Claudio Vinti

Transcript

Claudio Vinti
Quale modello di Centro linguistico per l’Università italiana di oggi? Non solo
sopravvivenza, ma innovazione, ricerca e promozione del multilinguismo.
(Claudio Vinti, Università di Perugia)
Nel giro di un decennio, il ruolo delle lingue straniere nelle Università italiane ha
conosciuto una crisi preoccupante, paradossalmente in un'epoca in cui la domanda di
formazione e di competenza linguistica è cresciuta in maniera esponenziale. In questo difficile
scenario, i Centri Linguistici, a seconda delle diverse situazioni territoriali e accademiche,
hanno avuto un destino alterno:
1.
hanno saputo ritagliarsi un ruolo di rilievo nell'ambito dell'Ateneo, diventando
insostituibili nella programmazione didattica di tutte le Facoltà/Dipartimenti;
2.
sono stati cancellati o fortemente ridimensionati.
La mia esperienza di Direttore del CLA dell'Università di Perugia (dal 2006) mi ha portato a
riflettere sul ruolo dei Centri Linguistici non soltanto come prezioso supporto alla formazione
linguistica “istituzionale” e unico luogo di socializzazione di studenti provenienti dalle varie
Facoltà, che non avrebbero mai avuto l'opportunità di incontrarsi, pur frequentando lo stesso
“Studium”, ma anche e soprattutto come innovativa interfaccia tra l'Università e il Territorio,
come vero e proprio trampolino per il mondo del lavoro, grazie alla possibilità di acquisire
competenze in più lingue straniere: oggi il vero valore aggiunto nelle mani dei giovani.
Lungi dal voler entrare in competizione con i Corsi di Laurea in Lingue e
compatibilmente con i tagli operati dai Governi che si sono succeduti dall'inizio degli anni 2000
a oggi in Italia, i Centri Linguistici possono rivelarsi la soluzione ideale per lo sviluppo del
plurilinguismo al fine di valorizzare la diversità linguistica, proprio in considerazione del
sempre minor spazio concesso alla formazione linguistica dai vari Corsi di Laurea,
Dipartimenti/Facoltà. Si tratta di un obiettivo fondamentale negli Atenei italiani, che risponde
alla crescente richiesta di “mobilità” fisica e virtuale imposta dalla nostra società globale e che
va inquadrato e perseguito nel più vasto processo di Internazionalizzazione. Promuovere il
plurilinguismo in Italia significa anche dare una risposta concreta al monolinguismo anglofono
che, un po' per necessità, un po' per moda e superficialità, rischia di avviare il nostro Paese
verso il binario morto della conoscenza, spesso approssimativa, della sola lingua inglese,
ritenuta sufficiente (malauguratamente anche dai nostri Governanti) per sopravvivere all'interno
della giungla linguistica della società mondiale globalizzata. Purtroppo, questa tendenza non
coinvolge soltanto l'Italia ma anche Paesi notoriamente attaccati alla loro lingua come la
Francia. Recentemente Dominique Gallet ha condannato questa ossessione dei Francesi per
l'Inglese a tutti i costi in un articolo in cui mette in guardia i suoi connazionali dall'uso
1
sconsiderato della lingua di Shakespeare a svantaggio di quella di Molière 1. È la stessa British
Academy a sostenere che l'Inglese ad ogni costo può risultare limitativo se non proprio
dannoso nel Rapporto del 2009, quando afferma che i ricercatori inglesi sono condannati a
essere “universalmente conosciuti... soltanto in Inghilterra”. E non è soltanto la competitività
della ricerca a essere messa in gioco ma quella dell'intero Paese; ciò che, ovviamente, vale per
tutti i Paesi. Si pensi ad esempio alla Cina, enorme mercato cui tutti guardano con estremo
interesse: recentemente, lo "Shanghai Daily" ha pubblicato sul suo sito le lamentele di Harry
Wang, un Cinese che ha manifestato tutte le sue disillusioni a proposito dell'apprendimento
dell'Inglese cui ha dedicato una decina di anni di studio:
Yes, English is an important access tool in the world, but our enthusiasm for English study went
a little too far. If the "broken English" [English broken, shattered, broken] is what we can learn,
we'd better do without it. Too much energy was wasted learning broken English on Chinese
campus! 2
È interessante osservare come nel 2007 il GEAB 3 (n. 13) ha pubblicato vari articoli su un tema
di straordinario interesse: Quali lingue parleranno gli Europei nel 2025? Il LEAP 2020
(Laboratorio Europeo di Anticipazione Politica) prevede soprattutto un ritorno alla grande del
Tedesco, una rivitalizzazione del Francese e la fine dell'Anglo-americano come lingua
egemonica del mondo moderno. Se il “globish” 4 sembra destinato a perdere terreno e
“l'autoselezione dell'inglese, specie di esperanto, comodo ma limitato, è probabilmente un
fenomeno transitorio in attesa di sistemi di traduzione automatica individuale in tempo reale”,
come sosteneva Joël de Rosnay fin dal 1995 5, molte esperienze provano invece che non è per
niente produttivo obbligare qualcuno a utilizzare una lingua che non sente come propria. A tal
proposito, è sufficiente richiamare il famoso rapporto di Catherine Tasca relativo all'uso della
lingua inglese sui luoghi di lavoro e alle sue conseguenze umane, sociali, culturali, professionali
ed economiche. È chiaro che le possibilità di sopravvivenza del Francese e di molte altre lingue
risiedono nel plurilinguismo, o meglio nel trilinguismo, soprattutto se utilizzato abitualmente in
ambiti di grande visibilità come possono essere i siti Internet delle Amministrazioni pubbliche.
Tuttavia, a nessuno sfugge che si tratta comunque di possibilità residuali, in quanto è noto e
quasi scontato che parlando la lingua del luogo è più facile raggiungere i clienti e che,
conoscendone i costumi e la cultura gli scambi sono più facili e redditizi. Ciò è ancora più vero
se si tratta di conquistare all'estero spazi nell'ambito dei mercati istituzionali, laddove è
necessario confrontarsi e trattare con le Autorità del Paese in cui si vuole operare, soprattutto
quando si tratta di prodotti a elevato impatto pubblico e sociale. Il “rapport Tasca” fa l'esempio
illuminante del gigante francese dell'energia elettrica EDF che, da sempre impegnato all'estero
1
Cfr. http://www.marianne.net/Langues-le-tout-anglais-recule-partout-sauf-a-Paris_a214626.html
2
“Difficile” per un Cinese: è inglese! Cit. in www.esperanto-sat.info/article770.html
3 “Global Europe Anticipation Bulletin”.
4 “Globish" belongs to a new post-imperial wave in which the story has been reframed to make it less
anglocentric. McCrum is one of several recent writers who argue that the latest and greatest achievement of
English is to have transcended the legacy of empire. Today its bounds are set so wide that it can truly be said to
belong to the world. While its triumph continues, it is no longer coterminous with the triumph of the Englishspeaking peoples. Some commentators even suggest that it may now be happening at their expense. That is the
view of Jean-Paul Nerrière, the French businessman who coined the term "globish" in 1995. He had noticed that
non-native English speakers in Asia found it easier to do business with one another than with native speakers.
Globish was his name for the kind of English they were using: a "decaffeinated" version without complexity or
cultural baggage (D. Cameron, Globish: How the English Language Became the World's Language by Robert
McCrum, “The Guardian”, Saturday 5 June 2010).
5 Cfr. Joël de Rosnay, L'homme symbiotique, Seuil, 1995, cap. I, p.
2
in programmi di servizio pubblico, forte di una lunga esperienza nel settore, pratica strategie di
mercato che tengono in debito conto le tradizioni locali, in quanto la distribuzione dell'energia
elettrica non è identica in tutti i paesi 6, ma altri esempi possono essere addotti, non ultimo
quello della multinazionale Michelin, il secondo costruttore al mondo di pneumatici. L'azienda,
a differenza di molte altre, e rigettando il « tout-anglais », ha stanziato una cifra notevole per la
formazione in lingua francese dei dirigenti stranieri e ha sancito l'obbligo per i 900 quadri
francesi all'estero di parlare correntemente la lingua del Paese in cui lavorano. Molte imprese
francesi di dimensione europea e mondiale hanno visto vanificati i loro sforzi di imporre
l'inglese come lingua di comunicazione nelle riunioni e nei documenti di lavoro, pur avendo
investito molto denaro. “All English” mostra ovunque i propri limiti e nonostante i corsi di
perfezionamento, i responsabili sono costretti ad ammettere che gli impiegati sono molto più
efficaci nella propria lingua. Stiamo assistendo a una svolta, sostiene Guilhène MaratierDecléty, direttrice delle relazioni internazionali alla CCIP (Camera di Industria e Commercio di
Parigi) : le imprese si stanno di nuovo orientando verso il francese. In prima fila c'è il gruppo
Renault che, nel 1999, a seguito dell'acquisizione di Nissan, aveva scelto l'Inglese come lingua
ufficiale, ma già dal 2001, Louis Shweitzer, PDG del gruppo all'epoca, era costretto a
riconoscere il fallimento di quella strategia:
La langue a été une difficulté un peu supérieure à ce que nous pensions. Nous avions choisi
l’anglais comme langue de l’alliance, mais cela s’est révélé un handicap avec un rendement réduit
de part et d’autre 7.
Ancora più chiaro e diretto è “Les Echos”, il principale giornale economico finanziario
francese, che, nel numero del 10 febbraio 2006, titola: “Les affaires reparlent davantage
français”:
C'est un retour en grâce inattendu. Depuis quelque temps, la langue française séduit de nouveau
nos grands groupes nationaux. Ces derniers semblaient pourtant avoir choisi, dans leur grande
majorité, de donner la priorité à la pratique intensive de l'anglais. Une étude publiée par le Centre
de recherche pour l'étude et l'observation des conditions de vie (Credoc) en 2002 illustrait déjà
cette montée en puissance : « Tandis qu'Alcatel ou Thomson exigent de leurs collaborateurs la
rédaction de l'ensemble des documents de travail ou notes internes en anglais, le groupe Danone
tient ses réunions dans la même langue, lorsque la présence d'un seul anglophone l'exige.8 »
D'altronde, fin dagli inizi del 2005, il gruppo Assicurazioni AXA ha istituito una “commissione
terminologica”, mirata a salvaguardare la comunicazione interna al gruppo dalle negative
influenze della lingua anglosassone. Soluzione sorprendente per un'azienda che pretende dai
suoi dirigenti una perfetta padronanza dell'inglese e che in quella lingua tiene tutte le riunioni. Il
fatto è che, confessa Catherine Henaff, responsabile delle risorse umane, l'uso del “franglais”
era ormai tale che la stessa comunicazione ne risultava falsata e la lingua un miscuglio spesso
oscuro. Ma il ripensamento sull'uso generalizzato dell'Inglese in tutti i settori assume toni
drammatici se, spostandoci dall'economia alla sanità, si riflette su quanto successo nel 2007 in
un ospedale di Épinal, nella Francia del Nord-Est: “Accident de radiothérapie survenu à
Epinal”, titola un'agenzia del 6 marzo 2007. Si trattava soltanto dell'ultimo di una serie
numerosa di casi di sovraesposizione alle radiazioni dovute a una imperfetta interpretazione
delle istruzioni contenute nel manuale di utilizzo del software scritte esclusivamente in Inglese.
Sembra che dei 4500 pazienti interessati, circa 300 siano stati esposti a un sovradosaggio di
6 (http://www.culture.gouv.fr/culture/actualites/rapports/tasca/lingui.htm).
7 Cit. in “Les Echos”, n. 19603, 10 février 2006, p. 10.
8 “Les Echos”, n. 19603, 10 février 2006, p. 10.
3
radiazioni del 7% tra il 1999 e il 2000, mentre non si dispone di dati precisi per il periodo 19891999.
In quest'ottica di ampio respiro internazionale, come risulta chiaramente da un'indagine
condotta dal Centro Linguistico Britannico CILT, volta a valutare l’impatto delle conoscenze
linguistiche sull’economia delle PMI europee, si evidenzia una significativa perdita di volume
d’affari generata da carenze linguistiche. Contrariamente a una diffusa opinione, non è il livello
di conoscenza dell'inglese a porre problemi, ma l'impossibilità di comunicare nella lingua del
Paese in oggetto. Se da una parte lo studio conferma l'importanza dell'Inglese come lingua del
commercio mondiale, dall'altra evidenzia come molte altre lingue siano necessarie per
assicurare il successo nelle relazioni commerciali; tra queste: il Tedesco, il Francese e lo
Spagnolo, ma, più ancora lingue come il Cinese mandarino, l'Arabo e il Russo. Infatti, su un
campione di circa 2000 PMI, l’11% delle aziende intervistate ha dichiarato di aver perso
occasioni nella stipula di potenziali contratti per questioni d’incomunicabilità 9. In alcuni casi
hanno ammesso invece di fare ricorso a servizi d’interpretariato e traduzione per una
percentuale che oscilla tra il 4% (Irlanda) e l’84% (Lituania). L’indagine ha inoltre messo in
rilevo un’importante considerazione di carattere interculturale a proposito del quesito sulla
lingua veicolare maggiormente utilizzata nel mondo del business. Se lingue come l’Inglese 10 e
il Russo (per i Paesi dell’Est europeo, insieme a Tedesco e Polacco) risultano essere le lingue
franche per eccellenza, specialmente all’inizio di una nuova collaborazione commerciale, in una
strategia aziendale a lungo termine, basata su un rapporto di fiducia in graduale crescita:
“cultural and linguistic knowledge of the target country [are] essential”11.
Molte sono quindi le armi a disposizione dei Centri Linguistici, che possono essere attivi
promotori del plurilinguismo, da una parte attivando corsi che potenzino l’insegnamentoapprendimento della lingua inglese, quale “competenza di base” necessaria e imprescindibile
per tutti gli studenti, e dall’altra attivando e pubblicizzando corsi in altre lingue, sulla base delle
necessità specifiche dell’ambiente sociale, economico, culturale e delle esigenze del mercato
del lavoro. Ciò significa attivare corsi di lingua su obiettivi specifici, in cui sviluppare le
capacità e le competenze comunicative e pragmatiche nella lingua oggetto di studio. In tal
modo, i Centri Linguistici possono fornire risposte concrete all’Europa che, da sempre, chiede
di investire tempo, risorse, energie e creatività in progetti che sostengano attivamente il
plurilinguismo. A tal proposito, si può menzionare il recentissimo progetto del Consiglio
d’Europa, chiamato LINCQ (Languages in corporate quality), il cui obiettivo è proprio il
monitoraggio della qualità e del ruolo del plurilinguismo nelle imprese. Il progetto (2009) è
9
Lo studio ha preso in esame circa duemila PMI legate al mondo dell’esportazione, dislocate in 29 paesi
europei (anche extra UE), al fine di raccogliere dati sui diversi approcci relativi all’uso delle competenze
linguistiche e interculturali, alla consapevolezza delle strategie linguistiche da adottare e della perdita di talune
occasioni dovuta a carenze linguistiche, a future previsioni di esportazione e ai requisiti necessari per potenziare le
competenze linguistiche; un’indagine condotta su trenta multinazionali per determinare le diverse prospettive
rispetto alle PMI in fatto di lingua e competenze interculturali implicite nella strategia aziendale e, infine,
un’analisi macroeconomica dei dati raccolti per valutare l’impatto di una maggiore incentivazione delle
competenze linguistiche per aziende esportatrici a livello di economia europea (CILT 2006: 4).
10
Nonostante l’importanza comunemente attribuita alla lingua inglese, riproposta peraltro dallo studio di cui
sopra, è emerso un fatto curioso, ossia che la richiesta di lingue straniere diverse dall’inglese è superiore a
quest’ultima. Lo spagnolo, ad esempio, assume una priorità più marcata rispetto all’inglese in termini di esigenze
aziendali proiettate nel futuro (CILT 2006: 7).
11
CILT 2006: 6.
4
frutto delle attività del CEDEFOP 12, dello studio ELAN 13 (2006) e del rapporto per il 2011
degli esperti della Commissione Europea sulle lingue al servizio del lavoro. Dall'analisi dello
stesso risulta che nelle Piccole e Medie Imprese cresce il fabbisogno linguistico relativo alla
conoscenza di lingue europee quali Francese, Russo e Tedesco, e che il progetto LINCQ mira a
promuovere e a diffondere il plurilinguismo come elemento chiave della cultura d’impresa. Il
già citato studio ELAN sull’incidenza della mancanza di competenze linguistiche delle imprese
sul mercato europeo dimostra chiaramente che se l’Inglese resta la lingua di riferimento per gli
scambi internazionali da sola non è più sufficiente per rispondere, alle sfide imposte dalle
grandi economie emergenti. D'altronde, il Forum delle Imprese sul Multilinguismo 14, nelle sue
raccomandazioni, ha adottato l'eloquente motto: “Più lingue, più affari”.
Partendo da queste considerazioni di valenza europea, i Centri Linguistici non soltanto
possono sopravvivere, ma puntando su ricerca e innovazione, potranno diventare gli
interlocutori privilegiati di Università, territorio, imprese e privati, promuovendo il
multilinguismo, rispondendo alle sollecitazioni provenienti dall’Europa e offrendo agli studenti
e ai cittadini una preparazione adeguata e concreta, sulla base delle reali richieste del mondo del
lavoro. Per fare ciò, i CLA devono poter avere un’autonomia di gestione che permetta loro di
organizzare percorsi (o pacchetti) personalizzati (sulla scorta degli interessi professionali o
formativi specifici), flessibili (in termini di tempo, obiettivi, contenuti, finalità) e capaci di
attrarre anche soggetti esterni: scuole, enti, imprese e privati.
A nessuno sfugge che un ingegnere, un medico o un agronomo abbiano più chance nel
mondo del lavoro se in grado di padroneggiare più lingue straniere, soprattutto se la competenza
linguistica di cui dispongono è specialistica, ciò che oggi, in Italia, è tutt’altro che scontato nei
nostri laureati dei corsi triennali o magistrali. Di fronte al sempre maggiore rischio di
formazione linguistica universitaria lacunosa, i CLA possono ricoprire un ruolo essenziale, a
condizione che il loro statuto cambi radicalmente, al fine di adattarsi alle nuove esigenze della
società di oggi, in cui si richiedono non soltanto conoscenze linguistiche generaliste, ma anche
e soprattutto competenze linguistiche spendibili nel mondo del lavoro.
Quale statuto deve dunque possedere oggi in Italia un Centro Linguistico per essere attore
competitivo e propositivo di fronte alle tentennanti politiche linguistiche del Ministero
dell’Università, di fronte alle pressanti richieste dell’Europa, di fronte all’opinione pubblica, ai
bisogni delle imprese e dei privati? Per tentare di rispondere a questa domanda, è necessario
fare un po’ di autocritica e prendere coscienza che la caduta verticale dell’importanza delle
Scienze Umane (e quindi anche delle Lingue Straniere) nelle Università Italiane è stata
provocata dalla concomitanza di più fattori negativi, tutte riconducibili, purtroppo,
all’incapacità del settore di adattarsi rapidamente, proponendo strategie innovative, alle nuove
esigenze degli anni 2000. Nel giro di pochi anni, infatti, tutto ciò che aveva contribuito a creare
12
Centro Europeo per lo Sviluppo della Formazione Professionale. Il Centro ha il compito di fornire il suo
apporto alla Commissione in vista di favorire, a livello comunitario, la promozione e lo sviluppo della formazione
professionale e della formazione permanente.
13
ELAN: Effects on the European Economy of Shortages of Foreign Languages, The National Center for
Languages & InterAct International, http://ec.europa.eu/education/languages/pdf/doc421_en.pdf.
14
Il commissario per il multilinguismo Leonard Orban ha dichiarato: "La relazione del Forum delle imprese
sottolinea l'importanza del multilinguismo per le imprese europee, dimostrando come la diversità linguistica e gli
investimenti in competenze linguistiche e interculturali possano essere trasformati in una reale opportunità di
prosperità e in un vantaggio per tutti. Le conclusioni della relazione e le sue raccomandazioni costituiscono un
eccellente contributo alla nuova comunicazione strategica sul multilinguismo che intendo presentare quest'anno a
settembre. Inoltre, sono in linea con gli obiettivi stabiliti nella strategia di Lisbona a favore di una maggiore
crescita e di più posti di lavoro." (Multilinguismo, ovvero come le lingue aiutano le imprese European Commission
- IP/08/1130 11/07/2008 , http://ec.europa.eu/education/languages/index_en.htm).
5
un modello educativo basato sulle “humanae litterae” è stato percepito come un modello
superato e perdente, anzi proprio a quell’impianto culturale sono state attribuite tutte le colpe
del ritardo accumulato dall’Italia nei confronti degli altri Paesi più avanzati. Dal canto loro, i
Governi italiani succedutisi dagli anni ’90 in poi, hanno legittimato quest’opinione tanto diffusa
quanto errata e che può essere tradotta in una formula alla moda: tutto è positivo nei
Dipartimenti scientifici, tutto è negativo nei Dipartimenti umanistici.
Il risultato è ben noto a tutti: molti Centri Linguistici sono stati chiusi e, contestualmente,
molti posti di Professore e di Ricercatore sono andati perduti a favore dei settori scientifici.
Sarebbe stato invece auspicabile considerare in maniera pragmatica, che le lingue sono, forse,
l’unico “prodotto” della area umanistica che “si vende bene” sul mercato e essersi rapidamente
adattati alle mutate condizioni.
Tuttavia, credo che non tutto sia perduto e che tale tendenza negativa possa essere invertita
trasformando i Centri Linguistici in soggetti nuovi, che siano nello stesso tempo Centri di
servizi universitari e dinamici punti di riferimento per il territorio, gli enti pubblici, le imprese e
il mondo del lavoro. Nell'ambito di quel processo di internazionalizzazione che è ormai
diventata la parola magica in Italia, capace di aprire tutte le porte, i Centri Linguistici hanno
tutte le carte in regola per diventare il pilastro irrinunciabile di ogni Ateneo. Vero e proprio
presidio di ogni Università che vuol essere moderna, il processo di internazionalizzazione non
ha alcuna possibilità di realizzarsi compiutamente senza un vero salto di qualità nelle
competenze linguistiche di studenti e docenti in ogni settore scientifico disciplinare. Purtroppo,
nemmeno dopo la Convenzione di Bologna e il processo di Lisbona, che hanno stabilito in
modo definitivo la necessità di avviare una efficace strategia di internazionalizzazione, nulla o
quasi nulla si è mosso nei nostri Atenei. E se è vero che il processo d’internazionalizzazione
può definirsi come l'inserimento di componenti internazionali nelle attività di insegnamento, di
ricerca e nei servizi per la collettività, sembra oggi del tutto incomprensibile continuare una
guerra interna al mondo accademico, una guerra fratricida mai dichiarata, ma sempre
combattuta dagli anni '70, che ha visto confrontarsi Scienze umane e Discipline scientifiche. Di
fronte alle pressanti sfide della società odierna, alla globalizzazione e alla concorrenza
internazionale, in Italia si è continuato ad alimentare “querelle” tra l'area scientifica e l'area
umanistica, invece di trovare basi comuni di accordo, e nell'ambito del settore linguistico, si è
continuato a difendere a oltranza posizioni indifendibili senza chiedersi quali fossero
effettivamente le esigenze a livello di conoscenze e competenze linguistiche. Il solo modo di
recuperare posizioni e resistere all'onda iconoclasta che rischia di spazzare i Corsi di Laurea in
Lingue, se non l'intera area umanistica, passa inevitabilmente anche per un cambiamento
radicale dello statuto dei CLA, che devono proporsi in maniera innovativa come punto di
contatto tra l'Università, il territorio e il mondo del lavoro, con una struttura e un'organizzazione
aperta ai bisogni delle Istituzioni e delle imprese. Sono numerose le carte di cui dispongono i
Centri Linguistici: di fronte alla cancellazione delle seconde e terze lingue dalle
programmazioni di quasi tutti i Corsi di Laurea, i CLA possono assicurare la loro
sopravvivenza, a seconda delle diverse esigenze rappresentate, e, nello stesso tempo, grazie a
specifiche convenzioni con il tessuto imprenditoriale di riferimento, promuovere il
rafforzamento dei linguaggi settoriali (o di specialità) necessari allo sviluppo ottimale di
quest'ultimo. Allo stesso modo, corsi mirati, nella tipologia e nel livello, potrebbero essere
organizzati dai Centri Linguistici utilizzando i canali privilegiati già esistenti tra le numerose
fondazioni, bancarie e non, e il sistema universitario. La formazione linguistica mirata dei
giovani diplomati ITS (Istituti Tecnici Superiori), per esempio, dovrebbe essere appannaggio
dei CLA e non dei Centri privati, a completamento di un « curricolo verticale » impostato su
una collaborazione tra Scuola e Università che può realizzarsi fin dalla scuola primaria.
Tuttavia, ciò è possibile soltanto da Centri Linguistici flessibili dotati di autonomia di gestione.
6
Si tratta di una svolta decisiva nel sistema di formazione post-diploma di studi secondari, in
grado di rispondere perfettamente alle nuove regole dettate dalla Comunità europea. Per far
fronte a queste nuove esigenze espresse dal mondo imprenditoriale, bisogna ripensare
radicalmente il ruolo e le strategie dei CLA in Italia. Non è pensabile che i Centri di formazione
privati sostituiscano le Università poiché queste non sono in grado di far fronte ai bisogni del
territorio, perché ingessate dalla burocrazia e autoreferenziali. L'esempio della collaborazione
dei Centri Linguistici con la Fondazione ITS è solo uno dei tanti che potrebbero essere portati
per sostenere la necessità di una rivisitazione normativa dei CLA in Italia, al fine di farne
soggetti moderni, al servizio degli Atenei, ma anche di tutti i cittadini, grazie a strategie che
mirino a dar loro uno statuto più moderno che meglio risponda alle esigenze della nostra società
contemporanea negli ambiti tecnologici d'avanguardia.
7