note sulla teoria dell`errore in diritto romano

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NOTE SULLA TEORIA DELL’ERRORE IN DIRITTO ROMANO
Sommario: 1. Nozioni introduttive – 2. L’errore escludente la volontà – 3. L’errore motivante la volontà
– 4. L’errore qualificante la volontà – 5. Cenni sulla dottrina dell’errore nella tradizione romanistica:
dalla dissoluzione dell’Impero romano alla Scuola storica – 6. Osservazioni conclusive.
1. NOZIONI INTRODUTTIVE
Nulla … voluntas errantis est1: questa massima – tratta da un brano di Pomponio dedicato all’actio
aquae pluviae arcendae2, e che trova conferma in numerosi altri luoghi della Compilazione giustinianea3 –
rappresenta una possibile sintesi della teoria romana dell’errore di fatto4, nella sua elaborazione tardoimperiale5, quindi al culmine della sua evoluzione nell’ambito dell’esperienza giuridica romana.
La storia della dottrina dell’errore, in diritto romano, si è svolta in un arco temporale abbastanza
limitato; soltanto a partire dall’età classica, infatti, con la progressiva emersione dell’elemento della
volontà negoziale, i giureconsulti discussero con maggiore frequenza le problematiche sollevate dalla
conclusione di un negozio giuridico sulla base della erronea conoscenza di una circostanza di fatto. Ma
il tema fu affrontato in modo sistematico solo dal tardo antico, giungendo infine alla formulazione di
una più compiuta teoria dell’errore in età giustinianea.
È per questo motivo che le principali fonti a nostra disposizione risalgono all’età classica e tardo
antica e sono raccolte nel Corpus iuris civilis, segnatamente nei titoli 1.18 del Codex e 22.6 dei Digesta,
entrambi rubricati De iuris et facti ignorantia; ulteriori dati sono ricavabili, poi, da numerosi altri brani,
tratti da luoghi della Compilazione giustinianea non espressamente dedicati a questo tema.
Proprio dalla rubrica di CI. 1.18 e di D. 22.6 possiamo ricavare un’utile indicazione
relativamente alla concezione romana dell’errore: l’error facti era avvicinato all’error iuris. Il motivo
dell’accostamento – che caratterizzò anche le concettualizzazioni dell’età di mezzo e dell’età moderna6 –
fu determinato, probabilmente, dall’intenzione dei compilatori bizantini di raccogliere in quei due titoli
D. 39.3.20.
Era un’azione concessa al proprietario di un fondo nei confronti del vicino, nel caso un cui avesse subito danni a causa di
un afflusso (o di un maggior afflusso) di acqua, provocato da lavori effettuati sul fondo del vicino. L’origine di questa azione
risale, probabilmente, alle XII Tavole, come risulta da D. 40.7.21 pr. (cfr. Tab. 7.8 a, in Fira. I 50). Sull’actio aquae pluviae
arcendae si v. M. Sargenti, L’”actio aquae pluviae arcendae”. Contributo alla dottrina della responsabilità per danno nel diritto romano
(Milano 1940); A. Burdese, sv. “Actio aquae pluviae arcendae”, in NNDI. I 1 (Torino 1957) pp. 257 ss.; F. Sitzia, Ricerche in tema di
“actio aquae pluviae arcendae”. Dalle XII Tavole all’epoca classica (Milano 1977); Id., sv. Scolo delle acque (Storia), in ED. XLI (Milano
1989) 750 ss.; F. Salerno, “Aqua pluvia” ed “opus manu factum”, in Labeo 27 (1981) pp. 218 ss..
3 D. 2.1.15; 5.1.2 pr.; 50.17.116.2; CI. 1.18.8; 1.18.9; 4.65.23.
4 Alla dottrina dell’errore nell’esperienza giuridica romana sono state dedicate, in Italia, soltanto due monografie: P. Voci,
L’errore nel diritto romano (Milano 1937); U. Zilletti, La dottrina dell’errore nella storia del diritto romano (Milano 1960). Due sono
anche le voci enciclopediche dedicate a questo argomento: E. Betti, sv. Errore (dir. rom.), in NNDI. VI (Torino 1964) pp. 660
ss.; P. Voci, sv. Errore (dir. rom.), in ED. XV (Milano 1966) pp. 229 ss. (in cui l’A. prospetta soluzioni in parte diverse da
quelle proposte nello studio monografico). Numerosi sono invece i contributi che trattano aspetti specifici relativi alla teoria
dell’errore in diritto romano; tra la vasta bibl. v. princ. P. Voci, In tema di errore, in SDHI. 8 (1942) pp. 82 ss.; S. Solazzi,
L’errore nella “condictio indebiti”, in Scritti di diritto romano IV (Napoli 1963, ma 1939) pp. 99 ss.; Id., Ancora sull’errore nella
“condictio indebiti”, in SDHI. 9 (1943) pp. 55 ss., ora in Scritti IV cit. pp. 405 ss.; Id., Le “condictiones” e l’errore, in Scritti di diritto
romano V (Napoli 1972, ma 1949 estr. 1947) pp. 1 ss.; R. Reggi, L’ “error in dominio” nella “traditio”, in SDHI. 18 (1952) pp. 88
ss.; A. Burdese, Il cd. “error in dominio” nella “traditio” classica, in Ann. Univ. Ferrara 2 (1953) pp. 101 ss.; G. Provera, Note
esegetiche in tema di errore, in Onor. P. De Francisci II (Napoli 1956) pp. 161 ss.; P. Cornioley, “Error in substantia”, “in materia”, “in
qualitate”, in Onor. G. Grosso II (Torino 1968) pp. 251 ss. Tutti i manuali istituzionali, inoltre, trattano più o meno
compiutamente dell’error facti e dell’error iuris. Poiché il tema dell’errore nel diritto romano è stato affrontato con particolare
attenzione dagli studiosi tedeschi, per completezza occorre segnalare almeno alcuni tra i principali contributi: W. Flume,
Irrtum und Rechtsgeschäft im römischen Recht, in Fs. F. Schulz II (Weimar 1951) pp. 209 ss.; J.G. Wolf, “Error” im römischen
Vertragsrecht (Köln-Graz 1961); A. Wacke, “Errantis voluntas nulla est”. Grenzer der Konkludenz stillschweigender Willenserklärungen,
in Index 22 (1994) pp. 267 ss.
5 Sulla impossibilità di attribuire a questa massima una valenza assoluta, anche per l’età giustinianea, v. infra in questo
paragrafo.
6 Su cui v. infra § 5.
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“ogni caso di errore che possa intervenire in rapporti giuridici”7, e ciò nonostante le conseguenze
giuridiche dell’ignoranza e dell’errore di fatto fossero diverse da quelle dell’ignoranza e dell’errore di
diritto8. L’error iuris9, infatti, a differenza dell’error facti, fu generalmente considerato inescusabile10.
Esemplare, a tal proposito, l’affermazione di Paolo, in D. 22.6.9 pr. (Paul. l. sing. iur. et fac. ignor.), in cui si
evidenziano proprio le differenze di disciplina tra errore di diritto ed errore di fatto: Regula est iuris
quidem ignorantiam cuique nocere, facti vero ignorantiam non nocere…. Già i classici, dunque, elaborarono tale
regola11, sebbene soltanto nel Basso Impero il principio ignorantia iuris nocet – accolto, poi, nella
Compilazione giustinianea – ebbe massima applicazione, quale strumento idoneo a garantire la stabilità
delle relazioni giuridiche e la certezza del diritto. Esso fu comunque soggetto a deroghe, essenzialmente
in considerazione della limitata capacità attribuita a determinati soggetti: i minori di venticinque anni12,
le donne (propter sexsus infirmitatem)13, i militari14, i villici15.
Diversa fu, invece, la valutazione dell’error facti. Nella concezione dei giuristi classici, l’errore di
fatto era l’ignoranza totale o parziale di una circostanza di fatto che aveva determinato la conclusione
del negozio16; in quanto tale, quindi, esso incideva, caratterizzandola, sulla volontà di compiere l’atto o il
negozio17. A tal proposito, la lettura delle fonti ha consentito agli studiosi18 di distinguere l’error facti in
tre categorie, in funzione del suo rapporto con la volontà19; si parla così di errore escludente la
volontà20, di errore motivante la volontà21 e di errore qualificante la volontà (errore-presupposto)22.
La storia dell’errore nell’esperienza giuridica romana non è stata lineare, né gli interventi
giurisprudenziali e legislativi sono stati ispirati sempre ai medesimi principi. Nella visione classica, in cui
l’elemento della volontà stava acquistando autonomia dalla dichiarazione, ma ancora non aveva assunto
una propria fisionomia, le problematiche sottese alla patologia del negozio giuridico (dunque anche
quelle collegate all’error facti) erano ancora risolte attraverso il ricorso alle tecniche dell’interpretazione
degli atti giuridici23. Nelle ipotesi di errore escludente e di errore motivante la volontà, vigeva un
principio generale di irrilevanza dell’errore, che subì deroghe qualora le regole ermeneutiche avessero
consentito, nel caso di difformità tra volontà effettiva e dichiarata, di annullare il negozio posto in
L’espressione è di F. Vassalli, Iuris et facti ignorantia, in Studi Senesi 30 (1914), ora in Studi giuridici III.1. Studi di diritto romano
(1906-1921) (Milano 1960) pp. 426 ss..
8 I termini “errore” e “ignoranza” sono usanti con disinvoltura nelle fonti, determinando la sovrapposizione del loro
significato giuridico.
9 Sull’ignorantia iuris v. F. Vassalli, Iuris et facti ignorantia, cit. pp. 425 ss.; M. Scarlata Fazio, sv. Ignoranza della legge (dir. rom.), in
ED. XX (1970) 1 ss.; H. Kupiszewski, Ignorantia iuris nocet , in Sodalitas. Onor. A. Guarino III (Napoli 1984) pp. 1357 ss.; P.
Cerami, Ignorantia iuris, in SC. 4 (1992) pp. 57 ss.
10 È da questo principio, già espresso dai Romani, che ebbe origine il noto brocardo ignorantia iuris non excusat’.
11 Ma in età classica si profilarono talune fattispecie in cui questo principio non ebbe riscontro.
12 CTh. 2.16.3; D. 2.13.1.5; 22.6.9 pr.
13 D. 22.6.9 pr.
14 D. 22.6.9.1; CI. 1.18.1; 9.23.5.
15 D. 2.5.2.1; 2.13.1.5; 25.4.1.15; CI. 6.9.8.
16 Così, A. Guarino, Diritto privato romano, 11 ed., (Napoli 1997) p. 419.
17 Indicazioni in tal senso possono trarsi da numerosi frammenti giurisprudenziali. Tra tutti si legga D. 18.1.9 pr.-2, su cui v.
infra § 2.
18 Tale ripartizione è stata proposta da P. Voci, L’errore cit. passim, e rappresenta la struttura portante della sua monografia;
successivamente, l’A., pur prospettando soluzioni in parte diverse rispetto a quelle che avevano caratterizzato l’opera
monografica, ha riproposto la schematizzazione anche in sv. Errore cit. pp. 229 ss..
19 I Romani non formularono mai la distinzione tra errore ostativo ed errore-vizio; tuttavia, essi diedero rilievo ai casi di
erro re ostativo e a quelli più gravi di errore-vizio, facendone discendere l’invalidità dell’atto: così, tra gli altri, G. Pugliese,
Istituzioni di diritto romano, 3 ed., (Torino 1991) pp. 261 ss..
20 Sul tema v. infra § 2.
21 Su cui v. infra § 3.
22 Su cui v. infra § 4.
23 Questo aspetto è approfondito da U. Zilletti, La dottrina cit. passim, ma spec. pp. 11 ss., il quale ha sottolineato come il
pretore non avesse approntato alcun sistema per far valere l’invalidità di un negozio viziato dall’errore; esistevano, invece,
strumenti idonei a caducare un atto concluso con dolo o con violenza morale; in questa situazione, tuttavia – rileva Ziletti –
ciò che determinava la reazione dell’ordinamento, attraverso la concessione di un’actio e di un’exceptio, era la considerazione
del carattere illecito del dolo e della violenza, e non già la consapevolezza che dolus e metus viziassero il procedimento
formativo della volontà. In questo senso anche G. Pugliese, Istituzioni cit. p. 260. – Sulla teoria dell’interpretazione degli atti
negoziali in diritto romano v. G. Gandolfi, Studi sull’interpretazione degli atti negoziali in diritto romano (Milano 1966).
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essere ed eventualmente di ricostruire il contenuto dell’atto realmente voluto. L’errore qualificante la
volontà (cd. errore-presupposto) fu, invece, isolato già dalla giurisprudenza classica, che in numerose
occasioni gli attribuì rilevanza e che propose a questo riguardo la distinzione tra error iuris ed error facti. In
quest’epoca le conseguenze dell’errore, comunque, non si fecero mai discendere dalla sua eventuale
scusabilità, concetto estraneo alla prospettiva classica. I giuristi, nel complesso, piuttosto che dettare
affermazioni di principio, elaborarono soluzioni differenti in relazione alle diverse situazioni, secondo
un approccio di tipo casistico ed empirico24.
Nel tardo antico, l’errore escludente la volontà e l’errore motivante la volontà continuarono ad
essere considerati in linea di principio irrilevanti, dato che il problema della patologia del negozio
giuridico per assenza o vizio della volontà fu ancora collegato esclusivamente al dolo e alla violenza25. A
proposito dell’errore-presupposto, persisté la dicotomia errore di fatto ed errore di diritto. Quest’ultimo
fu sempre considerato irrilevante, o addirittura antigiuridico, a meno che non vi fossero incorsi quei
soggetti che l’ordinamento riteneva meno capaci (minori di venticinque anni, donne, militari, villici).
Questa prospettiva si inquadrava perfettamente nella nuova struttura dell’Impero, assoluta e
accentratrice, in cui non poteva essere tollerata l’inosservanza di una disposizione imperiale,
considerandosi primaria l’esigenza di certezza del diritto. Nel Basso Impero la concezione dell’errore,
dunque, si caratterizzò per la sostanziale assenza di innovazioni sotto il profilo dell’elaborazione tecnica;
nel contempo, si rafforzò il principio dell’irrilevanza dell’errore di diritto26.
Con i giustinianei si delineò in modo compiuto il concetto di errore-vizio della volontà, che fu
posto accanto al dolo e alla violenza27. La certezza delle relazioni negoziali fu assicurata non attraverso
l’affermazione di principio dell’irrilevanza dell’errore, bensì attraverso la determinazione delle ipotesi in
cui l’errore esplicava la sua efficacia invalidante. Il parametro di ogni valutazione fu la scusabilità: l’error
iuris fu considerato sempre inescusabile e il principio fu reso mediante la generalizzazione di un testo di
Nerazio28. Affinché l’errore di fatto potesse assumere rilevanza giuridica secondo il diritto romano
giustinianeo fu, dunque, necessario29 che fosse essenziale (requisito indispensabile anche secondo il
diritto classico) e scusabile. L’essenzialità era intesa nel senso che senza di esso il negozio non sarebbe
stato concluso; il requisito della scusabilità era invece rapportato alla normale diligenza. Nel caso di
negozi bilaterali inter vivos, inoltre, occorreva che anche l’errore fosse bilaterale (dando luogo al
“dissenso”30), oppure unilaterale, purché riconoscibile all’altra parte.
Occorre comunque avvertire che le considerazioni appena svolte non possono avere una
portata assoluta, dato che dalle fonti ricaviamo numerosi indizi idonei a testimoniare come le
problematiche sollevate dell’errore nel compimento di un atto giuridico furono oggetto di discussione
sia nel corso dell’età classica, sia durante il tardo antico, fino a Giustiniano31.
2. L’ERRORE ESCLUDENTE LA VOLONTÀ
Come già segnalato, si suole distinguere tra errore escludente, motivante e qualificante la
volontà, ed è su questa ripartizione che intendiamo ora soffermarci.
L’errore escludeva la volontà quando tra la volontà del soggetto agente e la percezione esterna
dell’atto posto in essere vi era un’assoluta discordanza, per cui la parte attribuiva al proprio
comportamento o alla propria dichiarazione un significato diverso da quello oggettivo32. In tal caso,
Così, U. Zilletti, La dottrina cit. pp. 483 ss..
V. al riguardo U. Zilletti, La dottrina cit. p. 485.
26 Il tema è approfondito in particolare da U. Zilletti, La dottrina cit. pp. 216 ss..
27 Sul punto v. ancora U. Zilletti, La dottrina cit. pp. 486 ss..
28 D. 22.6.2 (Ner. 5 membran.): In omni parte error in iure non eodem loco quo facti ignorantia haberi debebit, cum ius finitum et possit esse et
debeat, facti interpretatio plerumque etiam prudentissimos fallat. - Su questo aspetto v. P. Voci, L’errore cit. pp. 226 ss..
29 Salvo in taluni casi, che saranno evidenziati nel corso della trattazione.
30 Sul rapporto tra errore e dissenso si v. F. Cancelli, sv. Dissenso (prof. stor.), in ED. XIII (Milano 1964) pp. 235 ss..
31 Significativo il dibattito sull’efficacia dell’error in substantia, che interessò i giuristi del II e III sec. d.C., di cui è rimasta
traccia nei Digesta: D. 18.1.9.2; 18.1.41.1; 18.1.45; 18.1.57; 18.4.4-12; 19.1.21 pr.-1; 45.1.22. Della diversità di opinione tra i
giuristi su questo aspetto daremo conto infra § 2.
32 Così, E. Betti, v. Errore cit. p. 660.
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ricorrendo i presupposti della essenzialità33 e della scusabilità, e, nel caso di negozi plurilaterali, della
riconoscibilità alla controparte, l’atto era considerato nullo. I giuristi classici non assunsero mai una
posizione netta in tal senso e, piuttosto, si soffermarono sulle diverse situazioni che potevano verificarsi
in concreto, proponendo soluzioni varie in relazione ai diversi tipi di errore in cui un soggetto poteva
incorrere. Le principali ipotesi prese in considerazione – e di cui abbiamo numerosi riscontri nelle fonti
– furono l’error in negotio, l’error in persona, l’error in corpore, l’error in substantia e l’error in quantitate.
Ricorreva il caso dell’error in negotio34 quando un soggetto poneva in essere un negozio diverso da
quello voluto. Ad esempio, stipulava una donazione invece di una vendita. Questo tipo di errore era
sempre rilevante e determinava la nullità nel negozio, salvo nell’eventualità in cui consistesse solo in una
erronea denominazione dell’atto (cd. error in nomine)35. Un’ipotesi affine era costituita dall’errore sulla
complessiva identità della dichiarazione negoziale, resa nota attraverso un nuntius, oppure documentata
per iscritto. Potevano verificarsi due eventualità: il nuntius trasmetteva una dichiarazione, che rispetto a
quella reale era difforme nel contenuto, o attribuita ad un autore diverso36; oppure poteva accadere che
nel documento fosse attribuita alla parte una dichiarazione mai fatta37.
L’error in persona38 rappresentava l’errore sulla identificazione della controparte o del destinatario
di un atto, oppure sulle sue qualità. Determinava la nullità dell’atto quando l’identificazione della
persona risultava essenziale e, quindi, principalmente nei negozi intuitu personae, nei negozi di natura
commerciale e negli atti mortis causa. Questo tipo di errore poteva verificarsi principalmente in due
circostanze: in primo luogo, quando la dichiarazione era indirizzata, di fatto, ad una persona diversa da
quella con cui si intendeva entrare in rapporto. Era il caso, ad esempio, della stipulatio novativa, volta ad
ottenere l’effetto di una novazione soggettiva passiva, intercorsa con persona diversa da quella che si
desiderava accettare come nuovo debitore. La seconda ipotesi si aveva quando il destinatario di una
dichiarazione non recettizia era diverso da quello realmente voluto dal disponente. Tra le fattispecie più
frequentemente discusse dai giuristi vi era il caso del de cuius, che errava nell’identificazione del proprio
erede; in questa ipotesi, se fosse stato evidente il dissenso tra dichiarazione e volontà, e nonostante non
fosse stato possibile correggere la disposizione, indicando il soggetto effettivamente designato, l’heredis
institutio sarebbe stata nulla. A questo proposito è particolarmente interessante un testo ulpianeo, in cui
il giurista riportava con ogni probabilità l’opinione di Sabino e affermava che, qualora il testatore avesse
indicato un erede, volendone però designare un altro, l’istituzione sarebbe stata nulla, ma nel contempo
non avrebbe avuto rilievo neanche la reale volontà, in quanto manifestata in modo inopportuno39.
La parte poteva, poi, incorrere nel cd. error in corpore40, che si verificava, sia quando l’errore
ricadeva sulla denominazione o sull’individuazione dell’oggetto giuridico del negozio, sia nel caso in cui
tra la denominazione usata (designazione intellettuale, error in nomine) e la individuazione materiale
(mediante indicazione della cosa, error in demonstratione) vi era incompatibilità. Come abbiamo già
segnalato41, l’error in demonstratione e l’error in nomine non invalidavano il negozio, se l’oggetto risultava
comunque inequivocamente identificato.
Non era considerato essenziale l’error in demonstratione o error in nomine (‘falsa demonstratio non nocet ’), se, nonostante l’erronea
indicazione di un soggetto o di un oggetto giuridico, non sorgevano equivoci sulla sua effettiva identificazione; tra i
numerosi esempi si leggano: I. 2.20.29-30; D. 5.1.80; 18.1.9.1; 28.5.49.3; 33.4.1.8; 35.1.17.1; 45.1.32; CI. 6.23.4.
34 D. 12.1.18 pr.; CI. 4.22.5; 8.53.10.
35 Su cui v. supra nt. 33.
36 D. 39.5.25.
37 CI. 4.22.5.
38 D. 12.1.32; 28.5.9 pr.
39 D. 28.5.9 pr. (Ulp. 5 ad Sab.): Quotiens volens alium heredem scribere alium scripserit, in corpore hominis errans, veluti ‘frater meus’
‘patronus meus’, placet neque eum heredem esse qui scriptus est, quoniam voluntate deficitur, neque eum quem voluit, quoniam scriptus non est. È
interessante notare la particolare terminologia adottata dal giurista, il quale qualificava l’errore non error in persona, bensì error
in corpore hominis.
40 I. 3.19.23; D. 18.1.9 pr.; 28.5.9.1; 30.4 pr.; 45.1.83.1.
41 Supra in nota.
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Un’ipotesi abbastanza simile a quella appena descritta era costituita dall’error in substantia42. Si
trattava dell’errore sulle qualità essenziali dell’oggetto del negozio (talvolta definito error in qualitate) o
sulla materia da cui era costituito (vero e proprio error in substantia). È interessante notare che nella
prospettiva dei Romani con il termine substantia non si indicava soltanto la composizione materiale di
una res, ma soprattutto la destinazione economica, che ne determinava l’appartenenza ad una categoria
mercantile, piuttosto che a un’altra43. Mentre l’error in qualitate non aveva rilevanza, l’error in substantia
poteva avere effetto invalidante; le fonti testimoniano, tuttavia, una divergenza di opinioni tra alcuni
giuristi classici, di cui può essere utile dare conto, per sottolineare la maturità dell’approccio scientifico a
questa materia44.
Ulpiano, in un brano tratto dai Libri ad Sabinum, riportava il pensiero di Marcello, al fine di
confutarlo:
D. 18.1.9.2 (Ulp. 28 ad Sab.): Inde quaeritur, si in ipso corpore non erratur, sed in substantia
error sit, ut puta si acetum pro vino veneat, aes pro auro vel plumbum pro argento vel quid aliud
argento simile, an emptio et venditio sit. Marcellus scripsit libro sexto digestorum emptionem esse et
venditionem, quia in corpus consensum est, etsi in materia sit erratum. ego in vino quidem consentio,
quia eadem prope ‘ousia’ est, si modo vinum acuit: ceterum si vinum non acuit, sed ab initio acetum
fuit, ut embamma, aliud pro alio venisse videtur. in ceteris autem nullam esse venditionem puto,
quotiens in materia erratur.
La questione di cui dibatteva il giurista era se fosse valida la vendita, qualora l’errore fosse
caduto non sul corpus, bensì sulla substantia, come nel caso in cui si acquistava aceto al posto del vino,
oppure bronzo invece di oro, o ancora piombo anziché argento. Si trattava, dunque, di un error in
substantia nella più corretta accezione, e non di un error in qualitate. Marcello riteneva che l’empio venditio
fosse perfetta, in quanto l’errore sulla materia non aveva fatto venir meno l’accordo sul corpus. Ulpiano,
al contrario, sosteneva la nullità del negozio, dato che l’errore aveva determinato la vendita di aliud pro
alio. Solo in un caso il giurista concordava con Marcello, vale a dire quando, nell’esempio dell’aceto e del
vino, l’acquirente aveva comprato del vino, diventato successivamente aceto.
L’opinione di Marcello, condivisa anche da Paolo45 e da Marciano46, conduceva alla conseguenza
che, nel caso di errore unilaterale, se vi fosse stato il dolo della controparte, quest’ultima avrebbe
dovuto risarcire il danno arrecato47. Secondo questi tre giuristi, dunque, non vi era differenza di effetti
tra error in substantia ed error in qualitate. Il pensiero di Ulpiano e di Giuliano48, invece, era ben diverso:
poiché l’error in substantia escludeva la volontà, il negozio era nullo. Un’attenuazione di questo principio
era ipotizzabile nei contratti di buona fede, in cui il dolo di una delle parti avrebbe comportato,
nonostante la nullità dell’atto, l’obbligo di risarcire i danni49. In base a questa diversa teoria, quindi,
potevano prospettarsi due ipotesi: se entrambe le parti fossero incorse in errore, il negozio sarebbe stato
nullo; se, invece, solo una di esse fosse stata ignorans, a causa del dolo dell’altra, e se si fosse trattato di
un bonae fidei contractus, il contratto sarebbe stato nullo, ma avrebbe conservato eccezionalmente taluni
D. 18.1.9.2; 18.1.11.1; 18.1.14; 18.1.41.1; 18.1.45; 19.1.21.2; 45.1.22. Tutti questi testi – ad eccezione del primo –, tuttavia,
sono ritenuti interpolati e testimonierebbero, pertanto, la realtà giuridica giustinianea, piuttosto che quella classica. Sul tema
v. P. Cornioley, “Error in substantia, in materia, in qualitate” cit. pp. 251 ss..
43 Così E. Betti, sv. Errore cit. p. 663.
44 D. 18.1.9.2. Il tema, che si presenta particolarmente interessante, sarà approfondito infra in questo §.
45 D. 19.1.21; 45.1.22.
46 D. 18.1.45.
47 Tuttavia, vi erano ipotesi in cui i giuristi ritenevano ch e fosse escluso anche il risarcimento del danno, come nel caso della
stipulatio prospettato da Paolo, in cui il ristoro dei danni era ammesso solo se vi fosse stata una espressa clausola doli (D.
45.1.22).
48 D. 18.1.41.1.
49 In questo senso P. Voci, v. Errore cit. p. 232. I testi da cui si ricava questa regola sono, princ., D. 18.1.57; 18.4.4-12;
19.1.21 pr., su cui v. R. Von Jhering, “Culpa in contrahendo” oder Schadensersatz bei nichtigen oder nicht zur Perfection gelangten
Verträgen, in Jahrbücher für die Dogmatik des heutigen römischen und deutschen Privatsrechts 4 (1860) pp. 67 ss., trad. it. a cura di F.
Procchi, con il titolo Della “culpa in contrahendo” ossia del risarcimento del danno nei contratti nulli o non giunti a perfezione (Napoli
2005) pp. 135 ss.
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effetti: il soggetto ingannato, infatti, avrebbe avuto a disposizione un’azione contrattuale per il
risarcimento del danno50.
In età giustinianea fu accolta l’opinione di Ulpiano e di Giuliano, ma non fu riconosciuta alcuna
azione di risarcimento del danno a favore della parte ingannata dal dolo altrui51.
All’error in substantia può essere accostato52 il cd. error in dominio nella traditio53, in quanto sarebbe
stato determinato dalla ignoranza circa una particolare qualità, segnatamente circa la condizione
giuridica della cosa. Vi era, dunque, un errore su chi fosse il vero proprietario della cosa e avesse
conseguentemente il diritto di disporne. Poteva verificarsi, ad esempio, che un soggetto consegnasse a
un altro un bene per conto di un terzo, ignorando di esserne l’effettivo dominus. La giurisprudenza
classica ritenne che la traditio non fosse valida, in quanto il proprietario non aveva intenzione di
trasferire la cosa propria, e il principio restò immutato anche nella Compilazione giustinianea54. Nel
caso il soggetto in errore fosse l’acquirente, l’error in dominio non avrebbe spiegato la sua efficacia
invalidante, e ciò in base a un principio generale degli atti con effetti acquisitivi, secondo il quale la
volontà di acquistare non viene meno a causa dell’ignoranza circa l’effettiva proprietà del bene55.
Infine, si incorreva nell’error in quantitate quando l’errore verteva sulla quantità o sulla dimensione
dell’oggetto del negozio. Si determinava, pertanto, una difformità tra la quantità dichiarata e la quantità
voluta, che, nella generalità dei casi, importava la nullità del negozio, sebbene non mancassero delle
eccezioni. Era, infatti, previsto che in talune ipotesi la dichiarazione fosse comunque valida nei limiti
della minore quantità tra quella voluta e quella espressa56. Inoltre, nelle fonti ricorre un’ulteriore e
specifica eccezione alla regola: in tema di heredis institutio, se nel testamento era indicata una quota
inferiore rispetto a quella realmente voluta dal de cuius, la disposizione risultava valida per la quantità
maggiore 57. Sempre nullo era, invece, il negozio bilaterale viziato da errore sulla quantità, se determinava
un dissenso essenziale tra le parti.
Un campo interessante di applicazione delle regole sull’errore escludente la volontà è
rappresentato dai negozi conclusi attraverso comportamenti concludenti o, più in generale, dalle
manifestazioni tacite di volontà. Vi erano situazioni in cui era possibile trarre da un comportamento un
significato particolare, attribuendo, quindi, ad un soggetto una determinata volontà. Un simile
procedimento induttivo, tuttavia, doveva fermarsi nel caso in cui la parte versasse in una situazione di
ignoranza tale da escludere la volontà ed eliminare il carattere di concludenza attribuito al
comportamento58. In questo ambito trovarono, dunque, generale applicazione le massime errantis
voluntas nulla est o non videtur qui errant consentire o altre simili59. Tra i casi paradigmatici ricordiamo quello
riportato in
D. 5.1.2 pr. (Ulp. 3 ad ed.): Consenssisse autem videtur, qui sciant se non esse subiectos
iurisdictioni eius et in eum consentiant. ceterum si putent eius iurisdictionem esse, non erit eius
Questa interpretazione non è condivisa da E. Betti, sv. Errore cit. p. 664, il quale ricostruisce il pensiero di Ulpiano e di
Giuliano in questo modo: se l’errore è bilaterale il contratto è nullo; se, invece, è unilaterale, il contratto è valido, ma la parte
in errore può ottenere il risarcimento del danno.
51 Lo si deduce dai brani appena richiamati in nota, che furono opportunamente interpolati dai Compilatori giustinianei, al
fine di sostenere questo risultato.
52 Lo fa, ad esempio, E. Betti, v. Errore cit. p. 664.
53 Il tema è stato affrontato, con approcci diversi, tra gli altri da: P. Voci, L’errore cit. pp. 82 ss.; R. Reggi, L’ “error in dominio”
cit. 88 ss.; A. Burdese, Il cd. error in dominio, cit. pp. 101 ss. – Sul tema v. anche B. Windscheid, Diritto delle pandette I (tr. it.
Torino 1930) §172, p. 616.
54 D. 17.1.49; 18.1.15.2; 41.1.35.
55 D. 22.6.9.4; 41.3.44.4; 41.4.2.2; 41.6.3.
56 Un esempio di questa ipotesi è offerto da P. Voci, v. Errore cit. p. 231: in una locazione, il canone è indicato in 10 dal
locatore, mentre il conduttore ritiene che sia 15; la locazione si intende che valga per 10. Diversamente, invece, se il locatore
voleva 15 e il conduttore 10. In questa fattispecie, infatti, tra le parti vi era un dissenso essenziale (D. 19.2.52).
57 P. Voci, Diritto ereditario romano II. Successione “ab intestato”, successione testamentaria (Milano 1963) p. 907.
58 E. Betti, v. Errore cit. p. 661; P. Voci, sv. Errore cit. p. 232.
59 Numerose le fonti in cui si rivengono tali espressioni, sebbene talune siano di dubbia originalità: D. 2.1.15; 5.1.2 pr.;
39.3.19-20; 50.17.116.2; CI. 1.18.8; 1.18.9; 4.65.23.
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iurisdictio: error enim litigatorum, ut Iulianus quoque libro primo digestorum scribit, non habet
consensum. aut si putaverunt alium esse praetorem pro alio, aeque error non dedit iurisdictionem60.
Ulpiano riferiva l’opinione di Giuliano circa il caso di due parti che stavano in giudizio dinanzi
ad un magistrato incompetente. Il giurista classico riteneva che, se i contraddittori non sapevano della
incompetenza del giudice, non poteva esservi consenso sulla proroga della giurisdizione: dunque,
l’errore delle due parti rendeva inconcludente il loro comportamento.
In materia successoria, invece, un altro ambito in cui l’errore escludente la volontà manifestò la
sua rilevanza già nella concezione classica fu l’aditio hereditatis61, cioè l’atto con il quale l’erede accettava
l’eredità. La serietà dell’atto determinò nei giureconsulti della prima età imperiale la convinzione che,
laddove fosse mancata la volontà a causa di un errore, l’aditio sarebbe stata invalida. Il principio, che fu
applicato dai classici con particolare rigore, subì talune deroghe soltanto nel corso dell’età giustinianea,
come nel caso di error de iure proprio62.
3. L’ERRORE MOTIVANTE LA VOLONTÀ
Ben diverso negli effetti rispetto all’errore escludente la volontà era l’errore motivante la
volontà, o errore sui motivi, il quale interveniva nel processo causale dell’atto giuridico, viziandolo;
poiché, però, per l’ordinamento tale fase non era rilevante, l’errore non determinava alcuna invalidità63.
L’irrilevanza dell’errore sui motivi si giustificava alla luce della considerazione che, anche quando il
motivo risultava espresso nell’atto, sarebbe stato possibile astrarre la disposizione, isolandola dalle
ragioni individuali esteriorizzate, a meno che il motivo non fosse assurto a vera e propria condizione64.
E questo principio valse anche per i negozi in cui la parte in errore era quella che, animata da spirito di
liberalità, attribuiva ad altri un patrimonio, sicché anche le donazioni e i negozi mortis causa
conservavano validità nonostante l’errore sui motivi65.
Ad ogni modo, anche tale regola subì delle eccezioni, che in età classica condussero
all’invalidazione dell’atto, almeno nella parte viziata e, in determinate circostanze, si giunse addirittura a
ricostruire quale sarebbe stato il diverso contenuto della disposizione.
È stato osservato66, infatti, a questo proposito, come l’errore sui motivi negli atti mortis causa
avesse assunto rilevanza inversamente proporzionale all’importanza della disposizione (massima nei
legati e minima nell’heredis institutio), e ciò perché più importante era la disposizione, più era difficile che
fosse stata determinata da un’unica ragione; raggiunta, tuttavia, la certezza della rilevanza dell’errore, la
disposizione doveva essere considerata invalida 67.
L’errore sui motivi, così, fu ritenuto determinante in materia successoria, quando risultava che il
falso motivo aveva indotto il testatore a inserire delle disposizioni che non avrebbe previsto, se il
processo causale non fosse stato viziato. È questo il caso, ad esempio, della madre che aveva istituito
suo erede un estraneo, perché credeva morto il figlio68. L’errore, in questa ipotesi, fu considerato
Tra i brani indicati alla nota precedente e tratti dai Digesta, questo è l’unico che si ritiene essere genuino.
Sul tema, approfonditamente, P. Voci, L’errore cit. pp. 64 ss..
62 Era la situazione in cui si trovava colui che ignorava la propria condizione giuridica: un esempio può essere costituito dal
caso di chi, credendo erroneamente di essere filius familias, accettava l’eredità, ritenendo ch e essa sarebbe entrata a far parte
del patrimonio paterno. In tale ipotesi, la giurisprudenza classica sosteneva che l’aditio fosse nulla, mentre i bizantini la
consideravano comunque valida (cfr. D. 29.2.6.4; 29.2.75). Sul tema P. Voci, L’errore cit. pp. 75 ss..
63 In materia successoria il principio è reso dal brocardo falsa causa non nocet : Ep. Ulp. 24.19; I. 2.20.31; D. 12.6.65.2; 35.1.17.2;
35.1.72.6.
64 Così, E. Betti, v. Errore cit. p. 664.
65 Tra le tante testimonianze v. D. 35.1.17.2; 35.1.72.6; I. 2.20.31; CI. 6.44.1-5; Ep. Ulp. 24.19. Il principio qui enunciato fu
più volte ribadito dai giureconsulti classici, e a Papiniano (D. 35.1.72.6) si deve la nota massima: Falsam causam legato non obesse
verius est, quia ratio legandi legato non cohaeret.
66 Da P. Voci, v. Errore cit. p. 233.
67 Alla base della decisione di annullare o conservare una particolare disposizione vi era, dunque, un’attività dell’interprete
volta ad accertare se il motivo erroneo fosse stato realmente l’unico, in quanto solo in questa ipotesi poteva essere fatta
valere la nullità (cfr. ex adverso D. 35.1.72.6; CI. 6.44.1-5).
68 D. 5.2.28; 28.5.93 (92).
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rilevante e l’esigenza di salvaguardare la volontà della de cuius indusse i giudici ad annullare la
disposizione e a ricostruire quale sarebbe stata la volontà del testatore se non fosse incorso in errore 69.
Numerose le eccezioni considerate anche in tema di legati70: i giureconsulti ritennero che, se il de cuius,
nell’errata convinzione di avere un unico erede, avesse gravato soltanto quest’ultimo dell’adempimento
di tutti i legati, il testamento si sarebbe dovuto correggere in modo da ripartire tra tutti gli eredi il peso
dei legati, perché tale sarebbe stata la volontà del disponente, se avesse conosciuto la reale situazione71.
In ambito diverso, l’errore sui motivi, se scusabile, trovava riconoscimento nell’editto del
pretore come presupposto per la restitutio in integrum. Una clausola edittale, infatti, prevedeva che la
restitutio potesse essere concessa se ci fosse stata una iusta causa, che nella prassi fu spesso interpretata
come iusta causa erroris72.
In sintesi, in età classica l’errore sui motivi non fu considerato rilevante, salvo che in talune
determinate ipotesi, che comunque non scalfirono la portata generale di questo principio; in età
giustinianea, invece, prese piede la tendenza opposta e, oltre a invalidare gli atti viziati da errore, si
diffuse la regola di ricercare e applicare quella che sarebbe stata la volontà del soggetto, se non fosse
incorso in errore.
4. L’ERRORE QUALIFICANTE LA VOLONTÀ
L’ultimo modo in cui l’errore poteva incidere sulla volontà era qualificandola; ciò avveniva
quando l’ordinamento giuridico valutava l’ignoranza del soggetto, facendone conseguire effetti a lui
favorevoli, o, in altre parole, considerava l’errore un presupposto per il raggiungimento di un
determinato risultato giuridico. L’errore, dunque, assumeva valore in quanto consentiva di tipizzare la
volontà, assegnando al comportamento tenuto un preciso significato73. Nel rapporto tra soggetto e
ordinamento, quest’ultimo doveva svolgere nei confronti del primo un controllo di ‘eticità’ dell’atto
posto in essere, e non di efficacia o validità dello stesso74.
I motivi che in età classica indussero ad assegnare una peculiare rilevanza all’errore-presupposto
furono i più vari, in relazione alle diverse ipotesi considerate, a testimonianza del fatto che anche in
questo ambito non esisteva un principio di portata generale, ma si procedeva piuttosto in via empirica e
casistica a valutare le differenti fattispecie75. Mentre il diritto classico dimostrò una certa benevolenza
nei confronti del soggetto errante, giudicando favorevolmente la sua condizione, nel tardo antico e in
età giustinianea l’atteggiamento mutò: l’errore divenne rilevante solo se scusabile76 e l’errore di diritto
non fu ritenuto tale.
Dato l’elevato numero delle fattispecie in cui rilevava l’errore-presupposto, procederemo
all’esame solo di alcune di esse, in funzione dell’affinità con istituti ancora oggi in vigore (usucapione e
condictio indebiti).
Per quanto concerne l’usucapione, l’errore poteva determinare il requisito della bona fides, oppure
poteva intervenire sul titolo (titolo putativo). Quanto al primo aspetto, occorre sottolineare come nella
prospettiva dei classici non esistesse un concetto unitario di bona fides, per cui i giuristi enuclearono tale
requisito nelle singole fattispecie, ricorrendo all’unico elemento a loro disposizione, vale a dire la
Una situazione analoga si verificava quando taluno in un precedente testamento aveva istituito erede una persona e,
ritenendo che il beneficiario fosse morto, redigeva un nuovo testamento, in cui chiariva che alla base della revoca vi era
proprio la consapevolezza del decesso del primo istituito. Accertato che il beneficiario del primo testamento non era morto,
il secondo atto era considerato nullo nella sola parte relativa all’heredis institutio, conservando piena validità, invece, per le
restanti disposizioni: D. 28.5.93 (92).
70 D. 31.7; 31.29; 31.76.6; 32.40 pr.; 34.9.5.2; 36.1.77 (75) pr.; Vat. Frag. P. 205.
71 D. 31.7; 31.29; 32.40 pr.; 36.1.77 (75) pr.
72 Gai 2.163; I. 4.6.33; D. 11.1.18; 14.3.13 pr.; 34.9.17; 44.2.11 pr.
73 In tal senso, U. Zilletti, La dottrina cit. p. 164 ss..
74 Ancora, U. Zilletti, La dottrina cit. p. 165.
75 Le fattispecie valutate dall’ordinamento furono le più disparate, e tra esse ricordiamo i negozi putativi, l’erroris causae
probatio, l’edictum de lite restituenda, l’in integrum restitutio, l’usucapione, la condictio indebiti, alcuni casi di decadenza e talune ipotesi
di illecito penale.
76 V. P. Voci, L’errore cit. p. 129.
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definizione della bona fides come persuasione di non ledere un diritto altrui. È stato correttamente
osservato77, che più di una definizione di bona fides si tratta di “un indirizzo per rintracciarla, sì che il
minimum etico richiesto è da ricavare dalle peculiarità delle singole fattispecie”. In età classica, la buona
fede che consentiva il verificarsi dell’usucapione era, dunque, costituita dal minimum etico a cui si
riferisce Zilletti, ma i bizantini ritennero necessario qualificare l’errore su cui poggiava la bona fides, che
acquistò rilevanza solo se scusabile78.
Riguardo al titolo putativo, la questione se esso potesse condurre all’usucapione costituì oggetto
di dibattito tra i giuristi classici. La tesi più diffusa fu quella che ammetteva sempre il titolo putativo, ma
a Nerazio79 è riconducibile un’opinione più rigida – accolta prima da Giuliano80, e poi dai bizantini, che
generalizzarono l’affermazione di Nerazio –, secondo cui affinché il titolo putativo fosse rilevante
occorreva che si basasse su un errore scusabile.
Per rintracciare la ragione che indusse a valutare favorevolmente l’errore-presupposto della
buona fede, occorre osservare la situazione in una prospettiva di convenienza economica. I soggetti
coinvolti nell’usucapione erano il possessore e l’effettivo proprietario, entrambi colpevoli di negligenza
agli occhi dell’ordinamento giuridico: l’uno perché ignorava di ledere un diritto altrui, l’altro perché
assumeva un atteggiamento economicamente inerte nei confronti della res di sua proprietà.
L’ordinamento, non potendo comporre altrimenti la divergenza tra i due interessi, doveva effettuare
una scelta e, quindi, privilegiava il possessore, il quale, nonostante tutto, si inseriva attivamente nel
sistema economico81.
Il secondo istituto su cui ci soffermeremo brevemente è la condictio indebiti82. La questione è entro
quali limiti colui che aveva pagato credendo di esservi obbligato poteva ripetere il pagamento. L’errore,
in questa ipotesi, caratterizzava l’atto sia positivamente, che negativamente. Nel soggetto agente, infatti,
risultava da una parte la volontà di pagare il dovuto e, dall’altra, la determinazione di non voler
compiere un atto di liberalità. I giuristi classici e i compilatori giustinianei ritennero che, se l’errore che
aveva indotto il solvens a pagare fosse stato un error facti, poteva essere consentita la ripetizione
dell’indebito. Certamente, poi, i bizantini considerarono inescusabile l’error iuris e, dunque, irripetibile il
pagamento effettuato a causa di un errore di diritto. Dubbia, al riguardo, è, invece, la posizione assunta
dai giureconsulti classici, a causa della manipolazione dei testi operata dai giustinianei. Tuttavia,
possiamo ritenere più probabile che anche i giuristi classici considerarono non ripetibile l’indebito
pagato in base ad un error iuris83.
5. CENNI
SULLA DOTTRINA DELL’ERRORE NELLA TRADIZIONE ROMANISTICA: DALLA
DISSOLUZIONE DELL ’IMPERO ROMANO ALLA SCUOLA STORICA
La storia della teoria dell’errore dopo la dissoluzione dell’Impero romano è legata
indissolubilmente alla valutazione della volontà come elemento del negozio giuridico e, in generale,
come presupposto per la riferibilità di ogni atto, lecito o illecito, ad un determinato soggetto.
Le legislazioni barbariche, poco attente all’elemento soggettivo, ignorarono le problematiche
connesse all’errore e affrontarono il tema ad esso collegato della valutazione della volontarietà di un
Da U. Zilletti, La dottrina cit. p. 175.
L’inescusabilità dell’errore di diritto si ricava da D. 22.6.4; 41.3.31 pr.; 41.3.32.1; 41.4.2.15.
79 D. 41.10.5.
80 D. 41.3.33.1; 41.4.7.2.
81 V. più approfonditamente U. Zilletti, La dottrina cit. p. 173.
82 Sul tema v. in part. G. Vassalli, Iuris et facti ignoratia, cit. pp. 446 ss.; P. Voci, L’errore cit. pp. 130 ss.; S. Solazzi, L’errore nella
“condictio indebiti” cit. pp. 99 ss.; Id., Ancora sull’errore cit. pp. 405 ss.; Id., Le “condictiones” cit. pp. 1 ss.; P. Voci, In tema di errore
cit. pp. 22 ss.; C. Sanfilippo, Condictio indebiti I. Il fondamento dell’obbligazione da indebito (Milano 1943) pp. 97 ss.; G.G. Archi,
Variazioni in tema di “indebiti solutio”, in Onor. V. Arangio-Ruiz III (Napoli 1952) pp. 335 ss., ora in Scritti di diritto romano II
(Milano 1981) pp. 1169 ss..
83 D. 22.6.9.5; CI. 1.18.10; 2.32.2; 4.5.6; 4.5.7; 6.50.9.
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atto solo in specifiche fattispecie e limitatamente al campo penale84. Cominciò, tuttavia, ad emergere il
concetto di scientia - intesa come conoscenza di dati oggettivi -, da cui si fecero dipendere di volta in
volta conseguenze negative o positive. Il legislatore, ad esempio, ritenne che taluni presupposti di fatto
o di diritto non potevano essere ignorati dal soggetto agente e, quindi, la loro mancata conoscenza non
poteva essere addotta come scusante85. In altri casi, invece, l’ignoranza di una circostanza escludeva la
perfezione di un reato86. Solo in sporadiche disposizioni la scientia fu ritenuta rilevante in fattispecie
civilistiche e, in particolare, in materia negoziale.
Fino all’inizio del secondo millennio, dunque, l’errore non fu preso in considerazione in modo
specifico da alcuna legislazione (fatta eccezione per alcuni riferimenti presenti nel diritto canonico, a
proposito dell’istituto matrimoniale87), né fu oggetto di speculazione da parte dei giuristi.
Con l’opera scientifica dei Glossatori si tornò, per la prima volta dopo la fine dell’Impero
giustinianeo, ad approfondire le conseguenze civilistiche dell’errore, che fu accostato all’ignoranza88.
Irnerio distinse l’oggetto dell’errore a seconda che si trattasse di un fatto o di un diritto e, in tale
seconda ipotesi, se fosse diritto civile o diritto naturale89. L’errore di fatto fu ritenuto probabilis, qualora
avesse riguardato la rappresentazione di un fatto altrui e non fosse dipeso da una negligenza del
soggetto. L’errore di diritto, al contrario, non trovava giustificazione, che in alcune ipotesi di ignoranza
del ius civile. Nella costruzione teorica dei Glossatori, infatti, l’ignoratia iuris civilis poteva essere fatta
valere, se impediva di subire un danno, mentre nessun rilievo aveva in lucro captando90. Il dogma ignorantia
iuris nocet, dunque, venne ridimensionato nella sua applicazione pratica, così come era già avvenuto
nell’esperienza giuridica romana dell’età classica.
L’apporto dei Commentatori alla dottrina dell’errore fu piuttosto ridotto, e si limitò
principalmente ad alcune osservazioni in ambito criminale, che consentirono di approfondire il
rapporto tra errore, dolo e colpa. Sotto altro profilo, è all’età del Commento che risalgono le prime
affermazioni dei giuristi volte a disapplicare la regola romana secondo cui milites e villici potevano
invocare l’ignorantia legis, alla luce della ben diversa realtà sociale del XIII sec.91.
Sebbene in età preirneriana volontà ed errore fossero stati occasionalmente accostati e alcuni
Glossatori avessero ravvisato nella scientia un elemento imprescindibile della voluntas, il passo
determinante verso l’elaborazione di una accurata teoria dell’errore-vizio della volontà non fu compiuto.
Gli spunti presenti nel Corpus iuris civilis e su cui poteva incardinarsi una più approfondita riflessione
intorno all’incidenza dell’errore sul processo di formazione e sulla manifestazione della volontà non
furono sviluppati né dai Glossatori, né dai Commentatori. Il loro sforzo speculativo non andò oltre la
superficiale riproposizione delle teorie romane, che, da una parte, determinò l’assolutizzazione della
massima errantis voluntas nulla est92; dall’altra, condusse all’espressa distinzione tra errore circa rem, che
escludeva la volontà, ed errore circa causam, rilevante solo se si fosse trattato di causa finalis93.
Con l’Umanesimo giuridico si compirono, finalmente, quei passi avanti nell’elaborazione di una
teoria dell’errore in rapporto alla volontà negoziale, che maturarono poi definitivamente grazie
Così, E. Cortese, v. Errore (dir. interm.), in ED. XV cit. p. 236. Nell’Editto di Rotari, ad esempio, è impiegato il termine
“asto” (Ed. Roth. 149, 229, 248, 264, 357), talvolta seguito da animo (Ed. Roth. 149, 201, 342, 344, 345), per richiamare il
concetto di volontarietà di un atto illecito (lo si ricava da Ed. Roth. 146, 149, 201).
85 Ed. Roth. 151: chi costruiva un mulino in un fondo altrui, ne perdeva la proprietà, senza diritto ad un risarcimento poiché
- disponeva la norma - ognuno doveva conoscere ciò che era suo e ciò che non lo era.
86 La falsa testimonianza era punita solo se consapevole: Ed. Liut. 63. Altri esempi: Ed. Roth. 229, 230, 265-268.
87 V. al riguardo P.S. Leicht, Il diritto privato preirneriano (Bologna 1933) 27; E. Cortese, sv. Errore cit. p. 238.
88 E ciò nonostante già il Piacentino, Summa Codicis, sub tit. ‘de iuris et facti ignorantia’, e Azzone, Summa Codicis, sub tit. ‘de iuris et
facti ignorantia’, avessero, forse poco consapevolmente, tracciato una linea di confine tra l’errore, che si verificava quando
qualcosa era diverso da ciò che si credeva, e l’ignoranza, intesa come non conoscenza di qualcosa che doveva essere
conosciuto.
89 Gl. Error ad D. 22.6.8.
90 Accursio, Gl. Regula est ad D. 22.6.9. Sul tema v. E. Cortese, La norma giuridica. Spunti teorici nel diritto comune classico II
(Milano 1964) p. 107 nt. 15.
91 Così, E. Cortese, v. Errore cit. p. 242.
92 Che, invece – come abbiamo rilevato nel corso della trattazione –, in nessuna fase dell’evoluzione giuridica romana ebbe
inderogabile applicazione.
93 Ancora, E. Cortese, v. Errore cit. p. 244.
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all’apporto dei Giusnaturalisti. Le prime e principali innovazioni risalgono a Donello, il quale ricavò
dalle fonti romane94, attraverso un’interpretazione dei testi spesso poco fedele all’intenzione dell’autore,
il principio che omnem contractum esse consensum et conventionem; presupposto poi il rapporto tra volontà ed
errore, il giurista giunse ad affermare che l’errore era causa di dissenso95. Fu Grozio, tuttavia, a trarne le
conclusioni, affermando che l’errore, se determinante sulla formazione del consenso, invalidava ogni
tipo di atto96.
Ma è soprattutto sulla dottrina di Pufendorf che occorre soffermarsi, se pur brevemente. Il
giurista distinse tra atti unilaterali e bilaterali. Nei primi, l’errore era considerato rilevante, quando
l’autore dell’atto era spinto al suo compimento sulla base di una falsa rappresentazione della realtà e,
quindi, non lo avrebbe concluso se non fosse incorso nell’errore. In merito ai negozi bilaterali, invece,
Pufendorf distinse tra errore incidente sulla determinazione di concludere l’atto, oppure sull’oggetto del
negozio. Nel primo caso, colui che era caduto in errore poteva ottenere la rescissione, se l’esecuzione
non era ancora iniziata; altrimenti, sarebbe stato necessario ottenere il consenso della controparte.
Qualora l’errore avesse riguardato l’oggetto, il negozio sarebbe stato invalido, ma – secondo Pufendorf
– l’effetto sarebbe dipeso non dai principi in tema di errore, bensì dalla legge stessa, secondo la quale il
soggetto doveva conoscere l’oggetto per poter manifestare correttamente la propria volontà97.
Le teorie umanistiche e giusnaturalistiche rappresentarono il modello di riferimento per la
successiva elaborazione dottrinale, che trovò i suoi più noti esponenti in Domat e in Savigny98. Domat
ripresentò la distinzione tra errore di fatto ed errore di diritto, sostenendo che l’error facti aveva effetto
invalidante, se la ‘convenzione’ avesse trovato unico fondamento nella “verità ignorata”99. Ma la novità
principale fu il ritorno all’accostamento tra errore di fatto ed errore di diritto, basato sull’affermazione
che, nonostante ognuno fosse tenuto a conoscere le leggi civili e naturali100, l’atto posto in essere
incorrendo in un error iuris sarebbe stato invalido, se l’ignoranza o l’errore di diritto fossero stati “l’unica
causa della convenzione”101.
Savigny, invece, propose una distinzione dell’errore in relazione alla negligenza del soggetto:
soltanto l’error iustus o probabilis poteva essere invocato per invalidare un atto102; l’errore dipeso dalla
negligenza dell’agente, al contrario, non produceva alcuna conseguenza.
In questa prospettiva, la dicotomia error iuris-error facti aveva riscontro in un diverso regime
probatorio: la negligenza del soggetto nel caso di errore di diritto si presumeva, mentre per l’errore di
fatto doveva essere provata.
6. OSSERVAZIONI CONCLUSIVE
La storia della teoria dell’errore nel diritto privato si è sviluppata seguendo due binari paralleli:
da una parte, è stato approfondito il rapporto tra errore e volontà, dall’altra, sono stati contrapposti i
concetti di errore di fatto ed errore di diritto.
Nell’esperienza giuridica romana, in cui le problematiche dell’errore furono affrontate soltanto a
partire dall’età imperiale, la valutazione dell’errore non seguì un processo lineare.
I giureconsulti classici non costruirono ex novo una sistematica dell’errore e furono intenti,
piuttosto, a risolvere casisticamente le questioni sollevate di volta in volta. Pur non avendo formulato
principi di portata generale, la giurisprudenza ebbe il merito di affrontare questo tema in modo non
Il principale testo di riferimento fu il brano conservato in D. 2.14.1.3 (Ulp. 4 ad ed.): Conventionis verbum generale est ad omnia
pertinens, de quibus negotii contrahendi transigendique causa consentiunt qui inter se agunt…, su cui v. G. Melillo, “Contrahere, pacisci,
transigere”. Contributi allo studio del negozio bilaterale romano (Napoli 1994) pp. 178 ss..
95 Sulla teoria di Donello in materia di errore v. P. Voci, L’errore cit. 1, pp. 145 ss., p. 277; E. Cortese, v. Errore cit. p. 244.
96 V. U. Grotius, De iure belli ac pacis IV (trad. it. Napoli 1777) lib. II, cap. 11.VI, § 1-3.
97 Il tema è discusso in S. Pufendorf, De iure naturae et gentium I (Frankofurti et Lipsiae 1759) lib. III, cap. 6, § 6-7.
98 Così, E. Cortese, v. Errore cit. p. 245.
99 Così, J. Domat, Le leggi civili nel loro ordine naturale II (trad. it. Napoli 1839) lib. I, tit. 18, sez. I § p. 7.
100 J. Domat, Le leggi civili cit. lib. I, tit. 18, sez. I §§ 3, p. 13.
101 J. Domat, Le leggi civili cit. lib. I, tit. 18, sez. I § p. 14.
102 V. F.C. Von Savigny, Sistema del diritto romano attuale III (trad. it. Torino 1900) pp. 35 ss..
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superficiale, proponendo soluzioni articolate e dibattute, in cui dava conto della diversità di situazioni
che potevano verificarsi.
Alla maturità dell’approccio classico si contrappose la perentorietà della legislazione del
Dominato, che, attenta alla salvaguardia della certezza del diritto e dei rapporti negoziali, si limitò ad
approfondire la distinzione tra errore di fatto ed errore di diritto.
Il Corpus iuris civilis rappresentò la sintesi delle due esperienze precedenti: dall’elaborazione
classica fu tratto lo spunto per costruire il sistema della patologia del negozio giuridico, basato sui vizi
della volontà, e in cui divenne centrale il tema del rapporto tra errore, distinto in scusabile e
inescusabile, e volontà; dal diritto basso-imperiale, invece, recepì la regola della inescusabilità dell’errore
di diritto.
Anche nella tradizione romanistica, dalla Glossa a Savigny, la teoria dell’errore subì alterne
vicende, che hanno condotto infine all’isolamento dell’errore-vizio della volontà e causa di invalidità del
negozio e all’affievolimento della distanza tra error iuris ed error facti.
Margherita Scognamiglio
Assegnista di ricerca
Università degli Studi di Salerno
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