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Alfredo Signori
Alfredo Signori
Presenze del visibile
a cura di Sandro Parmiggiani
Cura della mostra e del catalogo
Sandro Parmiggiani
Progetto grafico e impaginazione
GB Studio / Federica Neeff
Tutte le fotografie delle opere
sono di Massimo Bianco
tranne le seguenti:
p. 2 Cristina Berselli
p. 6 Marianna Merisi
p. 71 Roberto Caccialanza
Testi in catalogo
Elda Fezzi
Fabrizio Merisi
Sandro Parmiggiani
Si ringraziano in particolare:
Oreste Perri
Sindaco di Cremona
Ivana Iotta
Direttore del Settore Cultura e Musei
Irene Nicoletta De Bona
Assessore alla Cultura, Commercio e Turismo
Museo Civico “Ala Ponzone”, Cremona
Camera di Commercio, Cremona
Fondazione Città di Cremona
Unicredit
i prestatori delle opere esposte in mostra
Il presente catalogo è stato stampato
in occasione della mostra
“Alfredo Signori. Presenze del visibile”
Salone degli Alabardieri, Palazzo Comunale
Piazza del Comune 8, Cremona
14 - 30 marzo 2014
Con il patrocinio di
L
a città, tramite l’Amministrazione Comunale, partecipa
a questo evento celebrativo del pittore cremonese Signori con il prestito di due dipinti significativi dell’opera dell’Artista, appartenenti a quel filone di studio sul
paesaggio che, senza contrapporvisi, accompagna nel percorso artistico di Signori il suo interesse per la figura e il
ritratto.
Altri hanno parlato e parleranno in termini di critica d’arte
dell’opera del nostro concittadino: si preferisce qui ricordare
le caratteristiche dell’uomo, inscindibili dai suoi risultati d’Artista. Alfredo Signori nasce all’inizio di quel XX secolo le cui
vicende interpreterà sempre attraverso l’ineffabile linguaggio dell’arte con uno sguardo carico di implacabile intelligenza ma anche di “umana pietà”.
Il carattere schivo e riservato non gli impedisce di mantenere un
contatto saldo con la realtà del suo tempo e non rinuncerà mai
alla libertà del suo pensiero e della sua arte, come ad esempio
testimoniano i soggetti che la sua pittura predilige negli anni del
fascismo, assai lontani dalla retorica del regime.
L’Assessore alla Cultura e al Turismo
Irene Nicoletta De Bona
Il Museo Civico annovera nelle sue collezioni due dipinti di
Signori: Morbasco e Inverno (Piante alla stazione), degli anni
’40/’50, entrambi esposti in questa occasione nell’ottica
della valorizzazione del patrimonio artistico riferito al nostro
territorio: e volentieri il Comune collabora alla realizzazione
della mostra mettendo a disposizione anche gli spazi della
Sala Alabardieri in Palazzo Comunale. È in occasioni come
questa che viene prepotentemente in luce l’importanza di
una Istituzione Museale pubblica davvero legata al territorio,
di cui condivide le radici più profonde.
Non resta dunque che ringraziare le figlie del nostro concittadino e tutti coloro che hanno dato il loro sostegno all’iniziativa.
Si auspica che questo riepilogo del lungo percorso di una
vita tutta spesa all’insegna dell’arte, voluto e incoraggiato
dalle figlie dell’Artista, promuova ulteriori approfondimenti e
studi critici sui significati che Alfredo Signori volle imprimere
alla sua opera.
Il Sindaco
Oreste Perri
Fabrizio Merisi Addensamento di memoria in un dipinto di Alfredo Signori
I
l dipinto a olio su cartone intelato che da più di mezzo secolo mi segue nei vari spostamenti di dimora
è per me la rappresentazione di un nucleo raggrumato di memoria, storica e affettiva.
A delimitare il terreno chiazzato di verde di un vecchio
cortile appaiono le superfici irregolari e sghembe di un
antico caseggiato, punteggiate dalla danza di numerose finestre, con persiane spalancate e rosse come
i coppi dei tetti, da cui si stagliano contro la linea del
cielo torri e campanili e un addensamento di altri tetti dell’antica e amata Cremona. In particolare si riconosce a sinistra la torre di Palazzo Trecchi, a destra
il Torrazzo e il campanile di Sant’Agostino, al centro
un’altana.
In basso a sinistra solo un cognome, Signori. Sul retro
“Cortile, 19..”, le ultime due cifre della data abrase o
rosicchiate da pesciolini d’argento e, incollata, la targhetta di esposizione: XIII Mostra Interregionale, Palazzo della Ragione, Mantova [1943], indirizzo: “B. M.
Visconti 7 Cremona”.
La struttura del dipinto non si affida a un disegno definito ma è costruita direttamente dal colore, con una
pennellata irrequieta e timbrica che irradia una sensazione di intensità espressionista. Un modo di interpretare la realtà che accomuna Alfredo Signori a pochi
giovani artisti d’avanguardia come Badodi (da me tra i
più amati di Corrente), Birolli, Morlotti, Sassu, Migneco, che fra gli anni ’30 e ’40 rifiutavano la magniloquenza del novecentismo e ancor più il realismo pom-
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pier promosso da Farinacci con il Premio Cremona.
Il dipinto mi fu regalato da Signori a seguito di una visita al suo studio a metà degli anni ’60, a suggello di un
rapporto di stima reciproca iniziato una decina di anni
prima nello studio di Iginio Sartori, dove si riunivano
spesso come in un cenacolo molti intellettuali e artisti
di ogni età.
Tra i più amati, fino alla morte nel 1953, Renzo Botti, ma
vicini anche Cirillo Bertazzoli, Mario Balestreri, Ernesto
Piroli, Sereno Cordani, Ettore Baroschi, Elda Fezzi e, tra
i giovani, Gianfranco Fiameni, Romano Alquati, Ermanno Garbi, Giorgio De Cicco, Cornelio Bertazzoli.
Felice Abitanti (1926-2005), che aveva iniziato a dipingere ospite nello studio di Iginio, svolgeva un ruolo di
trait d’union e una particolare affinità si era instaurata
tra lui e Signori. Forse è proprio in virtù del loro fervente
rapporto intellettuale e affettivo che maturò in entrambi la propensione ad adottare come criterio espressivo
una triangolazione fra le spinte emozionali provenienti
dal profondo, il loro impatto con la realtà oggettuale,
e una vigile e costante capacità critica di rapportare i
propri esiti artistici a quelli maturati in ambiti strutturati
della cultura nazionale, europea, americana.
A Signori infatti fin dagli esordi andò stretto il contesto cremonese che pure vantava una tradizione ricca di talenti, anche negli anni a lui vicini: da Antonio
Rizzi (1869-1940) a Carlo Vittori (1881-1943), Francesco Arata (1890-19956), Renzo Botti (1885-1953), Mario
Biazzi (1880-1965).
Nostro cortile
(con molte torri), 1943
olio su tela, cm 38 x 48
proprietà privata
Il suo percorso culturale e artistico si sviluppò da posizioni d’avanguardia, di pari passo con il processo di
svecchiamento che interessava singoli artisti e gruppi
organizzati nelle varie capitali italiane della cultura. Con
particolare riferimento sul finire della guerra a Corrente e alla Scuola romana, in seguito a Ben Shahn e al
Realismo americano, alla Neue Sachlichkeit tedesca,
alla Nuova Figurazione milanese.
Il confronto a vasto raggio lo stimolava ad affinare
continuamente il rigore esasperato della sua ricerca,
con risultati poetici di prim’ordine.
Ho sempre immaginato Alfredo Signori come un prigioniero costretto all’isolamento in cima a un’alta torre da cui il corpo non può fuggire, ma che riesce con
sguardo acuto a cogliere e a introiettare ciò che avviene nel vasto mondo della creatività e a rielaborarlo
attraverso il filtro dell’emozione.
Mi rattristo, scorrendo l’elenco delle esposizioni collettive, per quanto Signori debba aver sofferto, ben
conscio del proprio valore, per la comunanza coatta
con tanta mediocrità.
Per fortuna, a rendergli merito e a collegarlo anche
di fatto con la cultura extraprovinciale, compare nel
1975 la personale presso la Galleria Botti e, in seguito, nel 1977, a Santa Maria della Pietà a Cremona e
al Palazzo della Permanente a Milano, la rassegna: A
Danilo Montaldi.
Credo che l’attività legata all’arte e alla cultura della
libertà avviata sul finire degli anni ‘60 da Danilo Mon-
taldi e Ambrogio Barili assieme a un gruppo di intellettuali cremonesi abbia rappresentato una preziosa
boccata d’ossigeno nel pesante clima cremonese, facendo emergere dall’isolamento energie sommerse,
creando legami esistenziali e scambi culturali con artisti di punta italiani e tedeschi, da Guerreschi a Vaglieri,
da Ceretti a Forgioli, da Ackermann a Schmettau.
L’importante antologica a Palazzo Trecchi del 1982,
promossa da ADAFA e curata magistralmente da Elda
Fezzi, già aveva aiutato a delineare una visione d’insieme dell’opera di Alfredo Signori. E ora questa antologica ne ripropone per intero la vitale attualità.
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Sandro Parmiggiani Dipingere per sottrarre il visibile all’oblio
I
tre Autoritratti che Alfredo Signori ci consegna nel 1936’37 – un disegno a matita e due dipinti ad olio su tela – hanno posture, di profilo, di fronte e di tre quarti, che evocano
le foto segnaletiche, quasi che l’artista si sia impegnato
nell’esplorazione del proprio volto, scrutandolo da diverse angolazioni: un brano del reale da introiettare e da salvare, e dal
quale forse si attende una qualche rivelazione di sé. Possiamo cogliere l’intensità dello sguardo, la solitudine interiore,
l’autoconsapevolezza di questo giovane di ventiquattro anni
che ha ormai abbracciato la pittura, e che, per sempre, ne
farà la propria ragione di vita, il respiro stesso del suo esistere.
Pur nella diversità delle tecniche, le tre opere hanno modalità espressive comuni: nel disegno, il fondo è un tratteggio
a matita percorso da sommovimenti e vibrazioni che paiono
fare eco alle lievi ondulazioni dei capelli; nel dipinto ad olio
del 1936, la maglietta a righe rosse, lievemente curve – quasi
un’anticipazione di quella che diverrà un’icona giovanile nei
primi anni Sessanta: tutti ricordano i ragazzi con le magliette a
strisce che, nell’estate del 1960, a Genova e a Reggio Emilia,
furono in prima fila nelle manifestazioni popolari che si opponevano alla deriva autoritaria in Italia – rima con il fondo a larghe strisce verticali, con di nuovo quella fronte ampia e quello
sguardo che pare incantarsi di fronte al mondo, quasi che non
potesse fare a meno di scrutarlo, intensamente, per penetrarlo in ogni suo anfratto. Nel dipinto a olio del 1937, fremiti di
rosa agitano l’aria, come dentro un’alba che s’annuncia, con il
felicissimo verde della giacca che al rosa fa da contrappunto,
in una reciproca esaltazione non solo tonale, ma di vibrazioni
atmosferiche, determinate da una sorta di febbre, di ansia, di
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turbine che tutto, la giacca e la stessa cravatta, agita e intride.
Nell’apparente differenza dello sguardo – nel disegno, Signori
guarda lontano con una determinazione e una tenacia rafforzate dagli stessi tratti volitivi del volto – si vanno definendo e
ricomponendo, davanti a noi, i tratti di Signori, che, nel 1942,
ci fornirà un’ulteriore testimonianza di sé: sono comparsi i baffi, c’è un dito che pare ammonire durante la conversazione,
ancora ci sono il sommovimento e il tremolio della pennellata, nello studio (lo scorcio del muro e la luce acquosa che
irrompe dalla finestra) e nella figura (la giacca e la camicia).
Già queste prime quattro opere ci dicono che per Signori la
figura non solo vive dentro un contesto, ma che tra la persona
e ciò che la circonda ci sono misteriose corrispondenze, quasi che l’essere umano emanasse un fluido, un magnetismo,
che modella l’ambiente. L’osmosi tra le cose e ciò che sta
loro intorno segna anche due bellissime nature morte dell’artista: Oggetti, 1937, e Natura morta con peperoni, 1942, con
queste vibrazioni che tutto investono, con le cose che paiono in preda a una metamorfosi che a sua volta tutto intorno
s’irradia – il primo dipinto è un brano di straordinaria pittura,
con l’incendio morboso, le fiamme ardenti e l’energia, insieme vitale e distruttiva, che troviamo nelle opere di Scipione.
L’Autoritratto ultimo del 1987 ci consegna, quarantacinque
anni dopo, l’evoluzione del volto dell’artista: un viso ieratico,
ormai fuori dal tempo, segnato da un’ansia oscura che non
può essere lenita, un volto che fissa implacabile chi lo guarda, portatore, nei propri tratti diafani ed evanescenti, di una
verità sulla condizione umana e sul senso del dipingere che
ci fanno comprendere quanto Signori fosse autenticamente
pittore, nel suo desiderio di affermare la consistenza del visibile, pur consapevole che esso è soggetto a un inarrestabile,
continuo processo di sparizione, dentro lo scorrere impietoso
del tempo. Spetta alla pittura di riappropriarsi e di trasfigurare
il visibile, rendendolo in un qualche modo perenne.
Natura morta
con peperoni, 1942
olio su tela, cm 37 x 44
proprietà privata
A cinque anni dalla scomparsa di Signori, e dopo le mostre antologiche che gli sono state dedicate – nel 1982, con saggio
in catalogo di Elda Fezzi che in questo volume viene significativamente riproposto, e, dopo la morte, nel 2010, con testo
di Tiziana Cordani –, è utile proseguire la ricognizione del suo
percorso attraverso le opere presentate in questa mostra e
nel catalogo che l’accompagna, per trarne ulteriori indicazioni
sul suo lavoro e sul dialogo, ininterrotto e fecondo, che lui seppe intrattenere con le vicende artistiche e del pensiero – del
resto, qualsiasi autentica opera d’arte parla una lingua nuova,
dentro il tempo, nel mutare delle sensibilità e delle culture.
Signori, dopo le frequentazioni milanesi degli anni Trenta, nei
quali si dipanarono prima il Chiarismo e poi Corrente, visse
a Cremona per il resto della sua vita, ma non si trattò di un
confinamento, di un ripiegamento su se stesso, di un esilio
insensibile a ciò che andava svolgendosi nell’arte, nella cultura e nella coscienza civile: lui sempre continuò a misurarsi con
alcune delle esperienze pittoriche che riteneva più affini alla
sua sensibilità e alle sue esigenze espressive, con i drammi
della storia di un secolo tormentato, con l’affermazione e la
caduta delle illusioni, con le novità del pensiero, come avremo
modo di appuntare.
Suonatore di mandolino, 1938, può essere considerata
un’opera davvero capitale, non solo per la verità e la dolente
intensità della condizione umana che l’artista riesce a cogliere, nella stessa povertà dell’abbigliamento e nell’abbandono
a una sorta di impetuosa corrente della vita, ma perché in
questo dipinto affiora un motivo – il muro di mattoni dietro il
musicista, che forse intende alludere a una sorta di chiusura, di impossibilità di evadere da una certa situazione, quello
stesso muro che compare in alcuni dipinti di Ben Shahn – che
ritornerà quarant’anni dopo, nettamente scandito nei colori,
nelle cadute di intonaco e nei segni che il tempo lascia sulle
cose (ad esempio, Muro di mattoni, 1979). Le stesse considerazioni possono svolgersi per un altro dipinto memorabile,
Uomini in treno, 1940, nel quale l’atmosfera di solitudine è
accentuata dalla diversa direzione in cui questi due sconfitti dalla vita – si pensi all’abbandono delle mani, pròtesi che
promanano dalle braccia – guardano, come se non ci fosse
possibilità di comunicazione tra chi, pur essendo nelle stesse
condizioni di durezza, non concepisce alcuna possibilità di relazione, di evasione, che il finestrino, con il ponte e il fiume, e
la luce della rivelazione che inonda la carrozza, tanto intensa
da cancellare le forme, lasciano comunque intravedere. Allo
stesso modo, i Fidanzati, 1942, con le due figure contrapposte che si guardano, e che ci paiono, nonostante la vicinanza
fisica, distanti e isolate, quasi oppresse dal peso della condizione umana che si portano addosso, con sullo sfondo un
cielo che sembra un mare annunciante tempesta e lo scorcio
di un paese povero, dimesso, nel quale le case paiono spettri
evanescenti, più che reali consistenze – un’attenzione al reale
che emergerà con nettezza nei dipinti del 1960 (Casa diroc-
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cata e Distruzione) – sono un’opera di straordinaria intensità
espressiva e felicità pittorica. Possiamo dire, già con queste
opere degli esordi, che in noi evocano le prove di Ben Shahn
e della parte meno crudamente dissacratoria, più macerata,
dell’Oggettività Tedesca, che Signori non può prescindere dal
reale, almeno come motivo di partenza dei suoi lavori, sempre intrisi di una sorta di affettuosa simpatia e nostalgia per
una condizione umana fatta di durezze e solitudini, alla quale
lui guarda con la pietà che si deve agli esseri umani autentici. Pare esprimere, questo artista appartato, qualcosa che
Pier Paolo Pasolini saprà dire molto bene: “mi sforzo a capire
ogni cosa, ignaro / come sono d’altra vita che non sia / la mia,
fino perdutamente a fare // di altra vita, nella nostalgia, / piena
esperienza: sono tutto pietà, / ma voglio che diversa sia la via
// del mio amore per questa realtà, / che anch’io amerei caso
per caso, creatura / per creatura”. 1
Dopo i ritratti e le nature morte, nel dopoguerra Signori si cimenta con la ricognizione del paesaggio urbano e rurale: in
Morbasco, 1947, il corso d’acqua, affluente del Po, che attraversa parte della provincia di Cremona, compresa la città,
s’apre la strada dentro un agglomerato di case, spettrale, quasi metafisico nell’apparente abbandono. Ponte sul Morbasco,
1952, anch’esso intriso di toni morandiani, di aria e di nebbia,
e di reminiscenze chiariste, con il palo solitario che s’erge al
centro dell’opera e le dà profondità, con le rive del canale rese
con pennellate, insieme sciolte e contorte, è un retaggio delle
passate esperienze di Signori con il ritratto e la natura morta,
e un’anticipazione di modalità di stesura del colore che riscon-
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treremo in prove successive. La visione s’allarga, e il colore
s’accende, in Ponte sul Po, 1955, con il felice contrappunto
tonale tra azzurro e verde, che si ripropone in Pianta inclinata
sul Morbasco, 1956, esempio di una meditazione che Signori va compiendo sul retaggio di Cézanne e del cubismo. In
Periferia (Mulino Rapuzzi), 1954, e in Mulino Maglia, 1957,
continua l’indagine dell’artista su ciò che di più povero e dimesso sorge lungo il corso d’acqua, con la struttura svettante
del mulino, i pali solitari della corrente elettrica e la recinzione
di filo metallico. In particolare, lo splendido Periferia (Mulino
Maglia), 1954, con di nuovo i pali dell’elettricità, le reti, il camion, la vecchia auto, la bicicletta appoggiata al muro spoglio
da cui spunta un comignolo, evoca in noi, anche nei toni, le
atmosfere di Ben Shahn e di Sironi, quando raffiguravano la
desolazione dei paesaggi urbani di periferia. In tutti questi dipinti di paesaggio possiamo notare una struttura compositiva comune, imperniata sul corso d’acqua e sulle strade che
fendono la visione e s’inoltrano verso l’orizzonte, conferendo una profondità all’immagine, in analogia con le esperienze della pittura nordica dei primi decenni del secolo. Forte è
pure la presenza di forme della geometria, nella descrizione
degli edifici e dei muri, anche se Signori, in Inverno (Piante
alla stazione), 1958 (collezione Museo Civico “Ala Ponzone”
di Cremona) maschera la desolazione di una periferia urbana
con gli alberi spogli in primo piano, scheletri ramificati di una
vita che comunque tornerà a sbocciare, di una speranza che
non è del tutto cancellata. Mai Signori può sottrarsi al fascino
del reale: Siepe aggrovigliata, 1961, fa emergere il dettaglio
degli arbusti, i loro intrichi e le loro contorsioni, metafora dello
Lucien Freud, s.d.
matita su carta, cm 30 x 21
Emil Nolde, s.d.
matita su carta, cm 30 x 21
svolgimento delle umane esistenze. L’artista non si cimenta
solo con la tecnica del dipinto ad olio, ma anche con quelle
dell’acquerello, del pastello e della tempera, dimostrando di
padroneggiarle al meglio: Piena del Po in autunno, 1962, con
l’acqua che ha invaso una golena e il verde e il giallo delle piante e delle case sullo sfondo che paiono emergere dall’azzurro,
e i toni che virano e germinano l’uno dall’altro – più cupi quelli
del cielo, più luminosi quelli dell’acqua. Estate, 1960, anticipa,
nell’intrico della vegetazione che, ebbra, pare svilupparsi in
ogni direzione, l’approdo di Signori all’immersione nella carne
delle rocce e dei muri; Cielo di primavera, 1960, e Cielo con
nubi, dello stesso anno, con quella sorta di viluppo scuro che
scende minaccioso a sfiorare la terra, presagio di un dramma,
confermano l’attenzione dell’artista al reale, la sua immersione nelle stesse vicende atmosferiche che, giorno dopo giorno, accompagnano lo svolgersi della nostra vita. Non sono
presenti in mostra i disegni di Signori, realizzati a china e a
matita: un capitolo ampio e di grande valore della sua ricerca,
che accompagna tutti i generi con i quali lui si è cimentato, dai
ritratti alla natura morta, dal paesaggio ai muri alle case, colte
sull’incerto crinale tra distruzione e ristrutturazione. Dunque,
Signori non fu solo eccellente pittore ma anche abilissimo disegnatore, come testimoniano i ritratti a matita degli ultimi
decenni, nei quali l’artista, con rasoiate di segni scolpisce i
lineamenti dei volti, scavandoli come se a lui interessasse andare oltre la superficie, la pelle, e fare emergere ciò che essa
nasconde, nella secchezza e nell’essenzialità dei tratti: prove
assai intense, che ci confermano come l’artista fosse attento a varie esperienze – quella di Lucian Freud, ad esempio,
che riaffiora anche nei dipinti di piante con i quali si chiudono la mostra e il catalogo. Chi pensasse, nel caso di Signori,
a un’esperienza di “provincia”, deve fare i conti con la sua
opera, che è stata un costante, progressivo scavo nei motivi
da lui sentiti, sui quali andava innestando esperienze e visioni
della pittura italiana e internazionale, declinate secondo la sua
personale educazione sentimentale e pittorica.
Siamo giunti, nella nostra ricognizione, ad uno dei capitoli più
felici dell’opera di Signori. In Rocce, 1959, l’artista pare essersi
posto l’obiettivo di esplorare ogni consistenza e lunghezza di
segno: segni lievi, che quasi si confondono e vengono assorbiti dal colore di fondo, accanto a segni marcati, a segni brevi
e a segni prolungati che percorrono l’opera in ogni direzione,
in una sorta di delirio segnico che certo intende afferrare e
restituire la visione di un brano del reale, ma che è soprattutto
un esercizio di scavo in un motivo, con una padronanza tecnica di un linguaggio che possiamo associare all’informale, e al
quale farà peraltro ricorso negli stessi volti, tra cui quello “terremotato” di Eduardo de Filippo, 1980. Antelao, 1960, il re
delle Dolomiti, ci introduce nelle esperienze più alte di Signori: la conformazione della montagna vi è descritta, ma presto
tutto, compreso lo stesso residuo margine del cielo in alto, si
confonde nell’abbaglio della visione dominata dai segni che
si dipanano in ogni direzione e dal tono di fondo dell’opera.
Di straordinaria perizia sono Rocce, 1960, e Strutture, 1960:
quest’ultimo, già nel titolo, ci svela che Signori non è tanto
interessato alla raffigurazione di un mero aspetto del reale – il
primo dipinto citato, al di là del titolo che reca, potrebbe an-
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che essere associato alla scorza tormentata del tronco di un
albero – ma piuttosto alle possibilità di auto-generazione della
stesura pittorica nel corso stesso del suo farsi, spesso ricorrendo alla spatola – potremmo qui affermare che siamo di
fronte alla costruzione di un vocabolario di pennellate. È come
se Signori s’inoltrasse nella geologia delle rocce, cogliendone
le conformazioni interiori, originate dalle sedimentazioni, talvolta anche brutali, prodottesi nei millenni, che generarono
striature, ammassi di colore diverso (Rocce informali, 1970),
che lui accentuerà seguendo le ragioni della pittura. Eccolo
giungere alla visione di Rocce con cielo stellato, un “muro”
che sbarra il cammino, un ostacolo che s’erge di fronte a noi
e che pare quasi insormontabile, con la lingua di cielo che ci
appare come una chimera ma che, a chi si trova ai piedi di
quelle rocce scoscese, appare come il luogo dove i segreti
ultimi saranno svelati – “Il cielo stellato sopra di me, la legge
morale dentro di me”, dice Kant…
Nei primi anni Sessanta la pittura di Signori ci consegna alcuni
dei suoi esiti più alti, con i muri delle case diroccate – residui
che persistono dopo le devastazioni della guerra o visioni che
i processi di ristrutturazione delle città rivelano, con la demolizione del vecchio (talvolta troppo frettolosamente archiviato
come obsoleto) e la sostituzione con il nuovo –: Casa diroccata, 1960, e Distruzione, 1960, sono opere di straordinaria
felicità compositiva e tonale, con le tessere di diverso colore,
accostate l’una all’altra, degli intonaci nelle stanze dei piani di
una casa. Signori aveva già mostrato di essere particolarmente sensibile, nei dipinti delle periferie della seconda metà degli
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anni Quaranta e nei primi anni Cinquanta, alla desolazione degli spazi urbani dove i terrain vague indicano l’incerto confine
tra città e campagna, ed ora coglie e raffigura situazioni, che lui
significativamente, e non casualmente, intitola “distruzione”,
in cui gli sventramenti delle case mostrano le geometrie, fino
a quel momento incognite, di toni e di materie generate dalla
storia di quei muri mai visti da chi pure, all’esterno, vi transitava accanto, e che ora riaffiorano e ci svelano quelle stanze
segrete. È, questa, la stessa sensibilità che aveva caratterizzato certi dipinti di Mafai di edifici sventrati, e che segnerà
alcune vicende artistiche nei primi anni Settanta, quando, per
ricordare un solo episodio, a Modena Franco Guerzoni e Luigi
Ghirri utilizzano la fotografia per cogliere il fascino di quelle
stesse rivelazioni, di toni e di materie.
A volte l’artista riapproda, nei muri, a esercizi tonali che già
avevamo colto quando affrontava la vegetazione e i cieli: penso a Muro elettorale, 1960, con quella solitaria scritta, “voto”,
che pare l’ultimo residuo intellegibile di un caos che tutto
sconvolge, mentre in Casermone, 1976, l’artista dà vita a
un’opera superba, con le diverse tonalità dell’intonaco, le sue
cadute, le finestre che vi si aprono, le bocche di lupo con le inferriate. Porto di Vernazza, 1975, fornisce l’occasione per una
sorta di compendio dei motivi affrontati da Signori: le rocce
digradanti verso il mare, le case incastonate sopra la roccia,
in una sorta di danza pittorica vibrante che ripropone gli esiti
degli agglomerati cremonesi e dell’indagine sui muri. Anche
qui, l’intima struttura delle rocce pare contaminare, in un processo di osmosi e di metamorfosi, tutto l’universo: lo stesso
cielo, che diventa un mare agitato sopra la distesa d’acqua
Peschici, 1982
guazzo su carta, cm 25 x 50
proprietà privata
vera, in basso a sinistra. In Muro di sassi e porta (Cinque Terre), 1978, e in Muro di sassi, 1979, Signori s’avvicina ancora
di più al reale, chinandosi a indagare la superficie, ora liscia ora
scabra, solcata da venature, dei singoli sassi utilizzati per costruire un muro, con gli incastri che ne determinano la solidità;
vi si apre, accanto, una porta, e si vede il muro in cui sono stati
incastonati. Siamo davanti a un processo di trasfigurazione
pittorica, con queste vibranti, colorate germinazioni segniche
e tonali, nel reciproco innesto dei sassi o, come in Palizzata,
1980, delle assi ricavate dai tronchi degli alberi, ricongiunte
l’una all’altra, dove la resa delle venature e dei nodi del legno
raggiunge l’illusionismo ottico – evoca, questo dipinto, certe
opere di Giuseppe Guerreschi, con cui Signori fu a lungo in
contatto. L’indagine sui muri – siano essi coperti da stesure
d’intonaco recante i segni del tempo (Muro color ocra, 1978)
o tormentate pareti fatte di pietre sovrapposte (Muro con
arco nero sulla sinistra, 1979) o, ancora, sequenza di mattoni
faccia a vista (lo splendido Muro di mattoni, 1979, superba variazione tonale che va ben al di là della fedeltà al reale, e Muro
di mattoni con barre grigie, 1980), compendio delle scoperte
che si possono fare scrutando un vecchio muro, con la varietà
delle composizioni di mattoni e dei diversi intonaci, e l’antica
finestra con l’architrave a volta, ora tamponata, e quella sorta
di lacerto di affresco sulla sinistra – torna a lasciare spazio, nel
corso degli anni, agli agglomerati urbani.
Case a Monterosso,1991, reca la memoria, nei tetti e nei muri,
delle esperienze delle rocce, mentre in alcune prove, quali
Muri colorati, meridione, 1980, e Vernazza, 1981, i rapporti
e i contrappunti tra i toni e le diverse figure della geometria
segnano e caratterizzano l’opera. Questi dipinti ci confermano quanto attento e sensibile fosse Signori all’inquadratura, al
taglio dell’opera, probabilmente mutuati dalle fotografie che
lui stesso scattava, con l’allusione, su un lato, a un lacerto di
forma, così che lo sguardo percorre la superficie dell’opera e
continua oltre i suoi confini, e s’inoltra nell’immaginario, come
se l’artista sentisse l’esigenza, su cui tanto aveva insistito
Georges Braque, di introdurre elementi di un mistero che è
fondamentale perché l’opera conquisti la durata. “C’è una
sola cosa che valga in arte: quella che non si può spiegare”,
ha scritto l’artista francese nei suoi Cahiers.
La scomposizione geometrica entro cui è incastonato, pressoché imprigionato, il volto di Alienazione, 1972, ci introduce all’evoluzione del genere del ritratto. La serie di volti che
Signori raffigura negli anni Ottanta e Novanta è intrisa delle
esperienze accumulate e sedimentate nella rappresentazione dei muri e delle rocce: Eduardo De Filippo, 1980, se ne sta
davanti a un muro, con porta e finestra riquadrate, un muro i
cui sassi paiono in preda a una mutazione, a un delirio, a una
sorta di contorsione e di ripiegamento su se stessi; i toni variegati sono percorsi dalla stessa febbre che si dispiegava sui
muri. Negli anni Ottanta e Novanta le rughe, vere e proprie
ferite, sedimentazioni geologiche, segnano impietosamente i
volti e quella porzione dei colli che le camicie lasciano scoperti – tanti sono i riferimenti che potrebbero a questo proposito
farsi, ma mi limito solo a due: Giuseppe Guerreschi e Vladimir
Velickovic –, e ancora una volta rimano con la foggia degli abiti
che indossano, in una sorta di metamorfosi incipiente che av-
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volge e coinvolge tutto della persona che ci sta di fronte: Igor
Stravinskij, 1985, con sullo sfondo un fuoco di strisce ardenti;
Samuel Beckett, 1986, con quel volto lunare e gli occhi che
ci scrutano con la stessa intensità di quelli di un animale della
notte; Donna in viola, 1990; Ritratto, 1996. In ciascuno di questi dipinti, il fondo vibra delle stesse segmentazioni e degli
stessi toni che l’artista ha adottato per gli abiti delle persone
ritratte, come se queste emanassero una sorta di fluido che
sconvolge l’ambiente in cui si trovano; la frammentazione è
ovunque in agguato, in una sorta di inarrestabile contaminazione ed ibridazione di tutto ciò che è l’esistente. In verità,
sono le esigenze della pittura a determinare queste rime, e
Signori ne era perfettamente consapevole; basta guardare Simone De Beauvoir e Jean-Paul Sartre, con la bufera dei segni
che contornano i due volti solo tratteggiati a matita e lo sfarzo
degli abiti. Del resto, come ci hanno confermato i riferimenti
di volta in volta citati, lui andò arricchendo il suo linguaggio
pittorico di nuovi apporti, testimonianza di antenne sensibili e pronte a sintonizzarsi sul nuovo; non s’adagiò, Signori, a
replicare ciò che della sua opera era ormai conosciuto e apprezzato, ma continuò ad inoltrarsi su strade mai prima praticate. Basta pensare a Coppia, 1987, in cui l’uomo e la donna
vengono ritratti davanti a un muro di sassi che reca alcune
vibrazioni optical nella camicetta della donna (o, se vogliamo,
risalenti più correttamente alla lezione di Maria Helena Vieira
da Silva, con quel mosaico di minute, stordenti tessere colorate): un dipinto che potremmo accostare e confrontare, al
di là della diversa posizione assunta dai membri della coppia,
con Fidanzati, 1942, per verificare che, al di là delle innovazio-
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ni nelle soluzioni pittoriche, c’è un filo tenace che lega tutte le
opere dell’artista. Negli ultimi anni Signori realizzerà i ritratti di
scrittori, pensatori, artisti, come se non gli interessasse solo e
tanto lo scavo nei lineamenti del loro volto, ma volesse cogliere, attraverso la conquista dei tratti di quel particolare volto,
la loro stessa visione del mondo: “il volto è il messaggio”,
potremmo dire parafrasando Marshall McLuhan.
Simone De Beauvoir, s.d.
matita su carta, cm 30 x 21
Gli anni Ottanta e Novanta sono pure segnati, in Signori, da
una rinnovata attenzione all’inesauribile capacità della natura
di racchiudere segreti e bellezze: eccolo soffermarsi sui vegetali, come aveva fatto nei primi anni Sessanta (ad esempio,
Estate, 1960): Piante a Monteacuto, 1992, e la successiva
versione del 1994, Foglie di malva, 1986, Pianta sul pavimento a quadri e Stella di Natale. Sono brani di una natura palpitante, nelle sue forme e nei suoi toni, esaltata dallo sfarzo
dei colori e dalle geometrie in cui l’artista la inserisce, e dai
particolari che con straordinaria sapienza di impaginazione del
dipinto va annotando (penso al riquadro della porta che non si
intravede sul lato sinistro di Pianta sul pavimento a quadri, e
ai fili dell’elettricità, con la presa centrale, che solcano il muro:
indizio di una vita, e di una solitudine, che caratterizzavano le
stanze della desolazione di Gianfranco Ferroni).
Riprendiamo i ritratti realizzati da Signori negli anni Settanta,
Ottanta e Novanta, per annotare che essi paiono contaminati
dalle sue esperienze nella rappresentazione del paesaggio,
dei muri, delle rocce: queste persone, rassegnate all’evolversi
della vita ma ancora colme di dignità, recano le tracce contraddittorie di un processo di formazione e di disgregazione. Si-
Simone De Beauvoir
e Jean-Paul Sartre, s.d.
tecnica mista su cartone
cm 60 x 71
Jean-Paul Sartre, s.d.
matita su carta
cm 21 x 28
gnori raffigura i visi, nei dipinti e ancor di più nei disegni, come
se si trovasse di fronte a paesaggi, con le loro asperità e i loro
avvallamenti, con le rughe quasi chirurgicamente delineate da
segni che paiono le tracce di un bisturi, o le sottili incrinature
che, nei terreni riarsi, sono i prodromi di una incipiente disgregazione. Nel suo lungo, torrenziale soliloquio, il narratore de Il
soccombente di Thomas Bernhard riporta un’osservazione di
Glenn Gould sulle ferite esteriori e su quelle interiori, a volte
più profonde di quelle di cui il viso reca le tracce: “Se guardiamo con attenzione gli esseri umani […] non vediamo altro
che mutilati, mutilati esteriormente o interiormente, o anche
interiormente ed esteriormente”. 2
John Berger, scrittore, pittore e critico d’arte, nel suo breve
saggio “Passi verso una piccola teoria del visibile”, afferma:
“La pittura è innanzi tutto un’affermazione del visibile nel suo
costante processo di sparizione e di riappropriazione. Senza
la sparizione forse non esisterebbe neanche l’impulso a dipingere, poiché il visibile avrebbe in sé la certezza (la permanenza) che la pittura si sforza di raggiungere. In maniera molto più
diretta rispetto a qualsiasi altra forma d’arte, la pittura è un’affermazione dell’esistente, del mondo fisico in cui l’umanità
è stata scaraventata”. 3 Sono certo che Signori, uomo colto,
che amava la letteratura e l’evolversi del pensiero, e seguiva
il dibattito sull’arte, come testimoniano libri, riviste e ritagli di
giornale che ancora oggi si conservano nel suo studio, avrebbe condiviso la motivazione fornita da Berger sull’ineluttabilità
del dipingere – per Berger le stesse opere di Rothko sono
“frutto di una sua personale esperienza del visibile”. Dipin-
gere è stato in fondo, per Signori, tentare di dare scacco alla
morte, cercare di sottrarre al suo abbraccio volti, paesaggi,
oggetti, muri e rocce, perché per sempre potessero restare esperienza del visibile, al di là della loro sparizione fisica.
Berger conclude il suo saggio sostenendo che siamo immersi nella solitudine di una rete di immagini del mondo false e
immateriali (che lo stesso Signori aveva negli ultimi decenni
avvertito), in cui “l’esistente non può che essere disprezzato,
ignorato o soppresso”. E conclude perentoriamente: “Oggi
tentare di dipingere l’esistente è un atto di resistenza che
incita alla speranza”. Potremmo dire che lo studio di Signori, nel quale lui ha trascorso tanta parte della sua vita, spesa
nell’esercizio del dipingere, è stato una “sacca di resistenza”,
in cui lui evocava e riaffermava la presenza del visibile. La sua
opera s’inscrive nella storia dell’arte come esempio di un artista che, fino all’ultimo, con le armi della pittura, ha cercato di
difendere e di preservare, di sottrarre all’oblio, il volto dell’esistente, il volto dell’umano.
1
Pier Paolo Pasolini, La religione del mio tempo, Garzanti, Milano, 1961
2
Thomas Bernhard, Il soccombente, Adelphi, Milano, 1985, p. 40
3
John Berger, “Passi verso una piccola teoria del visibile”, in Sacche di
resistenza, Giano Editore, Milano, 2003, pp. 13-25
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