leggi, scrivi e condividi le tue 10 righe dai libri

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La cordicella sembrava potersi staccare da un momento
all’altro come una foglia vissuta troppo a lungo ma qualcuno l’aveva annodata per bene in cima al bastoncino che teneva in mano. La sua caduta avrebbe significato una piccola
tragedia per Leo e lui non aveva bisogno di altre tragedie.
Dietro i vetri una pioggia battente si rovesciava sul corteo
di automobili che lentamente scorreva verso casa all’ora di
punta. Una fila di luci rosse frantumate dalle gocce di pioggia punteggiava la finestra dove Leo teneva appoggiata la
fronte. Sentiva il freddo sulla pelle e il rumore dei motori
nella testa. Il suo sguardo cadde per un momento sulla 96
diretta in piazzale Cadorna, un autobus piuttosto virile che
i milanesi si ostinano a chiamare al femminile conferendo
al rintronante diesel una grazia del tutto inadeguata. Leo
parlava da solo e il suo fiato sul vetro si faceva opaco per
dissolversi e riapparire ad ogni respiro.
«Pensi che avremo dei guai con questa pioggia? Mah…
almeno servirà a dar da bere ai cavalli… un po’ d’acqua non
farà male. Lo hai detto a Salvatore? Bisogna far ferrare Ìcazar o si spezzerà una zampa. È meglio farlo ora… Gli altri
cavalli sono ricoverati? Non voglio che accada come l’altra
volta… due cavalli al macello. Non posso veder morire i
miei cavalli.»
La sua calda voce da uomo riscaldava la stanza in contra7
sto con lo stridore delle voci nella cucina dove sua sorella
e un’amica, dopo una telefonata inattesa, avevano appena
interrotto il rituale della preparazione della cena. I piatti
erano rimasti scompagnati e l’apparecchiatura a metà; i
tovaglioli erano invece già sulla tavola dal giorno prima e
quello prima ancora, ripiegati nelle bustine di tela bianca
col nome ricamato: Sandra, Leonardo e Francesca. Le buste
di coloro che lì non ci avrebbero più pranzato – Eugenio
ed Elisa – erano invece state riposte in un cassetto lontano
dalla vista di quelli che, ancora vivi, sedevano ogni giorno
alla stessa tavola.
«Non capisco niente se non ti dài una calmata!» invocava
l’amica di Francesca invitata a cena per cucinare per la prima volta il petto d’anatra con l’uva: occasione che meritava
un sostegno tecnico, forse psicologico e – soprattutto – un
assaggiatore senza pregiudizi sugli accostamenti azzardati.
«Mia madre si è rotta un femore, merda! È a Roma da tre
giorni e oggi si è rotta un femore!» strillò Francesca sbattendo la cornetta sul telefono che tintinnò debolmente facendo sobbalzare il fragile tavolino che era in quell’angolo
da sempre, per quanto Francesca potesse ricordare. Di tutta
la casa quello era l’angolo che preferiva, il punto esatto nel
quale il mondo esterno penetrava squillando, dando prova
della sua chiara esistenza. Francesca aveva ventisette anni
ma ne dimostrava molti di più. Era nata già adulta, costretta
a maturare come un pomodoro sotto una lampada accesa
giorno e notte.
«Ma com’è successo?» insistette l’amica.
«Quello che so, Flavia», disse Francesca con un tono simile ad una pentola a pressione, «è che è caduta dalle scale
a un cazzo di museo e si è rotta una gamba. L’hanno ricoverata al Gemelli o sa Dio dove e devono operarla.»
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Il tono di voce era salito gradatamente cosicché l’ultima
frase aveva il deciso sapore di una cottura ultimata.
«Operarla? ma allora è grave…?» chiese Flavia con il petto d’anatra crudo ancora fra le mani.
«Ma non lo so! Mi ha chiamato la Bruna e ha detto che
ha parlato con i medici…» guardando l’amica le cadde lo
sguardo sul petto d’anatra, «ma che ci fai con quell’affare in
mano?! Non vedi che sgocciola sangue dappertutto?! Mi dà
il voltastomaco…»
Flavia sembrò accorgersi solo in quel momento di tenere
ancora fra le mani il petto sanguinolento con il quale rincorreva l’amica per la casa.
«Oddio… vabbè, ma adesso che si fa? che intenzioni
hai?» disse e tornò sui suoi passi posando il lembo di carne
violacea su un foglio di carta oleata in cucina. La pelle burrosa si distese da un lato in attesa di nuovi eventi.
«Merda merda merda!» mormorava Francesca ciondolando la testa quasi volesse scuotere via la notizia appena ricevuta. «Adesso mia madre dovrebbe essere con le sue amiche
a mangiare la pizza in qualche posto, a divertirsi… ma guarda che sfiga!» disse battendo il pugno sullo sportello della
cucina con un’enfasi di cui non era capace. «Le sue amiche
non possono badare a tutte le stronzate ospedaliere, cazzo.
Come faccio a lasciarla da sola? Devo andare a Roma.»
Flavia disse la sola cosa che c’era da dire.
«E con Leo… come fai?»
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«Qui a destra! Gira a destra!» gridò Alessandra seduta accanto a Rocco che, al volante, scrutava la nebbia proteso in
avanti come un vecchio.
«Sei sicura…?»
«Boh, ma la settimana scorsa abbiamo saltato l’incrocio e
siamo finiti a casa di Dio.»
«Come odio suonare fuori Milano d’inverno…!»
«È primavera da tre giorni, Rocco, abbi un po’ di fiducia
nelle stagioni. Aspetta… come abbiamo fatto l’altra volta…? Abbiamo ripreso la Paullese al contrario poi abbiamo
girato…»
Alessandra si morse una pellicina di un dito che le dava
fastidio da un po’ di tempo e aggrottò la fronte per scrutare
meglio la nebbia e la memoria, due luoghi che hanno molto
in comune.
«C’era un ristorante, ma chi lo vede con ’sta nebbia?» disse lui rassegnato.
«Aspetta! Eccolo! Gira! Gira di qua», gridò lei esaltata
indicando un punto verdastro sul finestrino col dito bagnato.
«Ehi, non impiastrarmi il vetro con la saliva!»
«E che sarà mai… questa macchina è già un tale casino…»
«Allora comprane una così usiamo la tua.»
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«Non fare il permaloso, dài. Non è colpa mia se non ci si
vede un cazzo.»
«Non sei tu quella fanatica della nebbia?»
«Mi piace a Milano, con una birra in mano.»
«Se è una poesia, fa schifo», disse lui dopo una breve pausa e tornò a fissare il parabrezza.
Restarono in silenzio per qualche istante in quel biancore
notturno che è l’aurora boreale dei padani.
«Hai poi chiamato quelli del Cubax?» disse lei quando
ebbe finito di scorticarsi il dito.
«Mmm… In pratica hanno detto no.»
«Proprio no no?»
«Vi chiamiamo se capita la serata soul o roba del genere. La
solita menata. Alla gente piace il caraibico.»
«Chi altri abbiamo da chiamare?»
«Paolo ha fatto un paio di serate alle Rotonde di Garlasco
ma lì fanno dance… nessuno conosce la Motown, se ne
fregano del soul.»
«Che bellezza… È meglio allora che ti tieni stretto il tuo
pianobar da suicidio. Almeno lì hai un’entrata fissa, oltre
alle lezioni.»
«Sì ma che tristezza, è pieno di vecchi che vogliono farsi
le polacche.»
«Be’, diciamo che quando sarai vecchio e vorrai farti una
polacca saprai già come si fa. Ecco, al passaggio a livello gira
a sinistra.»
«Lo so. Ora mi ricordo.»
Girarono al passaggio a livello e si trovarono in un grande
spiazzo sterrato accanto al fiume. Nei giorni festivi il posto
si riempiva di automobili fino a traboccare. A quell’ora era
ancora vuoto ma era probabile che lo sarebbe rimasto anche
nelle ore successive. La pianura padana si spartiva gli artisti
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e un mercoledì sera non era una sera molto appetibile. La
ghiaia mista a neve scricchiolava sotto le ruote. Alessandra si
pettinò nello specchietto di cortesia, si accorse di aver perso
un orecchino e si chinò per cercarlo.
«Che ci fai con la testa nel cruscotto?» chiese lui.
«Cercavo il mio gioiello da diecimila lire in mezzo all’humus del tuo tappetino. C’è una vegetazione sconosciuta, lo
sapevi?» disse lei con un pendente da bigiotteria in mano.
Guardò fuori dal finestrino e vide la neve.
«Parcheggia un po’ più avanti. Hai visto che qui c’è ancora la neve? Che giornata… oggi ho avuto quattro allievi, mi
si è bucata la bici e mi sono pure venute le mestruazioni…
era proprio una serata da stare a letto con una tazza di latte.»
«Non sei il tipo.»
«Da letto o da latte…? No! Non rispondere, ti prego…»
«Lo sai che sei uno schianto», disse lui passandosi una
mano fra i capelli legati con l’elastico. Gli era mancata la voglia di lavarli ma per un mercoledì sera una coda di cavallo
andava più che bene.
«Sì, uno schianto di settantacinque chili… Lo sai che
sono agitata per il pezzo degli Incognito? Non so se me lo
ricordo tutto», disse Alessandra slacciando la cintura di sicurezza.
«Lo fai benissimo. Viene una figata.»
«Non so mai se il ponte è tra la seconda e la terza strofa
oppure dopo lo strumentale.»
«Quando dici away… dammi un’occhiata che ti faccio
un segno. Sono sicuro che lo sai. Lo abbiamo provato duemila volte.»
Alessandra sospirò prendendo per buone le rassicurazioni
di Rocco e cambiò decisamente argomento.
«Allora? …che ci mangiamo? ravioli o pennette?»
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«Ecco, per esempio: c’è proprio bisogno di mangiare i
ravioli annegati nel burro?» disse lui spegnendo il motore.
L’auto sussultò.
«Ma sono la specialità della casa!»
«E chi se ne frega. Non so come fai a mangiare tanto e poi
cantare per due ore di fila.»
«Ho bisogno di carburante per cantare.»
«Guarda che non devi trasvolare l’Atlantico: devi solo
fare una serata, e non è nemmeno sabato. Io vado col solito
piatto di prosciutto.»
«Dio, come ti odio…» gli disse infilandosi in testa un
berretto di lana fatto ai ferri da sua madre.
«Le oche ingrassano dal becco, ricordatelo», disse Rocco
sarcastico sfilando le chiavi dal cruscotto.
«Ma! Mi stai dando dell’oca…?» chiese lei e il berretto
rimase a mezz’aria.
«Avanti, facciamo alla svelta che qui si gela», disse lui.
«Mi hai dato dell’oca, ti rendi conto…?!» protestò Alessandra scendendo dall’auto con una certa difficoltà. La neve
era dura e ostile sotto i tacchi che indossava quando cantava.
Dal portabagagli Rocco prese la tastiera e una grossa borsa.
«Smettila di gracidare e aiutami a portare la roba. Non è
giusto che tu porti sempre soltanto il microfono.»
«Be’, faccio la cantante… potevi anche tu prendere lezioni di canto anziché di piano…» disse zigzagando fra le
croste di neve sporca. «E poi le oche non gracidano. Non
sono le rane che gracidano, eh? Non sono le rane?!»
Prima di entrare Rocco estrasse dalla tasca della giacca un
voluminoso telefono cellulare e lo spense.
«E quello cos’è? Un mattone? Vuoi sfondare qualche vetrina, per caso?» chiese Alessandra trovandosi molto simpatica.
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«È un telefono cellulare, spiritosa, un portatile.»
«Senti un po’… hai un altro lavoro di cui non mi hai
parlato? Quell’arnese costa almeno due milioni.»
«Mi fa comodo, soprattutto viaggiando di notte come
facciamo noi.»
«Be’, se c’è da gridare aiuto sai che puoi contare su di me.
E poi non mi sembra tanto portatile… è grosso quasi come
una cabina telefonica.»
«Pensala come ti pare. Io sono contentissimo di averlo
preso. Vedrai se tra un po’ non ce l’avranno tutti.»
«Be’, io no di certo. E poi che uno possa chiamarmi anche in mezzo alla strada non mi va per niente.»
«Tu non fai testo. Se vuoi ti lascio il numero, così mi trovi
quando vuoi.»
«È proprio questo che dico… con quell’arnese addosso
chiunque potrà chiamarti in ogni momento. Anzi, la sai
la cosa buffa? Che se poi quell’affare non squilla allora ti
accorgi davvero che nessuno ti sta cercando.»
«Devi sempre farla più grossa di quello che è.»
«Pensaci, in entrambi i casi è una fregatura… sia che ti
chiamino in troppi, sia che non ti chiami nessuno. Io non
ho voglia di sapere quante persone desiderino parlare con
me. Ci sono cose che è meglio non sapere, per come la
vedo io.»
«A me serve soltanto qualcosa per chiamare un carro attrezzi se mi si rompe la macchina alle tre del mattino. Niente di più. Tutta ’sta filosofia non ce la vedo.»
«Aspetta e vedrai.»
Arrivarono all’ingresso.
«Ti dispiace aprirmi la porta almeno?»
Entrarono.
«Permaloso. Ecco cosa sei», disse lei con un sorriso.
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I posti dove si suona hanno tutti più o meno lo stesso aspetto prima di aprire: con le luci accese la bruttezza di un locale notturno traspare come un tatuaggio male asportato
rivelando colori che soltanto la penombra rende accettabili.
Candele liquefatte sui tavoli, sporcizia impossibile da rimuovere, plastica fusa e un odore di sigarette impastato nella stoffa dei divani dove la gente sta seduta senza ascoltare i
musicisti. Andiamo a sentire un po’ di musica – dicono – poi
passano metà della serata a palpeggiare qualche ragazza e
parlando fra loro come se fossero nel salotto di casa loro,
fumando senza alcun riguardo per i cantanti. Il brusio irrita chi sta sul palco, le sigarette pure, i liquori sono il solo
rimedio per questo genere di irritazioni. Il rumore in sala è
l’indice del tuo gradimento: più ce n’è, maggiore è la necessità di modificare il repertorio.
Il piccolo palco su cui i gruppi si esibivano era guarnito da un tappeto sdrucito e uno sgabello dove ogni tanto
Alessandra appoggiava una sola natica, nell’impossibilità di
mettercele tutte e due. Mentre Rocco montava il set collegando i cavi al mixer Alessandra di solito preferiva sedersi al
bar, approfittando della ventina di minuti liberi prima del
sound check.
«Ciao Ale», disse il barista che asciugava alcuni bicchieri
per riporli sullo scaffale in attesa dell’apertura.
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«Senti un po’… com’è che qui avete ancora la neve mentre su da noi spuntano già le primule?» chiese Alessandra
scegliendo la natica su cui posarsi.
«Boh. Sarà l’aria pulita…»
«Io la odio la provincia… senza offesa, eh? È che mi
manca l’aria quando mi allontano da Milano», disse e, appoggiandosi al bancone, affondò le dita nella ciotola delle
noccioline.
«Nessuna offesa», rispose lui, «io odio la città.»
«Perfetto. Me lo fai un mojito?»
«Subito.»
«C’è gente stasera?» chiese Alessandra con la bocca piena.
«C’è la partita, non ci sarà granché.»
«Grandioso… ma la gente non ce l’ha il videoregistratore?!»
La pronuncia delle due t ravvicinate provocò un esplosivo
spargimento di noccioline masticate che Alessandra spazzò
dal bancone con un rapidissimo movimento della mano.
«Scherzi? Chi vuoi che se la veda una partita registrata? Si
vede proprio che non sei una tifosa», disse il barista porgendole un mojito pieno di ghiaccio fino all’orlo. Alessandra
aveva un urgente bisogno di liquidi per buttare giù le arachidi e prese la cannuccia fra le labbra come un boccaglio.
Bevve in un sorso la metà del cocktail.
«Be’, se è per questo non sono quasi niente», disse dopo
che ebbe deglutito la miscela ghiacciata, «voglio dire: né una
tifosa né una fanatica e nemmeno una brava cuoca. Sono a
malapena una cantante. Questo è tutto quello che so di me
stessa», disse lei con una punta di autocommiserazione.
L’idea che Alessandra aveva di sé era piuttosto mutevole:
come a molti succede si riteneva a volte un totale fallimento
e poco dopo l’esaltazione di sé e delle proprie doti la faceva
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apparire perfino magra davanti allo specchio. Entrambe le
considerazioni erano errate. Conviveva con l’idea che quasi
tutto nella vita fosse soltanto apparente, ostentato e ingannevole. Aveva poche opinioni e non si disturbava a sostenerle neppure quando era il caso di difenderle. Credeva che
tutte le idee, comprese le sue, fossero cose passeggere e che
fosse meglio cambiarle spesso anziché tentare di conservarle
come sottaceti. Se il mondo poteva dividersi fra coloro che
saltano tutto il tempo per acciuffare la mela dall’albero e chi
si siede sotto le fronde ad aspettare che caschi da sé, lei era
senz’altro del secondo tipo. La lotta – intesa come saltare
a più non posso – non la riguardava; ciò che la interessava
semmai era come organizzarsi per il bivacco. Certe mele,
infatti, non cadono immediatamente e a volte non cadono
affatto e l’attesa può dimostrarsi più lunga di una seduta
nella sala d’aspetto di una cartomante. Ciò che confortava
Alessandra era il fatto che più o meno tutti i meli fioriscono e che ci sarebbe stata prima o poi qualche mela anche
per lei: bastava saper aspettare. Sul plaid metaforico dove
Alessandra bivaccava c’erano foglie cadute e pedate altrui,
avanzi di pic-nic, tracce di vergognose sieste e un cumulo di
libri già letti. La tendenza a considerare la vita come il più
faticoso contrattempo che potesse accaderle spingeva Alessandra a cercare nei libri una parte di ciò che non avrebbe
mai potuto vivere. Era cosciente che il 90% delle cose che
capitano nella vita degli altri non si sarebbero mai realizzate
nella sua ma tenersi informata su come andassero le cose la
faceva sentire un po’ più parte del mondo, una partecipante
alla maratona, una del mucchio – dentro al mucchio – non
fuori. Se le avessero chiesto se far parte della folla fosse un
suo reale desiderio avrebbe risposto di no: lei avrebbe voluto
essere la folla – tutta intera – un’onda di magma capace di
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travolgere il pianeta. Questo cercava di fare quando cantava: riempire l’atmosfera con la musica e rintronarla con il
suono della sua voce. Non era una megalomane: era una
cantante e i cantanti sono tutti così.
Voleva essere una regina.
«Le noccioline sono per i clienti, Ale», disse il barista,
«dacci un taglio.»
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