggettività: “Con le mie parole ho taciuto ed ho parlato. Senza di esse non avrei potuto respirare, perché dal loro palpito, ho tratto ristoro, inquietudine, risposte, calore. Per le parole ho memoria di me stessa ed ho rispetto del dolore. La vita non si esaurisce nei versi, ma la poesia sa donarci le sue mani. Una stretta tenera, struggente, come chi ci ama.” Torino, 5 maggio 2005 Maria Barbuto NOTE BIOGRAFICHE DI CINZIA MESSINA C inzia Messina è nata a Reggio Calabria nel 1958. Ha studiato teatro al Laboratorio dell’attore di Milano e ha partecipato a stage teatrali internazionali con Lindsay Kemp e Jango Edwards. Ha recitato in varie compagnie teatrali quali “Il Teatro Calabria” ed “Il rombo” di Reggio Calabria e la compagnia teatrale “Giovenale”di Milano. Ha pubblicato i suoi versi su Malvagia, rivista letteraria di cui è stata redattrice. Frammenti di vita e ricordi spezzati nei racconti di Gerardo Pontecorvo pure chi vedeva in me semplicemente il riscatto dell’amore sulla follia e l’odio… Nel nostro piccolo appartamento di via Baracca (diventato di colpo troppo grande) la vita riprese e io scoprii il vuoto che può provocare la scoperta dei dettagli, il senso tradito delle cose dietro i vetri di una credenza, l’inutilità di una poltrona vuota, il peso del silenzio quando mancano le parole. I resti della mia famiglia come le ultime stelle nell’aurora. Le ore più difficili erano quelle della sera, prima di prendere sonno, quando per non sentirmi perduto mi aggrappavo ai passi di mio padre in cucina, a qualche voce amica per le scale, ad un motore per strada… Io ripresi la mia vita di bambino nel quartiere 57 che avrebbe portato per molto tempo ancora i segni devastanti dei bombardamenti e delle macerie… scenario ideale per giocare alla guerra, serbatoio di giovani emarginati e a volte disposti ad accettare le proposte della malavita che controllava la zona nord della città…» (Cieli d’autunno). L’ultimo prigioniero di Gerardo Pontecorvo Collana Narro come sono pp.95 - € 10,00 «I o conobbi presto i fumosi circoli politici. Imparai a giocare a scopa e briscola tra volti rugosi, grandi dita e mani callose. A volte, mi facevano salire su palchi che mi sembravano enormi; mia madre che urlava rossa in viso con quella espressione troppo severa come in un quadro alla parete di cucina. Qualcuno mi prendeva in braccio per farmi sporgere sulla folla e le bandiere rosse. La singolare storia del figlio di un campo di concentramento si allargò a macchia d’olio; dovunque mi portassero ricevevo sguardi di curiosità ed ammirazione, manifestazioni d’affetto come semplici carezze, piccoli regali. Per molti militanti politici ero, senza saperlo, una specie d’eroe della Resistenza. Probabilmente incrociai * * * L’ ultimo prigioniero non smette ancora di sentirsi schiavo e perduto. La libertà conquistata non è solo la libertà dalle sbarre di ferro e dal filo spinato, ma quella che scuote il dominio dei ricordi e il loro carico di paure e di dolori che rendono una vita inconsolabile. Una schiavitù che non risparmia nessuno. Nei racconti di Gerardo Pontecorvo c’è il peso di un’assenza. È l’assenza delle persone che ci hanno amato troppo o troppo poco, o per breve tempo e male, quelle che vanno via, lasciando dietro di sé gli ostaggi del rancore e della sofferenza, mancanza di una felicità assaporata e perduta, di una condizione di serenità ormai irrecuperabile. Che lascia il posto, a chi è capace di conquistarla, alla maturità dell’anima. La profonda umanità, la tensione morale, il registro stilistico a volte lineare e pulito, a volte torbido e frantumato, rendono il lavoro di Gerardo Pontecorvo una prova sor- NOTE BIOGRAFICHE DI GERARDO PONTECORVO G erardo Pontecorvo è nato a Reggio Calabria nel 1955. Dopo gli studi classici si laurea in Scienze Forestali. È stato docente e ricercatore al C.N.R. Attualmente è ufficiale presso il corpo della Guardia Forestale. Dal 1987 collabora con le riviste “Calabria Sconosciuta”, “Vivere il Parco”, “Calabria Letteraria”, “Costa Viola”. Con la Città del Sole Edizioni ha pubblicato Gli alberi di Gambarie (1997), Gambarie, l’Aspromonte e il Parco (1998), Gambarie in bianco e nero; con la Edimedia I grandi alberi del Parco Nazionale di Aspromonte. Nel 2001 il suo primo racconto L’ultima possibilità, finalista al concorso internazionale “Le Agavi”, viene pubblicato dalla REM edizioni. Sempre nel 2001 vince il 1° Premio nella sezione racconti al concorso internazionale “Città di Villa San Giovanni” con il racconto Due cacciatori. Nel 2003 con La vittoria che conta si aggiudica la menzione d’onore al 17° Premio letterario Internazionale “Amicizia” di Palermo che ne cura la pubblicazione in antologia. Nello stesso anno viene pubblicato in antologia il racconto Bus Stop a cura del Comune di Firenze e ottiene la segnalazione di merito per il racconto Cieli d’Autunno al “Rhegium Julii inedito”. Nel 2004 questo stesso racconto è finalista al concorso internazionale “I racconti della memoria” di Nova Milanese ed è pubblicato in antologia. Sempre nel 2004 vince il primo premio “Rhegium Julii” con il racconto L’ultimo prigioniero. prendente e interessante. Con i suoi racconti ha vinto e partecipato a numerosi premi letterari a Reggio Calabria, Villa San Giovanni, Palermo, Firenze, Nova Milanese. Ottiene la segnalazione di merito per il racconto Cieli d’autunno al Rhegium Julii inedito. Vince il primo premio del Rhegium Julii per il racconto L’ultimo Prigioniero. Questa pubblicata dalla Città del Sole Edizioni di Reggio Calabria è la sua prima raccolta. Tra le righe si rincorrono cronaca di vita vissuta, traspaiono avvenimenti storici vicini nel tempo, il piano della fantasia e del ricordo s’intrecciano, confondendo e sorprendendo il lettore, convinto dapprima di trovarsi davanti a una scrittura autobiografica e poi stupito di scorgere identità diverse che si offrono con una prosa duttile e intensa. In questi racconti, tutti più o meno brevi, non si sa mai dove finisce il ricordo personale e inizia la trasfigurazione letteraria, dove la nota autobiografica fa un balzo nella fantasia o quando questa ultima prende il sopravvento. L’amore clandestino tra una studentessa e il suo professore viene narrato con stile visionario e spezzato, un registro che contrasta con l’estrema lucidità e amarezza del racconto della morte della madre e del campo di concentramento, o ancora con la sottile ironia con cui un ragazzo del ’69 guarda alle avventure spaziali dell’uomo del suo tempo. L’unico filo conduttore è la storia di Jaime, figlio di una giovane donna comunista rinchiusa nel campo di concentramento calabrese Ferramonti e lì concepito; la sua storia, con l’uccisione della madre in un agguato durante un comizio, la morte del fratello, è una storia segnata dall’orrore della follia, dal dolore della perdita. Appare e scompare lungo alcuni racconti, offrendo in modo disarticolato i singoli tasselli di questa vicenda. Che racchiude l’impressione attonita dei ricordi dolorosi, attraversati a un tempo dalla tensione di raccontare per sollecitare le coscienze altrui e dal desiderio di tenere gelosamente conservato quell’unico legame ad un affetto e ad un dolore, diventati cifra di tutta una vita. N. 2 / 3 - Luglio - Agosto - Settembre 2005 L ETTERE M ERIDIANE 23 TÀ DEL SOLE Edizioni ” Gambarie in bianco e nero. Dalle origini agli anni Settanta. Il Risorgimento oltre i miti e i revisionismi di Pasquale Amato Collana I tempi della storia pp. 188 - € 10,00 di Gerardo Pontecorvo e Giuseppe Meduri Catalogo della mostra omonima Collana Conoscere per amare pp. 47 - € 7,00 a raccolta fotografica della mostra multimediale Gambarie L in bianco e nero, realizzata con il patrocinio dell’Ente Parco di Aspromonte e dell’Assotur di Gambarie, ripercorre, attraverso le immagini proposte al pubblico presso il Teatro della Pineta nell’estate del 2004, la storia del piccolo paese incastonato nelle montagne dell’Aspromonte che si affacciano sullo stretto di Messina. A 1.300 metri sul livello del mare all’inizio degli anni Venti, sorgono le prime baracche e i rifugi di boscaioli, cacciatori, pastori e di qualche sparuto sciatore. Porta un nome che deriva dal greco, Kamparia, “piccoli campi”. La zona circostante è ricca di foreste, sorgenti e fauna selvatica, un piccolo paradiso nella Calabria rurale, poco lontano da Reggio Calabria. Negli anni successivi comincia a crescere come ricercata località turistica. Nascono i primi alberghi e le numerose ville di privati che vengono a trascorrere le loro vacanze estive e invernali, le piste da sci. Gambarie è un’icona per chi, innamorato del mare, scopre per la prima volta come luogo di divertimento quella montagna sconosciuta che incombe alle sue spalle. “Per la mia generazione, o meglio per i più fortunati, Gambarie ha significato una sorta di luogo di iniziazione per adolescenti, di grande socializzazione, di recupero di un rapporto con la natura che la città, crescendo, cominciava a seppellire” scrive nella prefazione il Prof. Tonino Perna, già presidente di quell’Ente Parco d’Aspromonte nato nel 1994 di cui il paese è sede e simbolo. Una ricerca iconografica tra gli album di famiglia, archivi pubblici e raccolte private per i due autori, consapevoli di una memoria condivisa tra tanti, concittadini e coetanei, che in quel piccolo villaggio hanno tessuto i momenti intensi di una giovinezza e di una comunità ormai perdute. n agile saggio che rappresenta una rilettura delle vicende U risorgimentali italiane che intende distaccarsi dalle due principali interpretazioni storiche che di quel periodo sono state proposte. Da una parte l’esaltazione filo-sabauda di personaggi ed eventi sino a esasperate mistificazioni, dall’altra gli scritti revisionistici che, pur partendo dalla giusta intenzioni di reagire ad alcune distorsioni, sono scivolati spesso verso l’esaltazione smisurata degli Stati preunitari. Amato ha innanzitutto messo a fuoco l’influenza francese, nelle sue diverse fasi, quella repubblicana e quella napoleonica. Ha descritto poi la complementarità delle due figure più rappresentative, ma antitetiche, Cavour e Mazzini, che hanno costituito due poli d’attrazione per un aggrovigliato succedersi di eventi in linea con la tradizione storica italiana. Ha infine puntato l’attenzione proprio sulla proclamazione del Regno d’Italia come estensione del Regno di Sardegna. La storia italiana è stata caratterizzata dalla tendenza alla separazione tra localismi esasperati, ma inevitabili, dalla vocazione all’individualismo, dalla propensione a frammentarsi in gruppi e sottogruppi. Le spinte contraddittorie del Risorgimento, il concatenarsi di esse con circostanze fortuite e concorsi di eventi fortunati, le scombinate fasi finali e l’intricata “malaunità” sono state il risultato della frastagliata storia italiana di lunga durata. Nel contempo hanno pesato sul successivo percorso storico dell’Italia. E pesano tuttora. I Tuareg dell’Aïr di Rino Cardone – Ketty Adornato pp. 72 - € 10,00 Crayons di Rita Crisarà Collana Il viaggio del poeta pp. 43 - € 7,00 immagini a colori che raccontano di 4 8 un particolare sodalizio tra italiani venuti da lontano, amanti dell’Africa e dei suoi a prima sensazione che si avverte nel leggere i “graffiti L alessandrini” di Rita Crisarà è quella di un immediato benessere: la consapevolezza dell’essere chiamati a fare parte, sia pure per qualche breve istante, di un gioco intellettuale ed artistico di consumata esperienza. Per chi, smaliziato dallo studio, sa cogliere le astuzie dell’arte, niente è stato posto casualmente nell’apparente disordine di ricordi che si affastellano sulle pagine, specchio vivo e vitale di una mente sensibile e raffinata, che guarda la realtà circostante sottoponendola ad una duplice lente deformante: quella della cultura letteraria e quella di una sensibilità squisitamente femminile. Nessuno si lasci ingannare dall’apparente levità della narrazione: in quelle righe ed in quei versi l’autrice ha trasfuso la sua anima, preziosa testimone di un passaggio di millennio in cui secolare tradizione e incalzante modernità si sono mescolate e si miscelano in una città, quale è la nostra Reggio, perennemente alla ricerca di un suo equilibrio precario ed instabile. La forma letteraria scelta è quella che si può definire “graffito” o “frammento”, che ha un profondo parallelo - non so fino a che punto consapevole - con l’eredità trasmessaci dal mondo ellenistico-romano che raramente ci pone di fronte a opere letterarie estese, ma che si è espressa quasi per excerpta, per disiecta membra: un caleidoscopio ricco di fascino e suggestione, di levità e ricercatezza, di finta semplicità frutto di studio e paziente limatura, anche per il suo essere solo una parte da emendare e da integrare, una scheggia di un mondo assai più ricco, raffinato e complesso. meravigliosi abitanti, e un popolo leggendario, che conserva, malgrado le avversità, un’identità fiera e integra. Uno splendido reportage fotografico realizzato dal reggino Rino Cardone, viaggiatore nel deserto, sostenitore della Onlus Bambini nel deserto che, con l’ausilio dei testi di Ketty Adornato, ha realizzato un interessantissimo documento sulla vita dei Tuareg e l’attività dell’Associazione. I Tuareg sono circa un milione, vivono nel sud del Maghreb, in Algeria e in Libia, le tribù più numerose si trovano proprio nel Sahel del Niger, e poi nel Mali, in Burkina Faso, in Ciad, e anche in Senegal. Non hanno un proprio territorio, vivono di piccoli commerci, pochi possono dedicarsi alla pastorizia, tradizionalmente la loro fonte di sopravvivenza, e le loro condizioni sono di estrema indigenza; rimangono comunque molto attaccati alle proprie tradizioni, usi e costumi. L’Associazione Bambini nel Deserto Onlus si dedica da anni ad aiutare questa popolazione, nel pieno rispetto dei suoi modi di vivere e affinché essa possa sopravvivere e svilupparsi autonomamente. I due autori devolveranno i proventi delle vendite del libro a favore dell’Associazione per realizzare, tra gli altri, anche il progetto di un’ambulanza che si muova tra gli insediamenti più sperduti, portando assistenza sanitaria là dove un medico si vede forse ogni tre mesi Per una storia della pubblica beneficenza a Rizziconi: il beneficio di San Carlo Borromeo di Drosi (sec. XVIII-XX) Parlamento in… chiaroscuro di Fortunato Aloi Collana Il Calepino pp. 79 - € 5,00 di Domenico Coppola Collana Monumenta Rerum pp. 103 - € 10,00 itorno in Parlamento. Non solo per varcare, come faccio “ R spesso, il portone di Montecitorio. Un rito o, di frequente, un’abitudine. Per il sottoscritto la conoscenza dura da oltre trent’anni. Esattamente da trentacinque…”. Il sottoscritto è uno dei parlamentari reggini più noti, Fortunato Aloi, militante del Msi prima, di Alleanza Nazionale poi, ora passato tra le fila di Alternativa Sociale di Alessandra Mussolini. Onorevole che ha ricoperto numerosi incarichi di partito e di governo, sottosegretario alla Pubblica Istruzione, dopo essere stato anche professore di storia e filosofia nei licei. Un curriculum lunghissimo per un personaggio che è sulla scena politica nazionale da quando varcò la soglia della massima Assemblea nel 1970, ai tempi della rivolta di Reggio, quando apprese della comunicazione giudiziaria che l’allora Ministro della Giustizia, On. Restivo, aveva inviato ai parlamentari, tra cui egli stesso, che avevano sposato la causa del capoluogo. Comincia con questo ricordo legato alla propria città, il racconto che Aloi fa della sua esperienza alla Camera dei Deputati in questo libro. Oggi propone qui una carrellata di ricordi, immagini, eventi, personaggi, che hanno affollato la sua esperienza romana e che fanno ormai parte non solo del suo vissuto personale, ma si iscrivono nelle pagine della storia politica nazionale. Di estremo interesse, quindi, leggere questo piccolo quaderno per conoscere i retroscena del “Palazzo” dell’ultimo quarto di secolo e più. opo la ricerca su “Scuola e Istituzioni Pubbliche in età D borbonica” (Città del Sole Edizioni, pp. 341, € 20,00) condotta dall’ex –Dirigente Superiore degli Archivi di Stato segue questo volume Attraverso la storia del beneficio di San Carlo Borromeo di Drosi dal 1700, anno della sua fondazione, fino al secolo XX può essere analizzato l’iter giuridico della pubblica beneficenza attraverso le fonti del diritto canonico e le leggi del giovane Stato italiano. Il beneficio di Drosi “Casale di Melicuccà del Priorato in Calabria Ultra, in diocesi di Mileto”, è stato fondato da Federico Carafa Branciforte. Lo studio di Coppola segue attentamente, attraverso documenti ritrovati in archivi statali, comunali, ecclesiastici e privati, i passaggi che il beneficio ha subito, intrecciando la sua storia a quella del piccolo borgo e dei suoi abitanti. “Per avere un’idea di quella che era l’amministrazione della pubblica beneficenza nell’area storica entro cui ci muoviamo, e cioè nell’antico Regno di Napoli, occorre dire che sino alla metà del ‘700 l’ingerenza dei vescovi nell’amministrazione delle OO.PP. sancita dal concilio di Trento, fu indiscussa, ma le numerose controversie sorte per la frequente lesione dei diritti regi portarono ad una necessaria regolamentazione delle dette Istituzioni”, specifica Coppola, sottolineando come attraverso questo aspetto della storia possano essere studiati scontri e continuità tra la legislazione ecclesiastica e quella italiana. Storia del Bergamotto di Reggio Calabria di Pasquale Amato Collana I tempi della storia pp. 111 - € 5,00 asquale Amato ha ricostruito, mediante uno straordinario P e felice intreccio tra storia locale e storia italiana, europea e mondiale, l’affascinante percorso del prezioso agrume autoctono di cui Reggio Calabria e la fascia costiera da Scilla a Monasterace detengono l’esclusiva mondiale da secoli. Il percorso storico del Bergamotto ha coinciso con le vicende di un’intera comunità, coinvolta nel destino del suo giacimento più ricco: dalla misteriosa origine al gran debutto nella corte del Sole a Versailles; dal Café Procope alla conquista dei salotti, caffè e botteghe del secolo dei Lumi, dalla fase d’oro dopo l’unità italiana alle crisi che si sono succedute fino ai nostri giorni. Un agrume eccezionale, che s’è affermato nel mondo per la molteplicità dei suoi usi nell’arte della profumeria e della cosmesi, nella farmaceutica e nell’alimentazione. Un agrume unico, per il suo ostinato rifiuto a riprodursi in aree diverse dalla sua terra d’origine. Un agrume che ha prodotto tante ricchezze, ma più per gli altri che per i suoi possessori. Amato ha cercato le ragioni profonde, interne ed esterne, di questo sviluppo mancato. Le ha individuate e mirabilmente spiegate con il suo stile brillante e incisivo. Si è soffermato, infine, sull’ultimo decennio, che ha rappresentato la ripresa della centralità del bergamotto. E, da storico militante, ha indicato infine la via per riprendere il cammino del suo rilancio, facendo tesoro della lezione della storia. Ur-schrei- L’urlo originario di Federica Legato pp. 126 - € 7,00 Torna in seconda edizione il successo della giovane autrice Federica Legato. La seconda ristampa propone una prefazione del critico e scrittore Vincenzo Fusco, che legge nell’opera della Legato profondi influssi del pensiero filosofico e delle ricerche di psicologia clinica del Novecento. Una rilettura dell’opera che affascinerà e stupirà ancora di più i lettori che hanno avuto già la possibilità di conoscere questo originalissimo scritto e per chi invece si accinge per la prima volta a confrontarsi con esso. Il rapporto con la malattia mentale, con le improbabili cure e con gli affetti personali che affliggono e consolano, descritti in un avvolgente intreccio di prosa e poesia, ricordano la scrittura tormentata della più grande poetessa italiana vivente, Alda Merini. Una donna senza volto e senza nome si rinchiude volontariamente nel 1965 nel tristemente famoso Ospedale di Montelupo Fiorentino, prima dell’applicazione della legge Basaglia. Con analisi lucida racconta di un dolore inconsolabile e tetro, da cui non sembra potere uscire che con la sola forza di una volontà continuamente sul punto di naufragare. L ETTERE M ERIDIANE 24 N. 2 / 3 - Luglio - Agosto - Settembre 2005 Si è chiusa la II edizione del concorso letterario del “Corrado Alvaro” di Palmi G iorno 10 giugno presso i locali dell’Istituto Magistrale “C. Alvaro” di Palmi si è svolta la cerimonia di consegna dei premi della seconda edizione del concorso letterario omonimo dedicato alle sezioni poesia e narrativa (racconti). Sono risultati vincitori per la sezione poesia al primo posto Fortunata Romagnosi della I B indirizzo socio-psicopedagogico, al secondo posto Manuela Arruzzo della IV A sociopsicopedagogico, al terzo posto ex equo a Silvia Ciappina della I A linguistico ed ad Oxana Kushniretskaya della IV B linguistico Per la sezione narrativa (racconti) il primo posto è andato a Marta La Malfa della I A linguistico, il II a Tarzia Rosamaria della V A sociopsicopedagogico, il terzo posto se l’è aggiudicato Debora Catananzi della I B sociopsicopedagogico. I lavori hanno unito poesia, creatività e musica su temi come la pace, la solidarietà e l’amore; due le sezioni, poesia e saggistica. Hanno fatto parte della giuria i docenti Anna Maria Gioffrè e Carlo Monteleone. Con questa iniziativa la scuola ha inteso stimolare i ragazzi in una ricerca di espressione, ma a fare emergere le loro capacità creative soprattutto nella nostra epoca caratterizzata fortemente dai mezzi di comunicazione di massa, dalla telematica, dall’informatica che stanno trasformando il pensiero individuale in espressioni personali assimilate in convenzioni linguistiche che spesso coincidono in convenzioni uniformi e stereotipate. La tecnologia non può certo essere una risposta adeguata al benessere, se si trascura l’essenza dell’uomo. Gli alunni oggi devono essere guidati attraverso la poesia e le altre forme di scrittura, a cercare di osservare tutto ciò che li circonda, per trasformarsi in soggetti integri e retti durante le esperienze che poi faranno nel corso del tempo. Molto importante quindi è la motivazione che riesce a fare esprimere le proprie emozioni. È quindi essenziale che la scuola di oggi tenga conto delle abilità specifiche da sviluppare e di conseguenza di quali siano le pratiche di scrittura più diffuse. La poesia consente di comunicare qualcosa di originale, offrendo a chi scrive di trasmettere agli altri qualcosa di proprio. Per un insegnamento moderno il docente deve dare l’opportunità agli alunni di sperimentare modi di scrittura gratificanti ed efficaci. La poesia certamente è uno strumento attraverso cui i pensieri che non riescono ad emergere si trasformano in un linguaggio diverso da quello comune, di ogni giorno, consentendo all’alunno di provare sentimenti, dando loro voce. Anche i concorsi attraverso Internet permettono di identificare la cultura con il divertimento. Esso può diventare una macchina comunicativa piacevolmente interattiva e non un vuoto ed arido contenitore. La Professoressa Anna Maria Gioffrè, docente di psicologia, metodologia, pedagogia presso il “C. Alvaro”di Palmi intervistata su questo importante evento per le scuole della provincia di Reggio Calabria ha affermato che “Questi concorsi hanno una grande valenza pedagogica e psicologica soprattutto oggi che la televisione colpisce l’attenzione con le sue immagini e suggestioni. Il problema è quello di dare una visione personale del mondo che consenta la percezione critica della bellezza da parte degli alunni, l’emozione come affermava lo studioso Matteblanc è la madre del pensiero”. La poesia e le altre forme di scrittura a parere della Gioffrè devono stimolare i sentimenti sopiti ed appiattiti dai mass media e che sono rimossi come affermava Freud. È giusto, sempre secondo la Gioffrè, che sia la scuola ad avvicinare i giovani all’arte del bello, obiettivo indifferibile in un mondo che si allontana dall’uomo come fonte di armonia possibile. Il Professore Monteleone ha manifestato entusiasmo per la manifestazione in quanto tutti i lavori si sono distinti per spontaneità ed originalità. Il Monteleone auspica che il concorso nel corso degli anni prossimi possa essere esteso a tutte le scuole di Palmi. Tutti i lavori dei ragazzi hanno trovato consenso ed avranno un sostegno da parte della scuola. La scelta dei lavori da premiare è stata difficile, ma alcuni si sono distinti più di altri per efficacia e sensibilità nel trasmettere emozioni e messaggi. L’inno per la pace Degli anni freddi e crudeli abbiamo perso il conto. Il confine tra vita e morte è sottile: questione solo di un secondo…… E i soldati morti in battaglia? Non li pensiamo solo come eroi! Son tutti morti per la pace, ma erano ragazzi come noi... Ma non possiamo stare in disparte, i protagonisti di oggi siamo noi. Cantiamo insieme un inno alla pace, questa volta Saremo degli eroi! (Silvia Ciappina) Francesca Zappia Il tuo viso racconta Esule di ieri, esule di oggi, con la valigia di cartone in mano, col sacco di povere cose sulle spalle, il tuo viso racconta: affetti perduti, cose lasciate, lacrime ingoiate. Il tuo viso racconta Speranze sempre vive Sogni mai sopiti. Alcune opere premiate 30 Novembre Chiudo gli occhi, ti rivedo… Sei con me Forte, buono, sincero mi avvolgi col tuo amore e triste piango, piango il destino, che ha chiuso le porte al nostro amore piango la morte che ti ha portato via troppo presto papà troppo presto… Quanti ricordi…chiari, sbiaditi… Mai ti dimenticherò, e ti cercherò in un campo fiorito dove troverò il tuo profumo. Un plauso quindi agli organizzatori di questo secondo appuntamento del mondo scolastico con la cultura, ed in particolare al dirigente scolastico Professore Antonino Sergi, persona attenta ed impegnata alle istanze dei giovani, consapevole che il ruolo di educatori consiste anche in un preciso lavoro di ricerca nel suscitare partecipazione, entusiasmo, anche se l’ispirazione talvolta è suscitata da esperienze negative tipiche dell’adolescenza o da fatti violenti e questo perché la poesia li può e li deve sublimare in un presagio nascosto di felicità. Apri le braccia più che puoi E stringi a te la vita. Se cerca di scappare Stringila ancora più forte E se cerca di corromperti Non stare ad ascoltarla. Per colpa sua soffri, piangi, a volte ti spegni e poche volte sei felice… tutto di te dà gioia al mondo perché la vita è in te e tu sei la mia vita Zumbo Giovanni IV° E Scuola “R.De Zerbi”-Palmi (Fortunata Romagnosi) Vincitore del concorso “Intermezzi di poesia, prosa e musica” secondo premio sezione Lucciole (Oxana Kushniretskaya) Manifesto a fondo perduto D iciamolo subito: la narrativa non è roba per tutti. Non darà mai nulla agli esseri umani soddisfatti del loro destino. Uno del calibro di Mario Vargas Llosa dice che essa è “alimento degli animi indocili e propagatrice di disaccordo, un rifugio per chi ha troppo o troppo poco nella vita”. Il luogo dove poter non essere infelici. O meglio, il non-luogo della felicità. Non-luogo per eccellenza perché è l’utopia di cavalcare con lo smorto Ronzinante braccio a braccio con il suo scapestrato cavaliere. Oppure l’utopia di percorrere i mari alla ricerca della balena bianca con il capitano Achab. O forse prendere l’arsenico con Emma Bovary o diventare un insetto come Gregor Samsa. La narrativa, alla fine, questo è: solo un modo astuto che abbiamo inventato per alleggerire noi stessi dalle offese e dalle imposizioni della vita ingiusta. In tal senso, se ci offre un mondo migliore e una vita più bella e più varia di quella che viviamo “da svegli”, allora potremmo dire che “raccontare è sfidare ciò che esiste”. Ecco. È già un buon punto di partenza. Sfidare la mediocrità, ribellarsi allo squallore e alla pochezza della vita attraverso il gesto rivoluzionario di narrare. Di posare lo sguardo su quelle pagine bianche e immacolate e lordarle di noi e delle nostre ispide e meravigliose, tetre e luccicanti vite. Senza paura di farci male. Senza paura che le parole ci graffino gli occhi. Quand’anche fosse, ne sarebbe valsa la pena. Ma l’abbiamo già detto: non è roba per tutti, la narrativa. Perché se ti chiedi a che cosa servono, poi, i romanzi o che cosa producono, le risposte sono tante. La migliore forse l’ha data Eraldo Affinati: “Servono a perpetuare l’illusione di poter comprendere il senso della vita. Producono intensità. Anche se a fondo perduto”. Ecco. Non vuole esser altro che un Manifesto a fondo perduto. A scriverlo ci vorrebbero gli Alba Pratalia di un indovinello di tanti secoli fa. Ci vorrebbero i bianchi campi dove arare… Cominciamo pure: Elogio di Donna in Tacchi a Spillo E io che lotto quotidianamente per salvarmi dal trendismo. Tutto inutile. Arrivi tu a mandarmi a pallottole tutta la mia voglia di originalità. Mi sarebbe piaciuto attendere ancora. Anche giorni. In silenzio. Con tutta la mia protezione, le mie proteine… la palestra a rafforzarmi i glutei, allenarli e bene per tenere l’equilibrio. Non come te. Che attacchi l’asfalto a piedate oblique, a inclinazioni paurose. Io l’abisso lo cerco nei rassicuranti fondi delle tazzine… per non farmi troppo male quando ci cado dentro. A te le altitudini vertiginose ti fanno un baffo. Vivere in bilico è la tua normalità. Anche quando la strada ti applaude dietro, anche quando l’inclinazione della tua piedatura si stabilizza fino al contatto del tallone con l’asfalto (sì, insomma, hai capito, anche coi sandali ai piedi), non cambia molto. La verità è che quella inclinazione te la porti dentro, te la coccoli come un bambolotto, ci scherzi sopra, financo. Pollino, Madonie, Euganei, loro sì che sanno di te. O, se vogliamo, Fossa delle Marianne, o Enzo Maiorca in apnea mentre batte il record d’immersione a polmonate. Se vuoi proprio saperlo, quando mi sporgo un po’ da questo mio belvedere circondato da ringhiere e transennato e cinto di mura e protetto da ampie vetrate che mi fanno da effetto serra come coadiuvante per la ricrescita dei miei capelli, oh che bella parola, capelli capelli capelli capelli (toh, anche i controlli ortografici del mio pc la segnano in rosso), quando trovo il coraggio per buttare il cuore oltre l’ostacolo (mi si conceda il vezzo della banalità), allora ti vedo seduta comoda su un ponte a strapiombo sul nulla mentre divori sfoglie ricotta e spinaci. E quello è il tuo sofà. Dietro c’è qualcuno con una camera digitale che riprende tutto: solo allora mi rendo conto che Dio esiste e nella vita fa il cameraman. E mi chiedo: ma allora il regista chi è? Maurizio Marino L ETTERE M ERIDIANE N. 2 / 3 - Luglio - Agosto - Settembre 2005 L’O CCHIO DI M EDUSA 25 - Rubrica di Sofismi e Inattualità a cura di Marco Benoît Carbone - [email protected] - www.marcobenoit.net/medusa.htm La Musica della Mafia RECENSIONE Album: Autori: Produttori: Il canto di malavita – la musica della mafia Vari Francesco Sbano, Maxilimian Dax, Peter Cadera www.malavita.com Anno: 2000 Etichetta: PIAS recordings GmbH, Hamburg Distribuzione: Connected Musikvertrieb BmbH, Hamburg ISBN: 5-413356-749823 CD digipack con testi in calabrese e traduzione in inglese e tedescoy Formato: D io, Marx, il rock sono morti. Rimane solo la mafia. Più estremo dell’experimental thrashcore e più scorretto dell’oi rock nazionalsocialista, il Canto della Mafia è davvero l’ultima trasgressione possibile - e conseguentemente la meno apprezzata e visibile - per un mondo di consumatori e produttori di musica che si muovono come pedine seriali e ossessionate, mosse da una voglia di trasgressione che si traduce in messe in scena dalla patetica omologazione. E se la musica è considerabile un termometro dello zeitgeist, allora ne consegue pure che la mafia, piaccia o meno, è una delle poche ideologie rimaste vive, e capaci persino di darsi una rappresentazione realmente inquietante senza scadere nella sola posa. Il canto di malavita è una “semplice” raccolta di un repertorio realmente underground, così underground che rischia di seppellirti: gli stornelli, le ballate folk e le tarantelle di questo album sono testimonianza e accompagnamento di reali storie di sangue e omertà, documenti storici e insieme di attualità che proliferano nel mercato delle bancarelle delle feste locali. Le danze con tamburello e organetto, o lo scacciapensieri che introduce le tarantelle, sono al servizio di testi apologetici nei confronti del “malandrino” finito in cella per non tradire l’onore, spietati nei confronti del “tradituri” che deve finire soltanto murato nel cemento, netti nel messaggio di antico fascino per cui “sangu chiama sangu”. A questo punto la recensione di mestiere richiederebbe quello che oggi è chiamato il disclaimer: vale a dire, la rivendicazione del fatto che non si condivide del tutto la pubblicazione di questa raccolta, perchè istigherebbe il “pensiero mafioso”; oppure, peggio ancora, dai valori mafiosi si prenderebbero le distanze suggerendo una scissione tra il valore documentale e la fattura della musica, tranciando a carne viva il tessuto di senso dell’opera. A ben vedere, sarebbe come sostenere che il valore di un film di Coppola risieda nella sola padronanza linguistica del cinema, e non nella direzione verso la quale fa leva. Al limite, si tratterebbe di usare due pesi e due misure. In realtà, il valore della raccolta è proprio nella sua serafica autenticità, la quale entra in una tensione notevole con la musica. Alla musica della mafia, così popolare e atica da essere aliena al concetto di classifica, manca- no proprio i tratti della massificata esperienza musicale di massa: sia il politically correct che il cattivismo di maniera, malattie della mente che mietono cervelli a milioni nella nostra epoca, le sono estranei. Il sentimento mafioso, e di conseguenza la sua musica, sono alieni al senso di costante abbassamento del livello di coinvolgimento della musica contemporanea, ridotta o a fenomeno di posa rilassata o a quello di trasgressione plastificata, fino all’assurda unione dei due estremi Cruciverba # 3 negli hit gothic christian. Nella sua schietta inattualità, invece, e nel suo vivere al bordo tra solenne e kitsch, la musica di questa raccolta - inclusi i pezzi più scanzonati - è realmente disturbante. Il death folk della mafia si staglia con violenza rispetto a una situazione di sfondo in cui le frequenze di ogni mezzo sono saturate da tamarrume chill-out per orde e orde di novelli DJ, da slogan risciacquati e versi onomatopeici di pseudo-gang hip hop, da metallari barbuti e dipinti fatti in serie negli stessi stampini dei draghi di plastica, da trasgressivissime imitazioni christian-rock di una cultura gothic defunta e svenduta a tranci per le ragazzine della porta accanto (le quali passano da questa droga musicale a ascolti più pericolosi per il loro cervello, fino all’irreversibile stadio del gradimento della musica in classifica e i relativi “bei valori”: consumismo e sciaquettismo). Ecco quindi che quanto più scorretto e sincero sarà il repertorio della musica della mafia, tanto il suo valore artistico andrà considerato alto. Ad esser sinceri, d’altronde, chi scrive apprezza più il canto della mafia per l’estremismo dei suoi contenuti che per il repertorio musicale: pur essendo calabrese, il repertorio tradizionale della musica mediterranea mi è relativamente estraneo all’orecchio, a detrimento dell’esperienza puramente musicale. Questo non vuol dire che l’album sia musicalmente non valido o prodotto con scarsa professionalità: è, al contrario, prima di tutto una raccolta di musica tradizionale dalla produzione finalmente professionale, capace di restituire un quadro musicale che si affranca dalle derive nel kitsch che il livello medio di queste produzioni imprime generalmente al risultato finale. Di questo, credito ai curatori, che hanno anche corredato la raccolta di traduzioni in lingua inglese e tedesca e di un booklet con foto di corredo prodotto con standard qualitativi e distributivi europei, con una buona introduzione di Goffredo Plastino. Alla fine, però, è proprio il livello lirico a far trasalire - e dunque ad attingere al più alto dominio estetico - in frasi come “russi si fannu i lami ri cuteddi” o “preparati a muriri, chi è gia l’ura”. Il fascino che un tale sentimento evocato può suscitare, va precisato, non è del tutto merito dell’opera: buona parte di un simile animus terribilis può discendere proprio dalla perniciosa desolazione estetica nella quale ci getta la musica delle charts contemporanee. Marco Benoit Carbone fecit MMV ORIZZONTALI 1 C’è di fiume e salmonata 6 Può travolgere l’individuo 11 Ci si è su quando si decolla 12 Esalare l’ultimo respiro 15 Targa di Lodi 16 Prive di testa, di guida 17 L’URL dei siti toscani 18 Un fenomeno di degradazione 19 Una memoria di sola lettura 20 La fine dell’arte 21 Massacro, carneficina 22 Due terzi dell’Emma radicale 23 Se ce l’hai corto non vai lontano 24 La Leatitia di Rue des Plaisirs 25 Stimabile, dabbene 26 Il nome volgare di Cyprinus Carpio 27 I vegetariani ne fanno a meno 28 Di lunghezza scarsa o inferiore alla norma 30 Il punto culminante 31 Vanagloria altezzosa 32 Così finiscono i siti argentini 33 Non sono tue, non sono sue 34 Un gioco in cui si salta 35 L’intelligenza delle macchine 36 Formano barriere in Austrialia e nel mar rosso 37 Iniziali del nome di Eliot 38 Un vecchio tipo di democristiano 39 Assemblea regionale siciliana 40 Lo sono la mirra e la lavanda 41 Discorsi monotoni e seriosi VERTICALI 1 Affermò che la Terra galleggia sull’acqua 2 Il quartiere di una città 3 Targa di Oristano 4 Olive… gastronomiche 5 Diviso in due parti, biforcuto 6 Un rituale estivo di spiaggia 7 Trascorrono scadendo il giorno 8 Articolo femminile plurale 10 Lo stato di assenza di norme sociali 13 Arricchito in pepe nero 14 Distinto ed elegante per natura 16 Severe ed antipatiche 17 Stupida, poco reattiva 19 Si trasforma a volte in principe 22 Era famoso come “Gino il pio” 23 Arrestate, non in movimento 24 Producono melodie per mezzo di lamelle 25 La regione degli antichi geti 26 Un’azione concorde e unanime 27 Lo usano Babbo Natale e la Befana 28 Tutte le uova del volatile 29 Grasse, corpose, pesanti 31 Non rispetta le regole 32 Vi si annidano i mostri 34 Insiemi di voci 36 Al centro della cicoria 38 Una delle sette note 39 Una particella privativa le soluzioni sul prossimo numero L ETTERE M ERIDIANE 26 N. 2 / 3 - Luglio - Agosto - Settembre 2005 Nasce in Calabria la sezione regionale di “Bambini nel Deserto” ONLUS L a presentazione ufficiale d e l l ’ O rg a n i z z a z i o n e Umanitaria “Bambini nel Deserto” ha avuto luogo la sera del 1° giugno nel Giardino d’Inverno del Circolo del Tennis “Rocco Polimeni”. Il direttivo del Circolo ha accolto con favore l’inaugurazione di questa associazione di volontariato; la mattina dello stesso giorno si è svolta presso il “Polimeni” la conferenza stampa con la presenza delle più importanti testate giornalistiche locali (Gazzetta del Sud, Il Quotidiano, Telereggio, Rai Tre e Radio Touring). Tra queste Rai Tre Calabria ha dato all’intervista diffusione nazionale. L’ “Organizzazione Umanitaria Bambini nel Deserto” nasce in Emilia Romagna, a Modena, nel 2000. E’ una ONLUS costituta principalmente da viaggiatori del deserto: appassionati di Sahara che da anni si avventurano in luoghi difficil- mente accessibili, caratterizzati da bellezze naturali inimmaginabili. Durante questi raid tra le dune e le oasi ci si imbatte nelle popolazioni sahariane (Berberi, Tuareg, Peul, Mussi, ecc…). Sono persone appartenenti a diverse etnie, ciascuna con le proprie tradizioni e la propria cultura, accomunate dall’abitudine a vivere da innumerevoli generazioni in territori difficilissimi. Gente dalla grande disponibilità verso il viaggiatore, dotata di un innato senso di accoglienza e di umanità. Ma basta poco per rendersi conto di come le condizioni di sopravvivenza siano spesso ai limiti estremi della vita. L’elemento più scarso è l’acqua e il suo approvvigionamento costringe a volte la gente dei villaggi a estenuanti viaggi per raggiungere i pozzi più vicini. I problemi sono tanti: in molti paesi dell’Africa l’assistenza sanitaria è davvero precaria. Gli operatori sanitari sono pochissimi e la quantità di medicinali destinata alla popolazione è assolutamente insufficiente. Sono molto diffuse le epidemie e il tasso di mortalità infantile è altissimo, soprattutto in Mali, Niger e Mauritania. Problemi molto gravi affliggono gli abitanti di questi luoghi: cecità, infezioni di ogni genere, ferite non curate che spesso degenerano. Il livello di scolarizzazione è al di sotto di un livello soddisfacente; la possibilità di poter praticare un mestiere che possa dare un futuro alle nuove generazioni è sempre più esigua. I soci di BnD vogliono unire la voglia di viaggiare in questi luoghi alla possibilità di fare qualcosa di concreto per le popolazioni sahariane. Il metodo di distribuzione dei beni di prima necessità non è casuale e soprattutto non vuole connotarsi come una semplice “elemosina”. L’Organizzazione studia le problematiche territoriali e su richiesta delle stesse popolazioni elabora adeguate strategie di intervento. Tra gli sforzi principali di BnD c’è quello di restituire l’indipendenza alla gente dei villaggi, sia dal punto di vista alimentare che sanitario e scolastico. Per esempio, recentemente il governo del Niger ha realizzato edifici scolastici fatiscenti e privi di servizi per accontentare le tribù Tuareg che vivono nel massiccio dell’Aïr. I maestri incaricati dallo stesso governo sono dotati di una buona dose di volontà e preparazione, ma non hanno gli strumenti per poter svolgere il loro lavoro. In questo contesto BnD ha realizzato presso il villaggio di Tewart, in Niger, un edificio scolastico esemplare dotato dei servizi essenziali quali: aule attrezzate, cucina, dispensa, refettorio, pozzo e giardino da coltivare. Così facendo le strutture possono rientrare nella tipologia standard necessaria per la richiesta dei fondi governativi del Piano di Alimentazione Mondiale della FAO. Dopo questi interventi la scuola potrà offrire tre pasti al giorno agli allievi, incoraggiando ancor di più le famiglie a mandare i propri figli a lezione per aumentare il livello di scolarizzazione di queste popolazioni. Nei progetti di BnD rientra pure il rifornimento delle infermerie e dei piccoli ospedali nel tentativo di arginare le emergenze sanitarie spesso drammatiche. I volontari distribuiscono direttamente alle infermerie locali materiale sanitario raccolto in Italia. La situazione sanitaria è molto precaria in quasi tutta l’Africa e necessiterebbe di interventi governativi mirati e massicci, come pure della presenza costante di medici tra la gente dei villaggi. BnD mette in atto molte altre tipologie di interventi: scuole di artigianato per insegnare un mestiere ai più giovani; sostegno economico per la nascita e la continuità delle piccole cooperative locali; costruzione di case-famiglia per l’accoglienza dei bambini orfani di guerra; costruzione di pozzi di diversa tipologia per l’approvvigionamento dei villaggi; allestimento di mezzi fuoristrada come ambulanze attrezzate. In Italia l’Organizzazione lavora mettendo in atto una serie di strategie molto varie; nelle diverse sedi regionali prendono il via attività che consentono di poter divulgare le finalità associative e raccogliere i fondi necessari agli interventi. Cene sociali, mercatini di oggetti di artigianato, mostre fotografiche, spettacoli per l’Africa, conferenze divulgative nelle scuole di vario ordine e grado sono un esempio di come BnD opera sul territorio. Le opere portate a termine – pozzi, infermerie, scuole - sono realizzate direttamente a cura dei soci dell’associazione che si recano sul posto a proprie spese e curano personalmente i rapporti con la manodopera locale. BnD raccoglie e distribuisce anche capi di vestiario e scarpe destinati ai bambini. Nel deserto la temperatura scende sotto lo zero di notte ed è facile ferirsi i piedi con cespugli spinosi o rocce taglienti. La consegna avviene spesso lungo le piste e nel rispetto delle usanze locali si predilige il sistema del baratto: semplici scambi di oggetti di poco conto, come bamboline di pezza o oggetti di artigianato locale offerti dagli stessi bambini, in cambio del vestiario. BnD può contare su sedi regionali in varie parti d’Italia, dal Friuli alla Calabria. La neonata sede regionale calabrese si è aggiunta dall’aprile 2005. Il suo coordinatore regionale Rino Cardone è un viaggiatore del deserto da più di quindici anni ed un sostenitore di BnD da quasi tre. Di ritorno dall’ultima missione umanitaria in Niger con altri membri dell’organizzazione ha sentito l’esigenza di organizzare un gruppo di lavoro anche nella città di Reggio Calabria. Nel giro di un mese si sono riuniti intorno a lui e agli scopi dell’associazione circa 40 sostenitori. Persone dalle diverse capacità, tutte animate dallo stesso entusiasmo del coordinatore, impegnate a divulgare e a sensibilizzare l’opinione pubblica sui problemi più scottanti delle popolazioni della fascia Sahariana e Subsahariana. Rino è tornato dall’ultimo viaggio di solidarietà con un reportage fotografico e con una grande determinazione: continuare l’opera di aiuto ai villaggi africani dalla sua città. Come prima manifestazione si è deciso di organizzare una cena sociale di beneficenza, affiancata dall’esposizione di 42 pannelli fotografici sul viaggio in Niger e sulla cultura Tuareg. Il Circolo del Tennis “Rocco Polimeni” presieduto dal dott. Igino Postorino ha ospitato con grande disponibilità l’iniziativa di “BnD Calabria”. La data dell’incontro è stata stabilita per il 1° giugno 2005; la scommessa era iniziata: mancava soltanto la risposta degli amici per la riuscita della serata. Le telefonate di invito hanno permesso ai soci sostenitori di spiegare gli scopi dell’Organizzazione. La risposta non si è fatta attendere: la stragrande maggioranza degli invitati si è dimostrata entusiasta di poter collaborare ad un’iniziativa simile. Tanti hanno ringraziato i soci di BnD ed hanno dimostrato un interesse genuino e partecipe all’iniziativa. Il muro dell’indifferenza era sfondato, rivelando grande partecipazione emotiva e personale e dimostrando ancora una volta la grande generosità della gente, e soprattutto della gente del sud. È stato bello sentirsi circondati da amici nel condividere un momento così delicato: per una serata quasi 200 persone si sono sentite unite e consapevoli di poter lasciare un segno concreto per il Terzo Mondo, per l’Africa, per tanti bambini lontani. Il messaggio più toccante è stato affidato alle immagini. Nei 42 pannelli fotografici ingranditi, stampati gratuitamente dal laboratorio fotografico RC Color di Antonio Raco di Varapodio, si snocciolava la vita quotidiana di un villaggio nigerino: Tewart. La scuola, il maestro e i giovani scolari immersi nel pieno del deserto del Sahara hanno calamitato l’attenzione di grandi e bambini. Con grande dignità e compostezza la scolaresca svolge ogni mattina l’alzabandiera e poi va a lezione in un ambiente estremamente primitivo, ma con tanta voglia di imparare. I volti dei bambini hanno comunicato tutta la loro gioia di vivere e tutta la voglia di andare avanti sia pure in mezzo a mille difficoltà. La sera della cena è stata inaugurata dal saluto del coordinatore regionale Rino Cardone. Con un po’ di emozione si è rivolto ai partecipanti spiegando gli scopi di BnD e il programma della serata. Il succo del suo discorso si può riassumere in queste frasi: “Perché BnD a Reggio Calabria? L’esigenza di creare un gruppo di sostenitori di BnD nella mia città è nata nel tempo, man mano che mi rendevo conto del potenziale di umanità che ci distingue, e che spesso non trova interlocutori validi cui affidarsi e con cui lavorare. Come avrete modo di vedere oggi e di verificare in futuro, BnD si differenzia dal mare di Organizzazioni similari per la continua vicinanza ai suoi sostenitori e per la semplicità ed efficacia degli interventi che porta a termine, consegnando direttamente ai destinatari aiuti di ogni genere. Per precisa volontà dei soci BnD vuole restare una Onlus, e mantenere così nel tempo il metodo di lavoro che fino ad ora le ha consentito di aiutare migliaia di bambini in oltre 20 stati africani”. Il presidente di BnD Luca Iotti ha offerto la sua partecipazione virtuale alla serata intervenendo con una videoconferenza dalla città di Modena; ha fatto gli auguri alla nuova sede regionale ed ha esposto i programmi futuri. Alcuni soci sostenitori hanno allestito un mercatino con oggetti di artigianato africano, di cui molti provenienti dal Sahara. Libri sull’argomento, ciondoli di pietra, scatoline portaoggetti, presepi di materiali vari hanno contribuito a fare gustare i colori e gli odori di terre lontane e affascinanti. Ma il momento più importante della manifestazione è stato senza dubbio la presentazione della mostra fotografica che ha permesso ai partecipanti di immergersi con grande intensità emotiva nella realtà quotidiana dei nostri fratelli del Niger. I costumi delle donne, i volti dei bambini, i visi delle anziane venditrici di formaggio, la fierezza del portamento dei giovani Tuareg hanno colpito i presenti, rendendoli partecipi di una realtà vicina e lontanissima, dal fascino incommensurabile pur nella sua estrema semplicità. La serata è proseguita con il buffet, mentre su uno schermo gigante scorreva il DVD dell’ultimo intervento umanitario in Niger. La sequela di immagini mostrava l’incontro con la scolaresca del villaggio di Tewart e l’esecuzione dei lavori precedentemente descritti. Il refettorio, la dispensa, la motopompa e le sementi per l’orto destinato ad alimentare gli scolari si sono concretizzati sotto gli occhi degli osservatori. Il fascino del Sahara e del deserto del Teneré hanno attratto molti sguardi. Una cultura diversa dalla nostra, ma carica di elementi di grande valenza si è snocciolata attraverso le fotografie. Le immagini delle carovane di dromedari verso le saline di Bilma e dell’albero del Teneré hanno riempito lo schermo. Gli occhi dei bambini africani hanno commosso i presenti. Una realtà diversa e ricca di umanità si è affacciata nella nostra vita, con il suo messaggio di speranza per una maggiore dignità per tutti gli abitanti del Mondo. Ketty Adornato N. 2 / 3 - Luglio - Agosto - Settembre 2005 L ETTERE M ERIDIANE 27 I crimini fascisti in Jugoslavia, pagine di storia “rimosse” Pagine di storia “rimosse” di Enrico Vigna e Don Pietro Brignoli Edizioni Arterigere - EsseZeta, Varese, 2005 pp. 192 P AGINE DI “ RIMOSSE ” è STORIA un volumetto che contiene due testi: un breve saggio storico di Enrico Vigna, La politica e i crimini di guerra dell’Italia fascista in Jugoslavia, che fornisce un quadro storico generale sull’occupazione italiana della Jugoslavia; e Santa messa per i miei fucilati, il diario in cui don Pietro Brignoli (1900-1969) annotò gli eventi di cui fu testimone dal ‘41 al ‘45 in qualità di Cappellano militare al seguito dell’Esercito Italiano fascista. Ricorrendo a studi moderni e a documenti di prima mano (lettere di soldati italiani intercettate dalla Censura; circolari, telegrammi, comunicazioni tra organi militari), Vigna ricostruisce il contesto storico dell’occupazione jugoslava, a partire dal 1941, quando tedeschi e italiani si dividono la Slovenia e insediano in Croazia un governo fantoccio, con a capo il famigerato Paveli?, leader degli ustascia (il movimento nazionalista croato – profondamente antiserbo – che imperversò in quelle regioni grazie anche all’appoggio italiano). Subito si instaura un ferocissimo regime di violenza contro serbi ortodossi, ebrei e zingari, e la resistenza jugoslava si organizza attorno al Partito Comunista. L’Italia istituì Tribunali Speciali ed attuò repressioni feroci e indiscriminate contro la popolazione civile: incendi, saccheggi, furti, violenze, fucilazioni sommarie, deportazioni (nel ‘42 il Gen. Roatta dirama la famigerata Circolare 3C, nella quale vengono impartite nuove e più feroci disposizioni ai militari italiani). Nel ‘43 soldati nazisti, membri delle SS, repubblichini di Salò, ustascia, cetnici, caucasici e cosacchi filonazisti compiono distruzioni, incendi, stupri, torture, deportazioni, assassini di migliaia di persone. Dai diari dei partigiani italiani che si unirono ai partigiani jugoslavi emerge la conferma delle violenze italiane, ma anche l’atteggiamento leale con cui i combattenti italiani vennero accolti fra le fila partigiane slave, fino alla liberazione definitiva della Jugoslavia avviene il 15 maggio 1945. In questo clima di violenze un triste ruolo toccò alla Chiesa cattolica, specie quella croata, che appoggiò le violenze in modo scoperto (in molte fotografie Paveli? figura attorniato da centinaia di sacerdoti). Spietati furono i francescani, molti dei quali presero parte all’esecuzione materiale dei crimini: il francescano Brzica, ad esempio, nel Lager di Jasenovac decapitò da solo in una notte 1369 prigionieri. Tristemente noto fu monsignor A. Stepinac, arcivescovo di Zagabria, che prendeva parte alle parate di nazisti e fascisti: nel gennaio ‘42 fu nominato dal Vaticano Vicario militare degli ustascia; nel maggio ‘43 invia alla curia romana un memorandum in cui elogia il ruolo degli ustascia nella conversione degli ortodossi, ringraziando soprattutto i francescani. Il Vaticano appoggiò dunque gli ustascia, vedendo nella loro azione contro i serbi ortodossi la possibilità per il Cattolicesimo di espandersi nell’area slava. Non farà dunque effetto apprendere che Stepinac verrà beatificato dal signor Woityla nel 1998. In Appendice, anche due lettere Greenpeace contro la chimica pericolosa nei prodotti per bambini M ercoledì 15 giugno 2005, Greenpeace è tornata a promuovere la raccolta di firme per chiedere una politica chimica europea (REACH) che preveda il bando delle sostanze più pericolose o la loro sostituzione qualora esistano alternative più sicure. Firme che si aggiungono alle circa 20.000 raccolte fino ad oggi. Dopo aver reso noto il 29 aprile il rapporto sulla presenza di composti potenzialmente pericolosi per la salute in magliette per bambini, detergenti per l’infanzia e giocattoli, il 20 maggio Greenpeace ha promosso insieme al Wwf un incontro con alcune delle aziende che sostengono la necessità di una efficace legislazione europea sulla chimica: hanno partecipato lo Swedish Chemicals Inspectorate, B&Q e Castorama Italia (entrambi del gruppi King Fisher), Aboca, Novamont e Coop Italia, presenti anche rappresentanti delle istituzioni e sindacati. Un’ulteriore conferma di un’esigenza sentita anche a livello nazionale, nella consapevolezza che l’adozione di una legislazione davvero efficace costituisce una spinta positiva verso la competitività e non un freno. Le firme sulle cartoline, indirizzate ai tre ministri competenti (Attività Produttive, Ambiente e Salute) sono state raccolte dal Gruppo locale di Greenpeace di Reggio Calabria che dalle ore 18:00 è stato presente al Palapentimele in occasione del concerto di Mark Knopfler. “Ben il 93% dei consumatori europei ritiene che le sostanze chimiche abbiano un impatto negativo sulla salute. Una preoccupazione cui diamo voce anche con la raccolta delle firme e che non viene ignorata, a livello europeo e nazionale, da alcuni grandi gruppi industriali e della distribuzione, che hanno pubblicamente espresso l’auspicio di una nuova normativa europea davvero efficace” spiega Giuseppe Mileto, responsabile del gruppo locale di Greenpeace. Greenpeace concorda con i principi cardine della riforma della politica chimica europea, ma ritiene che debbano essere introdotti alcuni emendamenti necessari a tutelare realmente l’ambiente e la salute pubblica, a iniziare dall’obbligo di sostituzione di quei composti particolarmente pericolosi laddove esistano le alternative più sicure. L’attuale bozza del documento permette l’autorizzazione all’uso di composti altamente pericolosi, in quanto non considera l’esistenza di un’alternativa una ragione sufficiente per negarne l’autorizzazione. “I consumatori hanno il diritto di essere informati e, allo stesso tempo, hanno il potere di orientare il mercato e quindi le produzioni chimiche verso alternative più sicure per la salute e per l’ambiente” conclude Mileto. Per maggiori informazioni: www.greenpeace.it/inquinamento/casadeiveleni contro la proposta di istituzione della Giornata dell’Esodo in ricordo degli esuli italiani dalle terre di Jugoslavia, nonché delle vittime delle foibe. Questa è una delle questioni più delicate del saggio: Vigna la affronta opponendosi al clima revisionista che imperversa in Italia. Molte delle vittime delle foibe furono italiane, e certo alcuni processi furono istruiti e celebrati in maniera sommaria. Ma chi fu gettato nelle foibe non lo fu in quanto italiano, ma in quanto responsabile, negli anni precedenti, dei massacri e delle violenze contro quei popoli: così le foibe accomunarono gerarchi, squadristi, funzionari, soldati fascisti, ed ustascia, collaborazionisti slavi e nazisti tedeschi. In simili situazioni possono certo verificarsi tragici errori e farsi strada vendette private, ma gli studi hanno ormai escluso la tesi della pulizia etnica anti-italiana. Già nel ‘44 il Partito Comunista Croato comunicava: «Noi sappiamo benissimo che nelle foibe finirono non solo gli sfruttatori e assassini fascisti italiani, ma anche i traditori del popolo croato, i fascisti ustascia e i degenerati cetnici. Le foibe non furono che l’espressione dell’odio popolare compresso in decenni di oppressione e sfruttamento, che esplose con la caratteristica violenza delle insurrezioni di popolo [...] » (pg. 67). Nella seconda parte del volume, ampi stralci del diario che don Brignoli tenne quando era Cappellano Militare al seguito delle truppe fasciste in Jugoslavia e che fu pubblicato postumo nel 1973, tagliato nelle parti in cui la descrizione dei crimini commessi dagli italiani doveva risultare così orrenda da superare qualsiasi giustificazione bellica. Va detto che don Brignoli non era un partigiano, ma a tutti gli effetti un militare fascista (ebbe il grado di Tenente). Ma proprio questa sua posizione rende interessante la sua testimonianza, perché essa proviene da chi vide con i suoi occhi le persone morire fucilate per mano dei fascisti italiani e perché riporta il punto di vista della parte che compì questi delitti (sebbene egli non vi abbia partecipato, ovviamente) e che dunque avrebbe potuto avere interesse a tacerli o a coprirli. Nel corso dei mesi sembra avvenire in Brignoli come una sorta di maturazione, di presa di coscienza sempre più netta dell’inutilità e della ferocia della guerra, e della stupidità di chi porta gli uomini a combattersi. Il suo diario ha dunque il valore di un’importante testimonianza storica, poiché narra gli avvenimenti ‘in presa diretta’, ancora intrisi delle emozioni con cui sono stati vissuti. Ma non si può tacere nello stesso tempo che esso presenta anche notevoli limiti di analisi storica. La sua indignazione è l’indignazione di chi non fa nulla per rifiutare la cultura che ha portato a quella guerra e a quell’occupazione, di chi accetta le fucilazioni come eventi ineluttabili e che vede nella somministrazione dell’estrema unzione ai condannati a morte il punto più alto della sua missione. Vi è un’adesione alle vicende umane dei condannati, una certa solidarietà verso le popolazioni vessate dai soldati italiani, ma i partigiani slavi sono sempre sistematicamente dei «ribelli» e non individui che hanno preso le armi per liberarsi da un’occupazione militare. Così ad esempio scrive il 18/8/42: «Se mai tra i fucilati ci fu uno sacrificato a odio privato, certamente fu quello. Come mi pregò: “Cappellano, faccia qualcosa per salvarmi!” Ma come potevo io giustificare la sua fuga dal paese e la conseguente sua presenza fra i ribelli?» (pg. 129). Don Brignoli si limita a guardare le persone morire, avendo come unica preoccupazione quella di ungerli con l’olio santo e far baciare loro il crocifisso. Forse solo in una circostanza egli ha davvero dato prova di carattere: si tratta del giorno del bombardamento di S. Lorenzo a Roma il 19 luglio ’43, quando rimase fuori sotto le bombe a prestare i conforti religiosi alla popolazione e ai militari, riuscendo anche a salvare una coppia di anziani intrappolati in casa (per questi atti fu chiesta per lui la medaglia d’argento al Valor Militare: il testo ufficiale con le motivazioni è riportato in Appendice, alle pp. 186-188). Le ultime pagine sono forse le più belle del suo diario: vi si fanno strada dubbi e perplessità sulla guerra in corso, ormai vissuta con stanchezza («Vi assicuro che la pietà nel mio cuore è morta. [...]. Non che non faccia per i sofferenti ciò che devo fare [...], ma non mi riesce più di soffrire coi miei fratelli che soffrono. [...] Avrei bisogno di vivere, almeno per un anno, come un eremita sulla vetta di un monte, a contatto con la vergine natura e con Dio, solamente a questa condizione potrei rifarmi l’innocenza e ringiovanire il cuore precocemente invecchiato», pp. 174-175). Ed è proprio alla fine del diario che don Brignoli in un certo senso si riscatta, quando comincia a mettere in dubbio la retorica fascista («Ma Dio [...], stanco dell’ipocrisia umana, ha voluto mostrare che cosa stava sotto tutta la nostra retorica: ed ecco scatenarsi la guerra», pg. 177) e condanna le atrocità delle guerre, che non risparmiano neppure i templi e le tombe. Adriano Gerace “1 milione di facce per 1 obiettivo sensibile” Iniziativa dedicata ad Elaid Tourki, cittadino algerino scomparso nel 1995, e alla Campagna contro il commercio incontrollato di armi “1 milione di facce per 1 obiettivo sensibile”, questo lo slogan che il gruppo Italia 227 Reggio Calabria di Amnesty International ha scelto per promuovere la campagna “Control Arms“ per il controllo del commercio di armi nel mondo, in occasione della sua iniziativa di raccolta fondi. Mercoledì 1 giugno, infatti, il locale “Spizzigulia” ha ospitato la cena di solidarietà che il gruppo ha organizzato per raccogliere i fondi necessari alla promozione sul territorio delle attività di educazione al rispetto dei diritti umani e di sostegno alle vittime delle violazioni. In questa educazione al rispetto dei diritti umani e di sostegno alle vittime delle violazioni. In questa occasione sono state proposte delle petizioni rivolte all’Onorevole Silvio Berlusconi e sono state scattate delle foto, da inviare affinché nel giugno 2006, in occasione della Conferenza delle Nazioni Unite, sia adottato un trattato che regolamenti il commercio di armi. Si tratta di un business di miliardi di dollari all’anno nell’ambito del quale gli Stati membri del Consiglio di Sicurezza dell’Onu (Usa, Russia, Cina, Francia e Gran Bretagna) rappresentano i principali fornitori di armi ai paesi in via di sviluppo e imperversati da conflitti in Africa, Medioriente e America Latina. Circa settecento milioni di armi sono in circolazione in questo momento nel mondo, 500 mila le persone che muoiono ogni anno per colpi di arma da fuoco, 300 mila i bambini costretti ad imbracciarle. Per milioni di persone è addirittura più facile possedere un’arma che avere una bottiglia d’acqua. Un commercio incontrollato, tuttavia non incontrollabile, che produce morte e alimenta povertà. Ci sono, infatti, aziende che fabbricano e commercializzano armi, governi e privati che le acquistano e le vendono e persone che le utilizzano contro altre persone. Questo il quadro drammatico che è stato illustrato da un video preparato dal gruppo e proiettato in occasione della serata. Sono state inoltre raccolte delle firme per Elaid Tourki, cittadino algerino scomparso nel 1995 cui è dedicata la serata. Da anni il gruppo reggino continua a fare pressione sulle autorità algerine affinché sia fatta luce sui fatti di quegli anni in cui sparirono, strappati alle loro famiglie, numerosi oppositori politici, tra cui anche Elaid Tourki. I principi di indipendenza e imparzialità, su cui si fonda Amnesty International, garantiscono l’efficacia della sua azione. Amnesty infatti non accetta finanziamenti dai governi per poter mantenere, nei confronti di questi, una posizione assolutamente autonoma e spendibile solo ed esclusivamente in difesa dei diritti e per la protezione delle vittime. Dunque l’attività di raccolta fondi che gli otto mila gruppi di Amnesty, tra cui anche quello di Reggio Calabria, portano avanti, rappresenta il fulcro della vita di un movimento che conta oltre quarant’anni di indagini su abusi e violazioni e migliaia di azioni per sostenerne le vittime. Il gruppo reggino auspica, quindi, di poter continuare ad operare sul territorio offrendo alla cittadinanza occasioni di formazione e confronto sui diritti umani. Gruppo Italia 227 Reggio Calabria Amnesty International, Movimento Internazionale per la difesa dei Diritti Umani e la liberazione dei Prigionieri di Opinione Premio Nobel per la Pace 1977 Premio delle nazioni Unite per i Diritti Umani 1978 Ufficio Stampa -Anna Foti - Tel. 0965.890757 - 339.2046023 I C AR I C AR I C AR I C AR I C AR I C AR I C AR I C AR I C AR I C AR I C AR I C AR IC A R S.R.L. CONCESSIONARIA Benedetti CON LA DAL 1916 I C AR I C AR I C AR I C AR I C AR I C AR I C AR I C AR I C AR I C AR I C AR I C AR I C AR I C AR I C AR I C AR I C AR I C AR I C AR I C AR I C AR I C AR I C AR I C AR I C AR I C AR I C AR I C AR I C AR I C AR I C AR I C AR I C AR I C AR I C AR I C AR I C AR I C AR I C AR I C AR I C AR I C AR I C AR I C AR I C AR I C AR I C AR I C AR I C AR I C AR I C AR I C AR I C AR I C AR Via Nazionale, 18 - 89013 GIOIA TAURO (RC) Tel. 096651070 - 096651078 - 096651079 Telefax 096657455