Il bilanciamento tra interessi in alcune sentenze in materia di

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Il bilanciamento tra interessi in alcune sentenze in materia di
Il bilanciamento tra interessi in alcune sentenze in materia di procreazione
medicalmente assistita
R. Abicca
Questo intervento si propone di presentare alcuni esempi di analisi interpretativa e di
bilanciamento tra principi della Carta Costituzionale, norme e principi generali del nostro
ordinamento, svolto in concreto dai giudici, in materia di procreazione medicalmente assistita:
esamineremo infatti alcuni casi giurisprudenziali nei quali si pone a un giudice una domanda di
tutela di diritti, in una situazione che coinvolge una pluralità di posizioni giuridiche soggettive in
contrasto tra di loro, e si chiede di scegliere quale interesse giuridicamente rilevante e degno di
protezione debba prevalere.
Il complesso fenomeno della procreazione medicalmente assistita, mediante il ricorso a
tecniche di fecondazione artificiale, si presta in modo particolare a questo esame per almeno due
ragioni: una di carattere sostanziale, attinente alle caratteristiche della materia oggetto delle
pronunce giurisprudenziali, e una di carattere “formale”, relativa, cioè, alle modalità e alle tecniche
proprie della disciplina normativa di questo fenomeno.
Sotto il primo aspetto, le moderne tecniche riproduttive, ridefiniscono il processo
riproduttivo naturale: la possibilità tecnica del concepimento di un nuovo essere umano,
indipendentemente dalla congiunzione fisica tra un uomo e una donna, da un lato valorizza il ruolo
dalla volontà e della scelta individuale nella procreazione, dall’altro porta ad una proliferazione dei
soggetti, attori nel processo riproduttivo, che sono portatori di interessi in potenziale conflitto tra di
loro: pensiamo ai genitori biologici, all’embrione prima e dopo l’impianto, ai donatori del seme o
dell’utero nella fecondazione eterologa, ai medici che rendono possibile il ricorso alle tecniche di
fecondazione. Un approccio giuridico a questi temi implica pertanto che si affrontino le questioni
della sussistenza, del fondamento e dei limiti nel nostro sistema giuridico di un diritto a procreare
mediante tecniche di fecondazione assistita e della sua ponderazione e bilanciamento alla luce dei
valori costituzionali con diritti concorrenti: pensiamo ad esempio al diritto alla vita e alla salute
dell’embrione.
Sotto il secondo aspetto, ovvero da un punto di vista formale, se guardiamo cioè alla
disciplina positiva della
procreazione medicalmente assistita nel nostro ordinamento, la
problematicità della materia discende dall’osservazione dell’assenza nel nostro paese di una
normativa ad hoc fino all’emanazione della controversa legge 40 del 2004: il silenzio del legislatore
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italiano, motivato probabilmente dall’incapacità di intervenire conciliando le opposte visioni del
fenomeno che caratterizzano la nostra società, ha determinato per molti anni una lacuna normativa
colmata in via giurisprudenziale mediante il ricorso ai principi costituzionali e ai principi generali
dell’ordinamento ed attraverso una interpretazione evolutiva del diritto di famiglia ed, in
particolare, della disciplina della filiazione. La composizione tra gli interessi degli attori della
procreazione medicalmente assistita è stata infine tentata dal legislatore con l’adozione della legge
40/2004, ma la severità della normativa, la quale prevede numerosi divieti (anche penalmente
sanzionati) al ricorso a talune pratiche, ha presto sollevato dubbi di legittimità costituzionale,
richiedendo l’intervento di un giudice ordinario che sollevasse la questione di costituzionalità e
della Corte Costituzionale, chiamata a decidere se questa legge realizzi un equilibrio tra diritti
tollerabile dal punto di vista costituzionale.
Esamineremo quindi tre sentenze, collocandole nel contesto normativo nel quale sono state
pronunciate: in primo luogo un’ordinanza del Tribunale di Palermo precedente all’emanazione della
legge 40/2004, nella quale si ricorre ai principi generali dell’ordinamento per colmare la lacuna
normativa e assicurare la protezione al diritto soggettivo maggiormente meritevole di tutela, quindi
l’ordinanza di rimessione della questione di costituzionalità relativa alla L. 40/2004, emessa dal
Tribunale di Cagliari il 16/07/2005 ed infine la recente e discussa decisione su di essa della Corte
Costituzionale.
1. Tribunale di Palermo – ordinanza 08/01/1999
Con l ’ordinanza dell’8 gennaio 1999 il Tribunale di Palermo è stato il primo giudice in
Italia ad affrontare la questione della ammissibilità di una fecondazione artificiale dopo la morte di
uno dei coniugi, decidendo in ordine all’adempimento di un “contratto di fecondazione assistita”
intercorso tra una coppia ed un Centro di medicina della riproduzione.
Brevemente il fatto: una coppia di coniugi, per ovviare a problemi di sterilità che
impedivano il concepimento naturale di un figlio, aveva conferito ad un centro di medicina della
riproduzione di Palermo l’incarico di procedere ad una fecondazione in vitro omologa, ovvero a
fecondare con il seme del marito tre ovuli della donna, successivamente crioconservati secondo la
prassi medica, per essere impiantati in utero uno dopo l’altro fino al successo della gravidanza.
Dopo il fallimento del primo tentativo di impianto ed in attesa di procedere ad un secondo
trasferimento, sopravvenne la morte del marito e, alla richiesta di dar corso comunque all’impianto
della donna rimasta vedova, i medici palermitani opposero un rifiuto motivato dal rispetto di norme
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di deontologia professionale del settore. In assenza, infatti, di una normativa che fissasse i limiti
giuridici alla liceità e alla illiceità di queste tecniche, l’Ordine dei Medici aveva adottato un codice
nazionale di autoregolamentazione per la procreazione medicalmente assistita che all’art. 11 vietava
di eseguire l’impianto dopo la morte di uno dei partner.
La norma deontologica era espressione di quel orientamento sociale, etico e religioso che negando
alla donna sola il ricorso alla fecondazione assistita privilegia l’interesse del nascituro a crescere
all’interno di una famiglia di tipo tradizionale, ad essere accudito e allevato, cioè, da due genitori di
sesso diverso, legati da un rapporto stabile. A parere del tribunale palermitano, tuttavia, tale divieto
non appariva idoneo a garantire un adeguato equilibrio tra tutti gli interessi delle parti coinvolte,
bilanciati alla luce dei principi costituzionali, delle norme e dei principi generali dell’ordinamento:
il ricorso della donna meritava, dunque, accoglimento.
Vediamo nello specifico le motivazioni del Tribunale.
Il Tribunale osserva che l’articolo 11 del codice di autoregolamentazione in materia di procreazione
medicalmente assistita, vietando l’avvio di pratiche di fecondazione artificiale alle donne sole per
salvaguardare il cosiddetto interesse del nascituro alla doppia figura genitoriale, non risponde
adeguatamente ai dilemmi specifici del caso in questione: l’applicazione della regola deontologica,
infatti, implica la scelta di distruggere gli embrioni in conseguenza del sopravvenuto decesso di uno
dei coniugi e, in questo modo, non tutela appieno né il diritto del nascituro alla vita né il diritto
dell’aspirante genitore superstite a portare a compimento il processo generativo iniziato con
l’apporto dei propri gameti.
Possiamo esaminare nel dettaglio il procedimento utilizzato dal giudice palermitano, per operare il
bilanciamento in concreto tra gli interessi: dapprima il tribunale individua il fondamento
costituzionale dei diritti in gioco; da un lato, l’art. 30 della Costituzione a tutela dell’interesse del
nascituro ad essere inserito, istruito ed educato in una famiglia che consenta lo sviluppo armonioso
della sua personalità, dall’altro gli artt. 2 (tutela dei diritti inviolabili della persona) e 32 (tutela della
salute) della Costituzione, a garanzia della salute e dell’integrità fisica e psichica della madre. Sotto
questo ultimo aspetto, è necessario precisare che il diritto al ricorso alla fecondazione assistita nel
nostro ordinamento è generalmente collegato alla necessità di soddisfare il diritto alla salute degli
aspiranti genitori poiché l’accesso a tali tecniche consente di porre rimedio a condizioni patologiche
di sterilità o di infertilità.
In un secondo momento, il giudice analizza le conseguenze in concreto della prevalenza di un
interesse sull’altro nel caso in questione: decidere per il diritto del nascituro alla doppia figura
genitoriale significa terminare il processo generativo iniziato e procedere alla distruzione degli
embrioni, cagionando un duplice danno certo, per il nascituro che non verrà alla vita e per la madre,
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il cui desiderio di genitorialità sarà sacrificato. Consentire, invece, l’impianto degli embrioni e dar
corso alla pratica di fecondazione, potrebbe comportare il solo danno per il nascituro, derivante
dall’ inserimento in un contesto familiare monogenitoriale. Tale danno, inoltre, è, a parere del
giudice palermitano, meramente eventuale, dal momento che presuppone la preferenza per un
modello familiare tradizionale, che non è più l’unico nel panorama attuale della società italiana e
che non può dirsi con certezza il solo ad assicurare lo sviluppo armonioso della personalità del
nascituro.
Un altro aspetto rilevante della decisione del Tribunale di Palermo attiene alla tecnica
argomentativa utilizzata per operare il bilanciamento in una materia priva di disciplina positiva, in
presenza cioè di una lacuna normativa. Dovendo attribuire un ruolo limitato alle regole del codice di
autoregolamentazione, che sono precetti extragiuridici, in grado di orientare il comportamento dei
medici ma soccombenti di fronte a principi costituzionali, al diritto positivo vigente e ai diritti
fondamentali dell’uomo, con i quali si pongano in contrasto, il giudice non può che richiamarsi
direttamente alle norme costituzionali e cercare, poi, nell’ordinamento nel suo complesso, ulteriori
elementi giuridici che confermino e supportino l’impostazione data alla questione affrontata. Il
tribunale di Palermo, in particolare, richiama un principio espresso dalla Corte Costituzionale nella
famosa sentenza n. 27 del 1975, che dichiarando l’illegittimità della norma penale (art. 546 c.p.) che
puniva l’aborto di donna consenziente, ribadisce il riconoscimento nel nostro ordinamento del
diritto alla maternità, la cui tutela è espressamente imposta dall’art. 31 secondo comma della Carta
Costituzionale, e il rispetto della situazione giuridica del concepito, riconducibile all’art. 2 della
Costituzione, ovvero alla garanzia prevista in via generale per i diritti inviolabili dell’uomo.
Lo stesso orientamento si rinviene nella legislazione ordinaria ed, in particolare, nell’art. 1 della
legge 194 del 1978, contenente norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione
volontaria di gravidanza, laddove si impone allo Stato la protezione del diritto alla procreazione
cosciente e responsabile, il riconoscimento del valore sociale della maternità e la tutela della vita
umana sin dal suo inizio.
Tale impostazione del problema è inoltre coerente con i principi espressi in alcune raccomandazioni
emesse da organismi internazionali: il Tribunale di Palermo cita, nello specifico, la Dichiarazione
Internazionale dell’ONU sui Diritti del fanciullo del 1959, che manifesta l’esigenza di proteggere in
modo particolare l’infanzia nel periodo precedente e seguente alla nascita, e la Risoluzione sulla
fecondazione artificiale, approvata dal Parlamento Europeo nel 1989, che afferma la necessità di
tutelare la vita umana sin dal momento della fecondazione.
Il giudice ritiene infine che a sostegno della propria decisione si ponga la circostanza che essa
appare in linea con l’elaborazione legislativa in materia, in corso all’epoca in Italia: il riferimento è
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al progetto di legge della “Commissione Busnelli”, che suggeriva, appunto, in caso di premorienza
del marito, che la vedova conservasse il diritto di ricevere l’embrione entro un anno dalla morte del
coniuge.
In conclusione, secondo il Tribunale di Palermo, non può attribuirsi cogenza al divieto posto
dall’art. 11 del codice di autoregolamentazione in materia di procreazione medicalmente assistita, in
quanto contrastante con i diritti personalissimi della madre e del nascituro, desumibili sia dai
principi costituzionali, sia dai diritti fondamentali dell’uomo e del nascituro. E’ conforme a
giustizia, invece, garantire tutela alla volontà di procreazione cosciente e responsabile espressa dalla
ricorrente e dare esecuzione al contratto concluso con il centro medico.
2. Tribunale di Cagliari – ordinanza 16/07/2005
L’ordinanza del Tribunale di Cagliari, emessa il 16/07/2005, si colloca in un contesto normativo
profondamente mutato rispetto a quello del provvedimento che abbiamo appena esaminato. A
seguito, infatti, di un lungo e acceso dibattito, il legislatore ordinario è giunto nei primi mesi del
2004, all’approvazione della Legge n. 40, che disciplina finalmente nel nostro ordinamento la
materia della “procreazione medicalmente assistita”.
Le disposizioni di tale legge non solo
prevedono una serie di rigidi criteri per l’accesso alle pratiche di fecondazione assistita (deve
trattarsi infatti di coppie di maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi, in età
potenzialmente fertile ed entrambi viventi) ma ne vietano, con minaccia di sanzione penale, talune
particolari tecniche.
Proprio la possibilità di ricorrere ad una di queste tecniche è l’oggetto del provvedimento del
giudice di Cagliari, chiamato a valutare la compatibilità con le norme costituzionali di una delle
previsioni più controverse della legge 40: il divieto di diagnosi preimpianto sugli embrioni formati
in vitro per la procreazione assistita, ovvero il divieto di svolgere indagini cromosomiche
sull’embrione che consentono di identificare precocemente in esso gravi anomalie genetiche. La
legge 40 del 2004, non prevede, in realtà un divieto esplicito per tale tecnica diagnostica; tuttavia,
esso appare desumibile, secondo l’interpretazione restrittiva pressoché unanime dei commentatori
della legge, dal combinato disposto dell’articolo 13 secondo comma, che consente la ricerca
clinica e sperimentale sugli embrioni umani solo a condizione che si perseguano finalità
esclusivamente terapeutiche e diagnostiche, volte alla tutela della salute e dello sviluppo
dell’embrione stesso, dell’art. 13 terzo comma che vieta ogni forma di selezione a scopo eugenetico
degli embrioni e dei gameti e dell’art. 14 che pone il divieto di soppressione degli embrioni. Infatti,
non essendo possibile allo stato attuale della tecnica curare l’embrione che risulti affetto da
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patologia genetica, la diagnosi preimpianto non può dirsi volta esclusivamente alla tutela della
salute e dello sviluppo dell’embrione stesso, ma inevitabilmente legata alla scelta di non impiantare
gli embrioni malati, destinandoli pertanto alla soppressione.
Nel caso in esame, l’indagine preimpianto era stata richiesta da una coppia di coniugi ricorsa alla
procreazione assistita per problemi di sterilità, al fine di accertare la condizione di salute degli
embrioni formati in vitro, nella speranza di escludere che essi fossero affetti da betatalassemia. In
precedenza, infatti, la coppia aveva scelto di interrompere una gravidanza in corso, per ragioni
terapeutiche, legate alla salute psico-fisica della donna, avendo saputo, a seguito di indagine
prenatale, che il feto era affetto da tale malattia genetica. A fronte del diniego di svolgere l’esame
sugli embrioni opposto dal medico sulla base dell’art. 13 della Legge n. 40 del 2004, la coppia si era
rivolta al Tribunale di Cagliari chiedendo al giudice di riconoscere in via cautelare il diritto alla
diagnosi preimpianto, sulla base di una interpretazione costituzionalmente orientata della norma di
legge, che alla luce del diritto costituzionale alla salute, consentisse la diagnosi preimpianto quando
la sua mancata esecuzione minacciasse seriamente la salute fisica o psichica della donna. In
alternativa, qualora il Tribunale avesse ritenuto di non poter sostenere un’interpretazione
adeguatrice della disposizione, le parti chiedevano di sollevare la questione di costituzionalità e di
investirne la Corte Costituzionale. L’incoerenza della previsione del divieto di indagine preimpianto
con il quadro costituzionale, lamentata dai ricorrenti, è stata riconosciuta dal giudice cagliaritano
che, sospeso il giudizio, ha rimesso la questione al giudice costituzionale.
E’ facile osservare come anche in questo caso, i problemi che si prospettano al giudice cagliaritano
riguardino conflitti tra diritti costituzionalmente garantiti e, in ultima analisi, ripropongano la
questione di come operare un bilanciamento ragionevole tra interessi contrapposti che comporti nel
complesso i minori sacrifici per tutti soggetti coinvolti.
Venendo alle motivazioni della ordinanza, il giudice cagliaritano, in primo luogo, non ritiene
possibile un’interpretazione non restrittiva delle norme in questione, che permetta di autorizzare la
diagnosi preimpianto, senza passare attraverso una pronuncia di incostituzionalità: a seguito di un
esame sistematico delle disposizioni della legge, il Tribunale afferma infatti, in linea con la dottrina
prevalente, che nonostante l’incertezza del dettato normativo, il divieto di diagnosi preimpianto si
desume con chiarezza non solo dalla formulazione letterale dell’art. 13, ma anche dall’ispirazione
complessiva del testo normativo, teso a predisporre la massima tutela possibile per gli embrioni
prodotti nell’ambito delle pratiche di procreazione medicalmente assistita. Il divieto deve inoltre
ritenersi confermato dalle Linee Guida adottate dal Ministro della Salute con d.m. 21/07/2004, in
esecuzione dell’art. 7 della legge, che con maggiore precisazione rispetto al testo normativo
consentono sul nascituro esclusivamente lo svolgimento di indagini osservazionali.
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In secondo luogo, non potendo ricorrere a strumenti ermeneutici per armonizzare le norme di legge
con il dettato costituzionale, il Tribunale si trova a dover decidere in ordine alla proponibilità del
giudizio incidentale di costituzionalità; a valutare, cioè, la rilevanza e la non manifesta infondatezza
della questione di legittimità costituzionale sollevata dalle parti. L’esame del giudice si concentra
sull’art. 13 della legge 40/2004 e sul contrasto di tale norma con tre principi costituzionali: gli artt.
2 e 32, primo comma, per un verso e l’art. 3 per un altro.
Sotto il primo aspetto, il divieto di diagnosi reimpianto, impedendo alla donna di conoscere le
condizioni di salute dell’embrione formato, costituirebbe una fonte di rischio per la sua salute
psicofisica, costituzionalmente garantita dall’art. 32: la mancanza di consapevolezza circa
l’andamento della gravidanza e il dubbio che il nascituro presenti anomalie o malformazioni
rilevanti espone, infatti, la donna ad un grave stato ansioso che può costituire una seria turbativa
della gravidanza. Ma il divieto pregiudica anche la condizione dell’embrione, poiché esso a causa
del rifiuto della ricorrente di procedere all’impianto senza la previa diagnosi, sarà sottoposto a
crioconservazione sine die a e destinato, nel tempo, a subire danni biologici. L’art. 13 della legge
40/2004, quindi, compromette l’equilibrio del bilanciamento tra gli interessi concorrenti della
madre e del nascituro, tra il diritto alla salute della donna e quella dell’embrione, che la
giurisprudenza ha più volte ponderato: da un lato non protegge adeguatamente la madre, il cui
diritto alla salute confligge con la salvaguardia della vita dell’embrione, e dall’altro non riesce a
tutelare pienamente neppure quest’ultimo a fronte della incoercibilità, comunemente riconosciuta e
sanzionata dalle Linee guida, dell’obbligo di impianto.
Sotto il secondo aspetto, il Tribunale prospetta un ulteriore profilo di contrasto della disposizione di
legge censurata con le norme costituzionali, con specifico riferimento al principio di uguaglianza
sancito dall’art. 3 della Costituzione: infatti, diversamente da quanto avviene prima dell’impianto in
utero dell’embrione, una volta avviata la gravidanza il nostro ordinamento, al fine di assicurare una
migliore tutela della maternità, riconosce ai genitori il diritto a chiedere indagini, anche di tipo
genetico, sul feto per conoscerne lo stato di salute. A parere del giudice, negare ai genitori lo stesso
diritto ad essere informati sulle condizioni dell’embrione formato attraverso tecniche di
procreazione medicalmente assistita prima dell’inizio della gravidanza comporta un trattamento
differenziato di situazioni simili, per quanto non identiche, e si traduce, quindi, in una disparità di
trattamento di posizioni sostanzialmente analoghe che appare illogica e ingiustificabile.
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3. Corte Costituzionale – ordinanza 369/2006
Come abbiamo visto, la necessità di operare un bilanciamento di interessi di rilevanza costituzionale
tra di loro antitetici ma singolarmente e astrattamente meritevoli di tutela, ha spinto il giudice di
Cagliari a concludere per la trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale, ravvisando la rilevanza
e la non manifesta infondatezza del conflitto tra l’art. 13 della legge 40/2004 e gli artt. 2, 32 e 3
della Costituzione. Si tratta, inoltre, del primo ricorso promosso in via incidentale alla Corte
Costituzionale sulla legge in materia di procreazione medicalmente assistita dalla sua entrata in
vigore. In precedenti applicazioni giurisprudenziali della Legge 40/2004, infatti, i giudici di merito
aditi non avevano individuato nelle norme in questione profili di incostituzionalità che
giustificassero il rinvio alla Corte Costituzionale.
Segnalo, in particolare, l’ordinanza del 3 maggio 2004 del tribunale di Catania che aveva dichiarato
manifestamente infondata l’eccezione di costituzionalità sollevata da una coppia di coniugi con
riferimento, anche in questo caso, al divieto di diagnosi preimpianto. In quella occasione il giudice
aveva ritenuto che il divieto in questione fosse perfettamente coerente con il bilanciamento tra
intereresse della madre alla propria salute e interesse del nascituro alla vita, realizzato nel nostro
ordinamento dalla legge 194 del 1978 sull’interruzione volontaria di gravidanza. Il legislatore del
2004 negando la diagnosi preimpianto avrebbe inteso impedire che a seguito di esito infausto
dell’indagine genetica i coniugi decidano di non dar corso alla procreazione destinando gli embrioni
alla crioconservazione sine die o alla soppressione, pratiche entrambe vietate dall’art. 14 della
legge: la ratio sarebbe, quindi, evitare che la diagnosi genetica preimpianto divenga strumento per la
selezione degli embrioni. Allo stesso modo, osserva il giudice di Cagliari, la legge 194/1978 non
autorizza l’aborto come strumento selettivo dei feti affetti da patologie genetiche, ma ammette
l’interruzione della gravidanza solo quando la sua prosecuzione comporti un serio pericolo per la
salute psicofisica della gestante.
Sulla stessa linea argomentativa, si era espresso, anche, il Tribunale Amministrativo Regionale del
Lazio, con la sentenza 4047/2005, respingendo anche in questo caso l’eccezione di costituzionalità
del divieto di diagnosi reimpianto proposta dalle parti, ritenendo impossibile rinvenire nel nostro
ordinamento un diritto dei genitori alla conoscenza dello stato di salute degli embrioni che
prescinda dalla tutela dell’embrione stesso, riconosciuto come soggetto di diritto.
E’ evidente quindi che l’ordinanza del giudice di Cagliari si pone coraggiosamente in aperto
contrasto con la giurisprudenza di merito precedente. Alcuni commentatori dell’ordinanza hanno
peraltro ritenuto significativo che a sollecitare il primo intervento in materia del giudice
costituzionale sia stato un tribunale sardo: la frequente ricorrenza nell’isola di casi di
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betatalassemia, nella percentuale più alta in Italia, deporrebbe a favore di una maggiore sensibilità
del giudice cagliaritano verso i problemi delle coppie portatrici di patologie geneticamente
trasmissibili.
In realtà, la questione dell’equilibrio tra diritti della madre e diritti del nascituro, come ricorda lo
stesso Tribunale di Cagliari, non è nuova per la Corte Costituzionale, essendo già stata affrontata in
diverse occasioni nelle quali avevano trovato affermazione importanti criteri per il bilanciamento tra
i diritti in oggetto. In particolare la Corte ha sostenuto in passato, ad esempio nella sentenza n. 27
del 1975, in materia di interruzione volontaria di gravidanza, che “non esiste equivalenza fra il
diritto non solo alla vita ma anche alla salute di chi è già persona, come la madre, e la salvaguardia
dell’embrione che persona deve ancora diventare”, o ha ribadito “il carattere fondamentale del
diritto della donna alla salute, e la sua prevalenza, in caso di conflitto, sulla tutela accordata al
concepito”.
Per queste ragioni, vi era grande attesa per la decisione della Corte Costituzionale, alla quale si
chiedeva, in definitiva, di valutare se la soluzione legislativa adottata in materia realizzasse una
sintesi ragionevole degli interessi concorrenti dei diversi soggetti coinvolti.
L’ordinanza n. 369 del 24 ottobre 2006, con la quale il giudice costituzionale ha deciso in ordine
alla questione di costituzionalità sollevata dal giudice di Cagliari, può essere invece considerata
un’occasione mancata per il vaglio di legittimità costituzionale della legge 40/2004. La Corte
Costituzionale, infatti, ha ritenuto di essere stata investita della questione in modo non corretto e ha
concluso per la inammissibilità della questione di costituzionalità, in quanto l’ordinanza di
rimessione del Tribunale di Cagliari sarebbe contraddittoria nelle sue motivazioni.
A parere del giudice costituzionale, la contraddizione emergerebbe nel momento in cui il giudice
cagliaritano solleva la questione di costituzionalità relativamente ad una specifica disposizione del
testo normativo (l’art. 13 della legge 40/2004) e al tempo stesso afferma che la medesima norma
(ovvero il divieto di diagnosi preimpianto) è desumibile anche da altri articoli della legge, nonché
dall’interpretazione dell’intera disciplina normativa, alla luce dei suoi criteri ispiratori. La Corte
sembra quindi sostenere che, poiché la norma che vieta la diagnosi preimpianto si ricava da un
insieme di disposizioni particolari, i giudici avrebbero potuto porre correttamente la questione di
legittimità costituzionale solo impugnandole tutte. La Corte ritiene, ad esempio, che il divieto sia
desumibile anche dalla norma che impone l’obbligo di impianto di tutti e tre gli embrioni formati,
indipendentemente dalla loro condizione di salute (articolo 14), o da quella che esclude il ricorso
alla procreazione assistita per le coppie che non siano affette da sterilità ma presentino un’alta
probabilità di trasmettere una malattia genetica (articolo 4).
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Ad un esame attento, la decisione della Corte, espressa in questa ordinanza “tecnica”, presenta
diversi punti critici: per quanto concerne il suo contenuto, dobbiamo chiederci quali altre
disposizioni della legge 40/2004 il giudice di Cagliari avrebbe potuto (o dovuto) ragionevolmente
impugnare per porre in maniera esaustiva il quesito di costituzionalità rispetto al divieto di indagine
preimpianto. Ricordiamo, infatti, che il giudice ordinario può sollevare una questione di
costituzionalità solo rispetto alle specifiche disposizioni di una legge che siano rilevanti per la
decisione che è chiamato a prendere nel giudizio pendente dinanzi a lui: il giudizio incidentale della
Corte Costituzionale presenta, cioè, una carattere di stretta pregiudizialità rispetto al giudizio
ordinario nel quale sorge il dubbio di legittimità di una norma. In questo caso, il giudice di Cagliari,
dovendo decidere nel contesto di un giudizio civile che verteva su una richiesta di diagnosi
preimpianto, non poteva che porre la questione con riferimento a quell’art. 13 della legge 40, da cui
si ricava, secondo l’interpretazione maggiormente condivisa, il divieto di tale pratica medica. Il
tribunale sardo non aveva motivo di impugnare la norma che limita l’accesso alla fecondazione
assistita alle sole coppie sterili, poiché la coppia ricorrente era affetta da sterilità, né quella che pone
l’obbligo di impianto degli embrioni
formati, poiché i medici pur rifiutandosi di procedere
all’indagine genetica, non avevano manifestato alcuna intenzione di costringere la donna
all’impianto. E’ evidente, quindi, che in entrambi i casi la questione sarebbe stata tacciata di
irrilevanza rispetto al giudizio a quo.
Sotto l’aspetto processuale, l’ordinanza della Corte è una pronuncia di inammissibilità della
questione di costituzionalità: il giudice costituzionale ha infatti respinto il ricorso per ragioni legate
alla formulazione del quesito da parte del giudice della rimessione senza entrare nel merito dei
profili di incostituzionalità sollevati. La scelta di questo tipo di risposta al quesito di costituzionalità
può essere intesa come sintomo della decisione della Corte di non sindacare al momento le scelte
discrezionali del legislatore in materia di procreazione medicalmente assistita. La novità della
disciplina, l’asprezza del dibattito che ha fatto seguito alla sua emanazione e la mancanza di
orientamenti ermeneutici consolidati, potrebbero aver suggerito al giudice costituzionale di
rimandare ad altra occasione il bilanciamento tra valori sui quali non è riscontrabile allo stato un
pacifico orientamento sociale, etico e politico.
Sintomatico della difficoltà incontrata dalla Corte Costituzionale nell’affrontare le questioni di
merito relative ai profili di incostituzionalità della legge 40/2004, è anche il travagliato iter della
decisione di inammissibilità. Se infatti normalmente le ordinanze di inammissibilità sono
pronunciate in camera di consiglio, senza udienza pubblica, in questo caso la circostanza, invece,
che vi sia stata l’udienza pubblica, potrebbe indicare che il relatore era orientato verso una decisione
di merito. Ancora, il fatto che l’estensore di questa pronuncia sia un giudice diverso dal relatore
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potrebbe essere il segno della complessità di una discussione in seno alla Corte Costituzionale che
deve essere andata ben oltre al mero rilievo della cattiva formulazione della sentenza di rimessione.
La Corte Costituzionale, quindi, evitando per il momento di sancire in maniera definitiva la
presenza di punti di attrito tra l’interpretazione corrente della Legge 40/2004 e le norme
costituzionali, sembra aver rinviato altrove ed altri soggetti tale valutazione: al legislatore in primis,
ma anche ai giudici di merito ed alla dottrina.
Ed, in primo luogo, spetterà al Tribunale di Cagliari prendere una decisione rispetto alla situazione
giuridica ancora pendente dinanzi a lui e alla domanda di tutela rimasta invariata a seguito alla
pronuncia del giudice costituzionale. Possiamo ipotizzare due esiti alternativi: il giudice cagliaritano
potrebbe coraggiosamente prendere una decisione alla luce dei valori costituzionali, prima ancora
che dei criteri ispiratori della legge, che consenta ai coniugi ricorrenti di accedere alla diagnosi
preimpianto; oppure, potrebbe risollevare la questione alla Corte Costituzionale, aprendo un nuovo
giudizio incidentale dall’esito incerto, impugnando l’intero testo di legge o tutte le disposizioni, che,
a parere del giudice dell’ordinanza n. 369, statuirebbero il divieto di diagnosi reimpianto
nell’attuale impianto normativo.
In conclusione, ad oggi, possiamo attenderci che il bilanciamento tra i valori coinvolti dalle pratiche
della procreazione medicalmente assistita, sui quali non vi è un atteggiamento sociale pacificamente
condiviso, ma piuttosto un ampio e acceso conflitto, sia realizzato o attraverso una nuova
valutazione della materia da parte del Parlamento, in quanto massimo organo rappresentativo della
comunità sociale, o mediante l’interpretazione adeguatrice ed evolutiva delle norme vigenti da parte
dei giudici di merito e della dottrina.
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