figlia Re Mohamed 6

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figlia Re Mohamed 6
Sara Borrillo è laureata in Relazioni e Istituzioni dell’Asia e dell’Africa all’Università L’Orientale
di Napoli con una tesi sul femminismo islamico e l’esperienza delle predicatrici della religione
islamica in Marocco (2008).
Vive a Rabat, dove lavora come ricercatrice.
Con “Fatema” inizia la sua corrispondenza per women in the city dal mondo femminile, e non
solo, del Magreb mediterraneo, raccontato attraverso i ritratti delle donne che ogni giorno
incontra…
Come ogni venerdì Fatema prepara il cus cus, piatto tipico del pranzo del giorno di festa per i
musulmani.
Mentre sistema le verdure sulla semola fumante nel gran piatto tondo che si chiama tajine,
accompagno Saleh, suo figlio minore, sulla terrazza per stendere al sole alcune tovaglie su cui ha
rovesciato un vaso di fiori giocando col gatto. Ci arrampichiamo su per una scala a muro della loro
piccola casa nella kasba biancaeblù di Rabat, antica residenza sultanale ed oggi quartiere popolare
di grande attrattiva turistica per la sua terrazza affacciata sull’Atlantico e sull’antica città corsara di
Salè. Due stanze, bagno e cucina. Porte leggere di legno e un patio dal pavimento in pietra battuta,
tipico delle antiche case marocchine ma ben lontano dal fascino dei sontuosi riad delle riviste di
viaggi radical-chic per Marrakech. Qui se alzi lo sguardo al posto dei soffitti dai mosaici colorati,
vedi un tetto di plastica che quando ci piove è come se accanto ci fosse una betoniera. Su una delle
pareti di pietra verde-chiaro, una foto di Napoli (il Vesuvio visto dal pino di Posillipo) è il regalo di
un amico partenopeo che Fatema conserva con affetto. Di Napoli ha sentito molto parlare ed è
convinta che sia come la Rabat popolare: accogliente e dura, ricca di contraddizioni eppure
armonica nel suo formicolante caos quotidiano intriso dello spirito del “tiramm a campà”.
Via le scarpe, ci disponiamo sui canapè intorno alla tavola della camera da letto-pranzo. La figlia
più grande di Fatema, Ibtisam (che in arabo vuol dire “sorriso”), oggi resta a casa della zia che abita
vicino alla sua scuola perché ha il tempo prolungato. Così siamo in tre, Fatema, Saleh ed io, mentre
nell’altra camera Abdel, il marito di Fatema, cuce come sempre ascoltando musica jazz. Ormai da
molto tempo Fatema fa come se lui non ci fosse. Così, senza dirgli niente, ci fa cenno col capo per
dirci che possiamo iniziare a mangiare. Ognuno prende il cus cus dal proprio lato del gran piatto
comune senza invadere la porzione del vicino. Ma spesso in casa di Fatema questa regola
s’infrange, quando è lei ad avvicinare alle mie dita uno o più pezzi di carne dicendomi “Kul,kul!”
(“Mangia, mangia!”).
Dopo l’ultimo bicchiere di laban (il latte-yogurt che accompagna il cus cus), Saleh chiede a Fatema
quando potrà iscriversi al corso di calcetto. Lei sa che suo figlio ama correre e che di fatto è il più
veloce dei coetanei. Ma dopo un’esitazione che dura quanto un lungo respiro, senza mezzi termini
gli dice che dipenderà dal suo prossimo salario. Lui coglie il tono di voce basso e pensoso della
madre e non insiste, con la maturità di chi sa che fare capricci non serve. Aspetta ancora due
secondi come per accertarsi che la richiesta resti fissa nella mente della madre, dopodiché ritorna ad
essere bambino e schizza fuori di casa -la porta è sempre aperta-per rincorrere il gatto sulla strada di
ciottoli.
Fatema mi sorride ed un sospiro mi comunica che è pronta per rispondere alle mie domande.
Mi porge la sua carta d’identità per farmi leggere il suo cognome. Lei non sa se è scritto bene o
meno: è analfabeta, come il 55 % delle donne in contesto urbano qui in Marocco. I caratteri latini
non sa leggerli, mentre oltre al dialetto nazionale -il dharija -parla un discreto francese, che ha
appreso dialogando con le persone. Dell’arabo classico, invece, ricorda solo alcune nozioni, avendo
frequentato la scuola fino alla quarta elementare.
Due figli e un marito a carico, quarantacinque anni, Fatema da 25 lavora praticamente a tempo
pieno. “Lavoro come donna delle pulizie dalle 9 a mezzogiorno in un’associazione francese. 4 ore
ogni mattina. Nel fine settimana lavoro in una galleria d’arte ed il sabato riposo. Ma poi se qualcun
altro mi chiama, vado a lavorare anche a casa sua. Se lavoro anche il pomeriggio va meglio. Il solo
impegno mattutino non basta per arrivare alla fine del mese. E ci sono anche i trasporti da pagare…
Così se c’è qualcuno che mi chiama il sabato, il mio giorno di riposo, io vado. Vado a lavorare. Mi
serve
avere
più
soldi.
Lo
faccio
per
i
miei
figli”.
Da piccola non pensava che avrebbe fatto questo lavoro, ed oggi non se ne lamenta. Quando le
chiedo quale lavoro sogna, Fatema guarda in alto come inseguendo un pensiero, ma poi tornando a
guardarmi negli occhi mi (e forse si) convince che va bene così. Non mostra particolari ambizioni,
la cosa più importante è che i suoi figli stiano bene. Del suo lavoro le piace il fatto di avere un
contratto, mentre non le piace l’idea di dover fare troppi spostamenti nel corso di una giornata. “Ma,
-ripete-, “va bene così”.
Di fatto è capofamiglia. E’ lei che porta i soldi a casa. 20 Dh all’ora, meno di due euro. Non di più.
Con il lavoro di mattina (l’unico legalmente dichiarato) arriva a 1200 DH, circa 100 euro. Molto al
di sotto del salario minimo garantito che i sindacati qui in Marocco sono riusciti a far aumentare di
recente a 1800 Dh al mese per un tempo pieno. Così oltre al suo lavoro domestico, pulizia della
casa, spesa, panni, colazionepranzoecena, compitipercasa di Saleh, Fatema prepara cus cus a
richiesta
e
all’occorrenza
fa
la
babysitter.
“A volte sono contenta di fare tutto ciò. Altre volte m’innervosisce tornare a casa, trovare troppe
cose ancora da fare...Fai la cucina, prepara le cose per i bimbi che devono andare a scuola. Sei sotto
stress perché devi fare presto e dopo aver lavorato in casa devi anche lavorare fuori. Quando finisci
l’altro lavoro, poi ritorni a casa e lavori di nuovo. Non ti fermi mai!”.
Diversamente suo marito, Abdel, coltiva la sua passione di sarto: non ha un lavoro formale, ma “si
arrangia” con lavoretti di sartoria che espone nel patio di casa, come il suo ultimo kit per la
preghiera
musulmana
fatto
di
cappellini
e
tappeti
a
toppe
colorate.
Lui e Fatema da lungo tempo oramai non parlano e lei non nasconde la sua voglia d’indipendenza
dal
marito.
“All’inizio c’era un grande amore, ma poi lui è cambiato e la relazione col tempo si è appesantita, è
diventata
stagnante
al
punto
di
voler
divorziare”.
Grazie all’ultima riforma del codice di Famiglia (in arabo “Mudawwana", presentata in Parlamento
dal re Mohamed VI nel 2003 ed approvata dall’unanimità delle due camere nel 2004), le
marocchine
possono
chiedere
il
divorzio
legale.
E Fatema ci sta pensando seriamente, se non fosse che Abdel, contrario all’idea, ha già minacciato
di portarle via i bambini se lei avvierà la pratica giuridica per la separazione .
“Gli ho detto che non avrò bisogno di alcun mantenimento né per me né per i figli, ma lui risponde
che se chiedo il divorzio farà qualcosa di male”. Quindi per ora non c’è una via d’uscita. “Aspetto
che si convinca…ma almeno nel frattempo trovasse un lavoro! Almeno contribuisca al reddito
familiare in qualche modo!”. Tuttavia, quando gli chiede di attivarsi per cercare un lavoro fisso,
Abdel risponde che è sufficiente che uno dei due lavori fuori di casa. Così Fatema non ha
alternative: non può chiedere il divorzio, dunque essere autonoma, perché Abdel minaccia di
portarle via i figli, né riesce a far sì che lui lavori perché altrimenti sarebbe lei a non dover lavorare.
Ma non ci pensa nemmeno a cedere al ricatto. Non ci pensa nemmeno a restare a casa. Lavorare per
lei significa incontrare persone, confrontarsi con il mondo esterno. Sentirsi utile. Restare a casa
significherebbe una sconfitta, la prigione.
E’ strano. In un paese in cui il patriarcato è così radicato, in cui è l’uomo ad essere per tradizione il
responsabile del nucleo familiare, sempre più donne sono capofamiglia senza essere né vedove, né
divorziate.
“Le donne hanno troppi incarichi in più rispetto agli uomini. E’ una vita di merda. Come quella di
tutte le donne che sono le sole ad occuparsi della propria vita e della famiglia”, dice ancora Fatema.
Ma per fortuna lei almeno ha un contratto legale e perdipiù, mi dice, “le persone con cui lavoro
sono
gentili”.
Saleh rientra di corsa, si siede tra noi e le chiede se domani potrà andare a prenderlo a scuola.
Fatema abbassa lo sguardo e dice che ci andrà “InchaAllah” (“Se Dio vuole”).
Mentre gli sistema il colletto della giacca blu mi dice che non ha mai tempo da dedicargli:
“vorrebbe essere accompagnato per mano ad attraversare la grande strada tra la scuola e la Khasba,
come fanno gli altri genitori dei suoi compagni di classe. Abdel neanche a parlarne ed io ho sempre
da lavorare, anche il sabato, e non mi resta molto tempo libero né per i figli né per me”.
Si lega i capelli neri col gesto abituale di chi li porta sempre attaccati, facendo risaltare i piccoli
orecchini e l’anello d’oro, unici accessori di una femminilità che sa di antico. Noto il neo verde in
alto a destra del labbro superiore tatuato più di vent’anni fa con menta, ago e carbone. Fatema
ricorda i tempi in cui si specchiava sensuale, scostando i capelli allora lunghi e lucenti con un
morbido
movimento
della
testa.
“Sognavo un matrimonio da favola, ero piccola. Volevo essere bella. Una sciocchezza...ma ero
spensierata…”. Mi mostra una foto che la ritrae in quel periodo. Pelle chiara e levigata. Sguardo
acceso e determinato. Sospira di nuovo e sotto il neo verde compare un sorriso accennato. Distoglie
lo sguardo dalla foto e, ritornando all’oggi, guarda l’orologio.
Sono le tre. La pausa pranzo è finita e tra poco dovrà tornare a lavorare.
1
La percentuale di analfabetismo femminile raggiunge l’80% in contesto rurale. Ennaji, M., “Steps
to integration of Moroccan women in development”, British Journal of Middle Eastern Studies
(Dic.2008), Vol. 35, Routledge, p.339-348, p.345.
2
Secondo il Codice di Famiglia Marocchino, la tutela economica dei minori figli di genitori separati
è dovere del padre, considerato responsabile del mantenimento del nucleo familiare. Nel caso qui
descritto, però, il marito minaccia di adottare un comportamento extralegale, cioè di portar via i figli
alla madre, titolare dell’affidamento in caso di divorzio.
Articolo pubblicato sul sito www.womeninthecity.it
Di Sara Borrillo