SARTRE E LA DIALETTICA DEL PROGRESSO E
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SARTRE E LA DIALETTICA DEL PROGRESSO E
SARTRE E LA DIALETTICA DEL PROGRESSO E’ stata recentemente pubblicata in italiano, con il titolo L’intelligibilità della Storia1, la seconda parte della Critica della Ragione dialettica di Sartre. Questa parte, elaborata fra 1958 e 1962 e rimasta incompiuta, fu pubblicata postuma in Francia nel 1985, mentre la prima comparve notoriamente nel 1960, comprensiva delle famose Questioni di metodo del 1957. Il libro presenta vari piani di lettura, alcune sue parti sono francamente impresentabili (le centinaia di pagine su Stalin, ad esempio) e si capisce anche perché Sartre in vita non volle pubblicarle, altre meritano un approfondimento. A noi interessa il circolo istituito fra dialettica, contraddizione e storia. Il concetto di “progresso” offre in tal senso il case study più interessante. Per Sartre infatti è necessario che “il progresso sia dialettico, implichi cioè che il solo modo di procedere del progresso sia la contraddizione” (p. 516). Dunque: niente progresso senza dialettica, cioè senza contraddizione. Sartre specifica però la sua idea di progresso, distinguendola da quanti lo intendono cartesianamente come “continuum omogeneo”. Per lui radice dialettica del progresso significa irriducibilità l’uno all’altro dei momenti discreti che la serialità temporale propriamente scandiscono: “se c’è progresso, c’è irriducibilità di un momento al momento precedente, non irreversibilità (perché si può disfare quello che si è fatto), ma incapacità di affermare l’identità di M' con M” (p. 516). Dunque dialettica del progresso significa non solo che i singoli M sono diversi perché successivi, ma che sono diversi anche in sé, ognuno per sé preso è ontologicamente diverso dall’altro. Gli attimi sono diversi temporalmente (in virtù della successione), ma anche nontemporalmente (cioè in virtù dello statuto ontologico di ognuno). Cioè sono diversi anche ‘da fermi’. E’ il curatore francese a ricordare come questo passo rimandi ad una nota delle Questioni di metodo poste all’inizio del primo tomo della Critica della ragione dialettica. In quella nota effettivamente Sartre rimproverava il marxismo di fondarsi su una “dialettica statica” dove i passaggi temporali erano appunto secondo un “continuo omogeneo” che tradisce la più autentica “temporalità dialettica della storia”2. Questa infatti non tollera la consustanzialità ontologica dei momenti del tempo, al contrario ne teorizza la differenza e la irriducibilità, solo questo ‘apre’ al nuovo e al futuro. A tal fine il marxismo va bene in quanto “ha criticato e distrutto la nozione borghese di ‘progresso’”, si è invece involuto quando ha accettato la nozione classica, cioè vetero-moderna, cioè “borghese”, di “progresso”. Ne L’intelligibilità della Storia Sartre specifica cosa intenda per dialettica non-statica ovvero per “temporalità vera”. Parla anche di “non-regredibilità ontologica”, intendendo che nessun attimo è identico all’altro, non si può risalire ad un momento precedente uguale al successivo. Perciò “il progresso non può presentarsi come crescita continua” (p. 516), il vero progresso non è progressista; il passaggio non è da un precedente identico ad un successivo identico, ma da un precedente diverso ad un successivo diverso. Dunque: no all’eterna successività dell’identico, sì invece alla successività qualitativamente diversa della novità e del progresso non-borghese. Sartre definisce il suo attimo dialettico insistendo sulla “contro-finalità” (p. 517) come elemento imprescindibile dell’attimo stesso. Non può darsi progresso ‘progressista’ perché nell’attimo non c’è solo l’identico ontologico che garantisce la “finalità” positiva, c’è sempre la contro-finalità, il negativo, indispensabile come il positivo a che si abbia sviluppo temporale e non tale da assicurare un futuro di ottimismo progressista. Più oltre questa situazione dialettica la chiamerà anche “feed- back” ovvero “circolarità: il nuovo si rovescia sul vecchio che lo condiziona” (p. 518), non può esservi nuovo che non sia vecchio, né vecchio che non contenga la novità come elemento costitutivo e ragione di divenire (cioè di ulteriore invecchiamento; il vecchio 1 che non invecchia è il giovane). In questo senso: “progresso: interiorizzare l’avversario” (p. 528) ovvero “insistere sull’esistenza dell’Altro interiorizzato in ognuno” (p. 544). Insomma si ha “progresso” solo in quanto l’identico abbia in interiore l’“Altro”, come il nuovo ha il vecchio. Allora “temporalità dialettica della storia” questo davvero significa: che in ogni attimo “M” c’è sia il positivo che il negativo, la finalità come la contro-finalità. La “contraddizione” come essenza del tempo storico e più generalmente (ma coerentemente) “struttura originale della prassi” (p. 25). Quando Sartre parla di “contraddizione motrice” (p. 533), usa una definizione assai acuta e da prendersi alla lettera. C’è moto, divenire, progresso(-regresso) solo in quanto il non-essere è originariamente connesso all’essere. Il problema sorge però nella definizione di ognuno dei termini del conflitto per sé preso. Sartre difende l’“autonomia” di ognuno dei contendenti, ma la intende in senso assoluto, nel senso che parla, secondo il gergo che gli è tipico, di “totalizzazioni avversarie” (p. 26), al che obiettiamo che se i nemici sono assolutizzati non può esserci contraddizione, né conflitto né, soprattutto, storia, divenire. Contraddizione e totalizzazione si escludono. Sartre scrive: dato un certo conflitto “noi ci preoccupiamo di sapere se, in quanto lotta, come fatto oggettivo di totalizzazione reciproca e negativa, esso possieda le condizioni della intelligibilità dialettica” (p. 27). Ora se i termini della lotta “in quanto lotta” sono assolutizzati e dotati di una negatività totalizzata l’uno contro l’altro, è proprio la “intelligibilità dialettica” a non potersi dare. La “dialettica” presuppone e fonda solo una negatività relativa e solo sulla sua base è possibile la “lotta” (e la sua “intelligibilità”). Chiarito che non può esservi conflitto senza relatività, è poi giusto dire che “ognuno dei nostri atti antagonistici, per poter essere dialetticamente comprensibile, deve poter essere compreso nella sua insufficienza, nella sua imperfezione, nei suoi errori” (p. 31). Come faccia Sartre a tenere insieme queste parole con la teoria della “totalizzazione” non capiamo (nella pagina in questione sembra suggerire di intendere la “totalità” come semplice canone regolativo per l’attività determinata), ma certo che ogni termine dell’antagonismo è “dialetticamente comprensibile” appunto perché tale, cioè finito, cioè segnato ontologicamente dalla insufficienza e dall’errore. Ad un certo punto parla di ogni parte in lotta in termini di “interiorizzazione della penuria” (p. 48), in effetti ogni ente e ogni soggetto sociale e politico è intimamente finito, bisognoso, spinto a quella “tensione interumana” che è una condizione intrascendibile dell’esserenel-mondo di noi umani troppo umani. Del resto anche Sartre ad un certo punto vede il problema; parla infatti di “aporia” (p. 35) fra la “totalizzazione” come “unità” (in ogni singolo termine in lotta) e il fatto che essa nasconde sempre “lacerazioni di ogni ordine e misura”. Ogni totalità è insomma infirmata dal negativo, dalla “penuria”, cioè dalla finitezza. Ogni totalità è dunque relativa. Il “conflitto” poi è la condizione normale di esistenza degli uomini e dei loro gruppi, normale perché connessa alla loro finitezza ontologica: esso rappresenta “la maniera stessa in cui gli uomini vivono la penuria nel loro continuo movimento per superarla; o, se si preferisce, la lotta è la penuria come rapporto degli uomini tra di loro” (p. 36). Questa precedenza (e sopravvivenza) della relazione sui termini è propriamente la “storia”. Sartre a ragione sostiene che in questo modo l’“evento” storico “va al di là degli avversari che si affrontano” (p. 38), trascende appunto i termini del conflitto. Questa è indubbiamente “la definizione stessa del processo storico”; il punto è che se la definizione non è su basi rigorosamente dialettiche tutto si complica. Giunti a questo punto Sartre critica il marxismo perché preda di una malintesa “contraddizione formale” che sarebbe così costituita: da una parte correttamente “indica la lotta di classe come il motore della Storia”, dall’altra però “mostra come il 2 processo storico abbia uno sviluppo dialettico” (p. 38). Questa per Sartre sarebbe una (malintesa, dicevamo) “contraddizione formale”. Il punto è che non riuscendo lui a pensare in tutte le sue implicazioni il nesso fra dialettica e storia, vede un’incongruenza fra conflitto sociale e dialettica. Più precisamente l’errore è nel credere che la soluzione sintetica del conflitto importi “totalizzazione”, cioè “unità sintetica di una società”; per cui ci si domanda: se le “classi” sono per definizione parziali e in lotta, come può la sintesi essere “totale”? In effetti non può. Ma nessuno (filosofo dialettico serio) ha mai detto che fosse necessario. La sintesi è infatti sempre parziale, sempre reversibile. Contraddittori non sono solo i termini in conflitto, ma anche la sintesi dello stesso è contraddittoria e contraddicendosi genera nuovi conflitti, nuove parzialità in lotta. La sintesi è sempre e solo provvisoria, frutto, in politica, del gioco dei rapporti di forza fra le parti in lotta e soggetta, al più, ad una gramsciana “egemonia”, cioè a passaggi di fase in cui una certa classe riesce a orientare una intera società, ma appunto in senso sempre provvisorio e reversibile. La lotta di classe è “motore della Storia”, proprio in quanto “contraddizione motrice”, che per muovere evidentemente deve investire anche la sintesi après la bataille. La sintesi non essendo altro che una forma di lotta, i.e. di contraddizione, fra le altre. La sintesi è contraddittoria come ciascun termine sintetizzato. E che ogni termine lo sia, lo dice giustamente anche Sartre. Scrive infatti che non si può distinguere nettamente, come fossero ipostasi, il “conservatore” dall’innovatore, i pretesi “uomini del passato” con i sedicenti “uomini nuovi”; nella dinamica dei “conflitti reali” accade infatti spesso che “la scelta più ‘conservatrice’ sia, malgrado tutto, la più ‘nuova’ e come la più ‘nuova’ sia piena di routine e di tradizioni superate” (p. 86). Questa è davvero ben detta. Del resto, Sartre non lo sa, ma questa era già la tesi di Benedetto Croce, secondo il quale il vero “liberale” non è il conservatore che tutti credono, al contrario (scrive negli Elementi di politica del 1924) “solo i moti liberali producono vere e proprie rivoluzioni”; parimenti il “rivoluzionario” che non voglia l’autoritarismo e rispetti la libertà è “il vero liberale”. Appunto ogni vero liberale è rivoluzionario, ogni rivoluzionario deve essere liberale. L’“idea della dialettica”, precisa Croce, ha per “fondamento teoretico” la “diversità e la opposizione delle forze spirituali”, non solo fra loro ma entro ognuna di loro (tanto che appunto il rivoluzionario conserva e il conservatore rivoluziona); la stessa cosa Sartre la dice così: “il conflitto non sarebbe neppure possibile se l’unità non si volgesse contro se stessa” (p. 102), ogni singola unità, come la sintesi come ricomposizione di un’unità sociale, è segnata da una contraddizione che rende sempre di nuovo possibile il conflitto. Questa è la dialettica del progresso come conflitto dove, per dirla sempre con Sartre, “il conflitto è l’unica forma reale che una contraddizione possa assumere all’interno di un gruppo in attività” (p. 86). Il conflitto dunque forma politica della contraddizione, cioè l’unità dialettica, i.e. contraddittoria, “costituisce il senso della relazione antagonistica” (p. 102), “il senso del conflitto” (p. 125). Un acquisto teorico non da poco. Ora nel gergo di Sartre è detta “totalizzazione di avviluppo” la scansione temporale del progresso in quanto abbia il suo “senso” nella contraddizione. Il progresso secondo Sartre è scandito dal “movimento della circolarità”, che significa “passare continuamente dall’essere (in quanto sostenuto e prodotto dall’atto) all’atto (in quanto esprime il proprio essere tramite il superamento stesso che lo conserva negandolo)” (p. 318). Dunque l’essere della dialettica (del suo progresso e del suo conflitto), non è eleatico, pura datità ontologica, ma è “atto” nel senso che l’essere si “conserva” non staticamente, non eleaticamente, ma divenendo, cioè essendo “negato”. Ecco dunque il progresso del pensiero dialettico: “continuo passaggio, nella spirale temporale, dall’essere dell’atto all’atto dell’essere” (p. 318), anche più avanti al riguardo parla di “sviluppo a spirale” (p. 433), ben diverso dalla “linea assiale” del tempo ‘progressista’. 3 Infatti, come detto sopra, è ben chiaro a Sartre che il progresso della dialettica non è viziato da alcun ingenuo ‘progressismo’, tipico del più stolido pensiero positivistico. Non esiste alcun trionfale procedere verso il ‘sol dell’avvenir’ o una qualche ‘salvezza’ o ‘pienezza di tempi’. Infatti che la dialettica costituisca “la caratteristica della Storia di per sé non può in alcun caso significare che la Storia sia semplice, armoniosa, che si sviluppi senza contrasti, senza regressioni, senza deviazioni” (p. 360). La storia è sempre contraddizione, contrasto, progresso-regresso. Sartre conclude dicendo che la dialettica è l’essere del divenire ovvero “la dialettica appare come ciò che vi è veramente irriducibile nell’azione” (p. 504), ciò che giace al fondamento dell’“azione”. Così intesa la dialettica non si conclude affatto con una “sintesi inerte” (secondo quanto da secoli la peggiore filosofia rimprovera ad Hegel); proprio il negativo, la contraddizione fa sì che la storia umana “non si lascia mai definire dal risultato che ha appena ottenuto”, irresistibilmente lo costringe alla critica e all’autocritica. In conclusione: che “il progresso sia dialettico” significa che “il solo modo di procedere del progresso è la contraddizione” (p. 516). Fabio Vander Saggista lavora presso il Senato della Repubblica 1 J. P. Sartre, L’intelligibilità della Storia. Critica della Ragione dialettica, tomo II, Milano, Marinotti, 2006. Citeremo fra parentesi nel testo le pagine da questo libro. 2 J. P. Sartre, Critica della Ragione dialettica. I Teoria degli insiemi pratici. Libro primo, Milano, Il Saggiatore, 1990, pp. 121-122. 4