Davvero la scuola del primo ciclo ha tante colpe? Il Fatto Quotidiano

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Davvero la scuola del primo ciclo ha tante colpe? Il Fatto Quotidiano
Davvero la scuola del primo ciclo ha tante colpe?
Il Fatto Quotidiano’ ha pubblicato il 2 febbraio una lettera-appello intitolata “Saper leggere e
scrivere: una proposta contro il declino dell’italiano a scuola”, ripresa poi anche da altri
quotidiani. Partendo dalla constatazione delle gravi incompetenze linguistiche di base
facilmente riscontrabili nelle matricole universitarie, gli universitari che firmano la lettera
chiedono che le competenze linguistiche vengano rimesse al centro della didattica, a
cominciare dal primo ciclo, ovvero dalla scuola elementare e media. E fanno tre proposte.
La prima riguarda la revisione delle Indicazioni nazionali per il primo ciclo, quelli che fino a
qualche anno fa si chiamavano Programmi scolastici. Gli estensori del documento ritengono
che debbano essere riviste, per dare grande rilievo all’acquisizione delle competenze di base,
fondamentali per tutti gli ambiti disciplinari, fissare i traguardi da raggiungere e proporre
tipologie di esercitazioni. In realtà le Indicazioni contengono tutto questo, anzi sono
caratterizzate proprio dall’insistenza sull’obiettivo del progressivo consolidamento delle
competenze linguistiche e comunicative degli allievi, e dal ribadimento del ruolo centrale e
trasversale – cioè proprio di tutte le materie – dell’educazione linguistica. Il testo ministeriale
non si limita a fare affermazioni: mette al centro dell’attenzione le abilità linguisticocomunicative (ascoltare, parlare, leggere, scrivere) considerate separatamente ma anche nella
loro integrazione. E per ogni aspetto della lingua italiana (ascoltare, parlare, leggere, scrivere,
imparare nuovo lessico e riflettere sulla lingua) chiariscono bene che cosa si deve conoscere e
padroneggiare alla fine della quinta elementare della terza media, e offrono esempi di metodi,
strategie, tecniche e attività da svolgere.
La seconda proposta contenuta nella lettera-appello è drastica: invoca il controllo degli
apprendimenti mediante ‘l’introduzione di momenti di seria verifica’: una misura efficace
potrebbe essere, ad esempio, l’introduzione di verifiche nazionali periodiche durante gli otto
anni del primo ciclo”: praticamente, almeno un test INVALSI all’anno. Un’aperta – e ben
poco motivata - dichiarazione di incapacità, per i docenti del primo ciclo.
Ma è la terza proposta la più grave: chiede “la partecipazione di docenti delle medie e delle
superiori rispettivamente alla verifica in uscita dalla primaria e all’esame di terza media, utile
per stimolare su questi temi il confronto professionale tra docenti dei vari ordini di scuola”.
Tradotto: chi sta sopra deve controllare chi sta in basso. Se ne deduce che docenti di scuola
secondaria sono superiori non come ordine di scuola, in quanto successivo alla primaria, ma
in quanto a preparazione professionale, che si esplica nella funzione di controllo dei
subalterni. Il meccanismo del controllo dall’alto al basso è perfetto: l’operato dei docenti di
scuola elementare va controllato da quelli della media, che sono poi soggetti al controllo dei
colleghi delle superiori, che sono soggetti al ‘controllo professionale’ dei professori
universitari. I quali sono al vertice della piramide, perfetti e intoccabili.
Una semplice obiezione: se è vera questa gerarchia che vede i docenti della scuola primaria al
gradino inferiore, come si spiega il fatto che le principali rilevazioni internazionali attestano
da anni che i bambini della quarta classe elementare nelle graduatorie internazionali si
collocano sempre nella fascia medio-alta per le abilità di lettura, mentre lo stesso non accade
– per usare un eufemismo – per gli studenti quindicenni?
Pensiamo positivo. Inoltrarsi sulla strada delle contrapposizioni fra insegnanti dei diversi
ordini di scuola, come pensare che la qualità dell’insegnamento dipenda dalla proliferazione
delle verifiche, non porta a nulla di concreto, per le sorti dell’educazione linguistica. La
collaborazione tra insegnanti dei diversi ordini di scuola è sicuramente necessaria, ma non per
un controllo dall’alto verso il basso. Se si parte dal presupposto che tutti i docenti sono dei
professionisti, il lavorare insieme è utile per imparare gli uni dagli altri: si definiscono ambiti
di pertinenza, si condividono problemi, si trovano punti di debolezza su cui intervenire, si
progettano e si sperimentano strategie.
E non c’è un ordine di studi più responsabile di altri: l’insegnamento linguistico deve
continuare con sistematicità e rinforzarsi anche dopo il primo ciclo, sino alle soglie
dell’Università (e perché non oltre questa fatidica soglia?).
In definitiva: la diagnosi iniziale del Gruppo di Firenze è incontestabile. Anzi, per certi versi
pecca per difetto: le carenze linguistiche dei giovani sono da tempo fonte di preoccupazione
(personalmente organizzai i primi corsi di recupero di lingua italiana all’Università di Lecce
negli anni Novanta; il primo libro che denunciava il problema non è di ieri, ma del 1991, e si
intitolava
“La lingua degli studenti universitari”). Ma le proposte sono sicuramente
discutibili.
Forse è finalmente il momento di affrontare, invece, problemi centrali che in buona parte sono
all’origine delle nostre lamentele: le gravi carenze nel reclutamento e nella formazione,
iniziale e in servizio, dei docenti. Per restare alla scuola primaria: l’ultima seria formazione in
servizio è stata fatta negli anni Ottanta, sui Programmi allora appena sfornati, poi più nulla.
Chi insegna alle superiori non ha mai avuto una formazione funzionale all’insegnamento,
come in qualche modo avviene per le elementari; le ultime generazioni di insegnanti sono
state oggetto di sperimentazioni occasionali e quasi casuali. In queste condizioni, ha senso
assegnare tout court agli insegnanti il ruolo di capro espiatorio?
Domanda delle domande: ma vogliamo davvero una scuola per tutti? Se non la vogliamo, si
torni alla scuola per le élites; ma se lo vogliamo, dobbiamo dare agli insegnanti – a tutti gli
insegnanti - gli strumenti per gestire la complessità crescente, che dalla società entra
direttamente nelle scuole e rende i nostri ragazzi così diversi da quelli delle generazioni che li
hanno preceduti. La questione riguarda tutti gli insegnanti di ogni ordine e grado e le loro
capacità di tradurre in azioni concrete e accertate il dettato delle Indicazioni. Dobbiamo dare
loro gli strumenti per portare i ragazzi e le ragazze al possesso delle abilità richieste da una
società complessa. E l’operazione, aggiungiamo, ha un senso solo se inquadrata in un
generale potenziamento del livello culturale degli adulti. Che poi si riflette anche sui nostri
ragazzi: quanti genitori sono in grado di seguire lo studio dei figli? Ma all’alfabetizzazione
degli adulti ben pochi pensano, in Italia.
L’educazione linguistica, in questa prospettiva, non si esaurisce nel dettato ortografico e nella
scrittura corsiva a mano: li comprende, ma comprende soprattutto il progressivo ampliamento
delle capacità di dominare le varietà linguistiche del nostro repertorio, il progressivo
rafforzamento della capacità di riflessione sulla lingua, l’incremento del lessico, la continuità
e la trasversalità nell’insegnamento della lingua. Chi le insegna, queste cose, agli insegnanti?
Alberto Sobrero
Segretario nazionale del GISCEL, Gruppo di Intervento e Studio nel Campo dell’Educazione
Linguistica